Le accademie e l'istruzione

Storia di Venezia (1996)

Le accademie e l'istruzione

Gino Benzoni

Fattore indispensabile dell'umana convivenza e sua precipua espressione la conversazione. "Conversare, per praticare insieme". Così, ne La fabrica del mondo (Vinegia 1546) Francesco Alunno, un lessicografo ferrarese attivo a Venezia e quivi, dal 1532, stipendiato dal consiglio dei X come maestro di calligrafia pei "giovini de la [...] cancelleria". Ed è sempre Alunno a far coincidere urbanità e civiltà, definendo quella - e, quindi, questa - "graziosa conversazione di cittadini" (1). Va da sé che gli uomini si frequentino e si parlino, auspicabilmente civilmente, auspicabilmente urbanamente. È mio ospite tal Francesco - scrive a Guarino Guarini Giovanni Barbo - e, come suole accadere, "cum hoc [...] sermo instituitur", con questo converso (2). I due, infatti, così s'intrattengono, si scambiano impressioni ed opinioni. Il che può avvenire anche per lettera. Utilizzabile - l'insegna Cicerone - il sermo epistolarum, frutto appunto della corrispondenza. Comunque sia, o a viva voce o per iscritto, il sermo, il discorso affabile e civile, è un procedimento inclusivo di interrogativi e risposte, è trasmissione e circolazione di sapere, può diventare percorso di ricerca, scavo, approfondimento, può approdare ad appaganti conclusioni, può fornire condivisibili soluzioni.

Ripristino e restauro dell'antico recuperato filologicamente nella sua autenticità liberata dalla deformante e travisante appropriazione dei fraintendimenti medievali: questo, intenzionalmente, l'umanesimo e in genere e veneziano (3). E, pure, ricalco di comportamenti e modalità esemplati, una volta per tutte, dal mondo classico. In questo il sermo s'è fatto dialogo, nel quale la pluralità concertata di voci, la varietà delle singole individualità, le stesse differenze si tramutano in composita concordanza, in concordia discors, in discorsiva ascesa alla cognitio rerum, alla conoscenza. S'impone e dilaga nella produzione umanistica la forma dialogo che ha il suo illustre modello in Cicerone, ma risente anche di platoniche suggestioni e d'influenze lucianee. Genere praticatissimo, infatti, quello del dialogo, sicché la dialogistica finisce col coincidere colla trattatistica più ariosa, che così s'esenta dalla pesantezza uggiosa d'un procedere puntigliosamente definitorio e prescrittivamente assertivo.

Lungo tutto il '400 e nel primo '500 stralciabili, tra i tanti dialoghi e in latino e, ad un certo punto, anche in volgare quelli veneziani o perché tali sono gli autori o perché prodotti all'interno della vita intellettuale lagunare. Nel Symposium de paupertate l'autore - Filippo Morandi, un riminese insegnante a Venezia e, dal 1435, forte della concessa cittadinanza - discute, appunto, della povertà coi veneziani Giovanni Caldiera ed Andrea Contrario, interlocutore quest'ultimo anche nel pontaniano Antonius. Nella Dragmalogia de eligibili vite genere, Giovanni Conversini, a Venezia titolare ancora nel tardo '300 d'una scuola di grammatica, fa dissertare un Padovano ed un Veneziano della cornice più idonea ad una vita appetibile: la signoria o la repubblica? Quanto all'autore, tutto sommato, preferisce la prima. Dialogata, da parte di Sabellico, la sagomatura della figura del cancelliere; ed ambientata, in un altro dialogo dello stesso, la discussione sul latino dapprima nel tratto di strada dal fondaco dei Tedeschi a piazza S. Marco, poi sotto i portici di palazzo Ducale. Concilianti, almeno nelle intenzioni, Platone e Aristotele i Dialoghi (Venetiis 1524) di Niccolò Leonico Torneo; e due di questi sono intitolati a Pietro Bembo, suo allievo, e concernono l'immortalità dell'anima e la sua essenza ed altri due sono intitolati a Marco Sanudo e concernono il gioco ed il lutto. E, al di là del titolo - Bembus, Sannutus -, i due sono pure interlocutori. Polemico con Girolamo Savonarola non ancora dichiarato ribelle il Dialogus, del 1498, di Pietro Dolfin. Ipotizzante l'immediato futuro il Trialogus di Candiano Bollani. D'imitazione lucianesca un Dialogus di Francesco Contarini, lo storico veneziano della guerra fiorentino-senese a mezzo '400. Veneziani i due - Febo Capella e Marco Aurelio - che discutono con l'autore dei fini in un Dialogus di Nicolò Sagundino. Dialogati gli Asolani e le Prose della volgar lingua di Bembo. Ambientata nella "casa di Tutiano", di Tiziano, una discussione sull'arcobaleno che figura nella seconda edizione dei Dialoghi di Brucioli. Ambientato nella dimora campestre di Bembo un Dialogus di Vergerio - la cui formazione umanistica s'avverte anche nei successivi dodici trattatelli dialogati - sulla Repubblica veneta. Ed il dialogo s'afferma a tal punto come forma specifica di trattazione che lo stesso Trattato di terra santa e dell'oriente di Francesco Surian è risolto nella conversazione in proposito tra un frate, ossia l'autore, ed una monaca, ossia sua sorella.

Sin qui un elenco, allungabile volendo. Limitandoci, invece, ad un'osservazione a carattere generale, si può constatare che se con Bembo il segno veneziano sulla dialogistica in volgare è sin perentorio, non altrettanto può dirsi per quella antecedente in latino. Non c'è, insomma, a Venezia un equivalente di Pontano. L'adesione, pur diffusa, al genere non s'inarca al punto da indurre Ermolao Barbaro il giovane - il principe dell'umanesimo lagunare - a distrarsi dal suo strenuo impegno filologico per una qualche sortita in quello. V'indulge, invece, Lauro Querini, con un Dialogus sui filosofi antichi ed un altro, supposto nel ginnasio fiorentino, che inizia con uno scambio di battute tra Mercurio e Caronte. Datato, questo secondo, 1441, se ne può ben arguire come al modello ciceroniano s'aggiunga il riecheggiamento di Luciano; e ciò in un Querini il cui umanesimo è decisamente filoellenico.

Ma, a prescindere da valutazioni del genere, basti qui sottolineare come i dialoghi, nel loro assieme, valgano ad attestare un intreccio di rapporti - fitto d'apprezzamenti, riconoscimenti, complimenti che, nel dialogo, s'esprimono agevolmente - effettivamente dipanabile. Il che comporta attenzione agli interlocutori: Ermolao Barbaro il vecchio discute dei bagni di Caldiero col veronese Aleandro Pindemonte in un dialogo in proposito di Giovanni Antonio Panteo, pure veronese; interlocutore Bernardo Bembo in due dialoghi del giurista nello Studio di Padova Giovanni Jacopo Cane; interlocutore Francesco Diedo in un dialogo sulla donazione di Costantino dello stesso e in un altro, a lui intitolato, di Leonello Chiericati, ove viene sviluppata

una dimostrazione platonicheggiante dell'immortalità dell'anima. Né - ai fini della ricostruzione di detti rapporti, talvolta suscettibili di riscontro nelle corrispondenze epistolari - vanno trascurati i dedicatari: a Matteo Dandolo, Girolamo Donà e Paolo Pisani, Raffaele Regio dedica un suo dialogo su quattro luoghi quintilianei; a Paolo Barbo Aurelio Trebiano indirizza il suo dialogo sulla libertà.

Fatto sta che i dialoghi, un genere peculiare per modalità d'approccio e svolgimento, riproducano effettivamente discussioni realmente avvenute o, invece, le inventino, sono pur sempre sintomo - anche per la loro concomitanza con quella conversazione a distanza che sono gli epistolari - e, di più, espressione d'intensa frequentazione culturale. E questa è prodotta dall'accomunante passione per gli studia humanitatis o humanae litterae. Vale a dire grammatica, retorica, poesia, filosofia morale, filologia, storia. Un territorio vastissimo prodigo d'inesauribili sollecitazioni all'andirivieni tematico d'un sermo con alto tasso di dialogicità. Donde l'assiduo fraseggio d'una cultura che - anche nelle dispute, nei dissidi, nelle polemiche, nelle controversie, nei dissensi, nelle ripicche, nelle gelosie, nelle diatribe - è, a sua volta, contraddistinta da una fortissima coesione, da una sostanziale capacità di cooperazione operosa e di ideale convergenza. Donde un'intellettualità che sussiste e consiste anche grazie alla consuetudine dell'incontro conversevole. Donde la fioritura dei circoli a Venezia, nelle dimore patrizie, e fuori Venezia, nelle città suddite, attorno ad un rettore la cui presenza sia culturalmente attivante. È il caso di Fantino Dandolo, di Zaccaria Trevisan e del figlio omonimo, di Lodovico Foscarini, d'Andrea Zulian, di Paolo Barbo, di Francesco Barbaro. E lo stesso dicasi d'un vescovo come, a Verona, Ermolao Barbaro il vecchio, come, a Feltre, Andrea Trevisan o, a Bergamo, Ludovico Donà oppure d'un qualche ecclesiastico come, a Treviso, dov'è priore della commenda di S. Giovanni del Tempio, Ludovico Marcello. Da tenere presenti altresì - al di fuori del dominio veneto - le frequentazioni suscitate dal temporaneo insediamento d'un Ermolao Barbaro il giovane e d'un Bernardo Bembo.

Di per sé ogni incontro di spiriti affini è, in nuce, embrionalmente, un'accademia umanistica. Ed un sentore d'accademia - volendo - è percepibile nei Tre filosofi giorgioneschi, silenti, peraltro, nel loro enigmatico atteggiamento. La memoria sin ossessiva dell'antico, la smania d'imitarlo sono tali da conferire sembiante accademico - già Dante, nel Convivio, aveva sottolineato come si qualificassero accademici i frequentatori del "luogo dove Plato studiava, cioè l'Accademia" - a dotte riunioni, eruditi convegni, studiosi sodalizi, colti conversari, circoli eletti, accolite di sodali, motivate confluenze. Sono queste spinte aggreganti a punteggiare fitte lo svolgimento, pur a Venezia, della cultura urbana, anche orientandola, anche costituendone l'intelaiatura, anche disegnandone la trama. Indisgiungibile il profilo delle grandi personalità del mondo culturale veneziano dal viluppo di rapporti instauratosi tra quanti si riconoscono nel culto delle humanae litterae, tra quanti s'associano in virtù del denominatore comune degli studia humanitatis. Questi - gli studi d'umanità - sono sì associanti, ma non a tal punto affratellanti da superare le differenze di collocazione sociale e di mezzi. Ed è - tra gli intellettuali meno favoriti dalla sorte, più incalzati dalle pratiche urgenze - vagheggiamento ricorrente quello d'un'accademia accogliente tempio del sapere ove trascorrere addirittura la vita senza il cruccio del quotidiano sostentamento. Un uomo dall'accidentata esistenza come Francesco Negri - autore, tra l'altro, d'un trattatello De modo epistolandi (Venetiis 1490), ove distingue i vari tipi di lettera; e, naturalmente, c'è quella di richiesta - auspica, nel De aristocratia indirizzato al doge Loredan, la trasformazione del grande palazzo patrizio in un'ininterrotta "academia" notte e giorno risuonante di sapienti ed eleganti detti, sicché Apollo lo designi a sede perpetua delle nove muse. Un auspicio di grandioso mecenatismo irrealizzabile, peraltro, a Venezia, ove non è dato di riscontrare una siffatta accademia che alleggerisca, una volta per tutte, gli intellettuali dell'umiliante ricerca d'una decorosa sistemazione. Non esiste, a Venezia, un'istituzione duraturamente generosa con gli studiosi sprovvisti di mezzi. Né è reperibile un palazzo aristocratico che sia, almeno, sede continuata di prolungate adunanze, recapito stabile per un'intellettualità altrimenti sparsa.

Si pensi alla dimora romana di Paolo Cortese: qui, a testimonianza d'un suo frequentatore, "fioriva [...] la nostra accademia", la quale - più ancora che signorile "casa di corteggiano" qual era, appunto, Cortese - "se poteva chiamare" autentica "officina di eloquenza" e "recettaculo d'ogni inclita virtù" (4). Per quel che se ne sa, quanto meno per quel che risulta a chi scrive, un'accademia meritevole di tanto grato riconoscimento nella città marciana non si riesce a scovarla. Eccezionalmente colta la classe dirigente veneziana - stando a quanto ne dicono i contemporanei anche forestieri -, forse la più colta d'Europa, epperò, in fatto di mecenatismo, nessun suo componente è in grado di competere individualmente con la corte, per quanto sia dovizioso e, anche, generoso. Né il singolo patrizio - per quanto gli studi l'appassionino - può a tal punto schivare i suoi doveri pubblici da profondere ogni energia nell'attivazione d'un'accademia. Impensabile a Venezia (anche se Poliziano v'attesta riunioni nel 1480 e nel 1491; anche se Guarino, al seguito d'Alfonso d'Este, ha modo, nel 1487, di compiacersi pel dotto riunirsi d'Ermolao Barbaro, Girolamo Donà, Sebastiano Priuli, Benedetto Brugnoli e Marco Dandolo) qualcosa d'analogo alla ficiniana accademia platonica o alla pontaniana di Napoli; sullo sfondo della prima l'appoggio mediceo, della seconda quello aragonese. E, in più, umanisti a tempo pieno e Marsilio Ficino e Giovanni Pontano. Vigente, invece, per l'aristocrazia lagunare il primato della politica, suscettibile, peraltro, questa di assurgere a sapienza di stato, nella quale profondere - e alla quale, quindi, sacrificare - il meglio della propria formazione culturale. Non risolvibili, comunque, solo nella dimensione culturale i grandi dell'umanesimo marciano. Umanisti sì, ma a tempo limitato. E se - negli ardui equilibri tra fervore di studio ed impegno politico - la prima dimensione, quella dello studio, tende a prevalere, ciò compromette, come nell'ultima fase dell'esistenza d'Ermolao Barbaro il giovane e come nello straniarsi dalla politica del giovane Pietro Bembo, il rapporto con Venezia. E non senza disagio, non senza sensi di colpa.

Da contemperare coi ritmi imposti dalla politica i tempi dello studio per i patrizi e, pure, coi traffici e i commerci nel caso dei mercanti con umanistici entusiasmi. Sintomatico che nei bembeschi Asolani i "tre gentiluomini veneziani" dissertanti d'amore siano totalmente dediti agli "studi delle lettere"; e sollecitante, pei tre giovani, alla discussione l'ascolto intendente di "tre [...] belle e vaghe giovani", anch'esse veneziane. Assenti invece i consorti di queste, impossibilitati a trattenersi ad Asolo, richiamati a Venezia da urgenti "bisogne". Supponibile siano mercanti e, pure, cultori di studi umanistici. Ma, anche se tali, non indulgono alla pausa di tre giorni di "ragionamenti", abbandonano la conversante "brigata" (5). Né a Venezia è ipotizzabile possano confluire in una qualche accademia. Folto di figure, ricco di incontri, alimentato da cerchie - anzitutto da quella convocabile attorno ad Ermolao Barbaro il giovane - e sin dialogicamente orchestrato l'umanesimo in laguna. Epperò senza una corte che offra spazio ad una vita accademica stabile e senza un circolo che - come a Napoli, a Roma, a Firenze - metta a tal punto radici da imporsi come fulcro della vita intellettuale cittadina. Tante accademie in potenza le aggregazioni momentanee, le intermittenti radunanze, ma senza quel continuato respiro che rende immediatamente identificabile a Roma l'accademia pomponiana e a Firenze quella platonica.

Certo: se si considera che Cicerone aveva definita accademia una sua villa suburbana e che, di ciò memore, Poggio Bracciolini etichetta come "Accademia Valdarnina" la sua tutt'altro che sontuosa dimora campestre in Valdarno, si può convenire con Fracastoro quando addita quale "dolce e gentil accademia ramusiana" la "villa Ramusia" presso Cittadella, dove Giovanni Battista Ramusio, segretario del senato e, poi, del consiglio dei X nonché geografo, accumula antichità e curiosità naturali. In questa convengono Fracastoro, Navagero (che in missione in Ispagna la rammenta con accorata nostalgia) e pochi altri per abbandonarsi a pacati conversari che dalle lettere si slargano alle scienze naturali ed al mondo sempre più vasto ed ai costumi sempre più vari. Ma se si staglia a mo' d'accademia la casa di villeggiatura del segretario geografo, lo stesso valga pel rifugio "in padoana", a S. Maria di Non, di Pietro Bembo per quel tanto che la solitudine raccolta s'apre disponibile ad un'ospitalità selettiva. La pace del verde campestre s'addice di più all'otium, di cui l'accademia umanistica abbisogna, della Venezia mercantile tutta indaffarato negozio. E le urgenze politiche - così perentorie e così assorbenti - giungono attutite, smorzate; fanno meno rumore, sembrano meno importanti. Distanziata dalla città, allora, l'accademica adunanza, allietata dalla natura, blandita dal paesaggio e non senza vezzi pastorali e non senza arcadici titillamenti. In tal senso sentori accademici emanano anche dalle residenze extraurbane d'Andrea Navagero a Murano e a Selva del Montello. Sodale, altresì, Navagero dell'accademia liviana - o, dal nome del fondatore, alviana - voluta, nel suo feudo pordenonese, da Bartolomeo Alviano, l'uomo d'armi. Partecipe, inoltre, Navagero assieme a Ramusio ai dotti appuntamenti nella villa di Fracastoro dominante, dalle pendici del Baldo, il sottostante lago di Garda. Ed è, in questa, piacevole conversare in tanta suggestione paesistica; una conversazione lungo la quale s'affaccia la scienza, compare l'astronomia e si ricorre al mappamondo (6).

Pure immersa nel verde, quello di Murano, la dimora di Tommaso Giustinian, cui avrebbe fatto capo, nel primissimo '500, il cosiddetto circolo muranese, sorta - stando agli studi, non privi di forzatura amplificante, in proposito - di comunità di preghiera e di studio. Ma, ad un'analisi puntigliosamente ravvicinata (7), questa, anziché precisarsi arricchita, tende piuttosto ad assottigliarsi sino a restringersi e sin a ridursi al solitario raccoglimento - al più spartito con un amico - dello stesso Giustinian. E, allora, non tanto di un gruppo fisicamente costituito da fasi di vita in comune si tratterebbe, quanto d'una cerchia che, se influenzata, con varietà d'esiti, dal travaglio spirituale di Giustinian, non è detto, per questo, lo abbia realmente e anzitutto fisicamente attorniato. E il denominatore comune non giungerebbe allora a produrre periodi di vita comunitaria, ma andrebbe ricondotto all'antecedente formazione umanistica e all'immediato precedente di studi universitari patavini. Circoscrivibile, semmai, all'interno di questa cerchia una più ristretta "compagnia" unita da stretti vincoli d'amicizia e con una disponibilità all'intrattenimento sin contraddicente rispetto alla serietà connotante la più lata cerchia. Quattro gli "amici" di questo gruppo ridotto, ossia Vincenzo Querini, Pietro Bembo, Trifone Gabriele, Egnazio o, al più, cinque se si considera che è di tutti e quattro amico Tommaso Giustinian. Col che diventa un'accolita eletta suscettibile d'essere considerata accademia e per il proclamato impegno verso lo studio e per la volontà d'allargarsi ad altri purché dotti, purché studiosi, fermo restando che è, invece, inammissibile "per compagno huomo che dotto o litterato non sia". Quanto, invece, alla più vasta cerchia, essa - nella misura in cui è turbata e scossa dalla ripulsa degli studia humanitatis ad un certo punto intransigentemente perorata da Giustinian, pel quale, ad un certo punto, sembrano validi solo i più austeri ed esclusivi studia, vien da dire, divinitatis - è difficilmente etichettabile (e ciò vale anche per quel circolo degli "spirituali" che, negli anni '30 del '500, farà capo al convento benedettino di S. Giorgio Maggiore (8)) come accademia umanistica. È, semmai, squassata da una drammatica crisi del senso stesso dell'umanesimo simultanea al tracollo della Venezia trionfante brutalmente aggredita dalla lega cambraica e umiliata pesantemente ad Agnadello nel 1509. Salta l'umanistico primato delle lettere che uomini come Girolamo Donà e Bernardo Bembo avevano saputo conciliare col patrizio primato della politica e, pure, con la fede avita. Una conciliazione animante soprattutto Ermolao Barbaro il giovane il quale - anche se, sul finale dell'esistenza, in rotta con la Repubblica - era riuscito a fondere armoniosamente religiosità e studio, orgoglio patrizio e filologica dottrina, prestigio sociale e politico e prestigio culturale. Nella bufera scatenata dai collegati antiveneziani quel - che sino a poco prima - era parso pacatamente conciliabile e anche soddisfacentemente conciliato si ripropone come dilemma lacerante: studi sacri o studi profani? Impegno mondano o ritiro dal mondo? Vita attiva o vita contemplativa? È, quest'ultima, beninteso non nel senso di otium pacioso, ma di ascesi inflessibile, di dura severa monacale disciplina, d'esigente rigorosa autodisciplina. Netta e, nei propositi, esemplare la scelta di Tommaso Giustinian che lascia Venezia e si rinchiude nella meditazione assorta e concentrata dell'eremo di Camaldoli. Non così Gasparo Contarini, il futuro cardinale, per quanto pressato e sin rimbrottato dall'amico Giustinian, veemente nell'additare come unica valida la vita monastica. Contarini non lo segue: rimane "in mezo la cità", vi si impegna politicamente e non butta via, come ingombrante zavorra, la cultura classica. "El lume naturale" - scrive nel 1512 a Giustinian -, sulla cui base gli antichi hanno ben edificato una loro "moralità", resta pur sempre prezioso "dono grande di Dio" (9).

Non v'è dubbio: per quel tanto che autorizza a supporre il dispositivo d'una vita in comune all'insegna dell'amicabilitas, per quel tanto per cui siffatto proposito è stato preso sul serio, la "compagnia" dei pochi amici, se fosse durata, se si fosse cautamente allargata, poteva, di per sé, assumere la consistenza d'un'accademia significativa d'unità d'intenti. E quel che di festevole e convitante insito nel suo programma di sin ludica "allegrezza" un po' anticipa - ma senza sbracature - le franche propensioni goderecce delle gioviali e ingorde "compagnie" e "brigate" che avranno in Aretino (uomo, peraltro, che risulta fortemente lusingato quando gli Infiammati patavini l'invitano alle loro serissime adunanze) un autentico animatore e promotore. Ma i propositi di divertimento della piccola "compagnia" soprattutto rinviano a quei clubs formati, lungo il '400 e (non senza sussulti posteriori) la prima metà del '500, da giovani nobili tra i diciotto e i trenta anni nei quali si ravvisano le cosiddette "compagnie" della Calza (10), ché la calza - contrassegnata da un disegno - è la loro divisa. Dediti anzitutto all'allestimento di spettacoli, questi particolari sodalizi sono puntualmente presenti nelle feste, specie carnevalizie, e nelle occasioni festose e nelle recite e nei banchetti. Gli Eterni, gli Eletti, i Cortesi, i Fedeli, i Felici, i Floridi, gli Immortali, gli Ortolani, i Potenti, i Prudenti, i Reali seniores, i Reali iuniores, i Sempiterni, i Semprevivi, i Trionfanti, i Zardinieri, i Zenevre, gli Zlati e, infine, nel 1562, gli Accesi. Ecco le autodenominazioni, per lo più baldanzose, di parecchie di queste "compagnie", le quali, tra il 1487 ed il 1565, oltrepassano la ventina. Può sconcertare - da parte di chi scrive, di per sé tenuto a dar conto dei cenacoli umanistici - la menzione di questi gruppi di nobili vivacemente attivi, colle loro policrome calzamaglie, nei tripudi carnevaleschi e nelle liete ricorrenze e nel pieno dell'allegria in genere cui contribuiscono con addobbi e rappresentazioni, con scenografiche invenzioni, con sontuosi apparati. Ma valga a scusare l'arbitrio il loro inserimento nel repertorio accademico d'Italia di Maylender (11). Sia chiaro: le "compagnie" della Calza - in genere formate da una ventina di membri - non vanno confuse colle dotte convergenze. Ciò non toglie che - ad una considerazione allargata della forma accademica che ne colga, anche a Venezia, l'evoluzione e la dinamica - forse giova riscontrare in questa sorta di clubs, nobiliari e giovanili insieme, già presenti nel '400 elementi di strutturazione analoghi, per più versi, a quelli che contrassegnano, a partire dal secondo '500, il trapasso dall'accademia umanistica all'accademia propriamente detta, all'accademia formalizzata, regolamentata. Beninteso: la comparsa anticipata di detti elementi nelle "compagnie" lagunari della Calza è qui richiamata a titolo di curiosità, di somiglianza esterna, d'analogia senza alcun sottinteso genetico. Se, nel secondo '500, anche a Venezia come nel resto della penisola le dotte adunanze s'ingessano in una rigida formalizzazione, ciò rientra in una svolta - quella, appunto, della autostrutturazione fortemente connotativa - generale ovunque, in ogni città, riscontrabile. È ovvio: di tutto ciò i giovanotti in calzamaglia non sono responsabili. Resta il fatto che, nel costituirsi di questa o quella "compagnia", si ricorre all'autodenominazione e, insieme, all'autoidentità figurata tramite il disegno particolare della calza; come, tanto per dire, i Zenevre, ossia la "compagnia" del ginepro che ha, appunto, nella calza, come tratto di riconoscimento un ramoscello di tale pianta. E le accademie formalizzate - si ricorderà - avranno l'impresa (ossia motto più figura) ad illustrazione del nome. Non basta: la costituzione della "compagnia" comporta la tassa d'ammissione, lo statuto, la fissazione delle gerarchie interne (il priore, i consiglieri), l'eventuale comparsa di dipendenti fissi (il segretario, il cappellano, il ciambellano), l'eventuale mobilitazione di competenze esterne (il poeta, l'architetto, il pittore). Organizzatrici di spettacoli per feste le "compagnie" della Calza sono, per così dire, delle équipes di pronto intervento a tal fine e, in vista di ciò, autorganizzate, autoregolamentate. Donde un'autoconnotazione e, se si vuole, un'autodisciplina sin contrastante con quel che di informale, di spontaneo, di non regolato che è, invece, proprio degli incontri intellettuali e delle dotte confluenze quattrocentesche e del primo '500.

Sono siffatti rapporti, comunque, a creare l'ordito della vita intellettuale. Sono i circoli e i cenacoli i centri di elaborazione, ricezione e trasmissione d'una cultura che, a Venezia, proprio perché nessuno si distingue imperiosamente sugli altri, vien da dire policentrica, ché numerosi e sparsi nel tessuto cittadino sono i luoghi, appunto, della cultura, ove questa affluisce, donde questa dirama: i conventi, specie quello benedettino di S. Giorgio Maggiore, le dimore patrizie, specie se arricchite da biblioteca, la stessa Marciana, tardiva valorizzazione del lascito bessarioneo. Ma non c'è un circolo egemone; né i tanti circoli momentaneamente riscontrabili o supponibili si preoccupano di qualificarsi e consolidarsi intitolandosi accademia. Perché la dizione accademia compaia esplicitamente, inequivocabilmente occorre attendere le edizioni manuziane del 1502-1504 contrassegnate, appunto, dalla dicitura "in Aldi romani academia". Così, ad esempio, nell'edizione delle tragedie sofoclee dell'agosto del 1502. E la prefazione, indirizzata a Calpurnio da Brescia, delle Storie erodotee dichiara che i nove libri dell'opera sono prodotti "ex academia nostra" sicché siano a disposizione degli uomini di studio. Col che l'accademia si presenta a mo' di staff editoriale proponente testi fondamentali in edizioni "castigatae", filologicamente accurate. Una benemerenza altissima la fondazione dell'accademia da parte di Manuzio (12): "neacademiam habet" riconosce, nel novembre del 1502, il doge Loredan. L'accademia platonica sembra riaffacciarsi in laguna, Venezia ha un che d'Atene rediviva, è la seconda Atene. Salvatore e riattivatore del retaggio ellenico Aldo Manuzio stando all'esaltazione di Scipione Forteguerri in un'orazione, del 1504, celebrante la letteratura greca. Attrezzato grecista Forteguerri, alle cui cure si debbono la stampa dell'Organon aristotelico, d'Aristofane, Demostene. Il mondo greco è, per lui, ben più entusiasmante di quello latino. Un entusiasmo esibito colla grecizzazione del cognome: Carteromaco. Ed è Carteromaco a stilare in greco il Nomos o statuto dell'accademia aldina o "Neacademia", sottoscritto, oltre che da lui, da Manuzio, Giovanni Cretese (di non pacifica individuazione: o Giovanni Rhosos o Giovanni Gregoropulos), Egnazio, Paolo da Canal, Gerolamo Menocchio, Francesco Rosetto. I sette così s'impegnano, nelle loro riunioni nella casa di Manuzio - a semicerchio, attorno al fuoco, d'inverno - a parlare solo in greco (da annotare a margine che gli Infiammati patavini, sotto la presidenza di Speroni, saranno tenuti alla "lezione" interna in volgare), pena, in caso d'inadempienza, una multa. Se poi il trasgressore si sottrae al pagamento di questa, è prevista l'espulsione. Pienamente padroni del greco, evidentemente, i sette "filelleni" ed "ellenisti", ma non al punto di sé supponenti da non concedere al loro circolo - inizialmente chiuso - allargamenti selezionati. Quanto al ricavato dalle multe, sia destinato a periodici banchetti. Disposti, allora, gli "ellenisti" all'allegro banchettare. Ma riscattabile altresì la cena se caricata di metaforici sottintesi e di allegoriche analogie: può camuffarsi da convivio sapienziale, può nobilitarsi quale simposio eletto.

Poca cosa, comunque, il circolo manuziano se circoscritto ad una puntigliosa e letterale applicazione dello statuto, e per la pedanteria dell'obbligo del greco (Aretino irriderà ai "pedanti" convinti "la dottrina consista ne la lingua greca") e per i prevedibili esiti goderecci. Qualcuno si lascerà ben scappare qualche parola in italiano; sfuggirà ben qualcosa in latino. Fioccheranno, allora, le multe. E tante multe moltiplicano le cene. Breve, poi, la durata della neoaccademia, i riferimenti alla quale non oltrepassano il 1505. Se è un gioco, è giusto duri poco. Alla lunga può annoiare; se troppo protratto, diventa stucchevole. Ma il significato di siffatta cerchia diventa ben più rilevante, se si considera il suo coincidere col momento culminante - tra il 1502 ed il 1504, appunto - della fervida attività editoriale dello stampatore Manuzio. Ed i vezzi di cui la cerchia si compiace non sono soltanto tali se rapportati ad una diffusa esigenza d'accademia - ne scrive a Manuzio Alberto Pio da Carpi; dotti tedeschi s'illudono lo stampatore ne istituisca una in Germania; Lucrezia Borgia tenta d'attirarlo, a tal fine, a Ferrara - che fa capo a Manuzio e dalla quale lo stesso Manuzio sembra posseduto e sin animato. L'accademia quale sede deputata per la fattiva cooperazione d'intellettuale militanza - e frutto di questa sono le edizioni aldine del 1502-1504, tangibile risultato d'un convergere di competenze in un vero e proprio lavoro d'équipe - e, insieme, come oasi di civiltà, auspicabilmente irradiante la storia o, per lo meno, esente dall'incivile tumultuare degli eventi. Col che - nel baluginio d'un ambizioso progettare - l'accademia sa un po' di miraggio, un po' d'utopia. Non va solo registrata la rapida dissolvenza della neoaccademia ellenisticheggiante, forse insidiata già sul nascere dal suo troppo vincolante statuto. Va pure tenuto presente il persistente sogno manuziano d'un'accademia di gran respiro. Anche nel testamento del 1511 lo stampatore prega che Iddio gli dia la forza per "mandare al executione la accademia che desidero fare". Quella - si può azzardare - che, anche se non salva il mondo colle litterae, quanto meno salvi queste e salvi i loro cultori. Duplice, infatti, il compito dell'accademia: assurgere a fulcro espansivo di civiltà e consistere come spazio separato protetto e salvaguardato in un contesto incivilmente scomposto.

Manuzio, però, muore, nel 1515, senza il conforto d'una qualche realizzazione adeguata a questa sua aspirazione. Scompare, annota Sanudo, con lui, "un optimo humanista et greco". Così il diarista incondizionatamente ammirante nel suo sottinteso complesso d'inferiorità d'umanista dimidiato, tutto sbilanciato sul latino, e, insieme, traballante e incespicante ché non lo soccorre la stampella del greco. Ma, se così è, non può essere, come Manuzio, ottimo umanista. Inaccessibile l'umanistica compiutezza senza greco. E Pietro Bembo, che in greco sa addirittura comporre, vorrebbe caricare sulle spalle di Venezia l'immane compito della salvaguardia e del rilancio dell'ellenismo per l'umanità tutta. E la classe politica nel suo complesso? Il greco è privilegio di pochi, però generale è la rispettosa considerazione del suo ruolo se, all'inizio del '500, lo si vuole insegnato nella pubblica Scuola di S. Marco. E indubbiamente spropositato e eccessivo, da parte del consiglio dei X, il credito concesso al nobile che più sappia, oltre che di latino, di greco, dal momento che lo suppone - grazie a questo e anche solo per questo - di per sé capace di stendere al meglio la storia di Venezia. Per cui - in sede di designazione del pubblico storiografo della Repubblica da individuare tra le file patrizie - viene penalizzata la professionalità di Sanudo e gli si antepone Bembo, "dottissimo", appunto, "in greco e latino". E, prima di Bembo, s'era scelto Navagero, anche questo eccellente per latino e per greco. Il perfetto umanista deve padroneggiare entrambi i versanti. Se così è - i X non nutrono in proposito perplessità - fornirà la storia perfetta. Sconfinata la fiducia nell'umanesimo dispiegato; e senza remore e riserve l'ammirazione per chi, nel patriziato, si distingua per dottrina, "maxime in humanità". Esemplare in proposito Bernardo Bembo, il padre di Pietro: sino in punto di morte - sottolinea Sanudo - è in grado di scrivere "letere optime e ben composte, piene di ogni eruditione".

Evidente - nel criterio di scelta del pubblico storiografo e pure dai trasalimenti ammiranti di Sanudo che, peraltro, proprio perché non ritenuto abbastanza umanista non sarà valorizzato - come, per la classe dirigente, sia nei suoi vertici direttivi come i X sia in un suo modesto membro come Sanudo, viga l'identificazione tra cultura e umanesimo. E ciò non senza riscontro istituzionale, vista la motivazione con cui Bembo è nominato pubblico storiografo. Il che - volendo un po' cavillare - è un po' paradossale. Quella umanistica - nel suo essere extrauniversitaria e, pure, antiuniversitaria - è cultura acquisita con percorsi fortemente personalizzati, è conquista individuale. Non è un prodotto delle istituzioni. Al più queste possono favorirla o non ostacolarla. Di per sé la sede istituzionale del sapere - quello tradizionalmente inteso, quello consegnato dal medioevo - è l'università, vale a dire, per Venezia, l'ateneo patavino. Un'istituzione statale, ché controllata e anche governata - specie dal 1528 coll'apposita magistratura dei riformatori allo Studio - dalla Repubblica, la quale si fa carico della manutenzione e del consolidamento ed ampliamento di questa sorta di fabbrica collaudata ed ordinata di laureati in legge e medicina da immettere - forti d'un certificato di laurea, muniti, vien da dire, d'un attestato di stato - nella vita professionale. Quanto alla nobiltà marciana - il cui destino è politico, non professionale -, si può constatare che l'alloro dottorale non è oggetto di particolari brame e risulta sin ininfluente, se non addirittura irrilevante nella carriera politica. Stando alle biografie dogali da Tommaso Mocenigo ad Andrea Gritti, la giovinezza del doge - il culmine, cioè, della carriera politica - sembra più contrassegnata dalla navigazione e dal commercio che dai corsi universitari. Fugace - nel caso di Cristoforo Moro e d'Andrea Gritti - la parvenza di Padova e senza esito dottorale. Non si scova, insomma, un doge con laurea! Compare, ogni tanto, nei Diarii di Sanudo qualche patrizio "dotor", un tratto sì distintivo, ma non più che tanto. Né dall'addottoramento - al contrario di quanto avviene laddove sia appurata la cultura umanistica - Sanudo desume competenze particolari e particolari qualità. Senza titolo di laurea Sanudo ma, anche, senza riverenze per la laurea. È ben lieto, semmai, di rimarcare come Ramusio, il segretario geografo e umanista, in una discussione su di un preparato, dimostri di saperne di più, in fatto di "medicina", dei tre presidenti del collegio dei medici e degli speziali, "licet [sogghigna il diarista] siano dottori".

Certo: pei giovani patrizi aspiranti alla carriera ecclesiastica, la laurea in utroque iure, in diritto civile e canonico, è un buon propellente, una valida carta di credito. E quella in artibus - attestato di conseguita preparazione filosofica - lungi dal comportare propensioni mediche, vale come virtuale possibilità di consapevole ingresso nella vita politica. Comunque, per questa, è un di più esornativo, non un requisito per tappe più celeri. Tant'è che, tra i giovani patrizi assidui alle lezioni dei più celebri maestri dell'ateneo padovano, più d'uno non si preoccupa d'addottorarsi e taluno, addirittura, l'evita di proposito. Studente a Padova nel 1501-1509 Gasparo Contarini e quivi soprattutto interessato ai corsi di Pietro Pomponazzi. Ma, determinato al salto di qualità da "scolare" a "dotto", una volta raggiunto tale livello, snobba "il titolo di dottore", volutamente lo trascura, con sufficienza lo lascia agli "altri" (13). Ciò non toglie la laurea sia la tappa finale d'un itinerario di studio che si conclude con un riconoscimento rilasciato da un'istituzione autorizzata dallo stato, appunto, al rilascio di titoli; e che - vista la costante presenza dello stato nello scorrimento ordinato e regolamentato della sua esistenza - vien da dire governativa, anche se, nella persistenza d'autonomie, e del corpo docente e di quello studentesco, d'ascendenza medievale, sono compresenti forme e contenuti d'autorganizzazione. Sicché - nella commistione di controllo statale e di intervento della docenza e dell'utenza - forse non è improprio parlare di cogestione.

Alla fine degli studi, ad ogni modo, l'università di Padova, l'istituzione ufficiale all'interno della quale ad adolescenti già formati e, pure, variamente formati e, comunque, tutti compiutamente latinizzati s'apre il ventaglio delle discipline giuridiche e di quelle medico-filosofiche. Ordinato lo Studio padovano, con due percorsi nettamente previsti: quello per i "giuristi" e quello per gli "artisti". Ma che succede, a Venezia, prima dell'eventuale finale universitario? Il puer, il fanciullo, specie se nobile e anche se cittadino, dev'essere ben istruito. Non a caso c'è chi disserta de puero litteris instituendo, nella convinzione debba essere culturalmente plasmato, letterariamente formato. Ma prima bisogna alfabetizzarlo, bisogna che sappia leggere e scrivere, bisogna che mastichi un po' di "grammatica", tenendo presente che l'apprensione della lettura e della scrittura passa attraverso l'apprendimento del latino, che alfabetizzazione tende a significare latinizzazione. Naturalmente al saper leggere e al saper scrivere va aggiunto il saper, un minimo, contare. Ciò non toglie che la "grammatica" e l'"abaco" siano percepiti come separati e divaricati. Indispensabile il secondo a "facere mercantias". La prima, invece, comporta l'avviamento a studi successivi. Una differenza che risulta chiaramente dalla breve autobiografia (14) in terza persona di Francesco Patrizi, il filosofo dalmata. Questi capita, tredicenne, a Venezia, nel 1542. È già stato, in patria, "alla scuola" imparandovi a "leggere". Imbarcato a sette anni, dapprima "si scordò di leggere", poi, grazie ad "un libretto", reimpara "da sé", mostrando spiccata "inclination" alla lettura. Una volta a terra, una volta non più "su la galea", una volta a Venezia, ecco che lo "zio", decidendo "fosse mercante", lo colloca nella "scuola [...] d'abaco e quaderno". S'oppone il padre, "intendendo quella inclination al leggere"; e, allora, lo manda "ad imparar grammatica" da tal "prete Andrea Fiorentino", correttore di bozze nella stamperia dei Giunti. Così, all'incirca nel 1542-1545. Poi il ragazzo studierà per un po' ad Ingolstadt e, finalmente, nel 1547, inizierà a frequentare l'università di Padova. Movimentato e anche accidentato l'itinerario di studio di Patrizi, sui dieci anni quasi analfabeta di ritorno. E gli studi si fanno ordinati quando arriva a Padova. Quanto all'imparare a "leggere", questo avviene, entro i sette anni, a Cherso, "alla scuola" con "maestro". Poi s'è arrangiato, come ha potuto, assecondato ad un certo punto dal padre.

Una piccola isola Cherso, con una scuoletta locale per le prime esigenze dell'istruzione elementare. Ma che succede, invece, a Venezia? Qui, laddove la Repubblica offre ai Veneziani desiderosi di arrivare alla laurea la struttura universitaria del Bo a Padova, nella fase primaria dell'apprendimento, del primo sgrezzamento, dei primi rudimenti si può dire che manca un qualsiasi referente pubblico. Non c'è, insomma, un'istituzione su cui contare (15). L'istruzione elementare - pur indispensabile al ceto patrizio e al ceto cittadino e, nel contempo, in entrambi effettivamente riscontrabile - è fatto privato, impegno e adempimento da assolvere con modalità e spese decise all'interno delle famiglie, in base alla volontà, soprattutto, dei padri. Ci sono padri che provvedono direttamente alla prima istruzione del figlio, come quello di Domenico Bollani. Chi può permetterselo ricorre al pedagogo domestico, il quale può essere - nel caso della nobiltà più prestigiosa ed abbiente - anche un intellettuale di spicco. Ci si può avvalere d'una qualche scuoletta privata, d'un qualche, più o meno accreditato o più o meno improvvisato, maestro. Si può confidare nella buona volontà d'un parroco, si può approfittare della disponibilità ad istruire d'un convento. Varie, insomma, le possibili soluzioni, fermo restando che è assente la scuola pubblica e che non c'è, quindi, eventualità di preselezione pubblica degli ingegni più promettenti. La decisione resta delle famiglie, avviene all'interno di queste. Scelte familiari, dunque, attivate valutando il ventaglio delle iniziative private utilizzabili. C'è, comunque, una diffusa domanda d'istruzione che alimenta un'offerta d'istruzione, la quale - nella misura in cui si fa vivacemente concorrenziale e competitiva, nella misura in cui s'autoreclamizza (è ben frutto propagandistico della categoria dei precettori l'Oratio tardoquattrocentesca del precettore marosticano Bartolomeo Matteacci, ove questi insiste sulla doverosa e necessaria immediata sostituzione del precettore defunto con un altro) - a sua volta incentiva la domanda.

S'instaura, in certo qual modo, un mercato duttile, inventivo, ove l'istruzione funge da merce: c'è chi l'acquista; c'è chi la vende. Un mercato surrogatorio dell'inesistente scuola pubblica. Ma se detto mercato fiorisce rigoglioso, è perché autorizzato da una sorta di tacita delega statale. Evidentemente la Repubblica - stato vigile e attento, non certo distratto, non certo sordo, non certo indifferente non interviene a ragion veduta. Sicuramente a palazzo Ducale non si ignora che nelle città suddite c'è il maestro condotto dal comune, ci sono pubbliche scuole di grammatica. Se a Venezia non si introduce questo sistema, se si concede, invece, spazio al libero gioco della domanda e dell'offerta, vuol dire che, in sede governativa, si ritiene più produttiva, per la molteplicità delle private esigenze, la movimentata contrattazione della merce istruzione piuttosto che la diretta assunzione della responsabilità della fornitura. Un laissez faire per cui - lo si apprende dai Diarii sanudiani - è possibile, nel 1517, l'impianto, in Merceria, d'una scuola, ovviamente privata, ove s'insegna a "lezer e scriver in moresco", in arabo. Indaffarati a Rialto gli operatori commerciali, i mercanti. Attivo, infatti, l'emporio realtino e attivante. Ma del pari attivante e stimolante la lagunare domanda d'istruzione che attira da ogni dove operatori scolastici - i magistri puerorum - dalle varie capacità, dalle varie pretese. E poiché l'insegnamento, anche elementare, inculca il latino, è latinizzazione intensiva, in questa si cimentano gli umanisti, in quello si mobilitano anche grandi personalità degli studia humanitatis. Vivacizzata da molteplici intraprese didattiche Venezia e contrassegnata da una nutrita presenza di maestri registrabile in un onomasticon fittissimo di nomi, taluno dei quali insigne. Calamitante anche per questi Venezia, ma non al punto assecondante da trattenerli definitivamente o, per lo meno, prolungatamente. Vi arrivano sì Gasparino Barzizza, Cristoforo Scarpa, Guarino Guarini, ma anche ne partono. Centripeto il mercato veneziano, col libero fiorire dei suoi liberi insegnamenti; ma anche centrifugo laddove l'operatore scolastico ambisca a realizzazioni pedagogiche di grande portata. La scuola convitto, la scuola comunità (nonché scuola media più che primaria, tra la postelementare e la preuniversitaria, con allievi giovinetti ed adolescenti, come Gregorio Correr, un patrizio veneziano che vi studia dai quattordici ai diciotto anni) costituita dalla mantovana Ca' Zoiosa di Vittorino da Feltre non è impiantabile tra le mobili vicissitudini del mercato scolastico. Necessita d'un appoggio che, semmai, la sottragga a queste.

Debole - per siffatte intraprese - il magnetismo lagunare. Né, per quanto dinamico, il mercato veneziano offre guadagni particolarmente allettanti - ma questi sono in realtà privilegi, favori, frutto di mecenatesca magnificenza -, sicché anche per questo si verifica lo stillicidio dei migliori tra gli insegnanti altrove allettati. E fuori Venezia, d'altronde, inizia i suoi studi primi Ermolao Barbaro il giovane, allievo, a sette anni, a Verona di Matteo Bosso; e a Firenze, tra gli otto e i dieci anni, s'applica Pietro Bembo per poi tornare a Venezia ed essere quivi affidato all'umanista Urticio.

Certo che con Barbaro e Bembo sopra richiamati, ma anche con altri, ad esempio con Bernardo Giustinian culturalmente eminente "a puero", già da fanciullo, è sin imbarazzante tracciare una discriminante precisa tra il momento dell'istruzione primaria e quello successivo dello studio approfondito, tanto è precoce la fase della formazione culturale, dell'apprendistato pluridisciplinare. Sin sconcertante constatare come non si esiti ad anticipare nella puerizia non solo il trapasso dalla grammatica alla retorica, dal latino al greco, ma anche dalle lettere alla logica e alla filosofia. In compenso c'è un Andrea Zulian che soltanto a ventitré anni compiuti affronta i "primarum litterarum [...] praecepta", s'applica ai primi rudimenti latini, senza, tuttavia, che questo inizio ritardato dello studio gli precluda una successiva qualificazione. Una casistica variegata in fatto di tempi, modi e contenuti dello studio riconducibile alla varietà delle scelte familiari, dei temperamenti individuali e delle spinte e degli ostacoli delle concomitanti contingenze ed occasioni. "Gran mercadante", il padre di Gasparo Contarini impegna il figlio sin dall'infanzia totalmente nello studio, subito sottraendolo alla mercatura, subito destinandolo alla più esclusiva qualificazione intellettuale. Ma è la mercatura lucrosamente praticata a fornirgli i mezzi per curare tanto l'educazione del figlio. Estremamente mobile, comunque, e variata la situazione veneziana con rampolli del patriziato imbarcati con una spruzzatura d'abaco ed altri già dotti prima dei quindici anni. Una mobilità fatta anche d'intercambiabilità. Nulla vieta al mercante lo studio; e non è detto che al dotto siano preclusi gli affari. La prassi - non teorizzata, ma, appunto, praticata - del non intervento statale, per cui lo studio è, come s'è cercato di dire, affare privato, affare familiare, finisce coll'essere, di fatto, anche se non deliberatamente, ricca d'effetti di ricaduta. Nella varietà delle situazioni si dà una mobile empiria di soluzioni. Nell'umanesimo lagunare, così raro d'esempi d'umanisti a tempo pieno, s'avverte un'agilità mentale non inchiodata alla rigida contrapposizione, altrove riscontrabile, tra cultura e pratiche incombenze, tra lettere e commerci. Antitetici, di per sé, l'otium della studiosa applicazione e il negotium che, assorbente, l'impedisce e l'ostacola. Epperò, come la figura veneziana del patrizio mercante sa coniugare nobiltà di nascita con vicissitudini di navigazione e traffici, così la stessa può, pur nell'assidua pratica della mercatura, aprirsi al fervore dello studio appassionato anche se, per forza di cose, intermittente. Si ha così il patrizio mercante e, insieme, umanista (16). Se a Costantinopoli per affari, ne approfitta per darsi alla caccia di manoscritti. E si deve alla mentalità mercantile se il manoscritto ritrovato non viene sequestrato gelosamente, ma si configura come un buon affare rilanciabile; sicché il collezionismo non esclude la successiva circolazione. E, coi testi, circolano le idee.

Una circolazione di idee - ci azzardiamo a commentare forzando - che par d'avvertire, talvolta, più sintonizzata coll'andirivieni delle navi e delle merci che cogli insegnamenti impartiti a Padova nelle aule del Bo. Ineludibile, d'altronde, per un sapere istituzionalizzato quale quello universitario e non per niente certificato dal diploma di laurea, il pedaggio della coazione a ripetere. Ereditando un'università confezionata lungo il medioevo, d'altronde, la Repubblica s'impegna a garantirne la continuità di struttura più ripetitiva che creativa. Vanto di Padova e suo precipuo tratto connotante l'ateneo, gloria della città ma anche oneroso vincolo, ma anche pesante condizionamento. Forse perché non ingombrata da una massiccia consistenza - anzitutto la sede fisica e i docenti e gli studenti; ma non va sottovalutato l'indotto; e ciò soprattutto a Padova, città gravitante sul Bo - universitaria, a Venezia la cultura è più mossa, meno prevedibile. E a ciò concorre la stessa non presenza statale in sede di alfabetizzazione che, variamente acquisita all'interno del patriziato e del ceto cittadino - le due minoranze connotate anche dalla lettura e dalla scrittura, laddove il grosso della popolazione è, invece, analfabeta -, variamente si presta a successivi privati svolgimenti. Ma, in questa fase successiva, non più primaria e, vien da dire approssimativamente, secondaria, pur nella sussistenza del privato, è visibile un segno pubblico. S'affaccia, insomma, lo stato con le due Scuole pubbliche di S. Marco e di Rialto (17); due centri di erogazione - tramite l'insegnamento stipendiato - culturale. Pubblica sin dalla nascita, del 1446 (ma, di per sé, protraibile sino al 1450, quando la sagoma della Scuola si precisa), la prima, quella di S. Marco, intesa inizialmente come istituzione formativa dei futuri funzionari della Repubblica estratti dal ceto cittadino, come luogo di loro preparazione e avviamento. Ma quest'iniziale finalità non impedisce l'allargamento dell'utenza che, a mano a mano, si fa socialmente composita, include adolescenti non aspiranti alla carriera cancelleresca, attira anche nobili. E tra questi c'è Gasparo Contarini. Sede di corsi di retorica, storia, poesia e, come tale, privilegiante le lettere la Scuola di S. Marco. La quale, invece, in fatto di diritto, è singolarmente taciturna; evidentemente il governo veneto preferisce il funzionario capace di chiara ed elegante espressione piuttosto che onerato da nozioni giuridiche. D'altronde, se il vero diritto è quello veneto, ispirato dall'equità, questa semmai si consapevolizza cogli studi letterari, non ha a che fare colla sistematica del diritto romano insegnato a Padova. E, in effetti, l'idea di giustizia può ben ricorrere nelle lezioni dei titolari dell'insegnamento d'umanità. È, appunto, la cattedra d'umanità, che nel 1460 si sdoppia in due insegnamenti paralleli, il nucleo sul quale la Scuola s'impernia. E di tutto rispetto la lista dei docenti nelle due cattedre (18), e taluno tra questi prestigioso. Nella prima insegnano, via via, Pietro Pierleoni, Filippo di Federighino, Benedetto Brugnoli, Marc'Antonio Sabellico, Giovanni Battista Scita, Gregorio Amaseo, Niccolò Leonico Tomeo, Giovanni Battista Egnazio, Francesco Robortello; s'avvicendano nella seconda Giovanni Maria Filelfo, Giorgio da Trebisonda, Giorgio Merula, Giorgio Valla, Sabellico, Marco Musuro, Vettore Fausto. Constatabile, in entrambi gli elenchi, la prevalenza dei non Veneziani; nessun docente, altresì, è nobile marciano; tutti i docenti, a vario titolo, sono qualificabili come umanisti, tutti possono vantare umanistiche benemerenze. Abbozzata, tra il 1443 e il 1446, perché i futuri cancellieri sappiano "bene scribere", la Scuola di S. Marco mette radici e prende fiato al di là di questo suo primo intento. Diventa, nell'erratico policentrismo dell'umanesimo veneziano, un centro fisso, all'insegna del latino e - a partire dal primo '500 - pure del greco.

Precedente, rispetto a quella di S. Marco, l'altra Scuola lagunare, quella di Rialto, ché vede la luce ancora nel 1408. Privata, a tutta prima, la sua genesi, cagionata da una precisa disposizione testamentaria di Tommaso Talenti, uno dei quattro protagonisti del clamoroso scontro, ancora del 1367, con Petrarca. Sordo, allora, all'entusiasmo per le lettere del poeta, Talenti e, invece, radicato nel solco dell'Aristotele medievale, ribadisce - col lascito di cinquanta ducati d'oro annui a retribuzione d'un maestro di logica e filosofia - questa sua rocciosa impostazione non scalfita da umanistiche inquietudini e la proietta oltre la morte colla deliberata istituzione d'un insegnamento stabile. Il quale - nella misura in cui prosegue grazie al sostegno pubblico e, poi, coll'assunzione pubblica delle relative spese - perde, a mano a mano, l'originaria veste privata per assumere quella, più consistente, statale. Preposti ad esso via via Camillo da Ferrara, Niccolò da Salerno, Paolo dalla Pergola, Domenico Bragadin, Antonio Corner, Antonio Giustinian e Sebastiano Foscarini. Episodio saliente il tentativo, azzardato da dalla Pergola, di trasformare la Scuola realtina in una vera e propria facoltà universitaria - grosso modo "artista", ossia filosofica e in prospettiva medica, e pure, par di capire, teologica -, a tal fine presieduta da un rettore, munita di statuto, con proprie insegne, con la facoltà di conferire gradi accademici. Una forzatura ambiziosa questa di dalla Pergola, stroncata ruvidamente e bruscamente dal consiglio dei X. Se vuol continuare ad insegnare - così i X il 17 giugno 1445 - veda di farlo entro l'alveo previsto. Non ne esca tentando di gonfiare artificiosamente la portata dei suoi corsi. Smetta d'intrigare e cospirare introducendo escogitazioni statutarie ed indebite ritualizzazioni. Intimorito dalla Pergola fa marcia indietro, si piega, obbedisce. I suoi propositi d'ampliamento e trasformazione s'infrangono di fronte all'irremovibile criterio governativo non debba esservi, in terra veneta, altro ateneo che quello patavino. Negato, dunque, un lagunare sbocco universitario alla composita utenza - chierici, giovani d'estrazione nobiliare e cittadina, aspiranti a studi speculativi, aspiranti alla carriera forense - richiamata dalla Scuola di Rialto. Inammissibile, nell'ottica della classe di governo marciana, un doppione di Padova, garantita, una volta divenuta suddita di Venezia, nell'unicità del suo ruolo universitario, salvaguardata e presidiata in questa sua specializzata identità. Solo in questa è ottenibile la laurea, solo il Bo è autorizzato a certificarla. L'eventualità d'un'università veneziana attizzerebbe, a Padova, sopiti umori antiveneziani; da un lato umilierebbe la città, dall'altro l'inasprirebbe. Un vantaggio, inoltre, per Venezia, distanziarsi dagli schiamazzi e dai disordini d'una folta vistosa intemperante comunità goliardica.

Incauto dalla Pergola nel non avvertire l'involontaria portata turbativa d'un progetto - quello dell'enfiagione della Scuola ad università - col quale è, invece, convinto di guadagnarsi la pubblica benemerenza. Una sorpresa per lui il veemente rabbuffo dei X. E, forse, a motivare la loro immediata ripulsa d'una ipotetica università lagunare, oltre a ragioni d'opportunità politica (perché irritare Padova?) e d'ordine pubblico (a che pro far affluire studenti a Venezia?), c'è anche dell'altro, c'è anche di più. Probabile ulteriore motivazione l'esigenza sottintesa di tener ben separate fisicamente la sede del sapere da quella del comando, sicché meglio - nella separatezza - le due dimensioni appaiono distinguibili. Alla capitale, alla dominante s'addice palazzo Ducale, alla suddita Padova compete il Bo. Il primato della politica s'esprime anche così. Nel diritto-dovere al governo la ragion d'essere d'una classe dirigente, i cui rampolli - una volta reduci (con o senza laurea, poco importa) da Padova - vanno immessi nella vita politica perché in questa profondano, senza distrazioni, il meglio di se stessi. A ciò finalizzata la cultura, a ciò subordinato l'antecedente tirocinio. E vera concreta sapienza l'arte di governo esercitata a palazzo Ducale. Autentica conoscenza la prudenza di stato. Un'università a Venezia sarebbe un'insidia: i dotti ivi adunati potrebbero ambire a trasformarsi in mentori, potrebbero nutrire ambizioni direttive: e la classe politica potrebbe eccedere in riverenza per la cultura sia ascoltandone - in sede politica - gli eventuali suggerimenti, sia disertando per questa l'impegno pubblico. L'università a Padova è politicamente ininfluente. La distanza tra il Bo e palazzo Ducale evita indebite commistioni, spurie confusioni. Provvido, nelle autodiciture, il governo veneto coi governati; ma senza che, per questo, venga meno la distinzione tra questi e i governanti.

Sede d'insegnamento di logica, filosofia e, quanto meno dal 1455, di teologia - tutte discipline superiori, universitarie - la Scuola realtina, sul cui prestigio lo stato veglia incoraggiante, ma anche circoscrivente, sicché non debordi. Una lezione a futura memoria la severa reazione all'improvvida sortita di dalla Pergola. Qualsiasi sia il livello dell'insegnamento, l'alloro dottorale resta conseguibile soltanto col trasferimento a Padova. Ad ogni buon conto succede nell'insegnamento a dalla Pergola Domenico Bragadin. Questi è sì "discipulus et commensalis" di quello, ma è - prima ancora e più ancora - patrizio veneto, in grado, perciò, di sapere - e per scienza e per istinto - cosa può volere e non volere il governo veneto. Non per niente, a partire da Bragadin, i docenti a Rialto sono tutti patrizi veneti e tutti corredati da laurea conseguita a Padova. Così - vien naturale commentare - la Scuola resta sotto controllo. Vi insegnano docenti appartenenti alla classe politica; e, forti dell'addottoramento padovano, sono i primi interessati a valorizzarlo.

Un requisito indispensabile, dunque, l'alloro padovano in artibus per i docenti di Rialto dopo dalla Pergola. L'ottiene, il 4 luglio 1504, Sebastiano Foscarini e nemmeno un anno dopo, il 14 giugno 1505, viene nominato lettore di filosofia a Rialto. È questi - dopo dalla Pergola - l'insegnante di maggior fama, anche se si stenta a racimolare materiale probatorio di detta fama. Espositore d'Aristotele Foscarini nella sua prolungata docenza e - stando alla tradizione - averroista. Arduo valutare - visto che nulla di lui rimane tranne una manciata di meri titoli - come e quanto. Autorizzano, tuttavia, ad una collocazione in tal senso la dedica dell'Opera omnia (Venetiis 1545) dell'averroista bolognese Alessandro Achillini e la qualifica di "pazzo ed empio filosofo" scagliatagli addosso da un nunzio sospettoso e ringhioso come Girolamo Aleandro. Questi, a dire il vero, non è che l'attacchi nel suo specifico professionale; anzi, non esclude che sia "dotto" quando dissertante dalla cattedra "nella via d'Aristotele". Lo scandalizza, invece, che Foscarini, in sede politica, ritenga non necessaria e sin superflua - laddove s'esiga il contributo del clero alle spese militari - la preventiva autorizzazione romana. Da ciò Aleandro deduce Foscarini sia "di nullo giudizio" e, addirittura, di "manco religion". Ma nemmeno Gasparo Contarini - già allievo, nella sua adolescenza, della Scuola realtina - in fatto di "giurisditione et libertà ecclesiastica", per quel che Aleandro ne sa, "si porta" gran che "ben". Merita, però, egualmente "d'essere amato", dal momento che, in polemica proprio con Sebastiano Foscarini, sostiene la consistenza per diritto divino del pontificato. Si ha l'impressione che Foscarini uomo politico si lasci trasportare, nella sua fiera difesa delle prerogative sovrane della Serenissima, sino alla più sconcertante irriverenza nei riguardi della Sede Apostolica. E detta irriverenza - agli occhi di chi gli è avverso - diventa ora causa ora effetto della presunta eterodossia averroistica che impronterebbe la sua attività didattica.

Ad ogni modo - influenzata o meno che sia dal commento d'Averroè la lettura d'Aristotele officiata a Rialto e si estremizzi o meno l'averroismo lungo la docenza foscariniana - resta assodato che Aristotele è l'oggetto principale sin esclusivo dei corsi e che a lui si rifanno tutte le discipline (logica, metafisica, filosofia naturale, scienza) nella Scuola praticate o richiamate. Il sapere secondo Aristotele, allora. E, nel contempo, uno speculare "nella via d'Aristotele" singolarmente carico di tutta la tradizione interpretativa medievale e da questa sin zavorrato. E così non senza indifferenza rispetto allo strenuo impegno umanistico di ricuperare anzitutto - scrostato da sovrapposizioni e distorsioni - l'autentico dettato dello Stagirita. Senza filologica acribia, dunque, l'aristotelica esegesi realtina. Sebastiano Foscarini - va sottolineato - non sa il greco, né se ne cruccia particolarmente. E ciò mentre, nella Scuola di S. Marco, che tra i suoi insegnanti d'umanità già ha esibito un Merula, dall'inizio del '500 il greco, invece, lo si insegna. E ciò dopo che - ancora nel 1484-1485 - un Ermolao Barbaro il giovane aveva affascinato l'intellettualità veneziana colla vigorosa filologia delle sue lezioni aristoteliche in casa propria, alla Giudecca. Contrapponibili, in effetti, la tradizionale esposizione d'Aristotele della filosofica Scuola di Rialto e la filologia, potenzialmente innovante anche sul piano filosofico, dell'umanistica Scuola di S. Marco. Una compresenza che vien da caricare di conflittualità, quasi le due Scuole debbano sviluppare e ribadire la tensione dilemmatica insita nel lontano scontro tra Petrarca ed i suoi quattro avversari lagunari più o meno intinti d'averroismo. Di fatto, però, nella misura in cui le due polarità, quella tradizionalmente speculativa e quella innovantemente filologica, si istituzionalizzano nelle due rispettive Scuole, non tanto di esasperata antitesi e di intransigente divaricazione è il caso di parlare, quanto, piuttosto, di differenziazione. Da un lato il proseguire dell'esegesi aristotelica, dall'altro le humanae litterae. E, dato il carattere pubblico delle due Scuole, esse si prestano ad una valutazione complessiva che le intenda come promozione, da parte della classe politica, delle due direzioni, a mo' d'articolazione di due branche del sapere nella quale lo svolgimento delle differenze sia latore non già di conflitto, ma suggerisca spunti di complementarità e comporti effetti di reciproca ricaduta. Differenti, insomma, le due Scuole, più che opposte; diverse più che antitetiche. Non è il caso di supporle tra loro rissanti. Tant'è che c'è chi le frequenta tranquillamente entrambe, come Gasparo Contarini. Né la differenza preclude rapporti di buon vicinato: rettore nella Scuola realtina, Antonio Corner si premura d'invitare Sabellico, docente in quella di S. Marco, a pronunciare la prolusione all'annua apertura dei corsi realtini. E Sabellico accetta di buon grado. Il tutto sotto l'occhio vigile d'uno stato culturalmente consapevole e culturalmente sensibile. Lo si evince anche successivamente dall'istituzione, rispettivamente nel 1530 e nel 1532, d'altri due insegnamenti pubblici, che vivono, a Venezia, per conto loro, al di fuori delle due Scuole: quello di matematica e quello di sacra scrittura.

1. Citato in Carlo Ossola, Dal "Cortegiano" all'"Uomo di mondo", Torino 1987, pp. 131, 136. Naturalmente e per l'Alunno (ossia Francesco del Bailo) e per parecchi altri nomi menzionati nel testo valgono le informazioni fornite dal Dizionario Biografico degli Italiani. E s'avverte sin d'ora che, sempre a titolo informativo, s'è largamente utilizzato, di Margaret L. King, Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, Roma 1989.

2. Citato in Paul O. Kristeller, Studies in Renaissance Thought and Letters, II, Roma 1956, p. 363.

3. Su quest'ultimo si sono soprattutto tenuti presenti i contributi di Manlio Pastore Stocchi, Vittore Branca e Agostino Pertusi, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I-III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980-1981: 3/I, pp. 93-264.

4. Citato in Daniela Delcorno Branca, Da Poliziano a Serafino, in AA.VV., Miscellanea di studi in onore di Vittore Branca, III, Firenze 1983, p. 434 (pp. 423-450).

5. Cf. Gino Benzoni, Le dialogate modulazioni, "Studi Veneziani", n. ser., 21, 1991, pp. 137-140 (pp. 137-156).

6. Cf. Giuliano Lucchetta, Viaggiatori e racconti di viaggi nel Cinquecento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, p. 484 (pp. 433-489), e Giuseppe Ongaro, La medicina nello Studio di Padova e nel Veneto, ibid., 3/III, p. 113 (pp. 75-134).

7. Cf. Eugenio Massa, Gasparo Contarini e gli amici, fra Venezia e Camaldoli, in Gasparo Contarini e il suo tempo, a cura di Francesca Cavazzana Romanelli, Venezia 1988, pp. 39-91.

8. Cf. Claudia Di Filippo Bareggi, Il mestiere di scrivere. Lavoro intellettuale e mercato librario a Venezia nel Cinquecento, Roma 1988, p. 193 e la bibliografia richiamata nella n. 5 di p. 229.

9. Citato in Gigliola Fragnito, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988, p. 11.

10. Cf. Maria Teresa Muraro, La festa a Venezia e le sue manifestazioni rappresentative: le compagnie della Calza e le momarie, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, pp. 315-341.

11. Michele Maylender, Storia delle accademie d'Italia, Bologna 1926-1930.

12. Sul quale si limita il rinvio a Martin Lowry, Il mondo di Aldo Manuzio. Affari e cultura nella Venezia del Rinascimento, Roma 1984.

13. Cf. Gigliola Fragnito, Memoria individuale e costruzione biografica, Urbino 1978, pp. 173-174 e Ead., Gasparo Contarini, p. 5 n. 13.

14. Le citazioni da questa che seguono nel testo sono state desunte da Cesare Vasoli, A proposito di Francesco Patrizi, Gian Giorgio Patrizi, Baldo Lupatino e Flacio Illirico. Alcune precisazioni, in L'umanesimo in Istria, a cura di Vittore Branca-Sante Graciotti, Firenze 1983, p. 38 (pp. 37-61).

15. Sulla quale assenza simultanea alle private intraprese Gherardo Ortalli, Scuole, maestri e istruzione di base tra Medioevo e Rinascimento. Il caso veneziano, Vicenza 1993.

16. V. in proposito Ugo Tucci, Mercanti, navi, monete nel Cinquecento veneziano, Bologna 1981, pp. 15-41.

17. V. sulla prima e, soprattutto, sulla seconda Fernando Lepori, La scuola di Rialto dalla fondazione alla metà del Cinquecento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, pp. 539-605.

18. Qui desunta da Vittore Branca, Barbaro, Ermolao, in AA.VV., Dizionario critico della letteratura italiana, I, Torino 19862, p. 195 (pp. 194-199).

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