LANDO da Anagni

Dizionario Biografico degli Italiani - Volume 63 (2004)

LANDO da Anagni

Berardo Pio

Nacque negli ultimi decenni del sec. XII da una nobile famiglia anagnina, probabilmente legata alla Curia pontificia, di cui esistono scarse notizie.

Un suo nipote, "Andreas domine Traser.", compare come "miles Anagninus" in un documento dell'agosto 1243 con il quale donò allo zio una rendita annuale; di un altro nipote, anche lui di nome Lando - che in un documento pontificio del 17 sett. 1254 è detto "nepoti bone memorie archiepiscopi Messanensis" -, è noto che fu rettore della chiesa di S. Primiano in Lesina.

Tra l'aprile e il giugno 1218, verosimilmente candidato del pontefice Onorio III e non certo membro del capitolo reggino, L. fu nominato arcivescovo di Reggio Calabria come successore di Iacobus, morto nel 1217. Il 15 dic. 1220 Onorio III lo incaricò di assegnare al magister Gentile, scrittore papale, un canonicato nella cattedrale di Mileto, al quale aveva rinunciato spontaneamente Pietro, cappellano del cardinale Leone di S. Croce. Come giudice delegato da Federico II di Svevia, il 20 ag. 1221 pronunciò a Siracusa una sentenza favorevole al monastero cisterciense di S. Stefano "de Nemore", situato nella diocesi di Squillace.

Tipica figura di vescovo di corte, sin dal 1221 compare nella documentazione imperiale come familiaris domini imperatoris e, per almeno un decennio, fu un influente consigliere di Federico II, ruolo che imponeva lunghe e ripetute presenze presso la corte itinerante del sovrano: fu infatti in Sicilia e a Napoli nel 1221-22, quindi in Puglia e in Lombardia nel 1225-28. Il 30 genn. 1222 partecipò, con numerosi alti prelati del Regno e alla presenza dell'imperatore, alla solenne consacrazione della ricostruita cattedrale di Cosenza - gravemente danneggiata da un terremoto nel 1184 - fatta dal cardinale Niccolò di Tuscolo. Quindi, il 24 aprile successivo, con l'arcivescovo Luca di Cosenza e i vescovi di Bisignano e Mileto fece parte della commissione voluta da Onorio III per valutare i diritti del sovrano sulle nomine dei vescovi calabresi.

Nello stesso anno il pontefice gli affidò, con Luca di Cosenza e i vescovi di Mileto e di Patti, la delicata controversia tra l'archimandrita del ricco e potente monastero basiliano di S. Salvatore "de Lingua" e l'arcivescovo Berardo di Messina. Innocenzo III, nel 1210, aveva confermato al monastero di S. Salvatore l'esenzione dalla giurisdizione arcivescovile e, nel 1216, aveva ribadito la protezione della S. Sede in favore dello stesso monastero. Identica politica di favore nei confronti del monastero basiliano era stata portata avanti da Federico II. Con l'arcivescovo Berardo, però, crebbe l'invadenza della curia arcivescovile di Messina, che forse mirava a un completo assoggettamento del monastero di S. Salvatore e delle sue dipendenze, e si giunse a uno scontro durissimo. Onorio III sostenne le pretese di Berardo e ridusse drasticamente l'autonomia dell'archimandrita Ninfo (II); quindi, il 16 ag. 1222, incaricò L. di costringere l'archimandrita a osservare le decisioni pontificie. L'anno successivo i monaci di S. Salvatore nominarono il nuovo archimandrita, Macario, senza consultare l'arcivescovo di Messina e furono perciò scomunicati da Lando. I monaci allora si appellarono all'autorità secolare, aggravando in tal modo la loro posizione. La vicenda si trascinò per alcuni anni: nel settembre 1223 il papa, per indurre l'archimandrita all'osservanza delle disposizioni precedentemente prese, confermò la scomunica, e nel maggio 1225 cercò di imporre la nomina di un nuovo archimandrita. Di fatto Macario, forte dell'appoggio imperiale, continuò a governare il monastero fino al 1233, probabile anno della sua morte.

In quegli anni L. intervenne in nome del papa in diverse questioni relative a ecclesiastici meridionali; esemplare il caso di Arduino vescovo di Cefalù, destituito da Federico II con l'accusa di aver dilapidato il patrimonio della sua Chiesa. Il 10 luglio 1224 il pontefice, dopo aver inviato Luca di Cosenza a intercedere presso l'imperatore, incaricò gli arcivescovi Berardo di Messina e L. di rivedere il processo contro Arduino e, valutata la fondatezza delle accuse, di assegnare a quel vescovo un coadiutore "providum et honestum" (Mon. Germ. Hist., Epistolae saeculi XIII…, I, pp. 182 s.) per l'amministrazione del patrimonio della diocesi. Pochi giorni dopo il papa, informato che il tesoriere di Cosenza aveva nominato come coadiutore del vescovo di Cefalù il canonico messinese Tommaso "de Iuvenatio", cancellò tale nomina e incaricò i due arcivescovi di procedere a una nuova designazione.

Nel 1226 L. seguì la corte imperiale nell'Italia settentrionale e il 10 giugno, con numerosi alti prelati tedeschi e italiani, partecipò a Parma alla stesura di un documento che attribuiva ai Comuni lombardi la responsabilità della rottura con l'imperatore e il conseguente ritardo nell'organizzazione della crociata; fu quindi inviato, con Hermann von Salza gran maestro dell'Ordine teutonico e Simone arcivescovo di Tiro, presso il pontefice con il compito di convincerlo a premere sui Comuni lombardi per indurli a un accordo con l'imperatore, in modo da consentire a quest'ultimo di organizzare un esercito per la liberazione della Terrasanta. Con l'elezione dell'anagnino Gregorio IX (19 marzo 1227) il ruolo di L. - che almeno dal 1226 sembra gestire per conto dello Svevo i rapporti con la Curia pontificia - crebbe ulteriormente.

Nell'autunno 1227 fu inviato da Federico II, insieme con il duca Rainaldo di Spoleto, con Enrico conte di Malta e con Marino Filangieri arcivescovo di Bari, presso la Curia pontificia, per spiegare a Gregorio IX i motivi che avevano impedito fino a quel momento la partecipazione dell'imperatore alla crociata. La missione non sortì gli effetti desiderati poiché il pontefice non volle dare credito alle ragioni dell'imperatore - costretto da una epidemia a far rientrare l'esercito crociato già salpato dal porto di Brindisi - e il 18 novembre rinnovò nella basilica di S. Pietro la scomunica già inflitta a Federico II il 29 settembre nella cattedrale di Anagni.

Nel biennio 1229-30 L. concorse a determinare i rapporti politici tra Regno e Curia pontificia, come fedele e solerte esecutore della volontà imperiale. Fu anche grazie all'azione di L. che la politica federiciana si mostrò flessibile e conciliante, tesa al raggiungimento di quella intesa con la Chiesa che avrebbe comportato un sicuro rafforzamento della posizione dell'imperatore. Tra la fine del 1229 e il 1230, per circa dieci mesi, L. - al pari di altri personaggi di primissimo piano quali Hermann von Salza, Marino Filangieri e Berardo di Messina - svolse un ruolo da protagonista nelle difficili e lunghe trattative tra Federico II e Gregorio IX, in un estremo tentativo di riconciliazione tra papa e imperatore.

Nell'estate 1230, con la pace di San Germano, il sovrano svevo, finalmente prosciolto dalla scomunica, si impegnò a restituire i territori della Chiesa occupati e a non perseguire i partigiani del pontefice nel Regno, concesse esenzioni fiscali e immunità giurisdizionali in favore del clero meridionale e riconobbe il diritto dei vescovi di essere eletti senza il preventivo assenso regio. A pace conclusa l'imperatore consegnò a L. e al vescovo di Reggio Emilia i castelli di Sessa, Caiazzo, Maddaloni e Rocca di Capua, come garanzia della volontà di restituire alla Chiesa i territori della Marca e del Ducato che erano stati occupati dalle truppe imperiali. Per disposizione di L. quei castelli furono affidati alla custodia di Hermann von Salza.

Nel febbraio 1231 Gregorio IX si rivolse a L. e all'arcivescovo Giacomo di Capua chiedendo il loro intervento presso l'imperatore per ottenere la restituzione dei beni confiscati agli ospedalieri e ai templari. Quindi, nel quadro di una violenta ripresa della persecuzione contro gli eretici voluta tanto da Federico II quanto da Gregorio IX, insieme con il marescalco imperiale Riccardo Filangieri L. fece incarcerare in Napoli alcune persone riconosciute colpevoli di eresia.

Nel luglio 1231 - insieme con Rinaldo cardinale vescovo di Ostia (il futuro Alessandro IV) - L. riportò la pace tra nobili e popolo in Anagni. L'accordo che poneva fine alle discordie intestine tra milites e populares fu confermato da Gregorio IX nell'agosto successivo.

Nell'aprile 1232 L. fu nominato arcivescovo di Messina. Ormai al culmine della sua carriera ecclesiastica e diplomatica non ebbe difficoltà a ottenere l'assenso regio e la conferma papale per la nomina a una delle sedi più importanti del Regno - una sede che amministrava considerevoli patrimoni immobiliari e fondiari - nonostante i gravi contrasti tra Federico II e Gregorio IX sulle nomine vescovili nelle diocesi meridionali (basti dire che il sovrano rifiutò l'assenso al trasferimento a Reggio Calabria del vescovo di Squillace e che la diocesi reggina rimase vacante per alcuni anni).

Apparentemente L. non fu implicato nella rivolta di Messina del 1232-33, in occasione della quale i ceti mercantili della città si ribellarono contro il giustiziere Riccardo di Montenegro, accusato dai Messinesi di agire "contra eorum libertatem", vale a dire di operare a danno dei loro privilegi e delle loro franchigie. La rivolta, esplosa nell'agosto 1232 e propagatasi rapidamente in altri centri dell'isola, fu soffocata da Federico II con relativa facilità e con condanne esemplari. A partire da questa data, tuttavia, sembrano raffreddarsi i rapporti con l'imperatore; di sicuro dal 1232 in poi L. non è più indicato come "dilectus familiaris" del sovrano e dal 1234 non compare più come testimone nei documenti imperiali. In una lettera a Pietro Della Vigna traspare chiaramente il timore di perdere la fiducia di Federico, ma L. sembra considerare ancora possibile un recupero del favore imperiale.

Per alcuni anni L. continuò a operare come prezioso esecutore della politica imperiale e nel biennio 1232-33 fece parte di diverse legazioni inviate da Federico al papa pro facto Lombardorum, ovvero per cercare una soluzione alla complessa questione lombarda.

Il 24 marzo 1233 Gregorio IX, intenzionato a risolvere un'altra questione spinosa, propose all'imperatore di affidare la città di Gaeta al governo di L. e del gran maestro dell'Ordine teutonico fino al compimento della maggiore età dell'erede al trono, Corrado.

Nello stesso anno L. condusse una lunga ed estenuante trattativa con Bertoldo di Urslingen - che da tre anni si era ribellato all'imperatore e si era asserragliato nel castello di Antrodoco, ai confini settentrionali del Regno - e nel mese di luglio, garantita la libertà personale del ribelle, riuscì a ottenere la consegna della fortezza di Antrodoco nelle mani del maestro giustiziere Enrico di Morra.

Nell'ottobre 1238 L. fu presente all'incontro di Cremona tra una delegazione pontificia composta da quattro vescovi e Federico II. Questi, nel difendersi dalle accuse che gli venivano mosse dagli inviati del papa, chiamò più volte gli arcivescovi di Messina e di Palermo a testimoniare la correttezza del suo operato.

Nel novembre successivo, su delega dei monaci cassinesi che non erano riusciti a raggiungere un accordo per l'elezione del nuovo abate, L. nominò Stefano di Corvara, una scelta che incontrò il favore e l'approvazione del papa e dell'imperatore.

Sul finire del 1238 L. - con Berardo di Palermo, con Tommaso di Aquino conte di Acerra e con Ruggero Porcastrella - fu inviato di nuovo al papa per negoziare un accordo di pace, ma in dicembre, mentre gli altri componenti della legazione lasciarono Roma per rientrare nel Regno, L. si recò ad Anagni. L'inasprirsi della crisi politica tra pontefice e imperatore e l'impossibilità di raggiungere quel compromesso che aveva costituito il motivo ispiratore dell'azione di L. e di altri vescovi come Luca di Cosenza e Pellegrino di Brindisi, ostinati assertori del rispetto dei patti che regolavano i rapporti tra le due massime autorità della Cristianità, finirono col destabilizzare la posizione di L. a corte. Incapace di schierarsi decisamente con i nemici di Federico II, L. - che era stato sino a quel momento uno dei più importanti rappresentanti imperiali presso la Curia - scelse la via di un volontario esilio che non comportò la rottura dei rapporti personali con l'imperatore.

Federico, infatti, con parole colme di benevolenza non compatibili con il venir meno della devozione dell'arcivescovo per il suo sovrano, nel novembre 1239 si rallegrò alla notizia di una possibile nomina di L. a patriarca di Gerusalemme, poi sfumata per motivi ignoti. Inoltre, a una lettera di L. che lo invitava alla pace col papa, rispose nel febbraio 1240 prevedendo addirittura una visita presso la dimora anagnina del suo antico familiare. Ancora una volta L. si propose come intermediario tra papa e imperatore e ancora una volta Federico rispose addossando al papa tutte le responsabilità della rottura e minacciando di rimettere in discussione la questione della sovranità sul Ducato di Spoleto e sulla Marca di Ancona.

Dopo la morte di Gregorio IX (22 ag. 1241) e il brevissimo pontificato di Celestino IV, L. non abbandonò il progetto di recupero delle relazioni tra Papato e Impero e nel 1242, insieme con l'arcivescovo di Rouen, guidò la legazione che trattò con l'imperatore, in nome dei cardinali radunati ad Anagni, chiedendo il rilascio dei cardinali catturati nel maggio 1241 e il ritiro delle truppe imperiali dalla regione intorno a Roma, in modo da consentire ai cardinali rimasti in città di raggiungere la sede del conclave.

L. compare per l'ultima volta come testimone in un documento pontificio del 18 ag. 1245.

Uomo di riconosciute abilità diplomatiche, fu senza dubbio l'ecclesiastico più importante della nutrita schiera di alti prelati meridionali che vivevano in esilio presso la Curia papale, tra i quali vanno ricordati l'arcivescovo Marino Filangieri di Bari, Arduino di Cefalù e il vescovo di Cosenza Obizo di Asti.

Nell'impossibilità di conciliare la lealtà verso l'imperatore con l'obbedienza verso il papa, L. non rientrò più nel Regno e visse tra Roma e Anagni fino alla morte, collocabile tra il 1248 e il 1249.

L'attività pastorale di L. e del governo delle diocesi di Reggio Calabria e di Messina è poco nota. La costante presenza alla corte imperiale, i continui impegni diplomatici e il volontario esilio comportarono necessariamente un allentamento dei rapporti con le due diocesi.

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