Lavoro

Enciclopedia Italiana - VI Appendice (2000)

Lavoro

Franca Rabaglietti
Aris Accornero
Francesco Mattioli

(XX, p. 650; App. I, p. 780; II, ii, p. 166; III, i, p. 968; IV, ii, p. 312; V, iii, p. 150)

Il tema del l. è stato esposto in maniera analitica nella voce omonima del XX vol. dell'Enciclopedia Italiana e distinto in vari sottolemmi in cui sono stati affrontati i problemi inerenti il l. in ambito economico (Divisione del lavoro e Organizzazione scientifica del lavoro), sociologico e storico (Datore e prestatore di lavoro) e giuridico (Diritto di coalizione del lavoro, Il contratto di lavoro, Legislazione del lavoro, Magistratura del lavoro, Patologia del lavoro). La materia contenuta nelle voci giuridiche risente dell'introduzione nella legislazione italiana del sistema corporativo proprio dello Stato fascista e dettato dalla l. 3 apr. 1926 nr. 563 (v. al riguardo la voce corporazione, XI, p. 459). Ampia trattazione è stata poi dedicata all'analisi concernente la costituzione nel 1919 dell'Organizzazione internazionale del lavoro (v. il relativo sottolemma, ripreso anche nelle App. II e III). In seguito, i principi in materia di libertà sindacale e di diritto al l. affermati nella Costituzione italiana del 1948, che riconosce la centralità del l. come principio essenziale e requisito fondamentale dello Stato democratico, sono stati oggetto di aggiornamento nell'App. II; specifica attenzione è stata anche dedicata all'introduzione, nel codice civile italiano del 1942, del libro V Del lavoro, che disciplina non solo il rapporto di l. in senso stretto, ma tutta l'attività della vita economica (in particolare la nozione e la disciplina dell'impresa, le società, i consorzi). Il successivo processo di adeguamento della legislazione in materia di l. ai principi costituzionali (processo la cui più significativa espressione è costituita dalla l. 20 maggio 1970 nr. 300, nota come Statuto dei lavoratori) è stato oggetto di esame nelle App. III, IV e V. Nella voce processo del lavoro dell'App. IV (iii, p. 57) - e, per le ulteriori innovazioni, nell'App. V (iv, p. 280) - è invece contenuta un'analitica esposizione della nuova disciplina processuale delle controversie in materia di l. introdotta dalla l. 11 ag. 1973 nr. 533. Si rinvia infine alla voce occupazione e disoccupazione, nell'App. V (iii, p. 722) e in questa Appendice, per l'evoluzione del mercato del l. e l'esame delle nuove politiche di occupazione.  *

Legislazione del lavoro

di Franca Rabaglietti

In questi ultimi anni, il mercato del l. è andato sempre più perdendo la connotazione classica di luogo specifico di incontro fra una domanda e un'offerta espresse prevalentemente in termini quantitativi. Fattori interni ed esterni - nazionali, internazionali, sovranazionali e comunitari - sono penetrati nel sistema e hanno determinato squilibri cronicizzati fra occupazione e disoccupazione (inoccupazione, sottoccupazione), fra costi e rimunerazioni, fra contribuzioni previdenziali a carico delle imprese ed esborsi della finanza pubblica per l'assistenza e il trattamento pensionistico. A essi si è aggiunto il ritardo nell'inserirsi nel mondo del l. da parte dei licenziati dall'obbligo scolastico, dei diplomati e persino dei laureati. La stessa standardizzazione del rapporto, che era sembrata una valida conquista sindacale, ha finito per andare contro quelle esigenze di mobilità e flessibilità che l'introduzione di sempre nuove tecnologie richiedeva e i mercati delle merci sollecitavano.

Le imprese si sono trovate nella difficoltà di procedere, liberandosi di eccedenze ed esuberi, alle ristrutturazioni e alle riorganizzazioni che avrebbero forse portato all'espandersi e allo specializzarsi delle occasioni di lavoro. La l. 23 luglio 1991 nr. 223, in attuazione di direttive della Comunità europea, ha proceduto pertanto a ridimensionare mobilità, cassa integrazione, trattamenti di disoccupazione e avviamento al l., mentre, con l'accordo sulla politica sociale allegato al trattato firmato a Maastricht il 7 febbr. 1992, gli Stati membri si sono impegnati a cooperare per promuovere l'occupazione, il miglioramento delle condizioni di vita e di l., una protezione sociale adeguata allo sviluppo delle risorse umane, la lotta contro le esclusioni.

In Italia, la normativa ha cercato di spezzare la spirale per cui le imprese sono state indotte o a non fornire nuove occasioni di l. al collocamento ovvero a far ricorso ad assunzioni irregolari, specializzate o meno, di lavoratori privi di copertura assistenziale e scarsamente rimunerati. In relazione al dilagante fenomeno dell'immigrazione clandestina, si sono sviluppati in misura sempre più rilevante mercati alternativi, di l. nero e di attività improvvisate, che hanno sconfinato anche in terreni illeciti e criminali (prostituzione, commercio di droga e armi, caporalato, espatri clandestini). Ha assunto dimensioni notevolissime, nel complesso, un'economia sommersa, che ha alterato le rilevazioni statistiche ufficiali, si è sottratta agli accertamenti fiscali ma ha, comunque, contribuito alla formazione annua del prodotto interno lordo. Questa situazione ha riproposto drammaticamente in proporzioni ormai planetarie l'esigenza di garanzia di quel complesso di diritti umani (alla vita, all'integrità fisica e morale, al sostentamento, alla salubrità dell'ambiente, all'istruzione, alla dignità) che sono concettualmente riconducibili al l. e alla possibilità di ottenerlo e di svolgerlo senza distinzioni di sesso, di razza, di etnia, di religione, di costumi, di cultura.

Tale esigenza è stata in primo luogo affrontata in Italia con la l. 11 febbr. 1989 nr. 60, di autorizzazione alla ratifica dell'atto di emendamento alla costituzione dell'Organizzazione internazionale del l., cui ha fatto seguito la l. 9 apr. 1990 nr. 98, di ratifica ed esecuzione del protocollo nr. 7 alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali, concernente l'estensione della lista dei diritti civili e politici, adottato a Strasburgo fin dal 22 novembre 1984. In quest'ottica va vista anche la l. 10 apr. 1991 nr. 125, che contempla misure per raggiungere l'effettiva uguaglianza uomo-donna, almeno quanto alle pari opportunità.

Ma è con regolamento della CEE nr. 2195 del 25 giugno 1991 che viene predisposto un complesso di misure mirate alla circolazione dei lavoratori subordinati e autonomi, nonché dei loro familiari. Con direttiva del Consiglio nr. 383 vengono lo stesso giorno indicati i provvedimenti da prendere per la sicurezza dei l., anche atipici, con accenno a quelli temporanei e interinali, il cui inserimento nel sistema in atto costituirà poi uno degli obiettivi della legislazione italiana in materia, nella ritrovata convinzione che l'interesse generale, anche imprenditoriale, rivestito dal mercato del l. non possa essere lasciato in balia della convenienza economica individuale, che fa apparire sufficiente, per la produttività e la competitività delle imprese, aumentare i salari destinandoli circolarmente ai consumi.

Il divario fra ricchezza e povertà, che si è dilatato enormemente in conseguenza della sconsiderata applicazione del principio che il vantaggio degli uni si consegua con lo svantaggio degli altri, è stato reso più evidente dalla divulgazione, operata dai mass media, degli avvenimenti in tutto il mondo. Ciò ha contribuito a far cadere il mito (dei colonialismi e degli imperialismi) che il progresso raggiunto da certe parti del mondo fosse estensibile, soltanto traendone profitto, alle parti arretrate o sottosviluppate (cosiddetto Terzo Mondo) o, comunque, considerate tali. In quest'ordine di idee, la direttiva CEE del 22 sett. 1994 nr. 94/95 ha promosso la costituzione di un comitato centrale europeo per l'informazione e la consultazione dei lavoratori nelle imprese e nei gruppi di imprese di dimensioni comunitarie, al fine di rendere più consistenti e certi i dati delle situazioni riguardanti le condizioni del l. e della produzione.

Alla radice di questi mutamenti, sia pur variamente espressi e affrontati, ma che impongono sicuramente ai governi la ricerca di adeguati piani di studio, è stato rilevato un fenomeno cui è stato dato il nome di globalizzazione. Esso definisce, sinteticamente, un teorema: quello dell'impossibilità di avere, a un tempo e completamente, benessere economico, coesione sociale e libertà politica. Propone quindi che le soluzioni siano prese in chiave di priorità. Ma il fatto veramente nuovo è che l'attuazione di un ordine 'mondiale', a opera di avveniristici Stati sociali, non ancora ben definiti nelle loro prospettive (non lontane dal modello del welfare), dev'essere attenta alla globalità dei problemi e, quindi, non deve allontanarsi dai termini che, essenzialmente, li compongono: se non è possibile la 'quadratura del cerchio', è però possibile, seguendo la via etica che ognuno dei termini contiene nel denominatore comune della libertà, ottenere che le scelte abbiano effetti positivi in relazione a questa causa comune che le orienta. La libertà di iniziativa economica resterà, quindi, limitata dalla sua stessa definizione; le libertà personali dalla condizione di uguaglianza tipica e dalla reciprocità; la libertà politica dalla legittimazione popolare all'esercizio del potere. Questa visione del mondo, che coinvolge anche il mercato del l. dell'era postindustriale, spezza la neutralità e l'indifferenza delle ideologie classiche e tende a instaurare - o a restaurare - valori (quali la solidarietà, la lealtà, il sacrificio) senza i quali sarà precluso il raggiungimento degli obiettivi del benessere, della socialità, della democrazia.

Su questa traccia si è mossa, nei suoi presupposti e dai suoi punti di osservazione, la macroeconomia, quando ha preso in considerazione per le sue deduzioni non gli individui, ma gli Stati, le famiglie, le imprese: queste entità, nell'ambito dei rispettivi campi d'azione (governare, allevare le nuove generazioni, produrre con la collaborazione di dipendenti), perseguono finalità specificamente individuate fin dal momento della loro nascita come istituzioni intrinsecamente giuridiche. Al loro interno intercorre il vincolo fra l'interesse generale, che esse rappresentano, e gli interessi particolari degli individui che le compongono e che figurano come altrettanti strumenti del relativo 'servizio', nei modi indicati dal criterio di prevalenza della positività sulla negatività.

Il trattato firmato a Maastricht il 7 febbr. 1992, nel suo preambolo, acquisisce e diffonde tali principi fra gli Stati, le imprese e i lavoratori secondo la realtà che si va edificando sulle macerie del Muro di Berlino e sulla crisi delle ideologie (pragmatismo, empirismo, contrattualismo), che avevano messo da parte la cosiddetta questione morale: essa comporta, al contrario, una forte presa di responsabilità dei governi, degli imprenditori e degli stessi lavoratori interessati a uno sviluppo positivo e di qualità del mondo del lavoro.

Promozione dell'occupazione in Italia

In attuazione di tali principi, anche in Italia è stato ripreso il discorso sullo Stato e sull'impresa sociale nella prospettiva dell'instaurazione di un sistema cui tutte le forze che compongono la società siano messe in grado di concorrere, anche in connessione con l'ingresso del paese nell'Unione monetaria europea. Ha cominciato così a prendere corpo nella l. 24 giugno 1997 nr. 196 quel Patto per il l. che era stato siglato il 24 giugno 1996 fra le organizzazioni sindacali e il Ministero del Lavoro. La legge (il cosiddetto Pacchetto Treu) delinea una strategia di medio termine, affrontando sinergicamente tre importanti questioni: la flessibilità, la formazione professionale, gli interventi e gli incentivi per la ripresa dell'occupazione, soprattutto giovanile.

Contratto di fornitura di lavoro temporaneo. - Con un evidente richiamo alla legislazione adottata da alcuni Stati europei (specialmente Francia, Belgio, Germania) la l. 24 giugno 1997 nr. 196 ammette una deroga al divieto di intermediazione nel l. al fine di ovviare all'eccessiva immobilità. Prevede, però, la costituzione di imprese fornitrici di manodopera cui le aziende di produzione e di scambio di beni e servizi possono rivolgersi per ottenere temporaneamente l'utilizzazione di l. qualificato, non previsto dai normali assetti aziendali, o in sostituzione di lavoratori assenti (con l'ovvia esclusione di scioperanti). Il progetto interessa tre parti sociali: l'impresa-agenzia, strutturata per la preparazione e la fornitura di attività temporanee, l'impresa utilizzatrice e i prestatori di l. temporaneo, professionalmente addestrati a diventare potenziali dipendenti da due sistemi imprenditivi (cosiddetto l. interinale o in affitto). Il servizio di preparazione alla fornitura di l. temporaneo (o anche, a certe condizioni, a tempo indeterminato) può essere, ai sensi dell'art. 2, svolto solo da società iscritte in apposito albo presso il Ministero del Lavoro e costituite nella forma di società di capitali o cooperative (anche di produzione e l., secondo l'art. 2 punto 3). Tali società possono essere italiane, o anche di altro Stato membro dell'Unione Europea, e debbono esercitare esclusivamente tale attività. Al lavoratore, assunto dall'impresa fornitrice sia a tempo determinato sia a tempo indeterminato, è corrisposta un'indennità mensile di mobilità per i periodi in cui rimane in attesa di assegnazione; inoltre, quando il lavoratore entra a far parte dell'impresa che ne utilizza la prestazione, riceve un trattamento non inferiore a quello degli altri dipendenti di pari livello.

Lavoro a tempo parziale. - La l. 24 giugno 1997 nr. 196 fissa l'orario normale di l. in 40 ore settimanali, che i contratti collettivi nazionali possono ridurre ulteriormente. Allo scopo di favorire il ricorso a forme di orario che consentano flessibilità, sia per le imprese, sia per i lavoratori, è ammessa la contrattazione individuale, anche in relazione a particolari attività o situazioni quali: la più elevata disoccupazione di certe aree depresse; il rientro nel mercato del l. di lavoratrici assenti dopo almeno due anni di inattività; l'uscita di dipendenti prossimi al pensionamento; l'occasionalità di operazioni di salvaguardia dell'ambiente; l'attuazione di iniziative volte al risparmio energetico o all'uso di energie alternative. La legge prevede per queste misure di riduzione o di rimodulazione di l. part-time incentivi di natura fiscale e contributiva.

Contratto a tempo determinato. - La l. 24 giugno 1997 nr. 196 modifica, nel senso di concedere una maggiore flessibilità, la disciplina della l. 18 apr. 1962 nr. 230, relativa alla trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato, in caso di continuazione di fatto del rapporto dopo la scadenza. L'art. 12 prevede innanzi tutto un margine di 20 o 30 giorni per consentire alle parti una riflessione sulla loro situazione; influisce poi sul problema della successione contrattuale, per il caso abusato di licenziamento seguito da riassunzione: la trasformazione del contratto a termine in contratto a tempo indeterminato avviene sulla base del primo contratto, ove si tratti di due o più assunzioni successive a termine; del secondo, se il lavoratore viene riassunto entro un periodo di 10, ovvero 20 giorni, dalla data di scadenza del contratto, rispettivamente inferiore o superiore ai sei mesi.

Apprendistato. Tirocinio. Formazione professionale. - La l. 24 giugno 1997 nr. 196 riconsidera, agli artt. 16, 17 e 18, l'apprendistato e il tirocinio quali strumenti formativi di istruzione professionale non eccessivamente caricabili di obblighi, alla stregua di un vero e proprio contratto di l. subordinato, e intende restituire loro l'originaria funzione di avviamento al mestiere, favorendo, nel contempo, l'emersione di una parte di l. nero, attraverso l'inserimento degli accordi presi in forme atipiche nel progetto di riordinamento della formazione professionale. Vengono, pertanto, allungati i tempi di svolgimento del rapporto; inoltre, mentre l'età minima resta fissata a 16 anni, l'età massima viene portata a 24 anni nel Centro-Nord e a 26 nel Mezzogiorno, allo scopo di aumentare la possibilità di aggiornamento, di perfezionamento e di riqualificazione professionale. Vi sono interessate tutte le imprese, comprese quelle agricole, con un percorso di qualificazione alternativo a quello di formazione esterna, ma suscettibile di interazione, secondo le disposizioni in materia di contratti di formazione e l. richiamati all'art. 15. È prevista anche (art. 18), nell'intento di realizzare momenti di alternanza studio-lavoro, la promozione di stages e di altre iniziative da parte di enti pubblici e privati a favore di soggetti che abbiano già assolto l'obbligo scolastico. Per le imprese operanti nel Meridione sono previsti altresì incentivi volti al riallineamento dei livelli contributivi ai minimi contrattuali e alla riemersione del l. irregolare, con una sanatoria contributiva e fiscale per i periodi pregressi.

Lavori socialmente utili. - Facendo seguito alle leggi 19 luglio 1994 nr. 451 e 26 nov. 1996 nr. 608, la l. 24 giugno 1997 nr. 196 coordina all'art. 20 gli interventi congiunturali per lo svolgimento di attività utili alla collettività sebbene non richieste dal mercato del lavoro. Vengono utilizzati, allo scopo, cassintegrati o disoccupati, seguendo i più evoluti sistemi di welfare e della tradizione anglo-americana ed europea continentale. In questa prospettiva, coloro che godono di prestazioni assistenziali senza svolgere attività debbono essere disponibili a prestare un l. di pubblica utilità, senza con ciò stipulare un vero e proprio contratto, ma con una variante del rapporto che hanno con l'ente assistenziale o previdenziale. L'intento è, anche, fare uscire allo scoperto e inserire nella legalità tutti quei lavoratori che fruiscono illegalmente di un'indennità di disoccupazione pur svolgendo attività sommerse, e, soprattutto, favorire il reinserimento dei disoccupati nel mondo del l. attraverso nuove esperienze, al fine, comunque, di evitare il rischio dell'emarginazione stabile dei soggetti meno intraprendenti. In una prima categoria rientrano, infatti, i disoccupati di lunga durata (oltre due anni) e i lavoratori licenziati ma non aventi diritto all'indennità di mobilità, mentre su una seconda categoria (cassintegrati o fruitori di indennità di mobilità) pende la decadenza dai benefici di legge ove non venga accettato l'impiego in l. socialmente utili. Si tratta, invero, di un piano di politica economica e del l. che prevede incentivi per la costituzione di società miste, pubblico-private, operanti specialmente nel settore dei beni culturali e ambientali.

Tutela del lavoro femminile e della famiglia lavoratrice. - La l. 11 dic. 1990 nr. 379 estende l'indennità di maternità (già corrisposta alle lavoratrici dipendenti e alle lavoratrici autonome) alle libere professioniste, mentre il d. legisl. 25 nov. 1996 nr. 645 recepisce la direttiva 92/85 CEE del 19 ott. 1992 concernente il miglioramento della sicurezza e della salute sul l. delle lavoratrici gestanti, puerpere o in periodo di allattamento, allo scopo di non svantaggiare le donne nel mercato del l. e non pregiudicare gli orientamenti in materia di parità uomo-donna. Ha lo stesso intendimento la sentenza 21 apr. 1993 nr. 179, con cui la Corte costituzionale ha esteso al padre affidatario il diritto alla riduzione dell'orario di l. giornaliero nel primo anno di età del bambino.

Lavoro dei disabili. - Al fine di promuovere l'inserimento sociale e l'integrazione delle persone disabili nel mondo del l. con servizi di sostegno e di collocamento mirato, la l. 12 marzo 1999 nr. 68 ha dettato un'analitica normativa in tema di diritto al l. dei disabili. La legge individua le condizioni di disabilità rilevanti ai fini del collocamento, adegua le norme in materia di servizi del collocamento obbligatorio e avviamento al l., prevede specifiche convenzioni tra gli uffici competenti e i datori di l. e una serie di incentivi per le assunzioni dei disabili.  *

bibliografia

C. Filadoro, Part-time e collocamento obbligatorio, in Lavoro e previdenza oggi, 1991, p. 257.

M.J. Vaccaro, Il contratto a termine, in F. Amato, M.J. Vaccaro, Le nuove tipologie del rapporto di lavoro. Formazione-lavoro, part-time, contratto a termine, Napoli 1991, pp. 95 e segg.

E. Ghera, Lavoro (collocamento), in Digesto commentato, Torino 1992, 8° vol., p. 103.

Il mercato del lavoro. Regolazione e deregolazione, il capitale umano; la destrutturazione del mercato, a cura di R. Brunetta, Torino 1992.

M. La Terza, Diritto comunitario del lavoro, Milano 1992.

M. Magnani, Cassa integrazione guadagni, licenziamenti collettivi, mobilità: il quadro generale della riforma, in Lavoro e diritto, 1992, pp. 691 e segg.

M. Roccella, T. Treu, Diritto del lavoro della Comunità Europea, Padova 1992, 1995².

A. Andreoni, Part-time, flessibilità del lavoro e "barriere" previdenziali, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1993, 3, pp. 405-39.

D. Bonamore, Il diritto di non "lavorare", in Diritto di famiglia e delle persone, 1993, 3, pp. 775-85.

La disciplina dei licenziamenti individuali e collettivi. Commentario alle leggi 15 luglio 1996, n. 604 e 11 maggio 1990, n. 108, a cura di L. Galantino, Torino 1993.

M. Miscione, L'indennità di mobilità. Leggi 223/1991 e 236/1993, Napoli 1993.

P. Alleva, Trattamento di fine rapporto. 1) Diritto del lavoro, in Enciclopedia giuridica Treccani, 31° vol., Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1994, ad vocem.

F. Fabbri, L'articolo 36 della Costituzione e la libera concorrenza del mercato del lavoro, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1994, 3, parte 1, pp. 360-64.

R. Foglia, La parità di trattamento: spunti di diritto comunitario, in Il diritto del lavoro, 1994, 2, parte 1, pp. 187-92.

G. Giugni, Fondata sul lavoro?, Roma 1994.

Norme in materia di Cassa integrazione, mobilità, trattamenti di disoccupazione, attuazione di direttive della Comunità Europea, avviamento al lavoro ed altre disposizioni in materia di mercato del lavoro, Commentario della l. 23 luglio 1991, n. 223, a cura di M. Persiani, in Nuove leggi civili, 1994, 4-5, pp. 916-22.

U. Romagnoli, Eguaglianza e differenza nel diritto del lavoro, in Giornale di diritto del lavoro e di relazioni industriali, 1994, 3, pp. 545 e segg.

R. Scognamiglio, Il codice civile e il diritto del lavoro, in Rivista di diritto civile, 1994, 2, parte 1, pp. 245-75.

G. Arrigo, Il CNEL e il tempo di lavoro: materiali per la riforma legislativa, in Rivista giuridica del lavoro e della previdenza sociale, 1995, 1, parte 1, pp. 75-99.

F. Capelli, Il monopolio nazionale dei servizi di collocamento alla luce del diritto comunitario della concorrenza, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1995, 1, parte 1, pp. 23-39.

R. Dahrendorf, Economic opportunity, civil society, and political liberty, contributo presentato alla Conferenza UNRISD (United Nations Research Institute for Social Development), Copenaghen 1995 (trad. it. Quadrare il cerchio, Roma 1995).

R. Del Punta, I contratti di formazione e lavoro, in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1995, 1, parte 1, pp. 219-38.

Lavoro interinale e servizi per l'impiego. Il nuovo quadro di riferimento, a cura di P. Ichino, Milano 1995.

M.T. Spadafora, Prime considerazioni sull'attuazione delle direttive comunitarie in tema di sicurezza e salute dei lavoratori, in Diritto del lavoro, 1995, 1, parte 1, pp. 83-98.

A. Tursi, I lavori socialmente utili come misura di "workfare", in Rivista italiana di diritto del lavoro, 1995, 3, parte 1, pp. 361-91.

N. Galloni, L'impresa sociale, Roma 1996.

M. Biagi, Mercati e rapporti di lavoro. Commentario alla l. 24 giugno 1997 n. 196, Milano 1997.

mutamenti sociali e nuovi lavori

di Aris Accornero

Dal lavoro ai lavori

Nel mondo del l. è in corso la transizione dal modello taylorista-fordista, fondato sulla produzione di massa e sulle economie di scala, a nuovi modelli che si basano sulla produzione snella e sulle economie di scopo (Chandler 1990). Questa transizione si accompagna al continuo travaso di occupati dall'industria ai servizi nei paesi più sviluppati e dall'agricoltura all'industria nei paesi in via di sviluppo. L'impresa persegue volumi elevati di produzione, ma su serie relativamente piccole, per rispondere a una domanda di mercato dettata, più che in passato, dalle scelte dei consumatori. Proviene da tale variabilità l'insistente richiesta di flessibilità nel funzionamento dell'impresa, dei mercati e del l. stesso.

Il processo di transizione ha raggiunto stadi differenti nei vari paesi, dati anche i tumultuosi ritmi di sviluppo nell'Asia del Sud-Est, e nei diversi rami: per es., l'industria dell'auto è più avanzata rispetto all'industria agroalimentare, a sua volta più avanzata dei servizi di ristorazione (infatti nei fast food continuano a espandersi modalità di l. alienanti: Ritzer 1993). Tuttavia la fine del gigantismo industriale e burocratico de-concentra e de-massifica ovunque il l., nel riorganizzare le imprese in reticoli più elastici o in sistemi spaziali integrati. Mentre i nuovi modelli di produzione consentono di dare soluzioni differenti agli stessi problemi, il contesto della globalizzazione favorisce lo scambio di informazioni e il trasferimento delle innovazioni. Ogni impresa cerca di rendersi più flessibile e reattiva per evitare diseconomie e conseguire maneggevolezza, il che determina una formidabile pressione sulle condizioni di l. e sul mercato del lavoro. Ciò trasforma anche i luoghi del l., al cui interno un numero decrescente di lavoratori si muove in ambienti assai più spaziosi, luminosi e ordinati. La fine delle 'fortezze operaie' fa declinare i rapporti gerarchizzati, gli ambienti anonimi e le prestazioni livellate, ma anche la forza contrattuale, i vantaggi retributivi e il peso sociale di chi vi lavorava.

Per adeguarsi in tempo reale alle oscillazioni dei mercati, i flussi della produzione vengono alleggeriti da passaggi inutili, soste costose e scorte ingombranti, e modulati mediante calendari che oscillano a seconda delle necessità. Le imprese acquistano all'esterno prodotti e servizi (progetti, semilavorati, componenti, pubblicità, fatturazioni, pulizie) la cui realizzazione in proprio risulterebbe onerosa; mantengono un nucleo ristretto di manodopera stabile; si avvalgono di manodopera periferica con la quale hanno rapporti temporanei oppure saltuari, ma sempre di durata limitata. Ciò fa sì che il numero dei lavoratori con impiego a tempo pieno di durata indeterminata diminuisca a vantaggio di quello dei lavoratori con impiego 'atipico' rispetto ai rapporti prevalenti nel Novecento; infatti scende la durata media dell'anzianità di l. all'interno della medesima impresa (Koretz 1997). Tutto ciò si incontra con la crescente partecipazione femminile al l., come disponibilità-capacità di occupare ruoli lavorativi anche negli impieghi tradizionalmente maschili, non soltanto in Italia o in Spagna ma perfino in Giappone (Japanese labour and management in transition, 1997). Si passa quindi da una società 'del lavoro', basata su un modello di impiego a tempo pieno e per tutta la vita, a una società 'dei lavori', basata su tragitti compositi: "Nell'arco della propria vita le persone avranno dei periodi di l. e dei periodi di disoccupazione, attività a tempo pieno e attività part-time, periodi di addestramento e di riaddestramento", per cui "una carriera lavorativa unica che copra l'intera esistenza sarà l'eccezione e non la regola" (Dahrendorf 1995, p. 60).

Qualità e contenuti del lavoro

Qualità e contenuti cambiano in primo luogo perché diminuisce lo sforzo psicofisico, giacché le tecnologie soppiantano le mansioni più faticose e alleviano quelle più stressanti; diminuiscono così sia i l. che richiedono ancora della manualità, sia la manualità richiesta da tali lavori. La sostituzione di 'lavoro vivo' con 'lavoro morto' restringe l'occupazione nelle attività di trasformazione o movimentazione delle cose, ma non relativamente ai cosiddetti servizi alla persona (per es., quelli del tempo libero). Sebbene per molti il l. comporti ancora fatica, lavorare diventa sempre meno gravoso; stancano meno anche i l. domestici, alleggeriti da macchine che riducono lo sforzo. Il minore affaticamento, derivante da innovazioni miranti innanzitutto a risparmiare gli addetti, cambia comunque la condizione lavorativa perché riduce l'oppressione (o "elemento afflittivo", Bonazzi 1993, p. 114) che trasformava il lavoratore in un "corpo lavorante" (Zuboff 1988, p. 56).

Le tecnologie non determinano soltanto effetti ergonomici che rendono meno pesanti (o più leggeri) un po' tutti i l. (così che va aumentando la protezione sociale per quelli usuranti e disagiati); esse restringono le attività manipolative ed estendono quelle intellettive: c'è molto meno l. diretto, 'di mano', e più l. indiretto, 'di testa', il che riduce le storiche distanze fra l. 'manuale' e l. 'intellettuale'. Oggi ci si attende che il lavoratore non si limiti a ripetere movimenti o a eseguire istruzioni, ma che registri segnali, scopra difetti, decodifichi messaggi, ritocchi procedure, risolva problemi. Via via le attività 'immateriali', sia quelle durature di ricerca, progettazione e creazione sia quelle cicliche di assistenza, educazione, gestione e tempo libero, tolgono spazio alle attività 'materiali', sia quelle durature di produzione, trasformazione e costruzione sia quelle cicliche di manutenzione, riparazione e ripristino. Sganciandosi dalla fisicità, il l. entra in quello "stato fluido" che ancora pochi anni addietro poteva sembrare una fantasticheria (Gallino 1988, p. 125).

Qualità e contenuti del l. cambiano perché la prestazione si basa su norme che, in confronto al modello taylorista-fordista, diventano meno inderogabili, più duttili e trasparenti. Così che il l. tende a essere meno massificato, livellato, monotono, standardizzato (si potrebbe dire meno "alienante", Blauner 1964) e la prestazione più varia e interessante. Novità paradigmatica è che il concetto di servizio sia diventato una coordinata di produzione, e che il flusso lavorativo venga presentato alla manodopera in termini come questi: ciò che ricevete da chi vi precede è un servizio, ed è un servizio quel che passate a chi vi segue; in sostanza, siete i clienti di chi viene prima e i fornitori di chi viene dopo. I flussi infatti non vengono più 'spinti' dalla direzione di produzione, bensì 'tirati' dalla rete commerciale. Una cultura del servizio si sovrappone e si sostituisce a quella della produzione, anche per il fatto che i rapporti con la clientela assorbono quote crescenti di lavoro.

Un'indagine sulla manodopera comune, realizzata in 2214 imprese degli Stati Uniti negli anni Novanta, mostra che il 51,1% di essa ha a che fare ogni giorno con i clienti per telefono, e il 58,1% di persona. Questo dipende, ma solo in parte, dal crescente peso dei servizi, e quindi dei rapporti con il pubblico. I 13 impieghi con maggiore incremento al 2005, stimati dal Bureau of Labor Statistics, sono infatti: cassieri, custodi, pulitori, venditori al dettaglio, camerieri, infermieri, analisti di sistemi, manager, assistenti domiciliari, guardiani, aiuto infermieri, inservienti e uscieri (Holzer 1996, pp. 64-66). D'altra parte la relazionalità nel l. cresce anche a prescindere dai rapporti con il pubblico, perché le attività di controllo che coinvolgono gruppi prendono più tempo di quelle esecutive che coinvolgono singoli: per es., la ricerca di difetti nella lavorazione, o di rimedi agli intoppi nel ciclo produttivo, crea microeventi sociali.

Qualità e contenuti del l. poi cambiano perché: a) i compiti vengono ampliati, arricchiti e quindi resi meno ripetitivi; b) vengono progettate mansioni 'polifunzionali'; c) viene incoraggiata l'organizzazione per gruppi di l.; d) le catene gerarchiche vengono accorciate e sfoltite; e) i ruoli organizzativi vengono 'fluidificati' e talvolta risultano depotenziati; f) viene data meno importanza agli skills specifici, basando il l. sulle competenze più che sul compito (EPOC Research Group 1997). Ciò comporta che dalle competenze di tipo settoriale si passi a competenze 'trasversali', oppure 'distintive', ove conta molto sia la componente motivazionale e cognitiva, che aiuta a diagnosticare i problemi (problem setting) e a impostarli in modo adatto a risolverli (problem solving), sia quella sociale e relazionale, che mette a frutto i percorsi di formazione al l. e di socializzazione al l. fatti durante le esperienze precedenti. Si tratta di competenze in cui si riflettono anche la personalità e il potenziale del lavoratore, che diventano così riferimento primario nei processi di selezione del personale; le imprese infatti non assumono più la manodopera a blocchi, ma preferiscono individualizzare le scelte, come del resto fa ogni lavoratore con un certo potere contrattuale: la domanda e l'offerta si 'guardano in faccia'.

I cambiamenti, infine, sono anche determinati dal fatto che il datore di l. chiede al lavoratore di prendersi cura della qualità del prodotto verificandolo e ispezionandolo da sé, "autonomandosi" o "autoattivandosi" (Ono 1978; trad. it. 1993, pp. 10-11) a tal fine. Questo impegno, che arricchisce la professionalità dando anche un senso di compimento, richiede un'autonomia non immaginabile nel modello taylorista-fordista, in cui la qualità era 'incorporata' nella quantità e veniva quindi demandata a tecniche di controllo statistico "progressivamente incorporate dalla tecnologia" (Pichierri 1979, p. 140), cosa che restringeva le "opportunità di un comportamento espressivo" del lavoratore (Meissner 1969, p. 255).

Requisiti e profili dei lavoratori

I requisiti professionali tendono a mutare profondamente rispetto a quando alla gran parte della manodopera bastavano pochi giorni per imparare le mansioni comuni, e rispetto a quando soltanto una sparuta minoranza doveva sapere tutto sul proprio mestiere. Sono sempre meno richieste, infatti, le doti troppo generiche e quelle troppo specialistiche. I datori di l. cercano persone munite soprattutto di uno 'zoccolo' di cultura generale (che aiuti a comprendere la massa di informazioni di cui è fatto oggi il l.) e di un'esperienza maturata attraverso una conoscenza settoriale, o una semplice socializzazione al l., in quel ramo oppure in rami affini. Il primo requisito comporta apertura mentale, curiosità di apprendere, disponibilità a cambiare, mentre il secondo fa riferimento a uno stock o un mix di competenze, capacità nel muoversi, attitudine a destreggiarsi. La professionalità non consiste più nel tradizionale bagaglio di conoscenze e di esperienze accumulate: proprio come l'impresa, essa diventa 'processiva', e ciò implica anche il cambiamento dei modelli della formazione professionale. Gli obblighi di produzione richiedono al lavoratore di "gestire le perturbazioni", di "mantenere fluidi i processi", cioè di cogliere i segnali di discontinuità, di essere flessibili mentalmente (de Terssac 1992; trad. it. 1993, pp. 110 e segg.; Womack, Jones 1996). Il datore di l. apprezza chi è capace di lavorare in gruppo, di avere iniziativa, di agire su obiettivi, di assumere rischi, di aggiornarsi continuamente, anche perché ci sono conoscenze, competenze (e mestieri) che invecchiano in fretta: apprendendo dall'organizzazione e con l'organizzazione occorre adeguare il proprio sapere alle novità nei metodi di produzione, nei requisiti del prodotto e nelle tendenze del mercato. Le imprese "hanno bisogno non soltanto delle capacità di cui hanno bisogno, ma anche e soprattutto delle capacità di cui non avvertono ancora il bisogno" (Streeck 1996, p. 125). Andando "oltre la meccanizzazione" (Hirschhorn 1984), nel l. emerge in definitiva la novità cruciale: esso diventa meno 'maschile', nel senso di rigido-esecutivo-performativo, e diventa più 'femminile', nel senso di fluido-cognitivo-relazionale.

Crescono rapidamente i lavoratori che trattano informazioni operando da terminale, tenendosi in contatto con l'ufficio accanto, la sede metropolitana o i colleghi di altri continenti, talvolta muniti della discrezionalità necessaria a integrare, coordinare o condurre processi, oppure sistemi, a elevato livello di automazione. L'estendersi di queste tecnologie concorre a mutare i requisiti cognitivi del l.: se il macchinismo sollecitava la "percezione quantitativa" e l'"orientamento causale" individuati da T. Veblen all'inizio del secolo (Veblen 1904; trad. it. 1970, pp. 238-42), il digitalismo sollecita una consapevolezza di rete e una flessibilità mentale. Su tali requisiti da knowledge workers poggiano svariati mestieri nuovi (Merlini 1986; Butera, Donati, Cesaria 1998), mentre altri sono resi obsoleti da tecnologie che spiazzano profili professionali gloriosi, come per es. quello del linotipista. Sebbene la crescita di requisiti cognitivi del l. non aumenti di per sé le distanze fra i vari profili professionali (anche perché nascono più mestieri di quanti ne muoiano), vi sono forti rischi che essa favorisca le disuguaglianze di opportunità create dall'istruzione, penalizzando così la manodopera già sfavorita sul mercato.

I linguaggi del l. si tecnicizzano e si standardizzano rimpiazzando gli idiomi di mestiere, anche per l'impiego di termini inglesi, e coinvolgendo sia il tecnico-ingegnere, che si occupa di ideazione, progettazione, immagine, diagnostica, certificazione e così via, sia l'operaio che da "ausiliario tradizionale" diventa "controllore di processo" (Butera 1990, pp. 110 e segg.). Vengono erose anche quelle microiniziative con le quali gli operai potevano ostacolare l'intensificazione del l., per es. nella catena di montaggio, e che sono vanificate da modelli di produzione più trasparenti del taylorismo-fordismo. Le abilità nel rallentare il ritmo fingendo di lavorare secondo la norma, o nel porre rimedio in via informale a sviste dei progettisti o a falle nei flussi, possono oggi emergere utilmente per l'azienda se l'operaio, invogliato a cooperare, rivela il proprio 'spicchio' di know-how.

Sui nuovi requisiti professionali del l. si affrontano due interpretazioni. Quella postfordista presenta due prospettive: la 'neo-tecnica', che sottolinea le competenze richieste dai nuovi modelli di produzione (Kern, Schumann 1984); la 'neo-artigianale', che esalta le potenzialità dei sistemi locali e di piccola impresa (Piore, Sabel 1984). L'interpretazione neofordista vede invece uno scenario di dequalificazione e degradazione del l. (The degradation of work?, 1982), motivato dal fatto che i margini di autonomia lasciati oggi ai lavoratori non possono arricchire un l. che rimane comunque progettato dall'impresa (Noble 1995; Revelli 1997).

Tempi del lavoro e rapporti di lavoro

I tempi del l. cambiano non meno della qualità e dei contenuti, sia perché gli orari contrattuali e legali si stanno accorciando (mentre gli orari di fatto tendono ad allungarsi), sia perché sopravvengono calendari settimanali, mensili e annuali assai diversi dagli standard del Novecento. Diminuiscono il numero e la durata delle pause, anche al fine di anticipare l'ora d'uscita; i sistemi dei turni si fanno più complessi; le settimane lavorative vengono rese più compatte aggregando più ore in meno giorni; i week-end vengono goduti parzialmente e talvolta sono messi in causa; viene 'elasticizzata' la fruizione delle riduzioni d'orario, mentre vengono differenziati i giorni di riposo infrasettimanale; gli orari di ingresso e di uscita sono individualizzati (flexi-time) su richiesta dei lavoratori; l'orario annuo è reso 'scorrevole' calendarizzando i periodi di super lavoro e di attività ridotta; le ferie vengono 'scaglionate'; orari meno rigidi sono compensati con ore aggiuntive di riposo ('banche-ore'), o con assunzioni; gli orari e i giorni di attività dei negozi e dei servizi mirano a un modello di 'vita permanentemente attiva' che può mettere a rischio le festività. Queste novità, che in Europa sono contrattate fra le imprese e i sindacati, prolungano l'utilizzo degli impianti per fronteggiare meglio le congiunture e la competizione, e mettono fine ad assetti uniformi che erano un potente regolatore sociale, ma di cui la società soffriva per i "sincronismi sociali" ai quali davano luogo (Chiesi 1989), per es. con la congestione urbana.

La diversificazione degli orari dà speranze a chi soffriva quando essi erano uniformi e anelastici, ma dà problemi alle famiglie e alle comunità, poiché nel quotidiano gli scenari temporali identificano socialmente i soggetti: quando si entra al l. e se ne esce in ore e in giorni che coincidono sempre meno, gli incontri diventano meno agevoli e diminuisce la riconoscibilità di chi lavora. I soggetti sono altresì occultati, mimetizzati, dispersi dalla diffusione territoriale dei luoghi di l., benché i sistemi 'cablati' li tengano in comunicazione più che nel passato. Una personalizzazione degli orari potrebbe anche intaccare quella compattezza temporale che consentiva ai sindacati di operare a nome di tutto il mondo del l. (Times are changing, 1994; The new modern times, 1995).

Oltre a ciò, cambia la durata stessa dei rapporti di l. e si diversificano le forme e i livelli della tutela. È sintomatico che le assunzioni con rapporto a tempo determinato tendano a superare quelle a tempo indeterminato. Anche se questa tendenza riflette i bisogni di taluni strati di lavoratori, in Europa si teme una precarizzazione del l. simboleggiata dai cosiddetti Mac-jobs, cioè da impieghi mal retribuiti e malsicuri (tipici della catena di fast food McDonald's). Ciò vale anche per la crescita di l. a tempo parziale, che offrono opportunità di l. nuove, specie per le donne, ma che paiono una mera ripartizione del l. esistente. Altre formule ancora fanno temere divaricazioni fra i lavoratori: il l. intérimaire o 'interinale', cioè l'affitto di manodopera per durate determinate; il job sharing, cioè la condivisione dello stesso posto da parte di più addetti; i 'moduli lunghi', cioè l'alternanza di giorni lavorativi lunghi e di più giornate di riposo; l'impiego per due giorni la settimana ('squadrette week-end'); il telelavoro, o l. a distanza. D'altra parte, vi sono impieghi non regolabili come in passato, semplicemente perché in passato non c'erano: per es. la vigilanza davanti a banche o università; l'assistenza, l'accoglienza e la traduzione in occasione di convegni o congressi; l'allestimento o l'arredo di spettacoli; il catering, le pulizie e il giardinaggio per ricevimenti e incontri. Tutti questi impieghi richiedono lavoratori assunti in base a compiti di cui il committente non può garantire la continuità.

Tali novità fanno riferimento, sostanzialmente, all'impresa 'duale', fatta di core workers e di contingent workers, cioè di un ristretto nucleo di manodopera a tempo pieno e indeterminato, intorno al quale ruota una manodopera a tempo parziale o/e determinato; e all'impresa 'virtuale', detta de-jobbed company o anche post-job company, fatta di manodopera che non si incontra mai perché lavora da casa o altrove o così da lontano da non essere conosciuta neppure dai dirigenti (Davidow, Malone 1992; Changing forms of employment, 1996).

Sebbene le diversità nei tempi di l. e nei rapporti di l. non diano luogo a tutele così nettamente distinte come quelle di tipo legale fra lavoratori subordinati, che attendono istruzioni a ogni passo, e lavoratori autonomi, che decidono tutto da sé, e anzi si inseriscono in una ideale continuità fra 'doppio-lavoristi' e disoccupati di lunga durata, si teme che queste novità nel mondo del l. possano minare le solidarietà esistenti. Tempi di l. incostanti e rapporti di l. discontinui, così atipici rispetto a tutta l'epoca industriale, rischiano anche di indebolire le proprietà identificative del l. e, con esse, il suo senso sociale.

Tutela e rappresentanza dei lavoratori

La transizione al postfordismo ha aperto nel mondo del l. un'epoca di 'diversificazione' nei connotati professionali, nelle modalità della prestazione e nei profili sociali. Essa subentra all'epoca della 'uniformazione', che nel Novecento aveva livellato le mansioni e compattato le identità dei 'colletti blu' e 'bianchi', come questa era subentrata all'epoca dell''eterogeneità', che nell'Ottocento aveva amalgamato le figure precarie di un proletariato disparato per posizione e per provenienza. Le tendenze in atto in un l. la cui qualità migliora e la cui tutela peggiora hanno evidentemente caratteri ambivalenti. Dimensioni d'impresa che si riducono, per es., possono rendere meno gerarchizzata ma meno protetta la posizione della manodopera, così come possono renderla meno protetta ma meno conflittuale. Il superamento del taylorismo-fordismo renderà in ogni caso superate le norme mediante le quali il mondo del l. era stato tutelato, le organizzazioni che lo avevano rappresentato, le immagini stesse con cui era stato descritto. Il l. viene riplasmato rispetto all'epoca in cui il destino dei più, talvolta la loro aspirazione, era quello di svolgere lo stesso l. a tempo pieno e per tutta la vita, e in cui vi erano categorie sindacalizzate con milioni di iscritti, stabilimenti industriali con 50.000 addetti e assunzioni a blocchi di 500 o 1000 unità. Quella cultura del l. va dispersa e il l. stesso diventa sfuggente, tanto più che in Europa il pieno impiego sembra un ricordo del passato. Le difficoltà di trovare il l. o il lavoratore desiderato derivano anche da ciò, e non soltanto dalla disoccupazione: l'incontro fra la domanda e l'offerta infatti si complica anche là dove il l. non manca.

Il l. diventa man mano più fluido e i rapporti di l. più volatili, i giovani sono spinti a introiettare una cultura del l. intimamente flessibile, anche per il fatto che l'allocazione dei mestieri avviene sempre meno su base cetuale: rispetto all'epoca in cui i giovani erano indirizzati verso il mestiere del padre o della madre, sbocchi e tragitti professionali sono meno predestinati socialmente, anche se le condizioni di nascita continuano a pesare. Tutto ciò costituisce un'opportunità ma presenta anche alcuni problemi: i giovani infatti possono, e al tempo stesso devono, scegliere il loro lavoro futuro, pur non sapendo quali siano esattamente le loro aspirazioni e quale strada sia meglio intraprendere. I nuovi contenuti del l. e i nuovi rapporti di l. ampliano la gamma delle opzioni ma rendono più difficili le scelte, così che le esperienze di l. individuali saranno segnate, per es., più dal numero dei passaggi effettuati che dal tipo di professione acquisita (Accornero 1994).

La transizione in atto alla fine del Novecento sta suscitando effetti ambivalenti anche sugli strumenti e sulle forme della tutela e della rappresentanza, a cominciare dai sindacati: lo si constata nelle comuni difficoltà generali, come nelle ben diverse condizioni nazionali, difficili soprattutto in Francia, negli Stati Uniti e nel Regno Unito. I sindacati pagano il fatto che una parte crescente di lavoratori ha meno bisogno di loro, mentre non riescono ad avere contatti con chi ne ha molto di più; di conseguenza, chi non ha ancora trovato il primo l. o lo ha perduto non li sente vicini a sé, se non addirittura lontani. I sindacati, quindi, devono fare sforzi sempre maggiori per rappresentare e tutelare la parte di mondo del l. che li ha resi forti, ma che si sta restringendo. Fra i l. atipici, alcuni hanno maggiore, altri minore, bisogno di protezione: il collaboratore della mini-impresa di servizio e l'autonomo con rapporti di consulenza saltuari aspirano a forme di tutela e di rappresentanza fra loro diverse, e diverse anche da quelle del l. subordinato tradizionale sul quale nel Novecento si è modellato il diritto del l.; ciò vale anche per numerosi l. di cura e di servizi alla persona, per es. nel campo del volontariato, che reclamano attenzione pur non essendo facili da omologare, neppure a quelli atipici.

Molte difficoltà delle organizzazioni sindacali (Accornero 1997), così come dei sistemi di welfare state, derivano appunto da questa diversificazione in atto nel mondo del l., visto che il modello produttivo taylorista-fordista e il modello sociale keynesiano erano intrinseci l'uno all'altro nel dare garanzie alla condizione lavorativa e alla condizione civile. Da qui prendono avvio in Europa le riflessioni su sistemi di regolazione che sostituiscano la tutela 'dalla culla alla tomba', estendendo nuovi diritti di cittadinanza a chiunque presti l., ma a costi inferiori, con uno scambio fra principi universalistici e intese articolate tale da fornire garanzie minime a tutti e trattamenti negoziati ai gruppi di volta in volta individuati. Tutela e rappresentanza del l. dovrebbero iniziare dal mercato del l., cioè prima che il lavoratore trovi l'impiego, perché è lì che si decidono molto più di ieri le sue condizioni e il suo trattamento: del resto, i sindacati erano sorti a tal fine.

bibliografia

T. Veblen, The theory of business enterprise, New York 1904 (trad. it. Milano 1970).

R. Blauner, Alienation and freedom. The factory worker and his industry, Chicago 1964 (trad. it. Milano 1971).

M. Meissner, Technology and the worker. Technical demands and social processes in industry, San Francisco 1969.

T. Ono, Toyota seisan hoshiki, Tokyo 1978 (trad. it. Lo spirito Toyota, Torino 1993).

A. Pichierri, Introduzione alla sociologia industriale, Torino 1979.

The degradation of work? Skill, deskilling, and the labour process, ed. S. Wood, London 1982.

L. Hirschhorn, Beyond mechanisation. Work and technology in a postindustrial age, Cambridge (Mass.) 1984.

H. Kern, M. Schumann, Das Ende der Arbeitsteilung? Rationalisierung in der industrielle Produktion, München 1984 (trad. it. Torino 1991).

M.J. Piore, Ch.F. Sabel, The second industrial divide. Possibilities for prosperity, New York 1984 (trad. it. Le due vie dello sviluppo industriale. Produzione di massa e produzione flessibile, Torino 1987).

Il luogo del lavoro. Dalla manualità al comando a distanza, a cura di A. Castellano, R. Sommariva, Milano 1986.

M. Merlini, Nuove professioni. Il futuro nel presente, Roma 1986.

L. Gallino, Neo-industria e lavoro allo stato fluido, in Impresa e lavoro in trasformazione. Italia-Europa, a cura di P. Ceri, Bologna 1988.

S. Zuboff, In the age of the smart machine. The future of work and power, New York 1988.

A.M. Chiesi, Sincronismi sociali. L'organizzazione temporale della società come problema sistemico e negoziale, Bologna 1989.

F. Butera, Il castello e la rete. Impresa, organizzazioni e professioni nell'Europa degli anni '90, Milano 1990.

A.D. Chandler, Scale and scope. The dynamics of industrial capitalism, Cambridge (Mass.) 1990 (trad. it. Dimensione e diversificazione. Le dinamiche del capitalismo industriale, Bologna 1994).

J.P. Womack, D.T. Jones, D. Roos, The machine that changed the world, London 1990 (trad. it. Milano 1991).

W.H. Davidow, M.S. Malone, The virtual corporation. Structuring and revitalizing the corporation for the 21st century, New York 1992.

Il nuovo macchinismo. Lavoro e qualità totale. I casi Fiat, Zanussi e Italtel, a cura di V. Parlato et al., Roma 1992.

G. de Terssac, Autonomie dans le travail, Paris 1992 (trad. it. Come cambia il lavoro. Efficacia, autonomia, valorizzazione delle competenze, Milano 1993).

G. Bonazzi, Il tubo di cristallo. Modello giapponese e fabbrica integrata alla Fiat Auto, Bologna 1993.

G. Ritzer, The McDonaldization of society. An investigation into the changing character of contemporary social life, Newbury Park (Calif.) 1993 (trad. it. Il mondo alla McDonald's, Bologna 1997).

A. Accornero, Il mondo della produzione, Bologna 1994.

Times are changing. Working time in 14 industrialized countries, ed. G. Bosch, P. Dawkings, F. Michon, Geneva (N.Y.) 1994.

R. Dahrendorf, Quadrare il cerchio. Benessere economico, coesione sociale e libertà politica, Roma-Bari 1995.

D.I. Levine, Reinventing the workplace. How business and employees can both win, Washington 1995.

The new modern times. Factors shaping the world of work, ed. D.B. Bills, Albany (N.Y.) 1995.

D.F. Noble, Progress without people. New technology, unemployment, and the message of resistance, Toronto 1995.

Changing forms of employment. Organisations, skills, and gender, ed. R. Crompton, D. Gallie, K. Purcell, London-New York 1996.

H.J. Holzer, What employers want. Job prospects for less-educated workers, New York 1996.

W. Streeck, L'impresa come luogo di formazione e apprendimento, in La formazione delle risorse umane. Una sfida per le "regioni-motore" d'Europa, a cura di M. Regini, Bologna 1996.

J.P. Womack, D.T. Jones, Lean thinking. Banish waste and create wealth in your corporation, New York 1996.

A. Accornero, Era il secolo del Lavoro, Bologna 1997.

Change at work, ed. P. Cappelli, New York 1997.

EPOC Research Group, New forms of work organization. Can Europe realize its potential?, Dublin 1997.

Japanese labour and management in transition, ed. M. Sako, H. Sato, London 1997.

G. Koretz, Job mobility, American-style, in Business week, January 27, 1997.

Le fabbriche del Novecento, in Casabella, 1997-98, 651-652, nr. speciale.

M. Revelli, La sinistra sociale. Oltre la civiltà del lavoro, Torino 1997.

F. Butera, E. Donati, R. Cesaria, I lavoratori della conoscenza, Milano 1998.

Lavoro minorile

di Francesco Mattioli

Numerose organizzazioni internazionali, tra cui l'UNICEF e l'Organizzazione internazionale del lavoro (ILO, International Labour Organization), sono attualmente impegnate nel tentativo di stroncare la piaga dello sfruttamento minorile. La Convenzione sui diritti dell'infanzia, entrata in vigore nel 1990, afferma all'art. 32 che "gli stati membri riconoscono il diritto del bambino a essere protetto dallo sfruttamento economico e da qualsiasi lavoro che possa risultare rischioso, o interferire con la sua istruzione, oppure rivelarsi dannoso per la sua salute o per il suo sviluppo fisico, mentale, spirituale, morale e sociale".

Le indagini condotte con il patrocinio dell'International Working Group on Child Labour hanno accertato che non meno di 200÷250 milioni di infraquindicenni lavorano spesso in condizioni ai limiti della sopravvivenza fisica. Il fenomeno, per quanto assai diffuso in Africa, in Asia e in America Latina (le stime parlano di 44 milioni di piccoli lavoratori in India, 12 in Nigeria, 8 in Pakistan, 7 in Brasile), è nondimeno presente e consistente anche nelle società cosiddette sviluppate. Le principali cause sono certamente da ricercarsi nell'arretratezza socioeconomica di molti paesi del Terzo Mondo; tuttavia anche altrove, per motivi congiunturali, o con il sostegno di alcuni principi su cui si fondano la cultura e i valori di una popolazione, si può riscontrare una certa diffusione del l. minorile: per es., in Russia, a causa della crisi economica e sociale sopravvenuta alla fine del regime sovietico, ma anche negli Stati Uniti, dove le violazioni delle leggi sul l. minorile sono quasi triplicate negli anni Novanta del Novecento. Questo dato va posto in relazione soprattutto con la massiccia ripresa, a fine Novecento, dell'immigrazione clandestina.

In Italia, il l. minorile non può essere considerato un problema marginale. Indicative dell'esistenza di una solida tradizione di studi e di analisi sociali rigorosi e pienamente consapevoli dell'oggettiva rilevanza del fenomeno sono le varie inchieste portate avanti nella seconda metà dell'Ottocento. Già da allora, infatti, si era manifestata l'attenzione verso il l. minorile con l'inchiesta agraria condotta da S. Jacini (1877-84), l'inchiesta parlamentare sulle condizioni sociali ed economiche della Sicilia (1875) e l'inchiesta in Sicilia di L. Franchetti e S. Sonnino, che descriveva la drammatica realtà del l. dei fanciulli nelle zolfare siciliane (1876). Segnali chiari, provenienti dalla ricerca sul campo, hanno indicato nei decenni seguenti, e ancora oggi indicano, il persistere del fenomeno e un processo di trasformazione dei caratteri che lo contraddistinguono. Da un punto di vista normativo la materia è disciplinata in Italia dalla l. 17 ott. 1967 nr. 977, che è stata oggetto di rilevanti modifiche solo a seguito del d. legisl. 4 ag. 1999 nr. 345, con il quale è stata data attuazione alla direttiva 94/33/CE relativa alla protezione dei giovani sul lavoro.

Nella sua nuova formulazione del 1999 l'art. 1 della l. nr. 977 del 1967 stabilisce che tale legge si applica ai minori di diciotto anni che hanno un contratto o un rapporto di l., anche speciale, disciplinato dalle norme vigenti e, abbandonando il termine fanciullo, definisce bambino il minore che non ha ancora compiuto i 15 anni di età o che è ancora soggetto all'obbligo scolastico, e adolescente il minore di età compresa tra i 15 e i 18 anni e che non è più soggetto all'obbligo scolastico. L'età minima per l'ammissione al l. è stata fissata al momento in cui il minore ha compiuto il periodo di istruzione obbligatoria e comunque non può essere inferiore ai 15 anni compiuti; non è più consentita la deroga per il l. in agricoltura e nei servizi familiari e per i l. leggeri nelle attività non industriali prevista dalla normativa preesistente. È pertanto vietato adibire al l. i bambini, con la sola eccezione dell'ipotesi dell'impiego dei minori - autorizzato dalla Direzione provinciale del l., previo assenso scritto dei titolari della potestà genitoriale - in attività lavorative di carattere culturale, artistico, sportivo o pubblicitario e nel settore dello spettacolo, purché si tratti di attività che non pregiudichino la sicurezza, l'integrità psicofisica e lo sviluppo del minore, la frequenza scolastica o la partecipazione a programmi di orientamento o di formazione professionale. Le lavorazioni, i processi e i l. ai quali è vietato adibire gli adolescenti sono specificamente indicati in una tabella allegata alla legge, per la quale è previsto un progressivo adeguamento al progresso tecnico e all'evoluzione della normativa comunitaria da attuarsi con decreto del ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, di concerto con il ministro della Sanità. Il datore di lavoro è comunque tenuto, prima di adibire i minori al l. e in ogni caso di modifica rilevante delle condizioni di l., a effettuare una valutazione dei rischi secondo la previsione dell'art. 4 d. legisl. 19 sett. 1994 nr. 926: tra gli elementi da analizzare al riguardo sono indicati lo sviluppo non ancora completo, la mancanza di esperienza e di consapevolezza nei confronti dei rischi lavorativi, esistenti e possibili, in relazione all'età, la situazione della formazione e dell'informazione dei minori. Innovazioni sono state introdotte anche in materia di visita medica preventiva e periodica (art. 8), di limiti alle deroghe al divieto di lavoro notturno (art. 17) e di riposo settimanale (art. 22). In particolare ai minori dev'essere, in linea di principio, assicurato un periodo di riposo settimanale di almeno due giorni, se possibile consecutivi, e comprendente la domenica: tale periodo può essere ridotto solo per comprovate ragioni di ordine tecnico e organizzativo, ma non può essere comunque inferiore a 36 ore consecutive; una sua interruzione è consentita solo per attività caratterizzate da periodi di lavoro frazionati o di breve durata nella giornata.

L'attuale legislazione sul l. minorile chiude un ciclo lungo e travagliato, iniziato agli albori della società industriale. Nell'età contadino-artigianale l'impiego di bambini in attività lavorative non aveva mai destato impressione, giacché avveniva principalmente tra le mura domestiche e costituiva l'ordinaria procedura di integrazione nella società adulta. Tuttavia, con l'avvento della società industriale e la proliferazione degli stabilimenti produttivi, si rese necessario assorbire enormi quantitativi di manodopera; così accanto alla forza-lavoro maschile, generalmente più specializzata, venne massicciamente reclutata quella a buon mercato, rappresentata da donne e fanciulli, più adattabile alle attività standardizzate della produzione industriale, che non richiedevano particolari abilità. Lo sviluppo dell'industria determinò una fortissima mobilità territoriale dalla campagna ai centri urbani industriali, che indusse migliaia di persone ad ammassarsi nelle baraccopoli e nei ghetti delle periferie metropolitane, in situazioni igieniche e di promiscuità spesso insostenibili. Ma le condizioni di l. in fabbrica erano anche peggiori: l'orario - senza tutela, senza assistenza e spesso senza interruzioni di sorta - si protraeva infatti fino a 16÷18 ore al giorno. All'inizio dell'Ottocento, nelle filande italiane il 90% della manodopera era femminile, un terzo rappresentata da bambine di età inferiore ai 14 anni; negli anni successivi, anche l'industria chimica e quella meccanica assorbirono un gran numero di bambini, anche di 7÷8 anni. Un altro settore in cui i fanciulli venivano largamente impiegati era quello estrattivo minerario, spesso per utilizzare al meglio la loro piccola statura; in Italia, per es., furono utilizzati nei giacimenti siciliani di zolfo.

Questa situazione era ampiamente diffusa in tutti i paesi industrializzati, in Europa e negli Stati Uniti; K. Marx riporta, nelle pagine de Il Capitale, alcune testimonianze sulle condizioni di l. ricorrenti nelle fabbriche inglesi: "i vasai costituiscono una popolazione degenerata fisicamente e moralmente [...] sono piccoli, mal cresciuti, spesso deformi"; o americane: "alle due [...] del mattino fanciulli di 9 o 10 anni vengono strappati ai loro sporchi letti e costretti a lavorare fino alle undici, dodici di notte".

Ben presto l'opinione pubblica venne a conoscenza di queste terribili condizioni e si svilupparono i primi indirizzi di politica sociale volti a limitare il fenomeno. Nei primi decenni dell'Ottocento l'Inghilterra si dotò di una legislazione che fissava a 9 anni il limite d'età per l'impiego di fanciulli nell'industria tessile; seguirono altri provvedimenti (relativi all'orario settimanale, alla tutela della salute, ad alcuni comparti produttivi più pericolosi e alla scolarizzazione) che resero il quadro complessivo del fenomeno meno pesante già intorno al 1870. Anche in Francia, in Prussia e negli Stati Uniti, verso la metà del sec. 19° furono varati provvedimenti a favore del l. delle donne e dei fanciulli, con specifico riguardo al limite d'età, all'orario di l. e ad alcuni impieghi particolarmente pesanti, come quelli in miniera.

In Italia, i primi interventi si ebbero con il governo austriaco nel Regno Lombardo-Veneto (1844) e con il Regno Sardo (1859). Con l'unificazione nazionale il problema divenne particolarmente cogente, soprattutto a causa delle resistenze manifestate dagli imprenditori i quali, impegnati a rendere competitiva la nuova industria italiana sui mercati internazionali, non volevano rinunciare a una manodopera sfruttabile a buon mercato, quale era quella costituita da donne e fanciulli. Nel 1869 il ministro Minghetti dispose un'inchiesta governativa sul l. delle donne e dei fanciulli, cui seguirono vari tentativi di introdurre nuovi provvedimenti legislativi, come quello del 1876 che si occupava in particolar modo dell'orario di l. e del l. in miniera; tali tentativi furono contrastati dagli industriali. Solo con la l. 11 febbr. 1886 nr. 3657 si giunse a un primo provvedimento legislativo globale che fissava il limite d'età a 9 anni, e a 10 per il l. nelle cave e nelle miniere; il provvedimento stabiliva inoltre che tra i 9 e i 14 anni i ragazzi potevano lavorare solo previo accertamento delle condizioni di salute, e fra i 9 e i 12 non dovevano essere impiegati in luoghi insalubri e pericolosi. La legge veniva facilmente aggirata dalla collusione tra imprenditori e medici compiacenti; ciò portò a nuove battaglie da parte di politici progressisti e associazioni sindacali, stimolate dalle risoluzioni emerse alla Conferenza internazionale di Berlino del 1890, che aveva chiesto agli Stati industriali di legiferare con maggiore fermezza a tutela del l. minorile. In seguito, la l. 19 giugno 1902 nr. 242 fissò il limite d'età a 12 anni, in accordo con quello disposto per l'obbligo scolastico, e affrontò altri aspetti legati all'orario e alle condizioni di lavoro. Ancora una volta, insorsero gli industriali e le Camere di commercio, così che il testo unico emanato nel 1907, approvato con r.d. 10 nov. 1907 nr. 818, rese più blandi gli effetti della legge, venendo nuovamente incontro alle esigenze degli imprenditori; in conseguenza di ciò, nello stesso periodo, varie inchieste accertarono l'impiego di circa 400.000 fanciulli nella sola industria, in condizioni di forte disagio e di alto rischio. Lo sforzo bellico immediatamente successivo, che condusse dalla guerra di Libia al primo conflitto mondiale, rese allo stesso tempo più impellente lo sfruttamento intensivo di donne e fanciulli, che dovevano rimpiazzare gli uomini impegnati al fronte, e molto meno incisivi i controlli. Negli anni Venti furono presi alcuni nuovi provvedimenti: tuttavia solo nel 1934 venne promulgata una nuova legge, recependo sia le indicazioni e i solleciti della Conferenza del Bureau international du travail, tenutasi a Washington nel 1923, sia quelli che l'Organizzazione internazionale del lavoro aveva fissato con la Convenzione internazionale nr. 33 del 1932.

La l. 26 apr. 1934 nr. 653 - che si occupa anche del l. femminile - portò il limite d'età a 15 anni, ma con numerose eccezioni, riguardanti i l. domestici e agricoli. Inoltre fu previsto che con una semplice certificazione dell'ispettore scolastico fosse possibile esentare dall'obbligo agli studi i fanciulli ritenuti a essi inadatti, consegnandoli di fatto allo sfruttamento industriale. Nel 1952 una Commissione parlamentare d'inchiesta poté accertare che la ricostruzione industriale del paese gravava anche sulle spalle dei bambini, visto che il 7% della forza-lavoro risultava rappresentata da fanciulli tra i 10 e i 13 anni. Valutazioni successive, per es. quella dell'ISTAT nel 1961, stimavano in circa 200.000 i bambini tra i 10 e i 15 anni impiegati in attività lavorative illegali. Questi dati, accanto alla ratifica da parte dell'Italia della Convenzione nr. 60 dell'Organizzazione internazionale del lavoro nel 1952, determinarono un progressivo irrigidimento della legislazione; si giunse poi alla l. 20 nov. 1961 nr. 1325, che concedeva l'abbassamento del limite d'età a 13 anni soltanto se l'impegno lavorativo non pregiudicava l'assiduità scolastica. Tuttavia, con l'introduzione dell'obbligo scolastico fino ai 14 anni e con le ulteriori istanze provenienti da ambienti e organismi sociali nazionali e internazionali, fu sempre più impellente la necessità di definire un nuovo provvedimento legislativo ispirato ai valori della democrazia repubblicana e aderente ai principi delle organizzazioni internazionali; si giunge così all'attuale legislazione, imperniata sulla legge nr. 977 del 1967, la prima esclusivamente dedicata al l. minorile.

Questo lungo cammino legislativo restituisce un'immagine del l. minorile fortemente legata alle condizioni di degrado sociale ed economico delle zone più arretrate del paese. Così per molto tempo si è ritenuto di poter stabilire un'equazione tra l. minorile, povertà e bisogno, individuando nell'evasione scolastica il principale effetto della diffusione del fenomeno in tali aree. Questa lettura del l. minorile ha caratterizzato gran parte delle analisi e dei modelli interpretativi del fenomeno, fino a tutti gli anni Sessanta.

Era, peraltro, particolarmente diffusa nel Meridione la presenza di minori abbandonati a se stessi, esclusi dai processi formativi essenziali e impegnati a vivere di espedienti nel microcosmo dell'underground metropolitano. Le armi per combattere lo sfruttamento e l'abbandono dei minori vennero, quindi, individuate nello sviluppo economico, in particolare nell'innalzamento dei livelli di qualità della vita nei ghetti urbani e suburbani e nel perfezionamento dei controlli sull'evasione scolastica.

Con questi provvedimenti si riteneva che il fenomeno fosse destinato a ridursi, come avveniva nella maggior parte degli altri paesi industrializzati. Tuttavia, proprio a partire dagli anni Sessanta, alcuni segnali cominciarono a fornire indicazioni differenti e contraddittorie. Per es., nel 1960 la Relazione annuale sull'attività dell'Ispettorato del lavoro, curata dal Ministero del Lavoro e della Previdenza sociale, rilevò un cospicuo impiego di fanciulli nelle industrie settentrionali, seppure con mansioni leggere e non impegnative. Successivamente, nel 1967, fu pubblicato un Libro bianco, a cura della Gioventù aclista, che non soltanto confermò l'estensione del l. minorile, ma iniziò a gettare qualche dubbio sulla convinzione diffusa che il fenomeno riguardasse unicamente le famiglie bisognose. Di fatto in quegli anni il l. minorile non soltanto si mantenne a livelli elevati, ma si andò addirittura espandendo. Utilizzando metodologie diverse, il Ministero del Lavoro stimò il fenomeno in circa 240.000 casi nel 1971, mentre il CENSIS (Centro Studi Investimenti Sociali) giunse a una cifra oscillante tra i 250.000 e i 300.000 casi. Intorno al 1976 un'indagine circoscritta alla Lombardia offrì indicazioni sconcertanti: almeno nel periodo delle vacanze estive, la percentuale dei fanciulli tra i 10 e i 15 anni impiegati in attività lavorative raggiunse punte del 60% in provincia di Sondrio, del 40% a Bergamo e del 36% a Brescia.

Tra la fine degli anni Settanta e i primi anni Ottanta nuove stime fecero apparire il fenomeno ancora più diffuso: nel 1979 L. Frey ha valutato a circa 430.000 il numero dei fanciulli che lavoravano fuori dalla legge, mentre nel 1985 il CENSIS ha stimato che 540.000 bambini fossero impiegati assiduamente in attività lavorative, valutazione confermata dal primo Rapporto sulla condizione dei minori in Italia curato dal Consiglio nazionale dei minori e dal CESPES (Centro Europeo Studi Politici Economici e Sociali), che ha azzardato addirittura la cifra di 600.000 unità. Ulteriori stime di fonte sindacale, per es. quelle calcolate dalla CGIL nel 1997, confermano che almeno 300.000 bambini sono interessati dal l. minorile nell'Italia che si accinge a tagliare il traguardo del secondo millennio. Sono dati allarmanti, che segnalano la forte diffusione del l. minorile, nonostante lo sviluppo economico del paese e il suo passaggio a una economia prevalentemente postindustriale che lo ha inserito tra le prime potenze produttive del mondo. Se la descrizione del l. minorile restasse legata al modello tradizionale, l'espansione del fenomeno, così come viene rilevata concordemente dalle stime di istituti di ricerca diversi, apparirebbe effettivamente incomprensibile. Ma è proprio l'indagine sul campo a gettare una luce diversa sul l. minorile, cogliendo i segni di una profonda trasformazione coerente con lo sviluppo del paese in senso postindustriale.

Tra il 1980 e il 1984 sono stati pubblicati i dati relativi alle indagini patrocinate dal Ministero degli Interni in occasione dell'Anno internazionale del bambino e affidate agli istituti di ricerca delle organizzazioni sindacali. L'indagine svolta dal Centro ricerche economia lavoro della UIL (CREL-UIL) in Puglia e nel Lazio fornì i primi indizi sull'esistenza di un l. minorile non legato al bisogno, ma che si veniva a configurare come investimento precoce nel mercato del l.; esso, infatti, coinvolgeva anche fanciulli della classe media, in particolare figli di lavoratori autonomi. L'Istituto di ricerche economiche e sociali della CGIL (IRES-CGIL) studiò il fenomeno in Lombardia e nelle Marche: soprattutto in questa regione, caratterizzata dalla diffusione di piccole imprese a carattere semifamiliare e da un'economia in costante espansione, si era potuto rilevare una consistente presenza del l. minorile. Molti bambini svolgevano attività lavorative più o meno continuate nelle aziende manifatturiere, con il consenso della famiglia, e senza dar luogo a evasione scolastica. Il Centro ricerche economiche e sociali della CISL (CERES-CISL) condusse le sue ricerche nel Salernitano e in Sicilia, riscontrando, accanto alle più tradizionali forme di l. minorile legato al degrado socioeconomico e urbano di quelle aree, casi riguardanti il ceto medio imprenditoriale e impiegatizio.

Gli anni Ottanta, quindi, videro il proliferare di approfondite ricerche sul fenomeno, che hanno arricchito di contenuti le stime elaborate a livello statistico-demografico. In particolare, vanno ricordate le testimonianze raccolte da A. Baglivo in varie zone d'Italia, le ripetute indagini di G. Petrillo e C. Serino nel Napoletano, che portano alla conclusione - proprio laddove sarebbe lecito attendersi una casistica di tipo tradizionale - che il l. minorile non è affatto un'espressione di sottosviluppo o una sopravvivenza di modi di produzione paleoindustriali, ma appare funzionale ai processi di ristrutturazione del mercato del l. in una società industriale avanzata.

Conferme sull'evoluzione in atto giungono da altre indagini svolte in Toscana, alla fine degli anni Ottanta, e soprattutto dalla ricerca condotta da R. Fontana a Roma, nel 1993: anche in questi casi, si può riscontrare come il l. minorile stia cambiando motivazioni e condizioni e, soprattutto, come stia interessando, seppur in misura diversa, tutte le classi sociali. Nel 1996 vengono pubblicati i dati di una ricerca condotta da F. Mattioli nel Lazio e nell'Umbria, volta non già a misurare l'entità del fenomeno, ma a verificare l'esistenza di forme inedite di l. minorile nell'Italia postindustriale di fine millennio.

Va ricordato a questo proposito quali siano i tratti caratteristici più evidenti della società industriale avanzata, postindustriale, neoindustriale o postmoderna, come è stata variamente definita. Quale che sia la terminologia adottata, gli studiosi concordano nel descrivere una società che non è più caratterizzata dal tradizionale conflitto tra detentori dei mezzi di produzione e proletariato, e che ha visto l'industria perdere la sua centralità economica e politica a favore del settore terziario, mentre la stratificazione sociale si è fatta più articolata e complessa, pur incentrandosi su un ceto medio in rapida espansione. Il superamento della contrapposizione ideologica tra classe operaia e capitalismo, seguito alla cosiddetta fine delle ideologie e all'internazionalizzazione dei mercati, sembra fare emergere uno scenario complesso in cui diversi attori sociali, portatori di specifici interessi, cominciano a entrare in conflitto fra loro, modificando continuamente le alleanze, le aggregazioni e gli obiettivi. Inoltre il sistema dei mezzi di comunicazione di massa, e quindi il processo di costruzione simbolica della realtà, ha assunto un'importanza strategica svincolandosi dalla pesante tutela del potere industriale; anzi, in molti casi il potere si è andato identificando con il controllo dei sistemi di comunicazione. Il fenomeno ha coinvolto l'Italia verso la metà degli anni Settanta, quando la forza-lavoro occupata nel terziario ha segnato il sorpasso rispetto a quella occupata nell'industria.

La maggior parte delle indagini recenti sono concordi nel rilevare alcuni punti fondamentali. I l. in cui sono impiegati i minori appartengono prevalentemente al terziario (commessi, garzoni, camerieri), ma sono numerosi anche i piccoli meccanici, artigiani, operai; in campagna l'impiego nei l. agricoli e nella pastorizia avviene normalmente già a 8÷9 anni. In genere, l'offerta di l. proviene dalla famiglia stessa, o da parenti e amici; così il carattere illegale dell'attività viene facilmente occultato dal clima di complicità e di solidarietà che si instaura nel gruppo primario. La retribuzione non costituisce un aspetto fondamentale, soprattutto se il l. resta in famiglia; in questo caso, infatti, la collaborazione del ragazzo decongestiona di per sé i problemi dell'economia familiare. La paga, comunque, appare saltuaria e sottodimensionata rispetto ai parametri ordinari. D'altronde, è anche vero che - rispetto agli altri coetanei - i fanciulli che lavorano mostrano minore fiducia nella scuola, e le assegnano funzioni più propriamente strumentali che culturali; così l'importanza del rendimento scolastico ne esce molto ridimensionata. È chiaro che i piccoli lavoratori subiscono fortemente l'influenza dei valori familiari, anteponendo la cultura del l. a quella della scuola, coerentemente con quanto avviene nelle famiglie in cui il l. appare più importante e concreto dell'esperienza formativa. Non a caso, essi presentano livelli più bassi di achievement riguardo alla carriera scolastica, mentre dimostrano di avere le idee piuttosto chiare riguardo alle strategie e alle prospettive da coltivare nei confronti del mercato del lavoro.

Di certo, nessuno di questi piccoli 'faccendieri', che con varie strategie cercano di garantirsi un proprio spazio vitale nelle maglie della società postindustriale, si sente sfruttato e depredato dei suoi diritti di fanciullo, né ha mai sentito parlare dell'art. 32 della Convenzione sui diritti dell'infanzia, o di Iqbal Masih, il bambino pakistano dodicenne che, essendosi ribellato alle condizioni di sfruttamento in cui versava con tanti suoi coetanei, fu ucciso in un agguato il 16 apr. 1995 e, per questo, è assurto a simbolo della lotta contro il l. minorile nel mondo; per loro il l. minorile non si configura infatti come sfruttamento ma come una buona occasione per sentirsi più liberi, più adulti e più tutelati per il futuro. Ma sull'argomento la riflessione di studiosi e operatori sociali non potrà che dividersi tra considerazioni contrastanti: da un lato, si tende a ribadire l'allarme per un fenomeno che minaccia il diritto dell'infanzia a godere di un'equilibrata crescita psichica, fisica e sociale e, dall'altro, non si può non riconoscere come il l. minorile nella società attuale acquisti caratteri peculiari, che si iscrivono, con una certa coerenza, nelle linee di sviluppo della società e del mercato, e meriti di essere analizzato e affrontato con la volontà di comprendere gli elementi di novità del fenomeno. Va infine sottolineato che in Italia si sta sviluppando un ulteriore fenomeno: l'importazione, da parte di immigrati provenienti dal Terzo Mondo, di forme arcaiche di l. minorile, caratterizzate da sfruttamento, violenza, marginalizzazione. Bambini cinesi, albanesi, magrebini e nomadi sono costretti a l. pesanti sotto minaccia per loro e per i genitori. Si tratta tuttavia di eccezioni che riguardano modelli socioculturali di origine paleo o preindustriale, in un contesto economico e sociale diverso e orientato verso obiettivi differenti. In ogni caso, la convivenza di forme di l. minorile tanto divergenti conferma la complessità del fenomeno e la problematicità di alcuni trend demografici che stanno caratterizzando il nostro paese.

bibliografia

D. Bertoni Jovine, L'alienazione nell'infanzia. Il lavoro minorile nella società moderna, Roma 1963, Firenze 1989².

Gioventù aclista, Libro bianco sul lavoro minorile, Roma 1967.

A. Baglivo, Il mercato dei bambini, Milano 1980.

Conferenza nazionale dell'infanzia, Conferenza nazionale dell'infanzia: Roma 13-15 marzo 1980, 7° vol., Il lavoro minorile, Roma 1980.

L. Frey, Il lavoro minorile in Italia, in Economia e lavoro, 1980, 1-2.

G. Petrillo, C. Serino, Bambini che lavorano, Milano 1983.

Consiglio nazionale dei minori-CESPES, Secondo rapporto sulla condizione dei minori in Italia, Milano 1989.

R. Fontana, Il lavoro vietato, Roma 1995.

F. Mattioli, Iqbal Masih non era italiano. Percorsi e strategie del lavoro infantile nell'Italia postindustriale, Roma 1996.

P. Arlacchi, Schiavi, Milano 1999.

V. Consolo, Di qua dal faro, Milano 1999.

CATEGORIE
TAG

Organizzazione internazionale del lavoro

Mezzi di comunicazione di massa

Trattamento di fine rapporto

Cassa integrazione guadagni

Unione monetaria europea