LATIFONDO

Enciclopedia Italiana (1933)

LATIFONDO (lat. latifundum)

Raffaele Ciasca

In tema di latifondo, è da avvertire che ve ne sono in ogni parte d'Europa, e non solo in paesi agrariamente meno progrediti dell'Italia, quali l'Ungheria e gli stati balcanici, ma anche in quelli che procedono di pari passo con l'Italia o che la superano nell'agricoltura, quali la Russia, la Spagna, la Francia, la Germania, l'Inghilterra. Qui s'intende parlare esclusivamente del latifondo italiano. Ma anche in Italia bisogna distinguere il latifondo della bassa Lombardia, del basso Veneto e della pianura emiliana da quello delle isole, del Lazio, di parte della Maremma, dell'Italia meridionale. Il primo è normalmente diviso in modeste unità agrarie aggirantisi intorno ai 100 ha., fornito di stalle e di case coloniche, tagliato da strade, ben ordinato e sistemato, con ricco e abbondante prato irriguo, e poggia essenzialmente sulla coltura intensiva, sull'allevamento del bestiame bovino a stalla e su razionale utilizzazione dei sottoprodotti dell'azienda. Nel latifondo meridionale - per lo più impervio, dalle rarissime case, con capanne più o meno mobili - elemento fondamentale è la coltura cerealica associata o alternata al pascolo; l'unità agraria varia da 200 a 1000 e più ha. Ma il latifondo più che rispondere a un concetto geometrico, è in stretta connessione con la sua destinazione tecnico-agronomica: 100-300 ha., che costituiscono nella Campagna Romana una piccola tenuta, in Sicilia e in Lucania formano un latifondo tipo; nella Campagna Romana occorrono 1000 ha. perché il sistema latifondistico funzioni in pieno dal punto di vista tecnico ed economico; in Lombardia e nella pianura emiliana basta una superficie di 2/3 inferiore. I confini del latifondo non si confondono sempre con quelli del possesso fondiario. Vi sono grandi proprietarî che posseggono più latifondi, come vi sono latifondi appartenenti pro indiviso a più d'un proprietario; inoltre molti grandi proprietarî sono tali perché posseggono un gran numero di piccole aziende, che sono talvolta distaccate fra loro o che, anche se materialmente riunite, non formano un tutto organico da riguardarsi come un latifondo. Così pure grande proprietà e grande coltura non sempre coincidono.

Quando si parla del latifondo italiano, della necessità di trasformarlo e di colonizzarlo, si ha di solito presente il latifondo dell'Italia meridionale, che è indubbiamente uno degli aspetti più importanti dell'agricoltura italiana, data la sua estensione e la complessità dei problemi tecnici, economici e sociali ch'esso involge.

Il latifondo meridionale è comunemente concepito come una sterminata estensione di terreno appartenente a un solo proprietario, lasciata pressoché inutilizzata, quantunque abbia in sé le condizioni migliori per rendere largamente e immediatamente. Questo modo di intendere il latifondo, come già osservò G. Valenti, è fuori della realtà. Anzitutto esso non è quasi mai costituito da un sistema di terreni di uniforme giacitura e composizione, ma si presenta nelle sue diverse zone in condizioni di suolo, talora anche di clima, assai svariate. Vi sono latifondi che dalle spiagge del mare salgono alla vetta dei monti, raggiungendo, come in Calabria e in Sicilia, un'elevazione anche superiore ai 1000 m.: il 49,29% dei latifondi siciliani, per es., è in zona collinare, il 19,90% in zona pre-collinare, il 19,62% in alta collina, l'11,19% in montagna. Inoltre i latifondi, salvo una modesta percentuale, non sono incolti o del tutto inutilizzati. Come l'Italia non ha terreni incolti o inutilizzati più di altre nazioni assai avanzate nel progresso agricolo - nel 1894 su ettari 28.658.900 del regno si calcolava circa un milione di ha. d'incolti suscettibili di coltivazione, mentre questi ammontavano in Francia nel 1889 a 3.889.000, e in Inghilterra su 30.520.000, nel 1878, a poco meno di 10 milioni -, così le terre classiche del latifondo, la Sicilia e la Campagna Romana, ne hanno meno di altre regioni italiane. Per es., la Sicilia, la più ricca, dopo l'Emilia, di terre arabili - il 49,23% della superficie geografica, di contro alla media del regno ch'è del 38,47% - ne aveva, nel 1882, intorno a 100.000 ha., scesi a poco meno di 65.000 nel 1909 e non figuranti affatto fra i dati raccolti nel 1926 dal Molé; la Campagna Romana, su 204.000 ha. di latifondo, si può dire non abbia presentemente terreno che non sia coltivato o adibito a pascolo. Terreno vergine e fertile in un paese di alta densità demografica qual'è l'Italia, da 1/3 a 1/2 dedita ad occupazioni agrarie, è tale contraddizione di tutte le leggi economiche, che, se anche per un momento tal fatto esistesse, non tarderebbe a cessare per la forza naturale delle cose. Le statistiche, infatti, ci dicono che, a prescindere dai latifondi che per legge devono rimanere a bosco e che sarebbe dannoso sottoporre all'aratro, i più fra essi sono a coltura estensiva cerealica o a pascolo; mentre una area non troppo ristretta è a coltura specializzata.

Quando si dice "coltura estensiva", non si deve necessariamente pensare a sistemi agrarî da riprovare senz'altro. In Sicilia, per es., secondo i dati del Molé, riferibili al 1926, nonostante che ben 130 dei 1055 latifondi siano sforniti di acqua potabile per uomini e per bestiame, e l'1,66% dei terreni siano insuscettibili di coltura perché posti sull'Etna e coperti dalla lava, il 51,45% è bene e ottimamente coltivato, cioè con razionale turno delle colture erbacee, con dotazione di notevole patrimonio arboreo, congrua dotazione di fabbricati e d'acqua, e solo il 46,89% è poco o insufficientemente coltivato; i latifondi della Campagna Romana sono coltivati fin sulle colline, anche in terreno di povero rendimento, nonostante che la coltura comprometta la consistenza del suolo. Se le pratiche seguite per la coltivazione e la pastorizia nella zona del latifondo sono primitive e rozze, ciò non significa che il sistema economico agrario vigente sia irrazionale nel suo ordinamento. Se nel latifondo la coltura dei cereali si alterna di solito col maggese, cioè col riposo quasi assoluto della terra, invece che con quella compensatrice dei foraggi, ciò è dovuto soprattutto al fatto che l'aridità del clima costituisce un ostacolo all'impianto dei prati artificiali; la pastorizia si pratica all'aperto, perché il bestiame deve cercarsi il proprio alimento nelle pasture della campagna, non nella stalla; se l'unità agraria latifondistica è estesa in modo da comprendere decine di poderi della Toscana e parecchi latifondi della Lombardia, ciò si deve al fatto che, accoppiandosi all'agricoltura l'allevamento del bestiame, le greggi hanno bisogno di ampie estensioni per trovar la pastura. V'è ancora di più. Mentre, imperversando le crisi agrarie, le colture specializzate e le aziende a grande coltura intensiva si son visti talvolta di colpo dimezzati i redditi dalla concorrenza di altri paesi e si sono trovate costrette a ricorrere, per risollevarsi, a nuovi vistosi impieghi di capitale, il sistema latifondistico, soprattutto quello meno rigido dell'Agro Romano, ha risentito relativamente minor danno per la relativa facilità di allargare o restringere il pascolo e la coltura granaria adattandoli alle esigenze del mercato. Inoltre il sistema latifondistico è spesso legato all'economia rurale della stessa o di altre regioni. Ad es., il latifondo a pascolo della Campagna Romana è collegato con l'economia rurale di tutto l'Appennino centrale, colleganza divenuta più intima negli ultimi 130 anni, da quando pastori e proprietari di greggi della regione appenninica, vistisi mancare nelle Marche, nell'Abruzzo e nell'Umbria i pascoli, dissodati per la propizia natura del terreno e la maggior pressione della popolazione, si volsero alla Campagna Romana, dove all'allevamento di mandre di buoi e di cavalli sostituirono greggi di pecore. Infine la coltura latifondistica meridionale, pur richiedendo modesti capitali d'impianto e di esercizio, dà talvolta un reddito lordo di poco inferiore a quello ricavato da colture promiscue che molti additano quale rimedio sovrano per combattere il latifondo, e dà un reddito medio netto relativamente assai più elevato di colture intensive di altre regioni d'Italia.

Il latifondo non è una creazione artificiale dovuta all'avarizia o all'assenteismo di proprietarî, che hanno reso necessario il passaggio dalla coltura parcellare intensiva a quella unitaria estensiva. Non è neppure - anche a voler ammettere un certo legame tra feudo e latifondo - conseguenza dell'ordinamento feudale della terra; sia perché l'evo antico conobbe il latifondo e ad esso attribuì la rovina d'Italia (cfr. la celebre frase pliniana latifundia Italiam perdidere), sia anche perché in alcune località il latifondo è sopravvissuto all'abolizione del feudo, e in altre quest'ultimo si è affermato, anche quando agli antichi possessi latifondistici s'era da tempo già sostituita la media o la piccola proprietà con la piccola e media coltuza intensiva. Non, dunque, l'abolizione del feudo segnò la fine del latifondo, creando la piccola e la media proprietà. Queste preesistevano nelle loro condizioni essenziali, cioè nell'applicazione di capitale e lavoro da parte delle famiglie coltivatrici; l'abolizione della feudalità le liberò dai vincoli e permise loro una più libera espansione. Ciò avvenne in buona parte della Lucania e della Puglia, lungo le coste della Calabria e della Sicilia, e in alcune delle più popolate contrade della Campagna Romana. Ma altrove, ad es. nell'interno della Sicilia e della Calabria, nella bassa e impervia Lucania, nelle zone della Campagna Romana più lontane dai centri abitati o più abbandonate alle acque disordinate o impaludantisi o, nei secoli passati, alle scorrerie dei pirati, di barbareschi e di malandrini, dovunque insomma mancarono condizioni che assicurassero al colono una certa partecipazione alla proprietà della terra, dove non era continuità di possesso, né investimento di capitali in case, in piantagioni, ecc., dove nessun vincolo, né legale né di fatto, esisteva fra il colono e la terra, e dove perciò l'abolizione della feudalità, che implicava il riconoscimento di quel vincolo elevandolo a diritto di proprietà libera ed esclusiva non ebbe materia su cui esercitare la sua influenza, il latifondo continuò a vivere, si mantenne intatto nelle mani di borghesi e di mercanti di campagna, e nei casi in cui fu frazionato e ripartito a poveri agricoltori, si ricostituì con contratti fittizî o mercé usurpazione.

La spiegazione della persistenza del latifondo nonostante le mutate condizioni giuridiche dell'ordinamento delle proprietà terriera, è da ricercare nella natura stessa del latifondo. Esso cioè non è come dicevamo, una creazione arbitraria dell'uomo; ma un prodotto soprattutto di condizioni naturali e storiche. Fra quelle, primissime la scarsezza e la cattiva distribuzione delle piogge e la lunga siccità estiva, che rendono assai meno redditizia la coltura estiva delle leguminose, impossibili le larghe provviste di foraggio per il bestiame, e anche meno utili i concimi, i quali, non sciolti dalle acque piovane, determinano eccessiva salsedine nel terreno, nociva alle piante. Di qui conseguenze di grave momento: l'impossibilità di largo uso di concimi per restituire alla terra la fertilità sottrattale, determina la necessità di rotazioni, nelle quali la terra riposa uno o due anni, e di quei particolari contratti agrarî vigenti in Sicilia e altrove, pei quali il fondo, diviso in piccoli appezzamenti, si concede ai contadini soltanto per uno, due o tre anni, in quelli cioè nei quali si deve seminare il frumento, ma si ricompone nella sua unità colturale appena 1/4 o 1/3 di esso dev'essere convertito in maggese (profonde arature estive) o destinato al pascolo. Concorre a rassodare il sistema latifondistico la malaria, la quale, come indebolì e decimò nel passato le razze che colonizzarono alcune contrade meridionali, così caccia tuttora il coltivatore dalle larghe campagne, dove essa domina - l'emigrazione cominciò dalle campagne malariche pianeggianti, ricche di humus, e si estese più tardi alle zone alte, meno fertili e più sfruttate -; rovescia i valori dei terreni - le terre abbastanza fertili non malariche raggiungono prezzi enormi, sproporzionati al reddito, mentre terre malariche e fertili sono svalutate -; turba profondamente la distribuzione delle colture - la cerealicoltura si pratica non dove riuscirebbe più remunerativa, ma in terre non malariche, finanche (Sicilia e Calabria), oltre i 900 o 1000 m. s. m. -. Spesso il latifondo precede, accompagna o segue la malaria: dove il latifondo è più antico, in generale la malaria è più grave; dove essa domina la coltura è estensiva, e le spese di produzione superano spesso il limite economico; dov'è scomparsa, il latifondo tende a spezzarsi.

Circostanze storiche hanno poi aggravato l'effetto delle predette cause naturali: tra esse, la necessità di estesi pascoli in montagna e in pianura per l'esercizio della pastorizia, inconcepibile o meno redditizia in piccole aziende (necessità maggiore nel sud d'Italia, dove, come in Sicilia, occorrono tre o quattro ha. di prato per ogni capo grosso di bestiame o come nel Crotonese dove 10 ha. di terreno a rotazione bastano appena a produrre mangime per una sola coppia di buoi, anziché nel nord, dove, come nel Piemonte e nell'Emilia, basta un ha. di prato per ogni capo grosso di bestiame); abbandono del terreno per eccessivo depauperamento; rarità di popolazione vivente sui campi; poca sicurezza delle campagne, con le manifestazioni, tipiche del Mezzogiorno, del brigantaggio, della mafia e della camorra; mancanza di strade e di case; scarsezza di capitali; lontananza dai grandi centri di consumo e dai mercati internazionali; sistema doganale ostile agl'interessi agricoli, ecc.

Il latifondo fu indicato come origine di tutti i mali dell'economia agraria italiana. Antica l'accusa; antico del pari l'intento di porvi riparo con assegnazioni di terre a contadini e a coltivatori diretti o con leggi miranti a limitare la grande proprietà terriera. Assegnazioni di terre a base di frazionamento di latifondi furono fatte tra la prima e la seconda guerra punica, dai Gracchi, da Silla, da Cesare, nel periodo imperiale. Ma sotto la repubblica e l'impero crebbero di numero e di estensione i latifondi, com'è prova il più frequente ricordo di massae fundorum e di procuratores e rationales rei privatae. Le lettere di Gregorio Magno documentano l'allargarsi del patrimonio ecclesiastico in Sicilia e in Sardegna. Col dominio arabo si determinò saltuariamente la tendenza al frazionamento della proprietà, com'è indirettamente documentato da più frequenti accenni a colture specializzate e da nomi arabi di poderi nel secolo XII tuttora in parte vivi, soprattutto in Val di Mazzara. Colonizzatrici vennero più tardi tra noi famiglie normanne, saracene, provenzali, levantine. Sovrani, quali Federico II di Svevia e Federico III d'Aragona, proibendo a chiese e monasteri l'acquisto di nuovi beni per contratti e per successione, impedirono l'allargarsi del latifondo ecclesiastico; Carlo I e II d'Angiò, Carlo V, Alfonso d'Aragona, ecc., tentarono di acclimare famiglie allogene assegnando e ripartendo loro vasti latifondi. Papi compirono considerevoli lavori di bonifica e promulgarono importanti riforme per mutare il regime del latifondo nel Patrimonio di S. Pietro, nel Lazio meridionale e altrove. La letteratura politica napoletana e pontificia del sec. XVIII formicola di proposte tendenti a spezzare il feudo e la grande proprietà e a moltiplicare i medî e piccoli proprietarî. La legge del 1806 eversiva della feudalità nel regno di Napoli, quella del 1817 in Sicilia, del '36 e '43 in Sardegna, infine leggi varie nello Stato Pontificio ripartitrici dei demanî di qualunque natura e quotizzatrici della parte spettante alle Universitates, la vendita e, in Sicilia, la censuazione in piccoli lotti dei beni ecclesiastici in seguito alla soppressione delle corporazioni religiose, mirarono a costituire la piccola e media proprietà e a creare un ceto economicamente indipendente di agricoltori.

Ma quei tentativi non furono sempre coronati da successo. Dalla guerra del Vespro in poi, debole essendo l'autorità statale, si accentuò il processo di assorbimento della proprietà allodiale, di usurpazione dei beni comunali e demaniali, senza che il potere centrale, che pur tentò di resistere a quest'opera di violenza (prammatiche del 14 dicembre 1483 di Ferdinando d'Aragona, del 1532 di Carlo V contro difese e chiusure senza il consenso di vassalli e dei vicini, fino a quelle di Carlo di Borbone del 27 ottobre 1749 e 1 agosto 1750) riuscisse a porvi riparo. Al latifondo feudale subentrò quello borghese. Dove esso fu rotto per opera esclusivamente della legge, quasi sempre si ricostituì. Il ministro Grimaldi, proponendo nel 1884 al re l'istituzione di una commissione per lo studio della questione demaniale, affermava che la grande ripartizione dei terreni del 1806 non aveva lasciato tracce visibili di miglioramenti agrarî e sociali. L'Agro Romano, nonostante innumerevoli provvedimenti e prescrizioni di papi, insieme concatenantisi, sempre vigorosi e tanto severi da raggiungere perfino la confisca della proprietà, restò, salvo qualche eccezione, campo di immensa pastura, senza che vi apparisse un fatto compiuto e durevole di bonifica e di miglioramento. Non diversamente nel nord dell'Italia: le lande canavesi e vercellesi rimasero improduttive, finché gli sforzi dei governi piemontesi furono volti a colonizzare unicamente a base di distribuzione di terre ai contadini.

Ma coi tempi nuovi, elevatosi il tono della vita economica, schiusisi all'attività italiana, mediante accordi doganali e trattati di commercio, nuovi mercati esteri specialmente nell'Europa centrale, aumentata la pressione demografica e di conseguenza la richiesta e il consumo interno, stimolata la produzione nazionale dalla domanda dei nostri prodotti da parte d'Italiani stabiliti oltre oceano, si chiese alla terra un maggior volume di prodotti e si avviò o si accentuò, con maggiore o minor fervore, la trasformazione del latifondo. E grande efficacia su questo maggiore interesse per la terra e i nuovi problemi ebbero le conclusioni della grande inchiesta agraria diretta da S. Jacini (1879), l'inchiesta di E. Faina, gli studî e le proposte di S. Sonnino e L. Franchetti e di Giustino Fortunato. I più intelligenti proprietarî o i meglio forniti di capitali, bene intuendo che il problema del latifondo è di natura non giuridica ma tecnico-economica, non attesero l'opera della legge per trasformare i proprî latifondi. Trasformazioni di latifondi, lentamente compiuti, sono p. es. la messa in coltura e la progressiva intensificazione colturale di tutta la zona costiera del nord della Sicilia; la coltura ad agrumi, a orto e a primizie della zona etnea, di parte della Piana di Catania, progressivamente avanzante verso l'interno fin dove giungevano le nervature stradali, e dove consentivano le condizioni tecnico-agronomiche, la vicinanza ai centri abitati, l'assenza della malaria; la quotizzazione in tutta la Sicilia, dal 1906 al 1926, di 293 latifondi dell'estensione complessiva di ha. 157.829. Trasformazione del latifondo sono l'appoderamento in medie unità agrarie, poggiate sulla granicoltura e sull'allevamento razionale del bestiame, dei territorî di Maccarese, di Fiumicino e di Ostia, alle porte di Roma; il passaggio graduale dal bosco e dal seminatorio al vigneto, all'uliveto, all'agrumeto, al mandorleto, ecc., avvenuto nell'ultimo mezzo secolo in Puglia, non senza vittime di piccoli e anche di grossi iniziatori, per la deficienza tecnica delle trasformazioni e la contrazione del mercato di smercio dei prodotti in momenti di crisi, ma segnando di uno in altro decennio un passo sempre più innanzi, ecc.

Ma quelle trasformazioni di latifondi parvero determinate da mire di esclusivo interesse egoistico; erano opera d'un modesto numero di proprietarî e di più scarso numero di cooperative, erano troppo lente e saltuarie, per poter rispondere adeguatamente all'universale bisogno di trovare in colture industrializzate e frazionate un mezzo d'impiegare capitali e braccia, di derivare dalla terra quanto occorreva al più largo consumo e anche di trovare nel possesso terriero la base del credito sociale e politico. La fame della terra stimolava, specialmente dopo che cominciarono a rimpatriare dalle Americhe i primi nuclei di emigrati con un gruzzolo di denaro e con più larga, se pur dura, esperienza della vita: serviva di pungolo il bisogno di aumentare la produzione nazionale, bisogno più vivamente avvertito soprattutto da quando, sui primi del nostro secolo, salarî meno meschini e un più elevato tenor di vita permisero il passaggio in categorie più largamente consumatrici di non pochi ceti rurali la cui vita era stata fino allora grama e aleatoria. L'ideale della media coltura e della media e piccola proprietà, fu accolto da non pochi partiti politici, da uomini di studio, da filantropi e da politici allora e specialmente dopo la guerra mondiale, quando sembrò elementare dovere di correttezza tener fede alla promessa, fatta al soldato in trincea, di dar la terra ai contadini. E così vennero fuori nella stampa e nel parlamento progetti di tecnici e di politici, ispirati da diversi e spesso contrastanti presupposti programmatici e da simpatie di studiosi, ma tendenti tutti a distruggere più o meno rivoluzionariamente il latifondo. I disegni di legge di quegli anni poggiavano su principî varî: fitto di terreni a consorzî familiari di lavoratori, esonerati da ogni cauzione, aiutati dallo stato con anticipo di capitali per l'acquisto delle scorte, col compimento delle opere necessarie alla bonifica agraria nei terreni incolti; appoderamento obbligatorio del latifondo, mercé la costruzione di case di contadini, pena ai renitenti l'espropriazione da parte dello stato; istituzione del homestead insequestrabile, inalienabile, trasmissibile, integro e indivisibile; nella famiglia; tutela economica e giuridica delle piccole proprietà; imposta speciale su latifondi e terreni incolti; miglioramento del credito agrario; occupazione e dissodamento di terre e di latifondi incolti. Per risolvere l'assillante e urgente problema dell'aumento della produzione agraria parve allora necessario lasciare il più largo campo possibile alla privata iniziativa, integrata ove si dimostrasse deficiente o sostituita, quando non si volesse, si sapesse o si potesse operare, dall'azione dello stato. Quest'ultima era poi riconosciuta indispensabile segnatamente per tutto ciò che riguardava il popolamento della campagna, la creazione e lo sviluppo delle condizioni di sicurezza, d'igiene, di viabilità, d'irrigazione, di bonifiche, di grandi sistemazioni; strumento di essa, un Istituto nazionale per la colonizzazione interna, da fondare in Roma, che concorresse alla messa in valore di tutto il patrimonio nazionale agricolo, agevolasse la costruzione e il funzionamento di cooperative agrarie proponentisi l'acquisto e la coltivazione di terre, favorisse la diffusione della piccola proprietà o dell'affittanza rurale, e, dove non fosse possibile il suo frazionamento, la coltura razionale del latifondo, incoraggiasse e promovesse le trasformazioni agricole, lo sviluppo delle industrie agrarie, della zootecnica, la costruzione di case coloniche e il miglioramento di abitazioni rurali, la costituzione di borgate rurali nelle zone colonizzabili. Questo appunto il tenore delle proposte dell'Associazione degli agricoltori italiani (aprile 1918), della commissione reale del dopo guerra, del progetto di F. Pantano, ecc. Vane proposte, cadute nel vuoto; ché mentre i nuovi arricchiti dalla guerra si davano al mercato di poderi e di tenute, la propaganda socialcomunista, sovvertendo le abitudini casalinghe dei contadini, gridando che la terra era esausta dalla guerra, che tutto il capitale agrario era distrutto e si correva al fallimento nazionale, inculcava la necessità di una trasformazione rivoluzionaria circa l'appartenenza della proprietà; le leghe rosse imponevano scioperi agrarî, ostacolavano le trebbiature e disperdevano prodotti; molti attendevano seriamente l'avvento del comunismo agrario come l'aurora di epoche felici; i deputati giunti alla Camera nel novembre 1919 votavano un ordine del giorno per la socializzazione della terra; una commissione nominata per riferire sulla trasformazione del latifondo e la colonizzazione interna (relazione del 10 dicembre 1921) colpiva rudemente il vetusto edificio della proprietà privata, plaudiva ai più audaci tentativi di espropriazione in danno di proprietarî di latifondi trasformabili e inneggiava alla letteratura terriera che reclamava l'intervento coercitivo dello stato nella destinazione dei beni rustici; infine il ministro dell'agricoltura del tempo, A. Visocchi, autorizzava (decreto 15 dicembre 1921) l'occupazione di terre altrui incolte o insufficientemente coltivate. Fu questa, prima dell'avvento del fascismo, l'estrema legalizzazione d'un metodo disordinato e violento di presa di possesso della terra, che molto di rado portò al dissodamento delle terre incolte e all'effettiva trasformazione del latifondo.

Il governo nazionale iniziatosi nel 1922, come mirò a distruggere e soprastrutture del dopoguerra soffocanti la libera iniziativa, a sciogliere il vincolo dei prezzi, a ristabilire ordine e rispetto alle gerarchie ridando sicurezza a chi possiede, fiducia a chi lavora e risparmia e produce, così intese esaltare tutte le energie produttrici della nazione, diede preminenza nell'indirizzo generale della politica economica e sociale italiana ai fattori rurali, e revocò la legge sull'occupazione delle terre incolte. Da A. Serpieri, da F. Virgili, da G. Acerbo, da altri non pochi venne affermato chiaramente che il problema centrale del latifondo non era semplicisticamente quello d'una diversa appartenenza della terra e della distribuzione della popolazione su di essa, o esclusivamente un problema sociale, ma sostanzialmente quello di ricercare e sostituire all'antico un nuovo ordinamento della produzione conveniente nei riguardi dell'economia privata e sociale, più intensivo, cioè a più alto impiego di lavoro e di capitale, a più alta produzione lorda unitaria e con continuità di lavoro e di reddito a una più densa popolazione, ed alle esigenze di esso adattare, per quanto sono adattabili, la terra (miglioramenti fondiarî, costruzioni, bonifiche, ecc.), l'ordinamento della proprietà (ampiezza, ecc.), e i rapporti contrattuali fra classi agricole. Ma perché quella trasformazione si rendesse possibile, era necessario mutare alcune condizioni generali di ambiente fisico e sociale tollerate dal sistema latifondistico: garantire cioè la pubblica sicurezza nelle larghe campagne, procurare condizioni igieniche buone o almeno tollerabili, dominare le acque in modo da ripararsi dalla loro azione nociva e utilizzarle a fini agricoli, dare una buona viabilità, provvedere i futuri centri rurali di quanto occorre alle più elementari necessità di ogni convivenza sociale (acqua potabile, chiesa, scuola, servizio medico). In queste esigenze venivano indicati altrettanti problemi di carattere pubblico, dalla cui soluzione dipendeva la trasformazione del latifondo. Merito del governo nazionale fu aver inteso chiaramente che fra le opere pubbliche che tutti riconoscevano di competenza dello stato, e le trasformazioni fondiarie che si volevano lasciare all'iniziativa privata v'era così stretta interdipendenza, da rendere difficile l'esecuzione delle une e delle altre come di cose staccate e distinte. (Il risanamento igienico, per es., apparve insieme condizione preliminare e conseguenza di forma di agricoltura tecnicamente perfezionata che eliminasse finanche i più modesti acquitrini malarici; la viabilità, le opere di sistemazione idraulica in tanto erano da eseguire, in quanto vi si coordinavano certe trasformazioni agrarie, e all'indirizzo di queste erano, almeno in parte, subordinate le modalità di quelle; talune trasformazioni, quali il rimboschimento, rispondono al concetto della convenienza economica solo dopo un così lungo periodo di tempo, da essere impossibile o raro che i singoli siano stimolati ad eseguirle).

Da questa mutata concezione dei termini del problema che trovò soprattutto in A. Serpieri un tenace e dotto sostenitore e illustratore, e amche dal nuovo affermato dovere da parte dello stato di affrontarlo - in antitesi alla tesi liberista che abbandonava all'iniziativa privata, purtroppo quasi sempre sterilmente, un complesso imponente di opere - derivarono leggi e provvedimenti statali, che lungi dal tumultuario metodo, caro ai legislatori dell'immediato dopoguerra, di troncare con violento mutamento il latifondo e dal semplicismo della precedente legislazione a base di esproprî e di annientamento del diritto di proprietà, mirarono a rendere possibile la trasformazione terriera ed a facilitare la progressiva intensivazione della coltura. Di questo cammino segnaliamo soltanto alcune tappe. E anzitutto il r. decr. legge 18 maggio 1924, n. 753. Esso distingueva la trasformazione fondiaria in tre fasi: opere pubbliche alle quali doveva provvedere lo stato: opere di bonifica agraria e di colonizzazione interessanti più fondi, alle quali concorrevano in varia misura l'esecuzione pubblica e la privata: opere particolari dei singoli fondi di esclusiva esecuzione privata, che miravano ad attuare quelle trasformazioni capaci di rendere la terra più atta a sistemi di coltura più proficui e ad accogliere più densa popolazione. Secondo quel decreto, lo stato provvedeva all'esecuzione non solo delle opere già riconosciute pubbliche dalle leggi vigenti, ma anche di tutte le altre di bonificamento agrario e di colonizzazione che interessavano più fondi; vi provvedeva normalmente concedendo tutte le opere a chi vi avesse "un proprio interesse diretto nella trasformazione" e quando le opere di trasformazione non erano suscettibili di concessione, per mezzo dei ministri dei Lavori pubblici e dell'Economia nazionale, assicurava la coordinata attuazione di tutte le provvidenze necessarie alla trasformazione fondiaria del comprensorio, sia promovendo la concessione in gruppi delle opere occorrenti e la costituzione di consorzî, sia coordinando l'esecuzione diretta statale di alcune opere con l'esecuzione per concessione delle rimanenti. Diretto a favorire giuridicamente ed economicamente la trasformazione agraria fu il decreto 22 maggio 1924 sul riordinamento degli usi civici - divenuto legge, per le ostinate opposizioni, solo il 16 giugno 1927 -, che riordinava, coordinava e unificava la legislazione vigente nelle diverse parti d'Italia in quella proteiforme materia di collettivismo agrario, accertava e sollecitamente liquidava, mediante criterî di equità sociale, gli usi civici sulle terre private di qualsiasi natura e origine, contemperando i diritti e i bisogni delle popolazioni rurali con gl'interessi generali dell'agricoltura, spogliava la terra dalle ultime vestigia della servitù, eliminava cause pericolose di contrasti fra proprietarî e lavoratori, proteggeva le frazioni rurali contro gli abusi dei comuni, favoriva la coltura intensiva, trasformava il latifondo in proprietà privata con la saggia applicazione dell'enfiteusi e con l'assistenza e la tutela dello stato. Inoltre il regol. del 16 settembre 1926 sull'Opera nazionale per i combattenti segnava il transito definitivo dall'assistenza pro combattenti alla gestione agraria e le affidava il compito di "concorrere allo sviluppo economico e al migliore assetto sociale del paese, provvedendo principalmente alla trasformazione fondiaria delle terre e all'incremento della piccola e media proprietà, in modo da accrescere la produzione e favorire l'esistenza stabile sui luoghi di una più densa popolazione agricola". Alla trasformazione agraria del latifondo e in genere dell'agricoltura italiana mirarono direttamente i provvedimenti emanati per la "battaglia del grano" personalmente diretta dal capo del governo: dalla costituzione del Comitato permanente del grano (r. decr. 4 luglio 1925) avente per scopo di studiare e sottoporre al governo i mezzi più adatti per aumentare la produzione granaria del paese; alle norme per la propaganda, la dimostrazione e la sperimentazione agraria (r. decr. legge 29 luglio 1925); ai concorsi e premî nazionali per il grano; alla più larga dotazione di scuole agrarie e di cattedre ambulanti di agricoltura (il decr. 13 gennaio 1927, per es., assegnò nuovi cospicui mezzi finanziarî alla scuola di meccanica agraria a Roma, cui fece obbligo d'impiantare una succursale in zona adatta della Sardegna, assegnò premî ai produttori di esplosivi adatti per l'applicazione agricola, incoraggiò, stanziando 100 milioni in 10 anni, movimenti di terre per le affossature e i dissodamenti, per le strade interne poderali, per la costruzione di fabbricati rurali, per l'impianto di abbeveratoi per il bestiame). Quella "specie di mobilitazione di tutte le forze rurali italiane", come Mussolini la designò, entro la quale veniva condotta la stessa battaglia del grano, intrapresa con entusiasmo, come atto di fede, da tutti gli agricoltori italiani, avendo come meta l'aumento del raccolto medio unitario e dando una spinta grande, potente e diffusa a tutte le masse rurali, introducendo macchine, concimi, migliori pratiche agrarie, giovò profondamente al rinnovamento agrario di tutto il paese. L'azione vigorosa, iniziata dal capo del governo nel 1927, per mezzo di prefetti e di qualche energico commissario, diretta a sopprimere la mafia (v.), e l'intensa propaganda fascista che assunse, occorrendo, forme punitive per far scomparire il gabellotto siciliano, favorirono condizioni sociali e giuridiche più acconce alla trasformazione del latifondo.

L'ultima legge, in ordine di tempo, del regime fascista, che tocca da vicino il latifondo, è quella cosiddetta della "bonifica integrale" del 7 dicembre 1928 (v. bonifica). Questa è anche la più organica e complessa legge in materia, e fonde in uno i benefici già assicurati con le leggi sul prosciugamento delle zone palustri del 30 dicembre 1923, sulle trasformazioni fondiarie di pubblico interesse dell'8 maggio 1924, sulla costituzione di centri rurali del 7 febbraio 1926, sui fabbricati rurali e strade poderali del 16 giugno 1927. Essa, se impone allo stato e alla collettività oneri indubbiamente assai maggiori delle precedenti, - come quella che afferma la necessità dell'iniziativa dello stato, in sostituzione di quella privata, onde ottenere unità di disegno e concomitanza di opere -, è l'unica che tien conto delle condizioni naturali e climatiche, oltre che di quelle economiche e storiche, nelle quali s'è formato il latifondo, e lungi dal combattere direttamente e rivoluzionariamente il latifondo ordinandone con un colpo di penna il frazionamento, tende a modificare profondamente l'ambiente, sia bonificandolo dal punto di vista idraulico e igienico, sia costruendo strade, case, centri rurali cui appresta acqua potabile, scuola, chiesa, medico, ecc.; sia anticipando capitali ai nuovi coloni, dirigendoli nella parte tecnica e aiutandoli con l'organizzare lo smaltimento più rapido dei prodotti. Segnata alla nazione la superba meta dell'indipendenza economica dall'estero, cresciuta per l'aumentata popolazione l'interna richiesta dei generi più indispensabili, lo stato, anche nell'intento di dar lavoro alle centinaia di migliaia d'Italiani che un tempo emigravano e che per la crisi generale non trovano da occuparsi in patria, dà larghissimi sussidî per opere e lavori di bonifica a proprietarî, ad associazioni, a consorzî, a sindacati che, comunque, tendano a trasformare le condizioni da cui trae origine il latifondo. I tentativi fatti per l'addietro dallo stato, saltuarî, unilaterali, finanziariamente e spesso tecnicamente insufficienti, si sono ora composti in un sistema, cioè in qualcosa di durevole e di continuativo, in un'opera organica che si giova di una migliore dottrina, di più larga esperienza tecnica e di un adeguato finanziamento da parte dello stato e di privati. Si sono così avuti di recente lavori di bonifica e di trasformazione agraria per comprensori vastissimi, ch'era vano sperare qualche tempo addietro. Ogni regione ha ora le sue bonifiche, più o meno avviate. In molte località, dove dominava il latifondo impervio e a pascolo brado, dov'erano paludi e regno incontrastato della malaria, splendono ora al sole le glebe dissodate, i campi di grano, i vigneti, e gli uliveti, i villaggi rurali e le opere feconde del lavoro umano.

Ogni anno segna nuove tappe. Consorzî sorgono ovunque nella penisola. Avviata o compiuta la bonifica idraulica, sanitaria e agraria, il piano viene chiamando nuovamente a sé la vita e il lavoro che sono sul monte, e questo accenna a tornare alle funzioni che natura gli ha assegnato; qua si restringe l'area del latifondo estensivo e se ne trasforma gradatamente la struttura economica; altrove il latifondo scompare per dar luogo a medie e a piccole proprietà rurali. Non pochi latifondi della Maremma e della Campagna Romana, le crete senesi, alcune zone del Grossetano, le piane malariche e idraulicamente disordinate di Sibari e di Metaponto e dei laghi di Lesina, di Varano, di Salpi, delle valli del Cervaro e di Candelaro, ecc., sono presi d'assalto. I latifondi estesi e privi di comunicazioni, desolati di case, steppe senza verde, che costituivano l'agro di Marsala, si sono frantumati in modesti lotti negli ultimi anni e sono passati in proprietà di piccoli coltivatori. Si dà quotidianamente impulso a lavori di viabilità e ad opere idrauliche che porteranno in un tempo avvenire alla trasformazione terriera ed a colture largamente redditizie. Villaggio Mussolini in Sardegna, l'Isola sacra non lungi dalla foce del Tevere, Littoria e Sabaudia nella zona delle Paludi Pontine, i lavori del Pisano segnano un trapasso di vita e insieme celebrano un avvenimento morale nella redenzione del suolo d'Italia; e queste tappe addurranno, in un avvenire più o meno lontano, a una sempre maggiore riduzione dell'area del latifondo, a una trasformazione sempre più radicale del suo regime agronomico e sociale. Il tenace proposito innovatore dell'agricoltura e correttore dei difetti fisici che dànno luogo all'azienda tipicamente latifondistica, la progressiva intensivazione delle colture, sempre più significheranno riduzione e trasformazione del latifondo.

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