LANDOLFO

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LANDOLFO

Francesca Roversi Monaco

Di L., capo con Arialdo della pataria milanese e fratello di Erlembaldo, che gli succedette alla guida del movimento, si ignora la data di nascita, collocabile nella prima metà dell'XI secolo.

Le scarse notizie sulla sua biografia si ricavano - accanto a una lettera inviatagli da Pier Damiani (Die Briefe, n. 70) - da alcune fonti narrative, i cui autori o erano schierati a favore del movimento patarino, come Andrea da Parma e Bonizone di Sutri, o ne erano accesi avversari, in difesa del clero ambrosiano, come Arnolfo e Landolfo Seniore. La figura e le azioni di L., pertanto, sono rappresentate in maniera opposta dalle diverse fonti: da un lato esaltate nei toni commossi dell'agiografia, dall'altro stigmatizzate nei toni indignati della pubblicistica antipatarina.

I testi concordano sull'origine nobile di L., membro del clero maggiore della cattedrale milanese: Andrea da Parma, nella Vita Arialdi, lo pone "de urbanis excellentibus tam ordine quam natione" (col. 5); Landolfo Seniore nella Historia Mediolanensis lo qualifica come "de magna prosapia oriundus" (l. III, cap. 5); Bonizone nel Liber ad amicum lo definisce "ex maiorum prosapia ortus" (p. 591); Pier Damiani nella già citata epistola si rivolge a L. "clerico et senatorii generis" (p. 311).

La notizia di una discendenza dalla famiglia Cotta, appartenente al ceto dei valvassori, è tarda ed è stata ormai rifiutata dalla critica come inattendibile (cfr. Busch - Keller, p. 206). Ugualmente incerta la veridicità della testimonianza di Galvano Fiamma (cfr. Muratori 1727, col. CXLVIII), che lo indica con Anselmo da Baggio, Arialdo e Attone fra i candidati proposti dall'assemblea del populus alla successione ad Ariberto di Intimiano nella cattedra arcivescovile milanese, ottenuta poi da Guido da Velate. Solo Landolfo Seniore, che peraltro raffigura L. come un individuo senza scrupoli, divorato dall'ambizione e disposto a tutto pur di soddisfare la sua smania di potere ("qui ambitionis gladio perfossus et maxime super archiepiscopatum ad quem cotidie patenter ut canis anelabat", III, 5), riporta un riferimento analogo su Landolfo. Dalla lettera inviatagli da Pier Damiani si apprende, invece, di un suo proposito di professione monastica rimasto inadempiuto.

L. fu fra i primi seguaci del diacono Arialdo che, nella primavera del 1057, iniziò a predicare a Milano contro il clero nicolaita e simoniaco, dando vita al movimento patarino. Secondo Landolfo Seniore e Andrea da Parma, Arialdo e L. strinsero un giuramento di impegno reciproco e comune, connotando la pataria di un carattere pattizio che si riscontra anche nelle successive azioni del movimento.

Come è noto, la pataria milanese "propose con singolare energia, con violenza anche rivoluzionaria (o almeno tale apparve alle notazioni ostili di cronisti come Arnolfo e Landolfo Seniore) tutti i motivi che magmaticamente si stavano agitando nella società e milanese e, generalmente, italiana" (Capitani, 1999, p. 311) riguardo all'assetto della Christianitas e alle istanze riformatrici. In questo contesto Arialdo e L. attaccarono il clero concubinario, anche nella tradizione canonica che ammetteva il matrimonio per gli ordini minori, e denunciarono la prassi simoniaca, dichiarando l'invalidità dei sacramenti impartiti dal clero corrotto e assumendo il diritto di giudicare la gerarchia, in contrasto con quanto stabilito dai canoni e dalla normativa della Chiesa romana. La stessa autorità di Guido da Velate venne messa in dubbio, a causa dell'investitura ottenuta senza una canonica elezione.

Le fonti sottolineano unanimi, seppur con accezioni diverse, l'abilità oratoria di L., definito "nimis potens in voce et sermone" (Andrea da Parma, col. 5), "vir urbanus et facundissimus" (Bonizone, p. 591), "expeditioris lingue ac vocis", ma lo accusano di aver usurpato "contra morem ecclesiae" (Arnolfo, Liber gestorum recentium, III, 10) il compito della predicazione, riservato per tradizione ai diaconi e presbiteri, ma non ai notai.

La prima predica di Arialdo riportata da Andrea da Parma (edizione Baethgen, pp. 1051 s.), peraltro, è ripresa da un discorso che Arnolfo (Liber gestorum III, 11) attribuisce invece a L. e che contiene i temi fondamentali della spiritualità patarina: la necessità del distacco dai falsi pastori, in quanto divenuti ciechi alla luce divina, l'alternarsi di tenebre e luce, il diritto-dovere dei fedeli di opporsi al clero indegno, il ricorso a motivi evangelici prettamente pauperistici, l'ispirazione cristocentrica e cristomimetica di contro alla prassi di vita dei sacerdoti, ormai uguale a quella dei laici.

Il 10 maggio 1057, durante una processione per la festa di S. Nazario, scoppiarono i primi violenti tumulti, che culminarono nella cacciata dei sacerdoti impegnati a recitare l'ufficio divino nel coro della cattedrale, perché ritenuti indegni. A detta di Arnolfo, L., responsabile con le sue parole "nuove e inaudite" di quanto accaduto, propose l'approvazione di un editto, chiamato nelle fonti phytacium de castitate servanda. Tale editto, secondo il Liber gestorum (III, 12), fu sottoscritto controvoglia dagli ordini sacri della Chiesa milanese, poiché vi furono costretti dallo stesso L. insieme con altri laici. Probabilmente il phytacium fu accompagnato da un giuramento richiesto a laici e chierici con il quale essi si impegnavano a non desistere dalla lotta contro il clero corrotto.

La situazione si inasprì a tal punto che nel mese di agosto, in assenza di Guido da Velate recatosi in Germania, il clero ambrosiano fu costretto a rivolgersi a Stefano IX. Il papa ordinò all'arcivescovo di convocare un sinodo, tenutosi probabilmente nel novembre 1057 a Fontaneto, presso Novara. Arialdo e L., però, non si presentarono e, dopo tre giorni di vana attesa, furono dichiarati contumaci e scomunicati. A loro volta i capi patarini, decisi a denunciare il clero ambrosiano al papa, partirono per Roma, ma presso Piacenza subirono un agguato nel corso del quale L. rimase ferito gravemente (Arnolfo, Liber gestorum, III, 15).

La Vita Arialdi (col. 8) riporta la notizia di un altro tentativo di uccidere L. che, nella Pasqua del 1058, sarebbe stato assalito in chiesa da un clericus, armato di un pugnale intinto nel veleno. L'attentato fallì e l'assalitore, catturato dalla folla, fu subito perdonato dallo stesso L. sul quale, miracolosamente, il veleno non aveva avuto effetto.

Arialdo proseguì per Roma, dove il papa ascoltò le sue accuse contro la Chiesa milanese astenendosi dal condannare Guido da Velate, ma revocando la scomunica ai capi patarini. Il pontefice decise, inoltre, di incaricare di una missione a Milano Anselmo da Baggio e Ildebrando di Soana, come legati pontifici presso la corte imperiale. Si trattò di una missione puramente esplorativa, che indicava però come il movimento patarino avesse ottenuto il riconoscimento della Chiesa romana.

Forte di tale approvazione, la pataria rinvigorì il suo operato contro il clero concubinario e simoniaco. Nell'inverno fra il 1059 e il 1060 una nuova missione, inviata dal successore di Stefano IX, Niccolò II, e guidata da Pier Damiani, impose alle parti in lotta una tregua, la sconfessione di ogni pratica simoniaca da parte di Guido da Velate - che per aver fatto commercio di cose sacre subì una penitenza -, il rispetto della procedura canonica nel giudizio circa le accuse portate alla gerarchia ecclesiastica milanese dai patarini.

L. morì poco dopo questi avvenimenti, probabilmente intorno al 1061 (Meyer von Knonau, p. 347 n. 86, colloca il fatto nel 1065; Pellegrini, p. 220 e Appendice, VI, pp. 516-518, alla fine del 1063; Gritsch, p. 22, ipotizza il 1064).

La sua morte, forse dovuta ai postumi dell'attentato subito presso Piacenza, è rappresentata dalle fonti antipatarine come una punizione divina. La malattia, infatti, lo avrebbe privato dell'uso della parola: secondo Landolfo Seniore (p. 95), L., una volta compreso di non poter ricoprire la carica di arcivescovo alla quale aspirava, "gravi incidit contristatus infirmitate" e morendo "lingua quasi bovinam orribilem, qua multum offenderat, quae coopertorium non habebat, cui tormenta aperte parabuntur, emisit". Quando infine fu portato al sepolcro non vi poté essere rinchiuso finché le sue gambe non furono spezzate come un tempo quelle dei ladroni ("Demum ad sepulchrum ductus, donec eius crura velut olim latronum fracta sunt, concludi minime potest", ibid.). Stessa intonazione si ritrova nel Liber gestorum dove se ne ricordano la lunga malattia e l'afasia, quest'ultima sopraggiunta come privazione della facoltà con la quale aveva influito su molti: "Cumque langueret biennio polmonis vicio, vocis privatur officio, ut, in quo multos affecerat, in eo quoque deficeret" (III, 16; p. 187, ed. Zey).

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