LATERIZÎ

Enciclopedia Italiana - I Appendice (1938)

LATERIZI

Giuseppe Lugli

LATERIZÎ: L'opera laterizia (XX, p. 575).

Archeologia. - L'architettura egizia, e più ancora quella della Mesopotamia, conobbero e adoperarono mattoni cotti, per quanto assai più raramente dei mattoni asciugati al sole; i Greci usarono spesso mattoni crudi, mai quelli cotti; l'uso di questi invece si diffuse soprattutto per influenza romana. I Romani chiamarono tali formelle di argille cotte in fornace col nome di lateres, o tegulae, non facendo alcuna distinzione - almeno nei primi tempi - fra le tegole destinate alla copertura dei tetti e i mattoni per la costruzione dei muri; il termine generale di opus testaceum o structura testacea, usato anche per le cortine laterizie (v. cortina, XI, p. 554 seg.), sta a dimostrare che essi consideravano la fabbricazione dei lateres alla stessa stregua di quella delle anfore e dei vasi; la scoperta della calce, che non si sa quando sia avvenuta, ma che si riscontra in Pompei già nel primo periodo sannitico, spinse ad alternare col tufo il materiale fittile, e una volta dimostrata la speciale resistenza di questo ultimo e le sue qualità prevalenti, ad es., nelle parti più esposte dei muri, si pensò di fabbricare un materiale speciale a questo scopo. Ciò avvenne relativamente tardi, non prima di Augusto.

Il mattone usato dai Romani durante tutta la repubblica fu il mattone di impasto non bene depurato, e seccato al sole per un periodo di circa due anni, ma senza tritume di paglia o strame. Questo mattone, più che una vera funzione statica, essendo mescolato con fango nella struttura del muro, aveva una funzione di riempimento degli spazî vuoti del graticcio ligneo, cui era realmente affidata la consistenza dell'edificio (v. muro: Tecnica della costruzione muraria, XXIV, p. 60 segg.). Nessun esempio rimane oggi in Roma di costruzioni siffatte.

Il mattone cotto al sole aveva le dimensioni di m. 0,444 × 0,296 con uno spessore variabile da 6 a 8 cm. È questo il mattone detto dai Greci lidio, mentre il mattone attico era di solito quadrato e misurava di lato m. 0,386 oppure m. 0,309.

In generale, per tutta la repubblica, il materiale fittile venne ricavato da tegole spezzate e arrotate: esso si distingue per l'impasto più rosso, per la cottura più accentuata, per lo spessore non eccedente i 4 cm. e non sempre regolare; varie sono le misure di lunghezza e profondità, dipendenti dal materiale usato di seconda mano. Esempî si trovano in Pompei e in Ercolano (sec. II-I a. C.).

Nel mattone romano dobbiamo distinguere due tipi: il mattone della capitale, che viene anche usato in tutta l'Italia centrale e nella Campania (la quale fu sempre collegata, architettonicamente parlando, con Roma), e il mattone che chiameremo provinciale, che si trova in tutto il resto d'Italia e nelle provincie, durante l'impero.

Tutto il capitolo di Vitruvio sui lateres va preso come una teoria già sorpassata quando i Romani cominciarono veramente a usare il mattone nella struttura dei muri. Vitruvio scrive infatti proprio nel periodo in cui avviene il cambiamento, ma non intuisce l'importanza che i mattoni avrebbero acquistato in seguito nella costruzione muraria e specialmente nei grandi archi e nelle vòlte colossali, tra le quali emergono quelle del Pantheon, della basilica di Massenzio e delle grandi terme romane.

Sulla fabbricazione dei mattoni romani si è discusso molto. Alcuni hanno supposto che i Romani facessero sempre dei mattoni rettangolari, tagliandoli poi in due parti uguali, altri che li facessero quadrati, tagliandoli in due rettangoli, altri infine che li tagliassero secondo la diagonale in due triangoli. Quest'ultima ipotesi è la più accettata; ma molto spesso al taglio accurato i muratori preferirono spezzare i mattoni più grandi con un colpo nel centro, così da ridurli in frammenti di forme varie, mettendo sempre in facciata il lato rettilineo del mattone originale.

Dall'esame delle strutture murarie dei varî monumenti risulta che in Roma, e nelle varie fabbriche del Lazio e della Campania, si costruivano quattro specie di mattoni, distinti a seconda delle dimensioni, ma sempre di forma quadrata: bessali cm. 19,8 di lato; pedali cm. 29,6 di lato; sesquipedali cm. 44,4 di lato; bipedali cm. 59,2 di lato. I pedali erano molto rari; più frequenti erano i bessali e i sesquipedali. I primi si segavano di solito secondo la diagonale in due triangoli, e si mettevano con l'ipotenusa nella facciata del muro; i cateti facevano presa con l'opera cementizia dell'interno del muro, formando un'unica massa compatta. I bessali si usavano interi nei pilastrini sostenenti il pavimento dei bagni (suspensurae caldariorum) e nelle centine delle vòlte; i sesquipedali, tagliati in due rettangoli eguali, formavano le armille degli archi, gli archi di scarico e gli anelli delle vòlte, alternati con mattoni interi della stessa forma; i bipedali avevano lo stesso impiego negli archi e nelle vòlte di maggiori dimensioni e nei piani di posa dei muri, dove, specie sotto Domiziano, si trovano usati interi e a livelli regolari.

Lo spessore e il colore variano a seconda delle epoche, e sono quelli che ci dànno di solito la datazione dei muri laterizî. Fino all'età dei Flavî i mattoni sono d'impasto giallo chiaro e hanno uno spessore degradante da cm. 4 a cm. 3,5; poi nel sec. II diventano di colore giallo scuro e diminuiscono di spessore fino a cm. 3; nell'età di Settimio Severo e dei suoi immediati successori si usa un mattone spesso soltanto cm. 2,5, ma assai più compatto e di colore rosso scuro assai caratteristico; negli ultimi due secoli dell'impero non vi è più una norma costante nella fabbricazione dei mattoni, e si adopera con molta frequenza materiale di riporto.

I marchî di fabbrica che si riscontrano su molti mattoni aiutano per la loro datazione; sebbene i bolli più antichi risalgano alla prima fabbricazione dei lateres, tuttavia l'uso più frequente avviene tra la fine del sec. I e gl'inizî del IV d. C. (v. laterizî: Bolli laterizî, XX, p. 576).

Il mattone provinciale è generalmente di forma rettangolare, lungo m. 0,44 e largo m. 0,30 di uno spessore che si aggira intorno ai 10 cm. e di un impasto scadente, che, in seguito a una cottura insufficiente, rimane di colore giallo chiaro e piuttosto friabile. In sostanza troviamo nelle provincie un proseguimento della stessa tecnica del mattone seccato al sole, anche quando il mattone viene cotto in fornace. Alcune ricerche eseguite in Arezzo nel 1920 hanno permesso di ritrovare avanzi di quelle mura costruite in età molto antica con materiale fittile, di cui ci parla Vitruvio (De Archit., II, 8,9; cfr. Plin., Nat. Hist., XXXV, 170-173). Alcuni mattoni rinvenuti interi misuravano m. 0,42 × 0,28 (o metri 0,41 × 0,27) e avevano lo spessore da cm. 12 a cm. 14; la loro cottura però era assai imperfetta e generalmente limitata alla sola superficie, ciò che li rendeva assai soggetti allo sgretolamento.

Bibl.: Vitruvio, De Architectura, a cura di L. Marini, Roma 1836, I, p. 79; A. Nibby, Del Foro Romano, della Via Sacra, ecc., Roma 1819, p. 16 segg.; A. Choisy, Vitruve, Parigi 1909, I, p. 9; G. Boni, in Atti del Congresso internazionale di scienze storiche, V, Roma 1904, p. 560 seg.; E. B. van Deman, Methods of determining the date of Roman concrete Monuments, in American Journal of Archeology, s. 2ª, XVI (1912), p. 236 segg.; L. Pernier, Antiche mura urbane in Arezzo, in Notizie degli scavi, 1920, p. 167 segg.

© Istituto della Enciclopedia Italiana - Riproduzione riservata

TAG

Opera cementizia

Settimio severo

Età dei flavî

Mesopotamia

Foro romano