Lavoro e culture sindacali nel Veneto

L'Italia e le sue Regioni (2015)

Lavoro e culture sindacali nel Veneto

Alessandro Casellato
Gilda Zazzara

Lo straordinario Veneto sindacale

Quando, nel 1984, Giorgio Roverato scrisse del Veneto come della terza regione industriale del Paese sin dal 1911 – per numero di imprese, forza motrice e addetti – a molti poté sembrare una scoperta illuminante (Roverato, in Storia d’Italia, 1984). L’immagine di ‘Mezzogiorno del Nord’ crollava in quegli anni sotto i colpi della discussione sul modello veneto di sviluppo come alternativa storica alla crisi del fordismo. I riflettori si spostavano dal polo di Porto Marghera alla campagna industrializzata, dall’‘operaio-massa’ all’‘operaio-territorio’, capovolgendo il segno dell’interpretazione dualista dell’economia regionale.

Delle ricadute sul sindacalismo regionale di questo mutamento di paradigma – dalla marginalità al laboratorio – manca una ricostruzione, e il Veneto è quasi completamente assente dalla ‘grande storia’ del movimento operaio nell’età repubblicana. Su ciò ha influito senza dubbio la più generale congiuntura culturale degli anni Ottanta, che ha visto una ‘ghettizzazione’ della storia operaia proprio quando studi e inchieste di taglio economico e sociologico mettevano in discussione la lettura del Veneto in chiave di perenne ritardo e ostinato sottosviluppo (Anastasia, Rullani 1982; Società e politica nelle aree di piccola impresa, 1984; Operai e scelte politiche, 1986). La critica alla visione ‘miserabilista’ del capitalismo era stata l’obiettivo della storiografia militante dell’ingraiano Cesco Chinello, ma era rimasta chiusa nei confini della grande fabbrica fordista di Porto Marghera (Chinello 1996).

Questa sfasatura – quando il Veneto mostrava in pieno il suo volto originalmente industriale, gli operai e il sindacato tramontavano nell’interesse degli storici – ha contribuito al perpetuarsi di rappresentazioni anacronistiche e inadeguate. L’idea di un’area di monopolio sindacale, in virtù di una ferrea omologia tra consenso cislino e sistema politico democristiano, e di totale impermeabilità degli strati popolari alla cultura socialista si è riverberata sull’immagine di una classe operaia lacerata tra subalternità e ribellismo. Gli stereotipi di una granitica adesione al paternalismo ottocentesco (distillato nella triade costituita dagli imprenditori vicentini Alessandro Rossi, Gaetano Marzotto e Pietro Làverda) e di una ‘pia laboriosità’ tipica delle genti venete, negli anni Settanta rinverdita in chiave di etica del lavoro dalla sociologia della ‘Terza Italia’ (A. Bagnasco, Tre Italie. La problematica territoriale dello sviluppo italiano, 1977), hanno potuto così convivere a lungo con l’idea di un «sovversivismo di antica matrice annonaria» (Lanaro, in Storia d’Italia, 1984, p. 23) e di uno spirito ‘vandeano’ pronto a trasformarsi repentinamente in ‘giacobino’ (W. Cocco, La Vandea diventa giacobina: cronaca di un biennio rivoluzionario, «Quaderni del centenario della Camera del lavoro di Vicenza (1902-1992)», 2003, 4, nr. monografico: Valdagno e la Marzotto dal ’68 alle lotte sindacali degli anni Settanta, pp. 19-72).

La storia del movimento operaio veneto del secondo dopoguerra è rimasta dunque imbrigliata tra due narrazioni alternative ma complementari: da una parte, per quanto riguarda la vicenda della CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), quella di un ‘filo rosso’ da riannodare a esordi primonovecenteschi (Sbordone 2007); dall’altra, per la CISL (Confederazione Italiana Sindacato Lavoratori), quella di una ininterrotta e lineare marcia trionfale del sindacato ‘bianco’. Come risultato è stato oscurato il peso di componenti eterodosse sia nei confini della subcultura politica territoriale di matrice cattolica, sia nella più frammentata componente socialista e comunista.

A consolidare queste rappresentazioni hanno concorso, in modi e tempi diversi, i gruppi dirigenti delle stesse organizzazioni sindacali. La CGIL è stata a lungo la principale assertrice del paradigma dell’arretratezza industriale e quindi dell’immaturità sindacale dei lavoratori veneti al di fuori della ‘riserva’ operaia di Porto Marghera. Ancora negli anni Settanta, nella convinzione secondo cui l’economia del Veneto rappresentasse «la brutta copia dello sviluppo complessivo capitalistico del Nord» (Veneto come cambiarlo. L’analisi e la proposta politica del movimento sindacale, articolo non firmato, «Rassegna sindacale», 1976, 353, p. 21), si esprimeva un’ostinata percezione di subalternità al movimento operaio del triangolo industriale.

La tesi di un sindacalismo veneto ‘carente di quadri’ si traduceva nell’importazione dei leader dalle aree considerate più avanzate. Se la CISL veneta, il sindacato meglio organizzato in tutta Italia secondo il suo segretario nazionale Giulio Pastore (1902-1969), ha rivendicato strenuamente la propria capacità di interpretare i bisogni di una classe operaia pragmatica e collaborativa e di esprimere una rappresentanza organica alle comunità locali, tuttavia, alla continuità del suo consenso e alla capacità della CISL di mobilitare imponenti risorse di base non sembra essere corrisposto, per un lungo lasso di tempo, un commisurato riconoscimento sul piano nazionale (Carbognin, in Il sindacato in una regione bianca, 1981).

Le interpretazioni storiografiche e le ideologie sindacali hanno finito per oscurare la ricchezza di esperienze e posizionamenti dei mondi del lavoro rispetto alle loro organizzazioni e la vivacità della dialettica interna alle stesse; la dimensione multiscala dei conflitti e le forme articolate del confronto del movimento operaio con la società politica e le istituzioni; l’eccezionale disponibilità alla mobilitazione di una generazione di attivisti e la loro spontanea vocazione a collegare i problemi del lavoro alle culture locali e alle condizioni di vita che hanno animato lo «straordinario Veneto sindacale» (B. Manghi, Il collante veneto. Note di un lettore curioso, prefazione a O. Bolzon, Vita, lotte, cambiamento in una fabbrica del Veneto, 1981, pp. 7-8).

Attraverso l’organizzazione sindacale gli operai veneti della piccola e grande industria hanno affrontato, a partire dagli anni Cinquanta, un durissimo «conflitto di riconoscimento» (A. Pizzorno, Le radici della politica assoluta e altri saggi, 1993, p. 195) con un ceto imprenditoriale pronto a combattere fino in fondo la sua «lotta di classe dall’alto» (L. Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di P. Borgna, 2012, p. 11), nel corso di una modernizzazione «furibonda», che – come ha scritto un leader cislino – «ha creato un mondo nuovo» (G. Copiello, Manifesto per la metropoli Nordest, 2007, p. 54). Nella ‘pancia’ della fabbrica tradizioni profonde e aspirazioni al cambiamento si sono saldate nella ricerca di una sintesi tra conflitto e partecipazione, universalismo e localismo, diritti collettivi e diritti della persona, facendo maturare tra gli anni Sessanta e Settanta una nuova leva di militanti sindacali di estrazione popolare, «né bianchi né rossi, ma sintesi di entrambi» (L. Bortoloso, Un sistema di vita industriale: i Biancorossi. La storia e le prospettive politiche del sindacato tessili-abbigliamento nella provincia di Vicenza. Borsa di studio in memoria di Luciano Antoniazzi promossa dalla FILTA-CISL, Vicenza, ciclostilato, 1980, p. III).

In questa ricerca sfuggente alle identità rigide sta uno dei tratti più originali dell’apparizione di una classe operaia ‘nuova’, composita e mobile sul mercato del lavoro, completamente autoctona e dai tratti culturali fortemente autonomistici. Una classe operaia che ha vissuto l’appartenenza alle proprie organizzazioni «non come accasamento quieto ma sempre problematico» (G. Zazzara, Tipi da Film. Conversazione con Franco Bentivogli e Gigi Agostini, «Venetica», 2010, 1, nr. monografico: Rivoluzioni di paese, p. 199), coniugando dedizione e pragmatismo, spirito di missione e laicità.

Mondi rurali

Periferie in dissolvenza

La nuova classe operaia protagonista dell’impennata sindacale degli anni Sessanta e Settanta ha le sue radici culturali nelle campagne e le sue premesse strutturali nel processo di trasformazione della società rurale che si intensifica nel dopoguerra. Una ricognizione delle geografie interne al Veneto sarà utile a comprendere i ‘caratteri originali’ delle culture del lavoro e sindacali.

L’ampia fascia di bassa pianura irrigua a nord del Po – comprendente tutta la provincia di Rovigo e la parte meridionale di quelle di Verona, Padova e Venezia – è un’area a prevalenza bracciantile; a fine Ottocento è stata la culla del socialismo padano; nei decenni successivi è attraversata dagli scontri sociali tra il proletariato rurale e i ceti agrari, fino alla Resistenza e alle lotte sindacali del dopoguerra per difendere l’imponibile di manodopera e la ‘meanda’ (percentuale di cereale mietuto da riconoscere al salariato). La meccanizzazione dell’agricoltura e le sconfitte sindacali all’indomani del 1948 condannano il ‘mondo dei braccianti’ a una rapida estinzione (G. Crainz, Padania. Il mondo dei braccianti dall’Ottocento alla fuga dalle campagne, 1994).

La grande alluvione del Po nel novembre del 1951 accelera il processo: colpisce tutta la fascia compresa tra il Po e l’Adige, causando circa 190.000 profughi dal Polesine, pari a oltre la metà della popolazione di quella che era la provincia più ‘rossa’ del Veneto. Di fronte all’emergenza, il governo accentra nelle proprie mani la macchina dei soccorsi, impedendo la mobilitazione dei comitati locali e le iniziative delle camere del lavoro e delle associazioni nazionali di sinistra (A. Vallin, Polesine 1951. Una storia negata. La CGIL e la Camera del lavoro di Rovigo nel periodo della grande alluvione, 2001). Gli ‘alluvionati’ sono trasferiti in decine di centri profughi collocati nel resto del Veneto e nelle altre regioni del Centro-Nord. Da quel momento, da tutto il Veneto meridionale prende il via un ‘esodo’ che si interromperà solo negli anni Settanta. Nell’arco di due decenni, in provincia di Rovigo la popolazione cala di quasi un terzo (350.850 abitanti nel 1951, 248.660 nel 1971), senza una particolare distinzione tra i comuni alluvionati e gli altri a essi vicini. Interi borghi del Delta padano, del Medio Polesine e della Bassa pianura veneziana si spopolano, soprattutto quelli agricoli dove le lotte contadine erano state più drammatiche (cfr. 1951. La rotta, il Po, il Polesine, a cura di L. Lugaresi, 20012).

Se dalla Bassa padovana cominciano, negli anni Cinquanta, i flussi di lavoro pendolare verso i centri più industrializzati di Padova, Verona o Vicenza (D. Celetti, E. Novello, Contadini senza terra. La Federbraccianti nell’economia e nella società padovana dal dopoguerra agli anni Ottanta, 2007), per il resto si è di fronte a un’emigrazione irreversibile, senza ritorno, che si indirizza prevalentemente verso il triangolo industriale, a sostituire i contadini del Piemonte che si sono nel frattempo inurbati, per poi inserirsi direttamente nei settori dell’industria e dell’edilizia in espansione. Nel periodo 1951-58, il 46% degli operai e manovali che lavorano a Torino sono veneti. Secondo i dati raccolti da Danilo Montaldi, metà degli immigrati in provincia di Milano tra il 1945 e il 1957 proviene dalle altre province lombarde, ma chi arriva da fuori regione per un terzo è veneto, e veneto, in queste zone di marginalizzazione dette ‘Coree’, vuol dire ex bracciante, manovale, muratore: come Vito – da Cavarzere – abituato sin da ragazzino a spostarsi a piedi ogni giorno per chilometri lungo strade dove le zanzare erano tanto fitte che «c’era una strada che si percorreva a piedi e un’altra sopra fatta di zanzare», e poi a lavorare «dal levar del sole al tramonto»; ora affronta la metropoli industriale a testa bassa, senza regole ma pieno di speranza: venuto via dal suo paese «come oltre la metà da dopo la guerra» e arrivato a Milano «per voce di popolo», lavorando oltre i turni e nei giorni di festa è riuscito a comprarsi «quel pezzetto di terra», e poi ha lavorato ancora «al ciaro di luna, e con la lanterna» per costruirsi la casa e farsi raggiungere dalla famiglia; alla fine sente di essere «arrivato a vivere nella nazionalità operaia», che significa dormire su un letto, poter mangiare «pastasciutta» e «bistecchetta», potersi portare sul lavoro un frutto e i biscotti (F. Alasia, D. Montaldi, Milano, Corea. Inchiesta sugli immigrati negli anni del «miracolo», 1959, 2010, pp. 173-77).

Anche la parte settentrionale della regione è interessata negli stessi anni (1951-58) da un ingente fenomeno migratorio, che ha però caratteristiche ed esiti piuttosto diversi. Per la montagna veneta – la provincia di Belluno e la parte settentrionale di quelle di Vicenza e Treviso – l’emigrazione è un dato strutturale, funzionale al tipo di ‘ecosistema’: poca terra coltivabile, grande frammentazione fondiaria, alcuni significativi residui di proprietà collettiva a bosco e pascolo, scarsa industrializzazione. L’emigrazione stagionale maschile è l’elemento che, nei secoli, ha consentito l’equilibrio omeostatico della società alpina, allontanando per nove mesi all’anno la popolazione maschile adulta, che sarebbe rientrata in paese durante il periodo invernale. La guerra aveva causato il blocco dei flussi stagionali e prodotto un disequilibrio tra popolazione e risorse, che il rientro dei reduci e dei prigionieri aveva accentuato. Alla fine del conflitto i disoccupati nel Bellunese erano 15-20.000; sostenuti da un movimento partigiano che qui era stato ampio e autorevole, nel corso del 1946 essi erano stati protagonisti di una lunga serie di manifestazioni (dagli ‘scioperi alla rovescia’ fino all’occupazione della prefettura di Belluno). Ma per risolvere la situazione, anche il Partito comunista italiano (PCI) e la CGIL avevano quasi subito richiesto che si riaprissero i canali migratori, denunciando nel contempo l’incuria con cui il governo e gli organi dello Stato seguivano i lavoratori italiani all’estero, costretti spesso a condizioni precarie e vessatorie: muratori e carpentieri in Svizzera e Francia, ma anche in Argentina e in Australia, minatori in Francia e Belgio, gelatieri in Olanda e Germania, domestiche e operaie in Svizzera (Montagne e veneti nel secondo dopoguerra, a cura di F. Vendramini, 1988).

La giovane Tina Merlin (1926-1991) – già staffetta partigiana – comincia in questi anni le sue corrispondenze per «l’Unità»; svolge un’inchiesta sulle condizioni di lavoro delle donne bellunesi, nel 1952, e una sull’emigrazione maschile, in 11 puntate, nel 1953: sono i segnali del tentativo che le organizzazioni politiche e sindacali di sinistra attuano per non perdere i contatti con i loro militanti o simpatizzanti – potenziali quadri e dirigenti locali – costretti a emigrare (A. Lotto, Quella del Vajont. Tina Merlin, una donna contro, 2011). Ma è il mondo cattolico, che in Regione controlla gran parte delle istituzioni locali, a strutturare la propria presenza tra gli emigranti: nel Vicentino, i patronati ACLI (Associazioni Cristiane Lavoratori Italiani), assistiti dalle camere di commercio, di fatto gestiscono l’assistenza verso chi emigra; nel 1953, nel Quartier del Piave (a Sernaglia della Battaglia) nasce su base paesana e parrocchiale la prima comunità emigranti che, da strumento di mutuo soccorso per garantire il rientro in patria delle salme di minatori e muratori morti sul lavoro, diventa una sorta di pro loco per gestire il ‘ciclo dell’emigrazione’, ovvero i riti di passaggio e di controllo sociale (nei confronti degli uomini che partono, ma ancor più delle donne che restano) all’interno della comunità.

La montagna bellunese dovrà attendere un altro decennio prima che si creino al suo interno le condizioni economiche in grado di fermare l’esodo. Sarà un’altra grande tragica inondazione, quella del Vajont nel 1963, ad attivare – all’opposto di quella polesana di 12 anni prima – un circolo virtuoso legato a investimenti pubblici straordinari per la ricostruzione e l’industrializzazione, oltre che allo sviluppo del turismo, in sensibile aumento sin dai primi anni Cinquanta: in provincia di Belluno, in vent’anni, gli attivi in agricoltura si riducono quasi a un quinto, dai 34.000 nel 1951 ai 7500 nel 1971 (La montagna veneta in età contemporanea. Storia e ambiente, uomini e risorse, a cura di A. Lazzarini, F. Vendramini, 1991). Nelle zone di montagna si assiste a uno spopolamento progressivo, in parte frutto della ‘fuga’ all’estero (nel periodo 1945-1974 gli espatri di persone provenienti dal Veneto sono 611.438), ma in parte anche di uno spostamento di popolazione tutto interno alla Regione e alle stesse province, indirizzato verso i comuni di pianura a maggior intensità manifatturiera: nel decennio 1945-55, un terzo degli abitanti della provincia di Vicenza – circa 100.000 persone – è interessato dal fenomeno della migrazione, di lungo o di corto raggio, interna o esterna alla provincia.

Rivoluzioni di paese

Anche la pianura rurale che si trova al centro della regione vive, nei primi due decenni del dopoguerra, una ‘grande trasformazione’ che coincide innanzitutto con una crescente mobilità. Siamo nel cuore anche geografico del Veneto ‘bianco’, che copre gran parte delle province di Verona, Vicenza, Padova, Treviso e l’entroterra veneziano: è una zona caratterizzata dalla piccola conduzione diretto-coltivatrice, destinata a trasformarsi in piccola proprietà contadina soprattutto nel corso degli anni Cinquanta e Sessanta; è anche l’area di elezione del movimento cattolico, che dalla fine dell’Ottocento vi ha dispiegato un peculiare radicamento attraverso le casse rurali, le cooperative agricole, la stampa diocesana, poi con le leghe ‘bianche’ del primo dopoguerra, e infine con una certa partecipazione del mondo contadino alla Resistenza. Dalle prime elezioni del dopoguerra la grande maggioranza dei consensi va alla Democrazia cristiana (DC), che nel Veneto contadino ha una delle sue più sicure roccaforti elettorali. La tenuta della società rurale, durante le precedenti fasi di crisi economica e politica, si è imperniata sulla coesione delle comunità locali. L’emigrazione all’estero qui non è di massa, e viene gestita dalle famiglie in modo da attutirne gli effetti destabilizzanti sul terreno dei costumi e del senso di appartenenza (Emigrare da Fossalunga. Un paese del Veneto rurale nella prima metà del Novecento, a cura di L. Vanzetto, 2000).

A partire dagli anni Cinquanta, tuttavia, si percepiscono segnali inequivocabili di smottamento. Da un’inchiesta coeva promossa in ambiente cattolico risulta che «nel 1956 ben 349.291 lavoratori delle Tre Venezie si spostarono dai centri rurali alle città o ai centri industriali, dei quali 165.596 stagionalmente e 183.695 pendolarmente (ogni giorno od ogni settimana). Delle 349.291 persone suindicate, 73.597 esercitano il mestiere del contadino o del bracciante e 275.694 svolgono attività non agricola» (L. Comacchio, Gli aspetti umani delle trasformazioni agrarie. Lavoro di divulgazione della XXX settimana sociale, 1958, p. 51). A preoccupare non è tanto chi va all’estero, magari per anni, quanto chi quotidianamente o periodicamente esce dal proprio villaggio ed è esposto all’influenza dell’ambiente di fabbrica e della cultura urbana. Il treno dei pendolari che corre a sud-ovest e a nord-est di Mestre lungo la gronda lagunare, verso Cavarzese e Adria e verso San Donà di Piave e Portogruaro, trasporta ogni giorno migliaia di «contadini in fabbrica»; dal Veneto centrale altre migliaia raggiungono Porto Marghera in bicicletta o in motorino, lungo un raggio di 30 km attorno al polo industriale, drenando manodopera dal vasto bacino rurale. Per le avanguardie sindacali che incontrano in fabbrica, questi operai sono ancora cocciutamente ‘contadini’; ma quando tornano a casa, agli occhi di chi è rimasto in paese sembrano già irrimediabilmente cambiati (Piva 1991).

I parroci, veri leader delle comunità rurali, nei primi anni Cinquanta tentano di arginare l’emorragia, promuovendo embrionali laboratori artigianali per dare impiego alle ragazze e insegnare un mestiere ai giovani; poi, utilizzando una speciale legislazione che favorisce l’industrializzazione nelle «aree depresse» (per es., con la l. 29 luglio 1957 nr. 635), cercano di convincere imprenditori foresti a impiantare stabilimenti in paese, facendosi con loro garanti di pace sociale, etica del lavoro e moderazione salariale da parte dei propri parrocchiani. Tuttavia, anche in un ambiente protetto l’arrivo della società industriale produce scompensi; le giovani operaie danno il salario in casa, ma qualcosa tengono per sé, e con quello accedono ai consumi: le calze di nylon, i rotocalchi, il cinema. E quando escono dalla fabbrica sul sagrato con la tuta da lavoro, danno scandalo: è «peccato», dice il parroco, «le ragazze non debbono portare le brache. Ma pochi mesi dopo lo stesso parroco lo [trovi] scamiciato, anche lui a tentar di capire, nei primi crocchi e capannelli della sindacalizzazione strisciante, di nuovo lì nella piazza sul sagrato» (Negri 1983, 20092, p. 59).

Quando a Trebaseleghe – profonda provincia padovana – il farmacista apre un cinema cui dà nome Las Vegas, nel 1961, e contemporaneamente un industriale milanese inaugura – con il vescovo benedicente – lo stabilimento tessile Ruggeri-Cappotti, si produce una miscela esplosiva che innesca in breve tempo una ‘rivoluzione di paese’, contro cui il parroco tenterà inutilmente di opporsi, predicando dal pulpito, muovendo le leve politiche e ricorrendo al Consiglio di Stato, per far chiudere il cinematografo commerciale ed evitare quella che percepisce sin dai primi sintomi come una deriva inarrestabile. Così, infatti, si esprime nel bollettino parrocchiale del 15 ottobre 1961: «A Trebaseleghe piombano da tutti i paesi come le mosche si precipitano avidamente sulle piaghe purulente. Trebaseleghe sta diventando tristemente famosa in tutta la diocesi e proprio ora che da tanti altri paesi è guardata con invidia per le industrie che stanno sorgendo e sviluppandosi». Fabbrica e cinema metteranno in movimento la società locale, attirando lavoratori e consumatori – le stesse persone, a guardar bene – ben oltre il perimetro del paese, aprendo un cratere simile a molti altri di cui presto si scoprirà investito un Veneto rurale politicamente ancora candido e sindacalmente pacifico, ma ormai in movimento negli anni del boom economico (basti pensare che, nell’arco di una generazione, dal 1936 al 1962, gli addetti all’agricoltura crollano dal 62% al 25%).

Il conflitto, più che esprimersi nei luoghi di lavoro, attraversa le famiglie. I giovani non vogliono più fare i contadini e hanno aspirazioni diverse da quelle dei loro genitori; si vergognano della loro condizione e desiderano uscirne. Nell’Italia degli anni Cinquanta, la «fuga dai campi» si alimenta di questi sentimenti. «Allora la classe contadina era immensamente ignorante: i contadini erano trattati peggio delle bestie. Quando si doveva offendere un uomo e non si avevano altri termini si diceva el xè un contadin» (P. Marangon, S. Possagnolo, Il C.E.C.A.T. un movimento un’utopia. Formazione e cooperazione agricola nel movimento cattolico trevigiano (1954-1975), 1993, p. 115). Sono parole di Domenico Sartor (1913-1993), primo segretario provinciale della CISL di Treviso. Figlio di emigranti della Pedemontana, nato in California, dove il padre aveva trovato lavoro nelle ferrovie, riuscendo dopo alcuni anni a tornare in paese e a comprare un bar a Castelfranco Veneto, aveva studiato all’Università cattolica di Milano, frequentando la Federazione universitaria cattolica italiana (FUCI) e laureandosi in Legge; aveva cominciato a fare «l’avvocato dei contadini», quindi era stato un dirigente della Resistenza, e poi deputato della DC ininterrottamente per trent’anni.

A metà degli anni Cinquanta, Sartor – forte di un ferreo controllo politico del territorio – mette in piedi un sistema di scuole e cooperative orientato alla modernizzazione dell’agricoltura e all’emancipazione dei contadini, ispirato a esperienze di formazione professionale francesi, tedesche e belghe. Per questo entra in conflitto con la Confederazione nazionale dei coltivatori diretti. «La Coldiretti non ha mai formulato una dottrina che non fosse quella tradizionale dei padroni delle terre e quindi lavorava non per i contadini, loro sviluppo e la loro emancipazione, ma per tenerli nell’ignoranza» (p.116). Ingaggia un gruppo di insegnanti, presi dall’associazionismo giovanile cattolico, e li manda in giro per i paesi a incontrare i ragazzi e convincere le loro famiglie dell’utilità dell’istruzione professionale; attraverso l’alternanza tra soggiorno a scuola e lavoro in famiglia, avvia un piano di animazione di comunità: l’ambizione è formare il «nuovo contadino», che sia autonomo e solidale, moderno e aperto al mondo ma non sradicato. È una rivoluzione, ma su scala paesana: «La mietitrebbia ha introdotto la rivoluzione in Provincia. Qualcuno che associa alla parola “rivoluzione” grandi rivolgimenti economico-politici sorriderà alla frase. Ma se intendiamo per rivoluzione un capovolgimento di situazioni, di mentalità, una presa di coscienza da parte di categorie lasciate prima ai margini della vita, possiamo affermare che la mietitrebbia ha dato inizio a una autentica rivoluzione» (G. Corletto, Una pacifica rivoluzione. La mietitrebbia, «Comunità Nuova», 1962, 7, p. 3).

Riscatto culturale e sviluppo economico vanno di pari passo: entrambi sono necessari a modernizzare la società rurale senza stravolgerla. La cooperazione è lo strumento scelto per vincere passività e individualismo e sviluppare lo spirito associativo e imprenditoriale dei contadini. Viene deciso che le cooperative debbano essere composte da non più di quindici soci e nascere ‘dal basso’, su base locale, paesana, con dirigenti di estrazione rurale; esse servono ad acquistare collettivamente le macchine agricole, a gestire stalle con razze bovine selezionate, a commercializzare i prodotti dell’ortofrutticoltura. Il movimento cooperativo si sviluppa anche in altre parti del Veneto, soprattutto grazie al ruolo propulsore delle ACLI (D. Coltro, Rivalunga. Una cooperativa di cultura, ricreazione e arte, 2004). Tra le varie attività legate alla ‘nuova agricoltura’, le cantine sociali avranno particolare successo nelle province di Treviso, Venezia e Verona, ponendo il Triveneto, negli anni Sessanta, al primo posto a livello nazionale per numero di cantine cooperative e quantità di uva vinificata (F. Bof, La cooperazione bianca nel Veneto orientale (1872-1960), 1995).

La ‘transizione dolce’ (E. Franzina, La transizione dolce. Storie del Veneto tra ’800 e ’900, 1990) non esclude la mobilitazione collettiva. Nel 1966, per protestare contro la sordità dei politici ‘romani’ – in particolare contro il ministro dell’Agricoltura, il democristiano Mario Ferrari Aggradi, padovano, che aveva negato agli agricoltori degli indennizzi dopo una grandinata – l’onorevole Sartor non esita a convocare a comizio tutti i cooperatori agricoli della Regione, che affluiscono a Treviso in massa imponente, con striscioni, cartelli e 300 trattori. È una riedizione di episodi analoghi accaduti nel primo dopoguerra, quando i contadini delle leghe bianche avevano ‘conquistato’ la città borghese. Adesso non vogliono far paura ai padroni, che più non hanno, ma chiedere al governo rispetto, risposte e indennizzi: è la rappresentanza del lavoro ‘sul territorio’ che contratta regole e risorse con lo Stato nazionale. Ultimo atto di un ciclo di lotte contadine cominciate all’inizio del Novecento, questo episodio sembra essere anche una prefigurazione di un altro ‘leghismo’ che si rivelerà pienamente alcuni decenni più tardi.

La liberazione dei mezzadri

Un ultimo cenno ai mondi rurali in trasformazione va fatto al peculiare insediamento dei mezzadri nella fascia orientale del Veneto, nelle province di Treviso e di Venezia. Forme di mezzadria erano presenti anche in altre parti della regione – a riprova della complessa stratificazione sociale della campagna veneta (Brunello, in Storia d’Italia, 1984) – ma nella Sinistra Piave e lungo la gronda lagunare a nord-est di Venezia esse si caratterizzavano per l’ampiezza di alcune aziende, che erano nelle mani di grossi proprietari provenienti sia da vecchie famiglie nobiliari sia da più recenti dinastie di capitalisti agrari, o espressione di moderne società finanziarie (come le Assicurazioni Generali di Trieste) che nell’Ottocento avevano proceduto alla bonifica dei terreni paludosi e poi li avevano dati in conduzione a mezzadria. La condizione di questi lavoratori agricoli era caratterizzata da grande subalternità: vivevano sotto la minaccia dell’escomio e sotto il controllo padronale fin sulla gestione della casa e della famiglia; avevano famiglie patriarcali numerose fino a 70 persone, al cui interno vigevano una rigida disciplina e un’abitudine all’obbedienza gerarchica; gli anziani comandavano in casa, ma quando entravano in azienda si levavano sempre il cappello, e «sì, sior paron» era il modo con cui usavano rispondere a proprietari e gastaldi (fattori). A differenza dei mezzadri dell’Italia centrale, insediati in piccole unità poderali appartenenti a piccoli proprietari che ne traevano una modesta rendita, quelli veneti che lavoravano per grosse aziende agrarie erano certo ‘pluriattivi’ ma assai poco autonomi e intraprendenti.

Nel primo dopoguerra i mezzadri erano stati tra i protagonisti delle grandi lotte agrarie, organizzati sia dalle leghe ‘bianche’ sia da quelle ‘rosse’. Dopo la Seconda guerra mondiale la maggior parte di essi aderì alla Coldiretti, mentre la Federazione nazionale fra i lavoratori della terra (Federterra) attecchì solo in alcuni centri del Medio e Basso Piave come Conegliano, Oderzo, Portogruaro (F. Piva, I mezzadri veneti nel primo e nel secondo dopoguerra, «Annali dell’Istituto Alcide Cervi», 1986, 8, pp. 37-53). Questo contenne la loro spinta rivendicativa, fino a quando non furono investiti dagli stessi processi di crisi della società rurale alla radice del ‘movimento contadino’ di stampo cooperativo: soprattutto i giovani e le donne cominciarono a considerare intollerabile la propria condizione di vita e lavoro ed erano più disponibili a disobbedire ai padri e ai padroni; molti di loro, quando potevano, andavano a lavorare nelle vicine industrie elettromeccaniche o del legno (come la Zoppas di Conegliano, la Zanussi di Pordenone o la Papa di San Donà di Piave), o aprivano botteghe e laboratori per conto proprio, suscitando l’ira dei proprietari, che si ritenevano danneggiati da quei membri della famiglia mezzadrile che non lavoravano la terra.

Per contrastare il proselitismo della Federterra, la CISL di Treviso diede vita nel 1954 al Sindacato provinciale mezzadri, di intesa con le ACLI e con l’ala sinistra della DC, ma in rottura con la Coldiretti e la destra democristiana. Le prime richieste concernevano l’abolizione delle ‘onoranze’ (omaggi in natura al padrone), la meccanizzazione dell’agricoltura, la costruzione dei servizi igienici nelle case coloniche, la fine dell’allevamento del baco da seta (che costringeva i contadini a uscire di casa per due mesi all’anno per fare posto ai pregiati ‘cavalieri’). Nel 1955 la CISL fece arrivare dall’Emilia Antonio Neri, un giovane sindacalista con doti di organizzatore che mise in piedi decine di leghe nei villaggi e nelle parrocchie e portò il Sindacato mezzadri a rappresentare il 60% dei coloni, a fronte del 20% di adesioni alla Coldiretti e del 20% alla Federterra (G. Marton, Scrivo vobis. Storie di vescovi, giovani e contadini nel Veneto bianco degli anni Cinquanta, 2004).

Cominciò allora un periodo di conflitti sociali molto aspri, che avevano luogo sia nelle aziende sia nelle vicine città, attraverso scioperi e azioni collettive per il rinnovo dei contratti e rumorose manifestazioni di piazza che portarono i contadini nel cuore dei centri urbani: «Siamo venuti con tutte le vacche e i buoi – ricorda il capolega vicentino Severino Castellan – quelli erano i nostri mezzi di attrazione. Non vi dico cosa abbiamo lasciato in piazza a Bassano. Avevamo i trattori che perdevano, insomma. E abbiamo fatto la manifestazione a Rosà, la “rivoluzione” insomma […]» (Castellan, militante CISL, «Ombre bianche», 1979, nr. unico a circolazione interna, p. 62).

Nel 1956 fu organizzata una manifestazione regionale di mezzadri e braccianti a Treviso, con il segretario nazionale della CISL Pastore che lanciò lo slogan: «ricordatevi mezzadri che i padroni alla legge resistono ma non resistono alla forza del sindacato!» (G. Vedovato, Storia della CISL di Treviso. La fase pionieristica e la sua crisi 1950-1964, 2013, pp. 116-41). Era una sorta di prologo contadino al protagonismo operaio che sarebbe esploso nel decennio successivo, quando i ‘metalmezzadri’ trasferirono nelle fabbriche il conflitto sociale che avevano cominciato nelle campagne (P. Feltrin, A. Miolli, La scoperta dell’antagonismo. Gli anni ’60 alla Zoppas: operai, lotte, organizzazione, 1981). Anche qui, un’altra grande alluvione – quella del Piave nel 1966 – avrebbe segnato, fin nella memoria collettiva, il passaggio di fase tra un ‘prima’ contadino e un ‘dopo’ industriale.

+Nel frattempo, grazie alle lotte sindacali, alla legge che impediva di stabilire nuovi contratti di mezzadria (1964) e poi alla «proficua e provvidenziale pioggia di disponibilità finanziaria» proveniente dalla Cassa della piccola proprietà contadina e dall’Ente delle Tre Venezie, molti ex mezzadri sarebbero riusciti ad acquistare almeno una parte del podere e a diventare così, finalmente, ‘padroni a casa propria’ (Il lungo cammino verso il superamento della mezzadria nel trevigiano (1955-1971), 1998, p. 50).

Mondi operai

Lo sviluppo senza diritti

In Veneto la questione centrale degli anni Cinquanta, l’ossessione di tutti gli attori politici e sociali, è lo sviluppo industriale. Chiesa e partito egemone sposano un industrialismo che non ha nessun tratto di seduzione modernista, ma al contrario si fonda su un preciso intento di conservazione degli equilibri sociali tradizionali. Se per il clero di paese ‘una fabbrica per campanile’ significa diritto delle anime di non essere sradicate dalla comunità e dai suoi valori, per gli amministratori locali (un ruolo di spicco lo avranno i sindaci) significa risarcimento delle sofferenze patite dai veneti sin dai tempi della dominazione asburgica e poi dell’annessione al Regno d’Italia, fino al punto da rivendicare il diritto per quest’area a uno strumento analogo alla Cassa del Mezzogiorno (Roverato 1996).

Alla lontananza dello Stato le amministrazioni democristiane rispondono ovunque con l’iniziativa autonoma: licenze di fabbricabilità sui terreni agricoli, prezzi agevolati, contributi a fondo perduto, prestiti senza interessi e infrastrutturazione – spesso votati all’unanimità con le opposizioni – vengono concessi a chiunque si proponga di impiantare attività produttive sul territorio. Quando nel 1957 si offre l’opportunità di ricorrere agli incentivi della legislazione nazionale sulle ‘aree depresse’, i consigli comunali sono pronti a coglierla senza esitazioni, così che nel 1964 oltre l’80% dei comuni veneti risulta tale. L’industrialismo di CGIL e CISL è naturalmente di segno diverso: per la prima si tratta di sviluppare le forze produttive per preparare lo spostamento a sinistra delle masse cattoliche; per la seconda di accompagnarle sulla strada del progresso proteggendole dai suoi costi più alti.

Nel 1950, con poco più 300 mila iscritti, la CGIL è l’organizzazione maggioritaria. Erede di una solida rete di camere del lavoro, la confederazione di Giuseppe Di Vittorio è la sigla che raccoglie i maggiori consensi nelle fabbriche metalmeccaniche di più lunga tradizione, ma è soprattutto un’organizzazione del popolo urbano che dà voce a precari – braccianti ed edili – e disoccupati. La CISL affonda le sue radici nei grandi poli tessili vicentini (Marzotto e Lanerossi) e tra gli impiegati pubblici e privati.

Come nel resto d’Italia, il decennio è caratterizzato dalla caduta dei tassi di sindacalizzazione. Il prezzo più alto lo paga la CGIL, che nel giro di pochi anni arriva a perdere quasi un terzo dei suoi aderenti, rimanendo in testa solo nelle province di Venezia e Rovigo, tra l’enclave di Porto Marghera e la fascia bracciantile polesana. La crisi del movimento operaio non è solo il sintomo delle difficoltà di un sindacalismo dalla cultura ancora prevalentemente rurale a radicarsi nell’industria, ma anche di pessime condizioni materiali di lavoro.

I salari sono ancora più bassi che nel resto del Paese e l’evasione contrattuale è generalizzata, ma ciò che colpisce maggiormente è l’autoritarismo che regge il lavoro nelle fabbriche. Regolamenti e pratiche lesive della più elementare dignità della persona sono all’ordine del giorno: operai ‘palpati’ per constatarne la forza, lavoratrici costrette a fermarsi per pulire i reparti dopo l’orario di lavoro, condizioni igieniche indecenti, maestranze pagate un tant sono solo alcune delle situazioni che emergono dalle memorie operaie. L’ostilità del mondo imprenditoriale nei confronti del sindacato si esprime in una gamma di comportamenti che va dalle più scoperte discriminazioni individuali alla messa in campo del repertorio paternalista. Quanto più la fabbrica è piccola, tanto più il ricorso allo sciopero – soprattutto se da parte della CISL – genera sbigottimento nei padroni, che si rivolgono direttamente al sindacato perché contrasti lo scivolamento degli «amati dipendenti» nel vicolo cieco delle «idee inconcludenti e terribili» tipiche degli operai delle regioni rosse (lettera di G. Morellato alla CISL di Padova, cit. in E. Ceccato, Morellato s.p.a. Storia di un’azienda. Storia di uomini e di donne, 1993, pp. 81-82).

I pochi conflitti che si accendono sulle questioni di orario e salario, oppure di fronte alla minaccia di chiusure e ristrutturazioni, si scontrano con atteggiamenti di violenta contrapposizione, come avviene all’Utita di Este (1949), alla Breda di Porto Marghera (1950), o al Canapificio Roi di Cavazzale (1955). Al conflitto ‘a caldo’ davanti ai cancelli corrisponde una vera e propria guerra alle commissioni interne: in molte fabbriche (per es. Zoppas e Padovan di Conegliano, Papa di San Donà di Piave, Breda di Cadoneghe) si smette di eleggerle, oppure non le si riesce a costituire per la prima volta, come avviene per diversi anni alla Fracarro Radioindustrie di Castelfranco. Se nei confronti della CISL gli imprenditori usano l’arma di un’intimidazione che fa appello a valori comuni, verso i militanti della CGIL i mezzi sono durissimi. Ricorda Elio Cibin, sindacalista della FIOM (Federazione Impiegati Operai Metallurgici): «Erano gli anni […] che quando si partiva da Treviso (al mattino ritornando alla sera) e si andava a Conegliano [...] si poteva stare anche tutta la giornata fuori della fabbrica (lo si faceva con qualsiasi clima) senza avere la possibilità di parlare con un solo lavoratore, pesando su di esso la minaccia del licenziamento se sorpreso a parlare con il nostro sindacalista. Infatti, in qualche caso è bastato un semplice scambio di saluti con il nostro dirigente della FIOM, per provocare il licenziamento immediato del lavoratore, che tanto aveva osato. Perciò, quando qualcuno si avvicinava, si intuiva subito che si trattava di un licenziato o di un dimissionario» (Battaglie del lavoro. Testimonianze e documenti sulle lotte sindacali in provincia di Treviso negli anni Cinquanta, a cura di A. Dapporto, 1979, p. 84). Le sole vertenze degli anni Cinquanta che sembrano trovare sbocco sono quelle per la difesa dei posti di lavoro, a patto che accanto ai lavoratori scendano in campo le organizzazioni del mondo cattolico, addirittura le massime autorità religiose, come nel caso del lungo sciopero delle Officine meccaniche Stanga di Padova, nel 1957.

Mentre la CGIL si asserraglia nelle ‘sue’ fabbriche, tra avanguardie tanto generose quanto isolate, la CISL sposa fino in fondo i propri assunti partecipativi e aziendalisti. In dieci fabbriche pilota del Vicentino (la più grande è la Ceccato di Montecchio Maggiore) aderisce all’esperimento produttivista finanziato con i fondi del Piano Marshall, in cui intravede lo spazio per la contrattazione aziendale. Ma i metodi americani di organizzazione del lavoro – dalla ‘cassetta dei suggerimenti’ alla job evaluation – danno risultati controversi e soprattutto si scontrano con un ceto imprenditoriale completamente allergico alle relazioni industriali, che vorrebbe attribuire ai ‘liberi sindacati’ solo il ruolo di argine anticomunista.

I fermenti degli anni Sessanta

La «rivoluzione industriosa» del Veneto degli anni Sessanta (A. Bellon, Industriosa Cadoneghe. Dai campi dei Riello ai torni della Breda. Il lavoro come vita collettiva di operai e imprenditori, 2001) si regge su un «impiego “eccezionalmente” intensivo del fattore lavoro a livello diffuso in tutto il sistema» (F. Bosello, Lo sviluppo economico nel secondo dopoguerra. Un contributo interpretativo, in Trasformazioni economiche e sociali nel Veneto fra XIX e XX secolo, a cura di A. Lazzarini, 1984, p. 221). Il travaso di occupati dall’agricoltura all’industria è il segno di un’aspirazione di massa a lasciarsi alle spalle un destino ben noto di miseria, precarietà ed emigrazione, accettando anche i costi della condizione di salariati.

Il boom economico del Veneto centrale non è ritardato: è una variante regionale di uno stesso processo, con una morfologia diversa da quella assunta nelle aree urbane del Nord-Ovest. Tra 1961 e 1971 l’incremento degli occupati nell’industria è quasi doppio rispetto a quello nazionale, con la punta massima in unità produttive tra gli 11 e i 20 addetti (IRSEV, Il mercato del lavoro nel Veneto, a cura di A. Solimbergo, F. Arcangeli, L. Malfi, 1976). A restare indietro sono le basse rurali e le zone montane, e solo dopo la strage del Vajont (1963), grazie alle provvidenze di un’apposita legislazione, l’area bellunese si inserirà nelle dinamiche di industrializzazione.

Nel 1965 Porto Marghera tocca il picco di occupati (all’incirca 40 mila, compresi i lavoratori delle imprese d’appalto) e inizia il suo lento ridimensionamento, mentre la piccola impresa, lungi dall’essere un residuo ‘paleocapitalistico’, prende a crescere tumultuosamente. Se è vero che nel 1971 oltre la metà degli operai veneti lavora in aziende al di sotto dei 250 addetti e in settori che producono beni di consumo (alimentare, tessile, abbigliamento, calzature, mobili, pelli, ceramiche), è altrettanto vero che i distretti storici vivono processi di specializzazione e accanto alla manifattura ‘tradizionale’ e labour intensive, lungo tutto l’asse pedemontano si sviluppa una metalmeccanica tecnologicamente all’avanguardia. Il decentramento, insomma, ben prima di essere una risposta politica alle lotte operaie, è «la vera scelta strategica dell’imprenditoria veneta» (Roverato, in Storia d’Italia, 1984, p. 217).

La DC raccoglie i frutti della sua politica di partito dello sviluppo: è sempre meno il canale identitario religioso e sempre più la capacità di tutelare interessi economici ‘collettivi’ (nel senso di locali) a consolidare la sua fisionomia di partito-società. Ai vertici della DC veneta si prepara l’avvicendamento di leadership tra il vicentino Mariano Rumor, fondatore delle ACLI ed esponente di «Iniziativa democratica» e il doroteo Toni Bisaglia, figlio di un ferroviere rodigino, che si definirà «imprenditore politico territoriale» (Il politico come imprenditore, il territorio come impresa. Un’intervista inedita ad Antonio Bisaglia, a cura di I. Diamanti, «Strumenti», 1988, 2, p. 13).

Di fronte ai cambiamenti la CGIL appare impreparata e disorientata. Isolata nelle roccaforti del suo fragile potere – come testimonia nel 1965 la falcidia di quadri FIOM alla Pellizzari di Arzignano –, stenta ad andare oltre la denuncia del supersfruttamento, la lotta ai monopoli e l’appello alle masse cattoliche perché abbandonino le posizioni interclassiste. Nel 1962 sostiene – pur senza esserne la regista – l’operazione di salvataggio della Lanerossi da parte dell’ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) di Enrico Mattei e l’assorbimento delle mutue aziendali – contro la volontà dei lavoratori – nell’INAM (Istituto Nazionale per l’Assicurazione contro le Malattie). Ma dietro alle prese di posizione rigide, anche per la CGIL gli anni Sessanta sono un periodo di sotterranea preparazione a nuovi equilibri, che passano per la scoperta di una CISL ‘nuova’. Come ha ricordato Gildo Palmieri, leader dei tessili vicentini: «Se gli iscritti aumentavano di poco, ciò che invece aumentò notevolmente dal ’66 in poi fu l’apporto di operai della CISL che anche in modo un po’ clandestino venivano ai nostri incontri per raccontarci le condizioni lavorative. E fu un apporto fondamentale […]. Molti nostri volantini sono stati fatti su indicazioni dateci da operai cislini. In quei volantini noi chiedevamo anche un impegno unitario dei sindacati per affrontare e risolvere i problemi» (testimonianza di G. Palmieri, «Materiali di storia. Quaderni del centenario della Camera del lavoro di Vicenza (1902-1992)», 2002, 2, nr. monografico: La CGIL vicentina nelle testimonianze dei suoi Segretari (1969-1996), pp. 21-22).

Il 1958 è l’anno del sorpasso cislino, in termini di iscritti, sulla sigla concorrente. La federazione dei tessili della CISL – sino ad allora l’unica categoria industriale ad avere un peso in un’organizzazione fondamentalmente territoriale – comincia il suo declino, e dai processi di ‘verticalizzazione’ emerge il protagonismo di una nuova Federazione italiana metalmeccanici (FIM). I suoi dirigenti e operatori appartengono a una generazione segnata in profondità dal Concilio Vaticano II, più scolarizzata e anticonformista della precedente, spesso formatasi sotto il segno della sensibilità aclista. L’adesione allo sviluppo è mediata dalla tensione etica propria del cattolicesimo sociale che, più che mettere l’accento sulla centralità del lavoro, predispone a una radicale opposizione alle violazioni di libertà e dignità della persona.

Il successo di questa nuova CISL ‘di fabbrica’ è dovuto alla capacità di muoversi con naturalezza tra conflitto e mediazione, e di dare la parola a strati operai di recente formazione che – a differenza di quanto avviene a Torino o a Milano – non recidono i legami con l’ambiente sociale d’origine. Nel 1961, dalla militanza nell’Azione cattolica e dalla formazione alla Scuola di Firenze, arriva a Conegliano il romagnolo Franco Bentivogli. Quello che si apre sotto la sua guida nella Sinistra Piave, tra i ‘metalmezzadri’ dei piccoli paesi immessi a migliaia nella catena di montaggio della Zoppas, è un laboratorio che fa scuola. Fortissimo è l’investimento sulla formazione, non solo strettamente sindacale. Il CECAT (Centro per l’Educazione, la Cooperazione e l’Assistenza Tecnica), istituito nel 1959 sotto la spinta di Sartor, mette a disposizione le sue maisons familiales; un apposito fondo intercategoriale viene destinato all’organizzazione dei corsi delle ‘tre sere’, itineranti nelle frazioni di campagna; gli operai leggono e traducono Emmanuel Mounier. Il sindacato di Bentivogli è un’organizzazione reticolare votata alla contrattazione aziendale, all’iniziativa unitaria e alla radicale indipendenza d’azione.

La battaglia per l’autonomia da qualunque forma di patronage politico-religioso e per l’incompatibilità tra incarichi politici e sindacali è in Veneto più precoce e aspra che altrove. Affermare che la CISL non è il sindacato democristiano, il sindacato dei cattolici, il sindacato moderato, comporta per i giovani operatori una doppia presa di distanza: dalla DC di cui sono figli e dalla Chiesa che li ha cresciuti. Le unioni provinciali sono tutte dirette da potenti onorevoli democristiani, e le poche strutture di cui l’organizzazione dispone sul territorio – una stanza, un telefono, un ciclostile – appartengono alle parrocchie. La pratica delle lettere di raccomandazione per le assunzioni e le omelie contro gli scioperi sono il pane quotidiano dei fedeli. Diversa è la posizione delle ACLI, che in questi anni consolidano il loro lavoro sul campo, avvicinando i lavoratori e le lavoratrici e talvolta rendendosi protagoniste, prima del sindacato stesso, dell’iniziativa per l’elezione delle rappresentanze, come avviene alla Sanremo di Caerano San Marco, alla Papa di San Donà di Piave, al maglificio Nigi di Mogliano Veneto.

Una spinta all’autonomia di classe si afferma anche nella sinistra socialista, che offre lo spazio alla maturazione di un primo circuito operaista. Nel 1962 Raniero Panzieri è in Veneto – a Oriago, una popolosa frazione di Mira dove si addensano migliaia di operai pendolari di Porto Marghera – per partecipare a un incontro che getta le basi della nascita di Potere operaio. Deus ex machina di questo gruppo è il socialista, già militante della FUCI (Federazione Universitaria Cattolica Italiana), Antonio Negri, che si muove tra l’Università di Padova e la sezione socialista di Campo San Barnaba, a Venezia, frequentata da giovani intellettuali e ‘avanguardie operaie’ destinate a mettere alla prova la loro formazione teorica di lì a qualche anno.

Gli anni della riscossa sindacale

L’introduzione di metodi ‘scientifici’ di organizzazione del lavoro nei grandi poli tessili di Schio e Valdagno, accompagnata da uno stillicidio di sospensioni, accende la miccia dell’‘autunno caldo’ veneto. Il braccio di ferro che si apre in Marzotto per la contrattazione di carichi, cottimi e organici sfocia nella rivolta del 19 aprile 1968, durante la quale viene abbattuta la statua del fondatore Gaetano Marzoto (1820-1910) e i simboli del potere familiar-aziendale sono colpiti da una violenta rabbia operaia. La giornata si chiude con il fermo notturno di 300 persone – concentrate dalla polizia in fabbrica – e l’arresto di 47 di loro, tutte del posto, nonostante si fosse diffusa la notizia della presenza di studenti ‘radicali’ provenienti da Padova e Trento, tra cui Renato Curcio. Di fronte a una proposta di accordo che condanna gli episodi di «facinorosa violenza compiuta […] da estranei all’ambiente di lavoro; episodi vandalici che sono giunti a colpire valori morali che fanno parte del patrimonio storico della città di Valdagno» (L. Bortoloso, Un sistema di vita industriale, 1980, p. 688), la CGIL si dissocia e cavalca la combattività operaia con un referendum per la continuazione dello sciopero. Ai primi segni di erosione del suo consenso, la CISL lancia la proposta dell’occupazione di fabbrica, gestita da un comitato di occupazione con la massima vigilanza sulle intromissioni esterne e sostenuta in paese da cortei e blocchi stradali. La spallata alla vertenza viene data dalla ‘presa’ del municipio di Valdagno, che prelude alla firma di un accordo – messo a punto in un incontro nella villa dei Marzotto con tutti i sindaci della vallata – che prevede, accanto a miglioramenti salariali, diritto di assemblea in fabbrica ed elezione di delegati unitari di reparto con diritti di contrattazione.

Il 1968 valdagnese apre la strada a quella che il trentiniano Neno Coldagelli, all’epoca segretario della Camera del lavoro di Vicenza, ha definito «un’impressionante esplosione di soggettività operaia», sottolineando in particolare l’apporto dei lavoratori di piccola impresa (Testimonianza di N. Coldagelli, «Materiali di storia. Quaderni del centenario della Camera del lavoro di Vicenza (1902-1992)», 2002, 2, nr. monografico: La CGIL vicentina nelle testimonianze dei suoi segretari (1969-1996), p. 9). Trainati dai rinnovi contrattuali nazionali, frequenza e volume degli scioperi raddoppiano (sono oltre 22.000 le ore di lavoro perse in Veneto nel 1969), allineandosi alla curva nazionale. A caratterizzare la forma della conflittualità del Veneto tra il 1968 e il 1971 sono la gravosità degli episodi e, soprattutto, l’incidenza della contrattazione aziendale, che si rivela lo strumento più sentito dai lavoratori e il più adatto a un contesto produttivo composito e frammentato (Castegnaro, in La società veneta, 1985).

Nel luglio del 1968, su pressione della CISL, la Saccardo, una piccola fabbrica di accessori per la produzione tessile, viene prima occupata dagli operai e poi requisita per alcuni mesi dal Comune di Schio, per essere infine ‘salvata’ dall’intervento dell’ENI. Alla Rizzato di Padova, storica fabbrica di biciclette governata in modo dispotico, è un comitato operai-studenti – prima ancora che sia mai stata eletta una commissione interna – a condurre la lotta aziendale per il premio di produzione. Al Petrolchimico Montedison di Porto Marghera – la fabbrica più ‘moderna’ del Veneto – Potere operaio raccoglie i frutti di un intervento non occasionale, che trova terreno fertile nelle divisioni sindacali, e riesce a guidare – conquistando storici leader e nuovi tecnici – una dura lotta per il premio di produzione uguale per tutti, che travolge una massa operaia sino ad allora del tutto assente dai conflitti del polo industriale. Se la CGIL risponde alla contaminazione operaista con espulsioni e sanzioni disciplinari, non è semplice neppure la situazione della Federchimici-CISL veneziana, in cui si fanno strada dirigenti vicini ai gruppi della ‘nuova sinistra’.

Tina Merlin, negli anni più caldi corrispondente dell’«Unità» da Vicenza, è da subito convinta che quanto più piccola è la dimensione d’impresa, tanto maggiore sia la posta politica della lotta per la contrattazione articolata da parte dei delegati. Raccontando la vertenza della Conber, azienda di confezioni di 175 dipendenti in cui si sciopera per il riconoscimento delle qualifiche, Merlin scrive che «Se qui si vince, la numerosa manodopera sparsa in decine di piccole aziende dello stesso settore a bassi salari e senza alcuna organizzazione di potere all’interno, potrà avere la strada aperta verso un sostanziale miglioramento della propria condizione» (T. Merlin, Continua la lotta alla Conber, «l’Unità», 30 maggio 1970).

Nel Veneto ‘profondo’, del resto, ancora nel 1970 si rischia la vita per uno sciopero. A Torrebelvicino, in provincia di Vicenza, i proprietari di una piccola filatura imbracciano il fucile e sparano sui picchettatori che mirano a svuotare il capannone, ferendo gravemente un sindacalista della UIL (Unione Italiana del Lavoro) e un operaio della Lanerossi. L’episodio è sintomatico della morfologia del conflitto nelle aree a economia diffusa, dove alla vicinanza fisica delle imprese si aggiunge una vicinanza culturale e affettiva tra lavoratori diversamente tutelati. La presenza di attivisti delle fabbriche più grandi ai cancelli delle più piccole – dove lavorano fratelli minori, mogli, compaesani – è un elemento ricorrente. Lungo l’asse della Pedemontana trevigiana, per es., lo sciopero viene articolato a partire dalla fabbrica più grande, con i manifestanti che, con un corteo di biciclette e motorini, passano in rassegna le aziende minori, fino ad arrivare al luogo stabilito per il comizio sindacale (G. Trinca, Come ci siamo difesi dai crumiri. Ricordi di un sindacalista tra Treviso e Cassino, «Venetica», 2012, 25, nr. monografico: Soggettività popolare e unità d’Italia. Il caso veneto, a cura di L. Vanzetto, pp. 185-213).

L’‘effetto contagio’ è ancora più evidente tra i lavoratori distrettuali, sparpagliati tra piccole imprese e aziende artigiane. Ingaggiano vertenze territoriali i conciari di Arzignano, i metalmeccanici di Marano, i ceramisti di Nove, i calzaturieri della Riviera del Brenta, i marmisti della Valpolicella. Le loro piattaforme chiedono e ottengono aumenti salariali uguali per tutti, abolizione delle categorie più basse, garanzie di legalità per gli apprendisti e diritti sindacali. La società civile – laica e religiosa – sostiene gli scioperi con iniziative di solidarietà e interventi di mediazione politica, dando forma concreta a quel ‘collante veneto’ che stringe tutti di fronte alla difesa del lavoro (B. Manghi, Il collante veneto. Note di un lettore curioso, prefazione a O. Bolzon, Vita, lotte, cambiamento in una fabbrica del Veneto. San Remo Confezioni, 1981).

Nel maggio del 1971, le 45 operaie di un laboratorio di confezioni in jersey del piccolo centro di Chiuppano, a poca distanza da Schio – la De-Là, nata da una costola del Cotorossi – rispondono alla minaccia di licenziamento con l’occupazione, dopo il fallimento del loro ‘sciopero dello straordinario alla rovescia’: il sabato precedente – spiega il locale foglio di Lotta continua – le ragazze avevano lavorato oltre 14 ore, «sperando che il padrone vista la loro buona volontà prosegua con l’attività dell’azienda». L’occupazione – attentamente sorvegliata dai sindacalisti ‘maschi’ delle tre sigle, nonostante le ragazze siano tutte cisline – si appella ai padroni, due eredi Rossi, in nome «dell’esistente tradizione di laboriosità e di attaccamento alla fabbrica». Alle sorti delle 45 operaie si interessa tutta la comunità locale: il sindaco, il circolo ACLI, il precoce consiglio di zona, gli operai delle fabbriche maggiori e il Gruppo operai-studenti, per il quale la De-La’ è la FIAT di Chiuppano, e come tale va difesa. La lotta ricorre a ogni mezzo: dalle manifestazioni davanti alla villa del barone Domenico Rossi al grido «non si buttano via le operaie dalla fabbrica come le scarpe vecchie!», alle tende montate davanti al municipio e alla chiesa, passando per il sabotaggio della centrale idroelettrica, che suscita le ire dei coltivatori, privati per alcune ore dell’acqua. Alla fine l’accordo, mediato dal prefetto, sacrifica sette operaie, quelle non provenienti dal Cotorossi e assunte solo all’avvio della nuova produzione (La vertenza alla De-La’ (Cotorossi) di Chiuppano, a cura di FILTA-FILTEA-UILTA, Vicenza 1974).

Il protagonismo operaio provoca smottamenti nel mondo cattolico. A Spinea, paese-dormitorio cresciuto a dismisura all’ombra di Porto Marghera, sotto la guida di don Umberto Miglioranza (1922-2012), cappellano dell’ONARMO (Opera Nazionale di Assistenza religiosa e Morale degli Operai), nasce una prima comunità preti-operai. La vocazione a essere ‘con’ gli operai e non più solo ‘per’ gli operai investe altri sacerdoti del Veneziano (Preti operai nel Veneziano, «Esodo», 2009, 4, suppl.). Dopo il convegno di Vallombrosa del 1970 – quello dell’‘ipotesi socialista’ – le ACLI vicentine si lacerano, inizia l’attività pastorale di don Carlo Gastaldello (1941-2004) e si apre il lungo vescovato di Arnoldo Onisto (1912-1992), che per la sua vicinanza al mondo operaio – con i delegati dei consigli di fabbrica che si riuniscono in vescovado – si guadagnerà l’appellativo di ‘vescovo marxista’ della ‘sagrestia d’Italia’.

Nel frattempo Conegliano, Schio e Porto Marghera diventano centri irradiatori del movimento dei consigli unitari. La Federazione lavoratori metalmeccanici (FLM) investe a tutto campo sull’esperimento: nel 1973, tra tutte le categorie, sono già 350 i consigli di fabbrica a Treviso, 302 a Vicenza, 101 a Padova, 91 a Venezia, 35 a Verona, 27 a Rovigo. I delegati veneti coinvolti nel rinnovamento del sindacato sono 8329, contro gli 11.798 del Piemonte e i 13.399 dell’Emilia-Romagna (G. Salvarani, A. Bonifazi, Le nuove strutture del sindacato. Origini, esperienze e prospettive del movimento dei delegati in Italia, 1973, p. 77). La spinta unitaria è alta tra i metalmeccanici, ma se in questa categoria si registra un crescente numero di iscritti ‘senza scelta confederale’, le organizzazioni non rinunciano alla verifica dei rapporti di forza locali, tanto che a Vicenza la Federazione unitaria prende il nome di CISL-CGIL-UIL.

La contrattazione articolata investe le fabbriche di tutte le dimensioni. Alla Lanerossi, tra il 1968 e il 1971 vengono firmati 24 accordi gestiti direttamente dai comitati di reparto. Alla Fiorentini di Vicenza, che produce macchine per l’uso del metano, il consiglio di fabbrica contratta su ogni aspetto della condizione lavorativa: dal salario ai servizi igienici, dalla mensa (che una volta istituita permette a chi ha un campo o un orto di uscire un’ora prima) alla salute, fino alla produttività e agli investimenti. Alla Galileo Industrie ottiche di Porto Marghera i delegati danno vita a commissioni sui tempi di lavorazione, le professionalità e il lavoro femminile. Alla Ferroli di San Bonifacio, una ‘fabbrichetta’ di caldaie nata nel 1955 nella periferia veronese, una commissione interna da poco eletta per la prima volta strappa aumenti salariali uguali per tutti, passaggi di categoria e interventi contro la nocività. I leader di base delle piccole fabbriche sono sindacalisti ‘ruspanti’, «artigiani sociali» (B. Manghi, La sostanza del sindacato, prefazione a L. Babbo, Vertenza Papa. Il sindacato di fronte a una sconfitta, 1979, pp. 7-9) che si muovono con naturalezza e determinazione tra la fabbrica, il sindacato, i gruppi aclisti e i municipi.

A partire dalle inchieste-pilota condotte nel 1970 alla Zoppas sugli operai della catena di montaggio, alla San Remo sulle addette alle confezioni, al Petrolchimico sui lavoratori dei reparti di acido solforico, la linea sindacale per la difesa della salute in fabbrica viene sperimentata in numerose vertenze. Il tema esplode con particolare gravità nelle industrie chimiche di Venezia, in particolare alla Mira Lanza di Mira, alla Châtillon e al Petrolchimico di Porto Marghera. Qui Potere operaio infiamma la protesta contro la pericolosità dei nuovi impianti del cosiddetto Petrolchimico 2, dove, a partire dal 2 dicembre del 1971 – quando una fuga di fosgene al reparto TD5 intossica 60 operai – si verifica una serie impressionante di incidenti. È da questa emergenza – confermata da una circolare dell’Ispettorato del lavoro di Venezia che fa obbligo individuale della maschera antigas per i lavoratori di oltre 200 ditte dell’area – che si sviluppano lotte generali per il risanamento ambientale di Porto Marghera, secondo lo schema ‘fermata-risanamento-riavvio’.

A Verona gli studenti dell’Istituto di Medicina del lavoro del Policlinico – nato nel 1971 – collaborano con i delegati delle Confezioni Abital e delle Officine Adige nelle prime indagini ambientali; a Vicenza le vertenze contro la nocività si avvalgono del contributo di un collettivo di obiettori di coscienza destinati al servizio civile presso il patronato ITAL-UIL, ma di fatto al servizio del sindacato unitario. Su pressione sindacale a Vicenza, Venezia, Mira e Conegliano nascono i primi servizi di medicina del lavoro, sotto la forma di consorzi volontari, o per iniziativa di singoli enti locali. A Montebelluna e nei comuni della Riviera del Brenta la medicina del lavoro affronta il problema della polineurite da collanti che affligge i lavoratori calzaturieri nelle fabbriche e nelle abitazioni.

Durante la Conferenza unitaria su Fabbrica e salute che si svolge a Rimini nel 1972, le esperienze venete portano un contributo importante alla discussione nazionale. Intervengono delegati di grandi aziende, imprese di manutenzione e fabbriche distrettuali; sindacalisti impegnati nelle categorie e nei patronati; medici che operano nell’ambito del Centro regionale per la promozione della salute fondato dalla CGIL e della sua rivista «La salute» (dal 1976 «Salute fabbrica società»). Ma accanto ai successi della linea di ‘non monetizzazione’, a Rimini si registrano anche le resistenze culturali di parte operaia, come accade in due piccole fabbriche meccaniche del Veneziano in cui – riferisce il direttore dell’INAS-CISL – gli operai avevano svenduto l’accordo su un contributo pro capite per l’indagine ambientale, preferendo metterselo in tasca (Federazione CGIL-CISL-UIL, Fabbrica e salute, Atti della conferenza nazionale, 1972, p. 445).

Nel 1974 si avviano i primi corsi di 150 ore. A Vicenza – dove il Coordinamento 150 ore fa capo alla Pastorale del lavoro di don Gastaldello – i corsi serali per il recupero dell’obbligo competono con una solida rete di scuole serali private e incontrano la domanda di qualificazione degli operai di piccola impresa, mentre i più sindacalizzati scelgono i corsi monografici, come quello organizzato presso l’Istituto Fedele Lampertico su Salute e organizzazione del lavoro. In provincia di Verona – tra Villafranca, Legnago, San Bonifacio e Isola della Scala – sono oltre 4000 i lavoratori che ottengono una licenza scolastica nei primi quattro anni dall’istituzione delle 150 ore. Nel febbraio del 1975 il consiglio di zona di Santa Maria di Sala – un paesotto a pochi chilometri da Porto Marghera, dove è cresciuta una grossa area industriale – guida con successo uno sciopero generale di zona contro il rifiuto della preside di concedere le aule per lo svolgimento dei corsi. Al convegno regionale unitario sulle 150 ore che si tiene nel 1977 a Cison di Valmarino, in provincia di Treviso, il sindacato conferma l’investimento strategico su uno strumento che ritiene capace di estirpare finalmente l’analfabetismo e «garantire a tutti il possesso degli strumenti indispensabili ad un miglioramento di autonomia e di partecipazione sociale» (Convegno sulle «150 ore», «Salute fabbrica società», 1977, 5, pp. 41-42).

La convinzione che gli imprenditori debbano risarcire il territorio che consumano e le esistenze che stravolgono si traduce nella campagna della FLM per una contribuzione datoriale dell’1% sul monte salari per i servizi sociali comunali (asili nido, scuole materne, trasporti, mense, servizi di medicina preventiva), da ottenere tramite accordi aziendali. L’idea è quella di un welfare locale e costruito dal basso grazie all’impegno di una classe operaia in grado di tutelare interessi generali proprio in quanto comunitari. Nella cultura dei nuovi delegati veneti, del resto, il confine tra ambienti di lavoro e ambiente sociale è quanto mai poroso e la lotta sindacale nel territorio finisce per essere, prima che una linea politica, lo strumento più naturale e sentito.

Tra crisi e mobilitazione interstiziale

Tra 1970 e 1976 la CISL veneta aumenta i suoi iscritti del 36,2% (diventando seconda solo alla CISL lombarda) e rimane in testa, anche se ormai di misura. Il recupero più importante (+49,9%) è quello della CGIL, che nella scelta del ‘sindacato dei consigli’ sembra trovare la risorsa per rinnovarsi e superare la sua subalternità. La densità sindacale raggiunge il 52%, in linea con i livelli di Lombardia e Piemonte. Il Veneto si avvia a staccare le altre regioni del Nord per tasso di incremento del valore aggiunto nell’industria e reddito pro capite. L’area del lavoro dipendente si espande, il saldo migratorio cambia segno, la popolazione residente comincia a crescere. Grazie alle capacità artigianali, all’aiuto di amici e parenti e a un alto tasso di autosfruttamento, molte famiglie operaie si costruiscono la casa di proprietà, ridisegnando lo skyline della campagna. Questi fenomeni sono accompagnati dalla «mobilitazione interstiziale» della classe operaia della piccola industria, dove le relazioni sindacali mantengono alti tassi di informalità e il lavoro «è più pesante, è pagato di meno ed è assai poco tutelato o sicuro. Ma riesce a conferire un minimo di identità» (A. Accornero, «Fabbrica diffusa» e nuova classe operaia, 1978, poi in «Quaderni di rassegna sindacale», 2008, 2, p. 19).

A perdere peso è invece la grande industria concentrata. I primi segnali arrivano nel 1970 con la crisi della Sava di Porto Marghera, controllata per metà dall’EFIM (Ente partecipazioni e Finanziamento Industria Manifatturiera). Nel polo veneziano è la mano pubblica a tenere in piedi altre storiche fabbriche: l’Istituto per la ricostruzione industriale (IRI) – già proprietario di Italsider, SACAIM (Società per Azioni Cementi Armati Ingegner Mantelli) e CNOMV (Cantieri Navali e Officine Meccaniche di Venezia) – salva la Galileo (1969); l’EFIM, le Leghe leggere (1973); l’Ente gestione attività minerarie (EGAM), l’Azienda minerali metallici italiani (AMMI), 1972, e la Vetrocoke (1974). Nel 1970 crolla l’impero del gruppo di confezioni Tamaro, insediatosi nell’area di Castelfranco sotto gli auspici del sindaco Sartor. La lunga lotta della Pellizzari, con diverse occupazioni (1971-72), non riesce a impedire il fallimento, la ‘irizzazione’ e il dimezzamento degli organici. Nello stesso anno il colosso Zoppas si fonde con la pordenonese Zanussi, iniziando a ridimensionarsi. Il tracollo della GECONF di Castelfranco e della Sanremo di Caerano San Marco è solo ritardato dall’intervento della finanziaria pubblica GEPI. Nel 1975 la liquidazione delle storiche Smalterie di Bassano del Grappa (1400 dipendenti) avvia lo smembramento della fabbrica, che darà impulso a molte nuove iniziative imprenditoriali da parte degli operai più qualificati. Nello stesso anno comincia la lunga ristrutturazione della Zedapa di Padova, una delle fabbriche in cui più intenso era stato l’intervento del movimento studentesco nel 1968-69, che porterà prima all’autogestione e poi, nel 1978, alla creazione di una cooperativa con capitale misto di lavoratori e imprenditori.

La cassa integrazione tocca l’apice nel 1975, con 44 milioni di ore tra gestione ordinaria, gestione speciale per l’edilizia e interventi straordinari, ma la crisi occupazionale è solo congiunturale: il tessuto delle piccole imprese vive un ulteriore incremento e si espande soprattutto il mercato del lavoro ‘secondario’. Il lavoro saltuario, flessibile, sommerso, doppio o triplo, un po’ salariato e un po’ autonomo è la risposta alla paura che il benessere conquistato da poco e a caro prezzo stia per finire, e allo stesso tempo la spia di un ulteriore allargamento della partecipazione sociale al lavoro, che a partire dal 1977 interessa soprattutto le donne. Il ‘vecchio’ lavoro a domicilio – circa 100.000 domicilianti secondo le stime del sindacato – conosce un’ultima stagione di gloria, senza che la legge pensata da Tina Anselmi dopo un’indagine alla Fracarro di Castelfranco riesca a farlo emergere nella sua estensione.

Questa ulteriore frammentazione della classe operaia, soprattutto di fronte allo sgretolamento delle ‘cittadelle operaie’, impone al sindacato una maggiore articolazione degli strumenti di contrattazione e rappresentanza. I ‘consiglioni’ delle grandi fabbriche corrono il rischio di un ripiegamento aziendalista, tanto più se aggrediti dalla minaccia della crisi, mentre i delegati tuttofare delle piccole imprese – uno o due per azienda, eletti non dal gruppo omogeneo ma dall’insieme dei lavoratori – sono ancora sulla trincea dei diritti contrattuali e allo stesso tempo già in prima linea sul fronte del decentramento produttivo (Castegnaro 1987). Se alla Mondadori di Verona si ragiona di un consiglio di ciclo che controlli e contratti l’uscita di lavorazioni dalla casa madre, nella miriade di realtà minori si sperimentano – per lo più si progettano – strumenti ancora più molecolari, come la lega sindacale di zona, la lega delle domicilianti, il coordinamento territoriale tra piccole imprese e la mensa interaziendale.

L’anello mancante tra la forza conquistata dagli operai nelle fabbriche e l’inseguimento della forza-lavoro che si disperde sul territorio viene individuato nei consigli unitari di zona. Dai primi esperimenti tra lavoratori metalmeccanici si passa all’obiettivo di consigli intercategoriali, attraverso i quali avvicinare e rappresentare anche precari e disoccupati. Nel settembre del 1971, attorno all’occupazione della Marzari, una piccola tipografia in cui vengono annunciati 29 licenziamenti, si giunge alla costituzione del Comitato intercategoriale zonale di Schio (CIZS), una delle esperienze più solide e durature, da stimolo ad altre nella provincia. A Treviso la Federazione unitaria approva un unico regolamento per i sei consigli di zona della provincia (Treviso, Castelfranco, Montebelluna, Conegliano, Vittorio Veneto, Oderzo), definendoli la struttura confederale decisionale a livello di territorio. Altrove l’iniziativa dal basso anticipa o travalica i propositi di regolamentazione delle strutture sindacali: succede a San Donà di Piave, a Santa Maria di Sala, a Caprino Veronese, a San Bonifacio, per iniziativa di gruppi giovanili e circoli paesani di cultura animati da un miscuglio di cattolicesimo radicale e suggestioni di nuova sinistra.

Alla spontanea e disordinata iniziativa di base le confederazioni rispondono con la riforma organizzativa, nel solco dell’istituzione dei comprensori da parte della regione (l. reg. 9 giugno 1975 nr. 80). Prima la CISL e poi – dopo il convegno nazionale unitario di Montesilvano (1979) – la CGIL avviano la riorganizzazione delle loro strutture zonali. Per quest’ultima sigla, l’individuazione di 26 zone sindacali e poi l’istituzione di 16 camere del lavoro comprensoriali rappresentano il tentativo di ‘inseguire’ sul territorio gli sfuggenti operai ‘minori’, competendo con la CISL sul terreno del suo successo. Nel progetto di Coldagelli – primo segretario generale della CGIL Veneto – «una struttura regionale decentrata» è la vera alternativa democratica al modello «borbonico» dello Stato italiano, a patto che essa fondi la sua legittimità politica sui consigli di zona (N. Coldagelli, Lotta per le riforme e riorganizzazione del sindacato, in Il sindacato nella dimensione regionale, a cura di P. Buran, 1977, p. 180).

Se la regionalizzazione del sindacato si propone come livello di sintesi di un’organizzazione fondata sulla partecipazione dal basso, essa viene anche sempre più incontro all’esigenza di un confronto istituzionale con il nuovo ente. Alle prime elezioni regionali (7-8 giugno 1970), nonostante una leggera flessione, la DC ottiene oltre il 50% dei voti, staccando di gran misura le sinistre. Primo presidente della Giunta regionale è l’ingegnere veronese Angelo Tomelleri, fedele bisagliano, che rimarrà in carica per un decennio, guadagnandosi il soprannome di ‘doge’. Nelle sue giunte siede sin da subito Francesco Guidolin, dirigente della CISL vicentina, che abbandona tutti gli incarichi sindacali. Il nuovo ente offre alla DC veneta – sino ad allora alquanto fredda rispetto al regionalismo delle sinistre – un formidabile strumento di consolidamento del consenso, non solo attraverso una calibrata scelta degli assessori in rappresentanza dei territori, ma anche tramite l’intervento diretto nelle crisi aziendali e nei conflitti di lavoro.

Il sindacato individua subito nella regione, in virtù dei suoi poteri di legislazione e programmazione, una controparte in tema sia di sviluppo sia di riforme sociali. I tempi del Piano di sviluppo economico regionale 1966-70, varato da Innocenzo Gasparini (1920-1985) in nome del ‘recupero’ del ritardo storico, sembrano lontanissimi: ora ‘governo democratico dello sviluppo’ significa per il sindacato non più riequilibrio, ma risarcimento dei costi sociali dell’industrializzazione accelerata, controllo del mercato del lavoro, pianificazione degli investimenti contro una crescita spontanea che gli amministratori dei livelli più bassi e gli artigiani vorrebbero sorretta da interventi pubblici a pioggia.

Si apre una stagione di fitte consultazioni, a colpi di piani di settore e documenti di sintesi siglati dalla Federazione CGIL-CISL-UIL: difesa dei livelli occupazionali, controllo del decentramento, politiche pubbliche nell’edilizia, pubblicizzazione dei trasporti, sostegno al credito per la piccola industria e l’artigianato tramite una finanziaria regionale, consorziazione delle piccole aziende come risposta alle patologie del ‘terzismo’, riforma sanitaria e servizi di medicina del lavoro sono le richieste principali. Circa i risultati di questa stagione ‘iperconsultiva’ i giudizi sono difformi. Se la CGIL vi intravede presto il rischio di una «partecipazione senza potere», in cui «l’avvenuto rafforzamento della rappresentanza politica della classe operaia» rimaneva «dentro ad uno schema di scambio di risorse simboliche» (F. Belussi, Negoziato politico e contrattazione sindacale nelle aree ad economia diffusa, «Oltre il ponte», 1983, 3, p. 119), il parere del segretario regionale della CISL Luigi Viviani è invece che, nonostante i risultati siano stati inferiori «agli sforzi compiuti e alle energie impiegate», il sindacato fosse riuscito ad «avvicinare maggiormente soggetti istituzionali nuovi (regione) o dediti alla tradizionale amministrazione pubblica (comuni) proprio alle nuove problematiche economico-sociali e del lavoro che emergevano dentro lo sviluppo» (L. Viviani, Sindacato e sviluppo nel Veneto: una proposta di lettura, «Strumenti», 1988, 1, pp. 47-48).

Per tutti gli anni Settanta l’attività consultiva è ancora accompagnata e sostenuta da quella vertenziale, nonostante la caduta del numero dei conflitti, che passano dai 415 del periodo 1972-75 ai 158 del 1980-83 (Castegnaro, in La società veneta, 1985, p. 428). Nel 1974 viene organizzata una settimana di lotta con scioperi articolati per categorie e con delegazioni sindacali che si presentano a Palazzo Balbi, sede della Giunta regionale, a illustrare i problemi dei vari settori. Una seconda ondata di mobilitazione generale porta alla prima intesa complessiva Giunta-Federazione, siglata il 9 febbraio del 1977. Tra i temi più caldi c’è quello del trasporto locale. Dopo gli scioperi per il contratto degli autisti della miriade di autolinee private e degli studenti per la gratuità, inizia la battaglia sulle gravi condizioni di pendolarismo degli operai, che si muovono ancora prevalentemente con mezzi privati poveri. Nell’autunno del 1974 la Federazione veneziana organizza un’aspra battaglia di autoriduzione che dà la spallata a una prima legge regionale sulle tariffe e poi, nel 1977, all’impegno per la pubblicizzazione del trasporto locale (l. reg. 4 nov. 1977 nr. 63). È su pressione del movimento sindacale che si giunge alla legge del 1975 che istituisce i Consorzi sociosanitari, anticipando la riforma nazionale (l. reg. 30 maggio 1975 nr. 64) e poi alla legge di iniziativa popolare su prevenzione, igiene e sicurezza nei luoghi di lavoro (l. reg. 30 nov. 1982 nr. 54).

Nel 1978 i lavoratori ospedalieri del Veneto, insoddisfatti del contratto nazionale, entrano in sciopero. Per quaranta giorni gli ospedali restano bloccati e il 28 settembre un corteo di barche paralizza per un’intera giornata il Canal Grande. La vertenza si chiude con un accordo che fa scandalo e accende in tutta Italia una nuova ondata di scioperi: la Giunta di Tomelleri concede infatti ai lavoratori veneti 27.000 lire di aumento in più sul contratto, inaugurando in modo unilaterale – tra gli imbarazzi dell’unitaria Federazione lavoratori ospedalieri (FLO) – la contrattazione integrativa regionale.

In assenza di un livello negoziale formalizzato, tuttavia, la regione finisce per essere solo l’interlocutore di una domanda politica e il teatro simbolico dei conflitti aziendali e territoriali. Il 4 luglio 1978, per es., davanti al sontuoso Palazzo Ferro-Fini, che ospita il consiglio regionale, si celebra il rito della marcia dei delegati della Papa che chiedono il salvataggio della loro fabbrica. Il conflitto operaio lascia la periferia paesana per manifestarsi al centro, con l’‘assedio’ del papazzo veneziano da parte di un imponente corteo appoggiato dai consigli di fabbrica di Porto Marghera. L’azienda comunque fallisce ma, anche grazie all’interessamento del Partito socialista italiano (PSI) di Gianni De Michelis, i lavoratori vengono protetti da una cassa integrazione straordinaria di due anni. È questo un tipico esempio di come gli interventi regionali in campo economico assumano solo una forma distributiva e localistica, confermando l’assenza di qualunque programmazione strategica (Trigilia 1986).

Con l’arresto del fondatore della Papa, nell’estate del 1979, esce di scena l’ultimo dei paroni veneti della vecchia guardia. E forse quella della Papa – ‘fabbrichetta’ di legno del Basso Piave, cresciuta a dismisura grazie a una combinazione di inventiva imprenditoriale e brutale sfruttamento del lavoro – è l’ultima vertenza di una stagione del sindacalismo veneto in cui la richiesta di avere l’acqua corrente nei reparti e quella di partecipare alla ristrutturazione di un’azienda affermata sui mercati internazionali si sono avvicendate in un lasso di tempo sorprendentemente breve.

Se con Nino Papa muore l’ultimo dei padroni della generazione di Augusto Zoppas e Pilade Riello è perché avanza un nuovo strato di imprenditori, che negli anni del secondo boom del Nord-Est verranno definiti talvolta sprezzantemente ‘padroncini’ (Stella 1996). Se ne accorge un’inquieta, lucida e intelligente rivista dell’eterodossia cislina, «Ombre bianche» che riferisce di un accordo siglato in piena autonomia da un piccolo consiglio di fabbrica su investimenti, occupazione e decentramento, con il riconoscimento del diritto all’informazione sulle esternalizzazioni. A un mese dalla chiusura della vertenza quattro operai – fra loro due delegati – avevano deciso di ‘mettersi in proprio’ e lavorare su commissione dell’azienda; la nuova società aveva preso il nome di Kama, dalle iniziali di Karl Marx. I quattro nuovi imprenditori erano giovani, qualificati, provenivano da famiglie di condizioni modeste, avevano un decennio di fabbrica e di sindacato sulle spalle. Ascoltando le loro storie, Corrado Squarzon aveva riconosciuto «persone alla ricerca [non] di un senso esistenziale al di fuori della contraddizione del lavoro», ma della «possibilità di trasformare la propria identità di sfruttati […] in una nuova “avventura” di produttori anche di sé stessi». Il sindacato, invece, aveva vissuto la decisione come «una doccia fredda», liquidandola come frutto di mere motivazioni economiche: «fatti loro», insomma. Secondo l’autore, in quello scorcio del decennio del grande successo sindacale, era giunto il momento di chiedersi se il fatto che il sindacato traesse motivo di esistenza dal lavoro salariato non rischiasse di diventare un arroccamento ideologico, e se non fosse il caso di proporsi «nuovi termini del discorso ed un linguaggio nuovo per trovare dei canali di comunicazione con certi strati sociali che atteggiamenti superficiali rischiano di ghettizzare. Ributtando la tentazione di un loro recupero missionaresco alla bontà delle nostre convinzioni» (C. Squarzon, Fatti loro? La storia di un viaggio “da sfruttati a produttori”, «Ombre bianche», 1979, nr. unico a circolazione interna, pp. 37-44).

Culture sindacali

Veneto è bello

La rivista «Ombre bianche» (1979-81) rappresenta il punto di approdo di un certo modo di praticare il sindacato che era diventato possibile all’indomani del 1968-69 e che entra in crisi alla fine degli anni Settanta; allo stesso tempo, essa contiene i semi di analisi e tendenze che investiranno il mondo sindacale e la società veneta nel decennio successivo. Formalmente la rivista è espressione di una cooperativa, costituita appositamente per editarla in autonomia. Le danno vita alcuni intellettuali sindacalisti: veneti, poco più che trentenni, cresciuti nei gruppi cattolici del dissenso, quasi tutti hanno vissuto il Sessantotto all’università e poco dopo sono entrati nella CISL. Il gruppo trainante è formato da Federico Bozzini (1943-1999), Maurizio Carbognin e Alessandro Castegnaro: il primo è uno storico che dalle scuole medie all’università ha lavorato per mantenersi; è lui che ha coniato il titolo della rivista, per ‘venetizzare’ – e un po’ canzonare – l’esperienza torinese di «Ombre rosse»; gli altri due sono sociologi, laureati all’università di Trento. Tutti sono stati formatori, cioè docenti nelle scuole quadri della FIM e della CISL. Hanno vissuto l’impegno nel sindacato come una militanza, da cui hanno tratto un ampio bagaglio di conoscenze sulla società e sulle persone, sui mondi del lavoro e sulla ‘macchina’ sindacale.

La rivista nasce per rispondere alla «crisi di identità di una generazione» (M. Carbognin, A proposito di identità, «Ombre bianche», 1979, nr. unico a circolazione interna, p. 8) che fa i conti con l’esaurirsi di un ciclo di lotte, l’affacciarsi del ‘riflusso’ e il dilagare del terrorismo. Si interroga sul ‘malessere sindacale’ che si esprime come una sorta di malattia professionale e spesso sfocia nell’abbandono dell’organizzazione da parte dei più brillanti e motivati; dà spazio ai temi della soggettività, della vita e della morte sul lavoro, e riflette su come essi impattino la tradizionale cultura operaia. Sfida il senso comune sindacale, ospitando storie di vita di vecchi militanti accanto a quelle di giovani precari che raccontano il loro viaggio nella droga e di delegati che spiegano cosa significhi scoprire che un proprio compagno ha scelto la lotta armata; di fronte agli arresti indiscriminati ordinati dal giudice Pietro Calogero in ambienti che lambiscono il sindacato, pubblica dibattiti e interventi sul garantismo e sulle pratiche di illegalità e violenza nella storia del movimento operaio (Negri 2009); ma sollecita anche la testimonianza di un dirigente dei metalmeccanici che – protetto dall’anonimato – spiega cosa voglia dire essere omosessuale in fabbrica: «Un giorno un lavoratore si vantò di essere andato, la sera prima, a picchiare gli omosessuali che battevano i marciapiedi. Per la prima volta fui costretto a chiedermi se ero in primo luogo lavoratore o omosessuale. Per me è più importante quello che produco o quello che sono? Chi erano i compagni che volevo difendere? Gli omosessuali o gli operai?» (Esperienze di un militante sindacale omosessuale, articolo non firmato, «Ombre bianche», 1980, 4, p. 31).

I redattori avanzano una proposta di riforma del sindacato. Prendono atto dell’esistenza ormai acclarata della «Terza Italia», del peso crescente della variabile territoriale nello sviluppo economico e nei rapporti sociali, della crucialità della relazione centro-periferia nei moderni sistemi politici, dell’esistenza di una fascia crescente di lavoratori (nella piccola impresa, nel lavoro a domicilio, nel lavoro precario e sommerso) che non trovano reale rappresentanza nel sindacato. Propongono un «sindacato popolare e locale» al posto di quello «unionista» e «di classe» che si era forgiato a cavallo dell’‘autunno caldo’ e che, dopo la cosiddetta svolta dell’EUR (l’assemblea dei consigli generali e dei quadri di CGIL, CISL e UIL, tenutasi a Roma, all’EUR, nel febbraio 1978, che approvò una politica rigorosa di sacrifici a fronte delle difficoltà economiche del momento), si stava trasformando in un sindacato «neocorporativo»; immaginano un’organizzazione in grado di esprimersi non solo nella lotta ma anche nella costruzione di rapporti sociali («istruirsi, associarsi, cooperare, produrre cultura»), legittimato ‘in basso’, dai lavoratori e nei territori, piuttosto che ‘in alto’, dalle facilitazioni istituzionali e dalla ‘concertazione’ con governo e Confindustria; federale, cioè localmente differenziato in funzione del contesto specifico in cui si trova a operare, invece che centralizzatore, cioè portato ad estendere ovunque un unico modello organizzativo (Ipotesi per un sindacato popolare, «Ombre bianche», 1980, 4, pp. 8-15).

Oltre che sindacale, è una battaglia culturale quella condotta dalle pagine di «Ombre bianche». Il più determinato a portarla avanti è Bozzini, che nel primo numero pubblica un articolo dal titolo Veneto è bello («Ombre bianche», 1979, nr. unico a circolazione interna, pp. 15-36), dove si dice che per decenni i veneti – le classi popolari venete – si sono vergognati di loro stessi e hanno introiettato una subalternità culturale; anche dal punto di vista sindacale, l’«operaismo cattolico» della FIM – quello che, con gli strumenti concettuali dell’operaismo marxista, ha cercato di interpretare «il meridionale, il veneto, il contadino che ha trasportato in fabbrica e in città la sua cultura preindustriale e preurbana» – ha finito per disincarnare il sindacato «dal territorio e dalla gente». Nei numeri successivi Bozzini va alla ricerca della genealogia di questa subalternità – che secondo lui comincia all’indomani dell’unificazione nazionale – come se fosse un percorso storiografico di liberazione da una sorta di dominio coloniale.

«Ombre bianche» chiude dopo il quinto numero, per l’ostilità della dirigenza sindacale, quindi sostanzialmente per una sconfitta politica. Alcuni dei redattori – come Bozzini – si allontanano dal sindacato, altri cercano strade diverse all’interno dell’organizzazione. Carbognin e Castegnaro, per es., proseguono un percorso di ricerca e organizzazione culturale nel centro studi della CISL veneta, cioè la Fondazione Giuseppe Corazzin, fondata nello stesso anno di «Ombre bianche» ma che le sopravvive, fino a oggi, pur con vitalità e risorse calanti nel tempo (Sotto la superficie. Dieci anni di ricerche e interpretazioni sulla società e i suoi attori 1979-1989, 1989). La Fondazione Corazzin rappresenta la risposta istituzionale a molti dei temi che la rivista ‘eretica’ aveva posto alla CISL veneta. Insieme al quasi coevo Istituto di ricerche economiche e sociali (IRES Veneto), nato nel 1981 come emanazione della CGIL regionale, costituisce il miglior contributo che le culture sindacali hanno dato, soprattutto negli anni Ottanta, alla ‘scoperta’ e alla comprensione del Veneto moderno e industriale, che si rivelava a se stesso, fuoriuscendo dallo stereotipo del Mezzogiorno del Nord da cui siamo partiti (Il sentiero veneto. Il Veneto dalle ricerche IRES, 1988).

Il sindacato, più che i partiti ormai risucchiati in dinamiche tutte istituzionali, è ancora in grado, in questa fase, di auscultare la società regionale e di interagire con le culture locali, provando a rappresentarle ed elaborarle. Attraverso questi centri studi esso mantiene aperti i contatti con le università di Padova, Venezia,Trento e (dal 1982) Verona: gli intellettuali-militanti, attivati nella stagione delle lotte e dell’incontro tra studenti e operai, si stanno stabilizzando all’interno del mondo accademico, e in questa fase distillano in forma scientifica le esperienze e le ‘ricerche sul campo’ condotte nel decennio precedente.

Di modello veneto, come via al decentramento produttivo fondato sulla piccola impresa, si era cominciato a parlare negli anni Settanta, all’interno della cultura operaista, per evidenziarne gli elementi di fragilità e arretratezza e preconizzarne la crisi imminente (M. Cacciari, Struttura e crisi del «modello» economico e sociale veneto, «Classe», 1975, 11, nr. monografico: Monopolio e dipendenza. L’area veneta, pp. 3-20). Nel 1980, invece, nei seminari e poi nei «Quaderni» della Fondazione Corazzin, lo si riconosce come un modo moderno di organizzazione capitalistica; per comprenderne le radici viene proposto uno studio sistematico della società veneta, della sua storia e del suo modo di funzionare. Nello stesso anno la segreteria regionale della FIOM, in una sere di interventi, lo presenta come un «fatto dinamico» dell’organizzazione produttiva a piccola scala, in un contesto di «economia periferica ma non marginale o fragile anzi di grande vitalità», dove «l’occupazione si modifica ma si sviluppa» e dove il «sindacato nuovo» dovrebbe abbandonare «vecchie centralità (la grande fabbrica, la categoria, la provincia, ecc.)» e impegnarsi nella «contrattazione di zona» per essere efficace e ricomporre un mondo del lavoro frammentato e mobile sul territorio (S. Lanaro, R. Serri, M. Cacciari et al., Modello veneto. Realtà e prospettive, 1981).

È un periodo di grande vivacità scientifica ed epistemologica un po’ in tutta Italia: ai margini delle organizzazioni sindacali, la ‘meglio gioventù’ che dieci o quindici anni prima si era accostata alla classe operaia come un soggetto rivoluzionario, ora lo trasforma in un oggetto di ricerca. Questa repentina conversione dalle lotte agli studi produce la stagione più feconda per la storiografia sul lavoro e il movimento operaio. Il rimescolamento degli anni Settanta aveva abbattuto alcune barriere tra cultura ‘alta’ e ‘bassa’: su quel terreno così dissodato nasce la microstoria e si intensificano gli scambi tra storiografia e scienze sociali.

Il Veneto vi contribuisce con le prime ricerche di Cesco Chinello sulle origini di Porto Marghera, viste da Venezia (C. Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del “problema di Venezia”, 1979), e soprattutto con quelle del gruppo di studio guidato da Francesco Piva e Giuseppe Tattara, che ne esplora invece le radici venete e contadine (I primi operai di Marghera: mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di F. Piva, G. Tattara, 1983). La Fondazione Corazzin indaga le matrici culturali del sindacalismo cislino studiando le leghe ‘bianche’, le lotte agrarie, i legami tra campagna e fabbrica (P. Feltrin, A. Miolli, La scoperta dell’antagonismo, 1981; S. Tramontin, Dalla ribellione all’organizzazione. Le leghe bianche e l’opera di G. Corazzin a Treviso 1910-1925, 1982). Mentre un gruppo di storici di sinistra, coordinati da Silvio Lanaro, nel 1984 produce un volume di sintesi sulla storia regionale che scandaglia la genealogia del ‘modello veneto’ ma non trascura l’‘altro Veneto’ rappresentato da dissidenti, emigranti, socialisti (Storia d’Italia, 1984).

Il Veneto com’è

Dal 1983 l’IRES Veneto si dota di una rivista trimestrale («Oltre il ponte», poi «Economia e società regionale») dove – accanto all’attenzione consolidata per Porto Marghera e le grandi fabbriche – viene indagata quella che Bruno Anastasia ed Enzo Rullani definiscono una «nuova periferia industriale» (Anastasia, Rullani 1982). Nello stesso periodo, appoggiandosi ai giovani ricercatori della Fondazione Corazzin e dell’IRES veneto, gli studiosi della ‘Terza Italia’ indagano comparativamente Toscana ‘rossa’ e Veneto ‘bianco’, Colle Val d’Elsa e Bassano del Grappa, per rintracciare le omologie presenti tra le aree a ‘economia diffusa’ dove allignano i grandi partiti e le piccole imprese (Società e politica nelle aree di piccola impresa, 1984; Trigilia 1986).

Queste ricerche consentono di fare confronti anche all’interno dello stesso Veneto, tra le culture del lavoro espresse nella ‘fabbrica diffusa’ (Bassano) e nella grande concentrazione industriale (Mestre-Marghera). In entrambi i contesti gli operai – pur sottoposti a dosi massicce di pedagogie lavoristiche di matrice cattolica o comunista – sfuggono ai ‘destini’ che altri hanno assegnato loro e mostrano di avere un rapporto laico, prosaico e utilitaristico con il lavoro: «producono un loro “pensiero sul lavoro”, basato sull’esperienza e sull’interazione sociale, che ha ben poco a che fare con le subculture politiche e tanto meno con le ideologie del lavoro» (Castegnaro, in La società veneta, 1985, p. 111). Quelli meno infelici (o melanconici, come li avrebbe definiti Fausto Anderlini in Ristrutturazione aziendale e melanconia operaia. Il caso Zanussi-Electrolux di Susegana, 1993), tutto sommato, non sono le ‘aristocrazie operaie’ e sindacali della grande fabbrica, inchiodate a un ruolo che non consente evoluzione, ma i lavoratori di piccola impresa, che sono inseriti in un contesto socioeconomico dinamico e possono giocare su una tastiera di risorse molto più ricca, «entro cui il posto di lavoro operaio è solo una delle chances a disposizione, mentre le altre provengono dall’essere al centro di strategie familiari complesse e di un reticolo di relazioni che consente di trarre vantaggio dalle opportunità di mobilità sociale tipiche di queste aree» (I. Diamanti, P. Feltrin, I comportamenti politici nel Veneto: un bilancio critico della ricerca, «Prospettiva sindacale», 1986, 59, p. 161).

La scoperta della classe operaia com’è e non come dovrebbe essere viene metabolizzata più rapidamente dalla CISL che dalla CGIL. Quando, nel 1993, dopo un decennio di lontananza, Bozzini si riavvicina al suo sindacato, trova una struttura efficiente e perfettamente organizzata «che dieci anni prima non era minimamente ipotizzabile [...]. Tutto era cambiato. Gli uffici erano informatizzati. Gli operatori erano giovani, intelligenti, vivaci»: in quella congiuntura le aziende chiudevano (ma altre aprivano) e «decine di operai arrivavano, ottenevano indicazioni tecniche inappuntabili, e se ne andavano soddisfatti del gruzzolo che l’organizzazione garantiva con strumenti contrattuali o legali» (F. Bozzini, Veneto è ricco. Alcune osservazioni sulla cultura, i soldi e Pietro Maso. Con la proposta di una vertenza, 1995, pp. 3-4; Bozzini 1993). La CISL aderisce plasticamente al territorio anche perché si giova di ciò che resta dell’antico legame con la subcultura cattolica e delle facilitazioni istituzionali che ha dal governo regionale e dalle amministrazioni locali democristiane, dove invece la CGIL – per un riflesso condizionato dovuto alla sua cultura politica prevalente (G. Riccamboni, L’identità esclusa. Comunisti in una subcultura bianca, 1992) – tende a sentirsi come un fortino assediato, anche se in realtà sperimenta forme di presenza, servizi e tutela non dissimili da quelle offerte dalla CISL.

Nel 1980 la CGIL – parallelamente a CISL e UIL – riforma la propria organizzazione territoriale: nascono le camere del lavoro comprensoriali, al posto di quelle provinciali, per meglio adattarsi alla multiforme geografia dei distretti industriali che connota la Regione Veneto (Sbordone 2007). Contemporaneamente, l’esaurirsi della fase alta di lotte e il ridursi della stessa presenza operaia a Porto Marghera libera una serie di operai sindacalizzati e di giovani quadri che si spargono sul territorio, assunti nelle ‘fabbriche diffuse’ in espansione o distaccati nelle nuove camere del lavoro, riuscendo spesso a portare una prima presenza sindacale nella piccola e media azienda e a operare sintesi efficaci tra la mission del sindacato ‘rosso’ e la cultura della società che li accoglie: disciplina e dedizione alla causa – caratteristiche idealtipiche dei dirigenti e militanti CGIL – si convertono in serietà e affidabilità, qualità assai apprezzate nel ‘mercato’ dei servizi ai lavoratori.

Queste sperimentazioni in periferia sono osservate con un certo sospetto dai vertici nazionali, che hanno una cultura di tipo ‘fordista’ e guardano con sufficienza se non con diffidenza a quel che avviene a est di Milano e a nord di Bologna. Nella seconda metà degli anni Ottanta, dopo una serie ininterrotta di segretari generali provenienti dal triangolo industriale e dalle regioni rosse (con la notevole eccezione del pugliese Giuseppe Di Vittorio nel dopoguerra), due ‘veneti’ salgono al vertice della CGIL: Antonio Pizzinato, nel 1986, e due anni dopo Bruno Trentin (1926-2007). Entrambi hanno importanti radici in regione, ma si sono formati sindacalmente altrove: il primo nella grande fabbrica a Sesto San Giovanni, il secondo nel Centro studi nazionale e poi nella FIOM degli anni Sessanta. Anche Trentin, nonostante la sua ricerca sul ‘federalismo sindacale’, parlando nel 1981 a un gruppo di operai padovani impegnati in esperienze di autogestione e cooperazione in sei aziende in crisi, definisce il ‘modello veneto’ di manifattura diffusa come un sintomo dei «ritardi profondi che vi sono stati nello sviluppo tecnologico, scientifico, di ricerca, di organizzazione dell’economia italiana rispetto alle tendenze che si sono sviluppate nel resto del mondo» (A. Casellato, Un federalista giacobino. Fascinazione e aporie dell’«autogoverno popolare» nel pensiero di Bruno Trentin, in Bruno Trentin e la sinistra italiana e francese, a cura di S. Cruciani, 2012, p. 294).

Il Nord-Est – questo è il neologismo che comincia a circolare nella seconda metà degli anni Ottanta e che sostituisce l’ormai anacronistico toponimo Triveneto (S. Meccoli, Passaggio a Nord-Est, 1987) – ingaggia una battaglia di riconoscimento nei confronti dell’opinione pubblica nazionale e «Il Gazzettino» di Giorgio Lago si propone come l’interprete di questo nuovo ‘miracolo’ tutto da raccontare (Argolini, in «Venetica», 2001). Mentre il Veneto manifatturiero cresce, Venezia industriale si atrofizza. Attorno alle fabbriche di Porto Marghera – e in particolare all’enorme Petrolchimico, investito da una lunga crisi produttiva e occupazionale (G. Zazzara, Il Petrolchimico, 2009) – sale il malessere dei residenti, specialmente dei giovani, che rifiutano il ‘destino operaio’ dei loro padri e chiedono una qualità della vita differente e un ambiente meno inquinato (Cerasi 2007).

Gli operai come sono (e non come dovrebbero essere) esercitano meno fascino agli occhi degli intellettuali e degli stessi partiti politici, che ormai tutt’al più pensano a metterli in archivio. Nel 1985, nella sede della federazione comunista padovana, nasce il Centro studi Ettore Luccini, che diventerà negli anni il più importante giacimento regionale di archivi della CGIL e del PCI. Contemporaneamente anche il veneziano Istituto Gramsci, che nel decennio precedente aveva animato gli studi storici e sociali sul modello veneto, si candida a diventare sede dell’archivio del movimento operaio regionale (Istituto Gramsci Veneto, Un decennio di politica culturale nel Veneto, a cura di M. Bellemo, U. Curi, 1987). Per questo nel 1986 Chinello vi deposita un’ingente raccolta di documenti contenente la storia operaia e sindacale di Venezia e Porto Marghera: nel 1993 l’archivio finisce inopinatamente in una discarica, ritenuto dai dirigenti dell’Istituto Gramsci un inutile ingombro (C. Chinello, Un barbaro veneziano. Mezzo secolo da comunista, 2008). La vicenda viene letta come una metafora della sinistra che non ‘vede’ più gli operai.

Ai primi anni Novanta la Lega Nord risulta elettoralmente il primo partito operaio, non soltanto in Veneto. Prende voti soprattutto nella periferia industriale che è ormai il cuore manifatturiero del Paese (Almagisti, Riccamboni, in «Venetica», 2001; Casellato, Zazzara 2010). I sindacati sono i primi ad averne consapevolezza, ma non sanno come intervenire. La contraddizione esplode nel biennio 1996-97: nel 1996 la Lega abbraccia la causa secessionista, dilaga elettoralmente a Nord-Est e lancia un proprio Sindacato padano (SINPA); l’8 maggio 1997 un gruppo di uomini in tuta mimetica, con un trattore camuffato da carro armato, parte da Terrassa Padovana, sbarca in Piazza San Marco, si asserraglia sul campanile ed espone la bandiera della Repubblica veneta, suscitando un’enorme eco mediatica. CGIL, CISL e UIL condannano il gesto con un comunicato che viene distribuito nelle fabbriche, provocando reazioni vivacissime tra gli operai veneti. Nelle aziende si apre un dibattito duro, nel quale i dirigenti locali dei sindacati e i delegati aziendali sono in prima linea a difendere la propria organizzazione e l’unità nazionale, confrontandosi nelle assemblee con la diffidenza e la rabbia dei lavoratori, che nel leghismo trovano un modo – come spiega un operatore sindacale della FIM nel Veronese – per mostrarsi «fieri di essere contro e orgogliosi di essere diversi» (Tre dialoghi attorno al campanile di San Marco, 1997, p. 44).

Improvvisamente la ‘politica’ riappare nella vita dei lavoratori, ma con simboli e obiettivi ben lontani da quelli che il movimento operaio del Novecento aveva pensato per loro. Che la classe operaia com’è possa essere disponibile a mettersi in moto, in autonomia o sotto altre bandiere, genera grandi paure, insieme a qualche curiosità. Due personaggi di generazioni, provenienze ed esperienze assai diverse, come Vittorio Foa (1910-2008) e Bozzini – un ebreo torinese di cultura azionista, già segretario della CGIL nazionale, e un cattolico veronese di estrazione proletaria, ‘eretico’ della CISL veneta – vent’anni dopo il loro primo incontro sull’onda delle lotte operaie degli anni Settanta e di quelle contadine di un secolo prima (Foa aveva scritto una lunga prefazione a F. Bozzini, Il furto campestre, 1977), si confrontano a Verona con un gruppo di sindacalisti e leghisti per ascoltare, dialogare e capire (Tre dialoghi attorno al campanile di San Marco, 1997). È un inatteso e conturbante appuntamento di fine secolo, pieno di echi e rimandi ad altri incroci e cortocircuiti della storia, che conferma quanto ‘straordinario’ sia stato (e in quanti modi diversi) il Veneto sindacale del secondo Novecento.

Bibliografia

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Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità ad oggi. Il Veneto, a cura di S. Lanaro, Torino 1984 (in partic. S. Lanaro, Genealogia di un modello, pp. 5-96; G. Roverato, La terza regione industriale, pp.165-230; P. Brunello, Contadini e «repetini». Modelli di stratificazione, pp. 861-909).

La società veneta. Rapporto sulla situazione sociale della regione 1984-85, a cura di Fondazione Corazzin, Padova 1985 (in partic. A. Castegnaro, Le trasformazioni della cultura del lavoro, pp. 101-21, Id., Le relazioni sindacali, pp. 427-62).

Operai e scelte politiche. Il caso delle zone bianche a economia diffusa del Veneto, a cura di F. Anderlini, C. Chinello, Milano 1986.

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F. Bozzini, Cipolle e libertà. Ricordi e pensieri di Gelmino Ottaviani operaio metalmeccanico alla soglia della pensione, Roma 1993.

C. Chinello, Sindacato, PCI, movimenti negli anni Sessanta. Porto Marghera-Venezia 1955-1970, Milano 1996.

G. Roverato, L’industria nel Veneto. Storia economica di un caso regionale, Padova 1996.

G.A. Stella, Schei. Dal boom alla rivolta il mitico Nordest, Milano 1996.

Tre dialoghi attorno al campanile di San Marco. Vittorio Foa e i veneti, a cura di F. Bozzini, Roma 1997.«Venetica», 2001, 4, nr. monografico: Il nuovo Veneto (in partic. M. Almagisti, G. Riccamboni, Forme di regolazione e capitale sociale in Veneto, pp. 9-62; A. Argolini, L’immagine costruita. Rappresentazione e trasformazione del Veneto nel «Gazzettino» di Giorgio Lago, 1984-1996, pp. 175-202).

L. Cerasi, Perdonare Marghera. La città del lavoro nella memoria post-industriale, Milano 2007.

G. Sbordone, Il filo rosso. Breve storia della CGIL nel Veneto bianco, Portogruaro 2007.

A. Casellato, G. Zazzara, Veneto agro. Operai e sindacato alla prova del leghismo (1980-2010), Treviso-Venezia 2010.

Rivoluzioni di paese. Gli anni Settanta in piccola scala, a cura di A. Boschiero, G. Favero, G. Zazzara, «Venetica», 2010, nr. monografico.

Questo saggio si è avvalso della documentazione inedita conservata presso il Centro studi Ettore Luccini di Padova, gli Archivi contemporanei di storia politica di Ca’ Tron di Roncade (TV), l’Istituto veneziano per la storia della Resistenza e della società contemporanea e il Centro di documentazione storico-etnografica del Veneto Orientale Giuseppe Pavanello di Meolo (VE).

Fondamentale è stata la collaborazione pluriennale con Alfiero Boschiero, direttore dell’IRES Veneto (A. Casellato, G. Zazzara, ‘Ascoltare il lavoro’ a Ca’ Foscari: un’esperienza di collaborazione tra sindacato e università, «Quaderni di rassegna sindacale. Lavori», 2012, 3, pp. 97-110).

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