Laicismo

Dizionario di filosofia (2009)

laicismo


Termine che si diffonde nella Francia della seconda metà del 19° sec., nel quadro dello scontro tra le culture politiche ‘figlie’ della Rivoluzione francese e il mondo cattolico. Esso si fonda sul principio della separazione tra Stato e Chiesa, ma dà a questo principio (già formulato, in senso liberale, da Locke) un’inflessione anticlericale e spesso irreligiosa (che ha le sue origini nel libertinismo ➔). Questo tipo di l., diffuso soprattutto nei paesi europei di tradizione cattolica, colloca le fedi religiose nell’ambito delle convinzioni private e nega loro qualsiasi rilevanza pubblica: esso indica quindi l’atteggiamento di coloro i quali sostengono la necessità di escludere le fedi religiose, e le istituzioni che se ne fanno interpreti, dal funzionamento della cosa pubblica in ogni sua articolazione.

Le diverse accezioni teoriche

Dal punto di vista teorico, però, il termine, da sempre controverso, anche perché carico di connotazioni valoriali di segno opposto, rimanda a una molteplicità di significati, per intendere i quali è necessario ripercorrere l’evoluzione del termine laico. Se originariamente tale termine (dal gr. λαϊκός «del popolo») indicava quella parte del popolo di Dio che non faceva parte del clero (significato ancora in uso all’interno della Chiesa cattolica), nel corso del 19° sec. esso ha finito per indicare tutto ciò (idee, istituzioni, movimenti) che non ha carattere religioso e confessionale. Di qui la nascita di espressioni come Stato laico (contrapposto a Stato confessionale), pensiero laico (distinto o contrapposto a pensiero di ispirazione religiosa), atteggiamento laico (contrapposto ad atteggiamento dogmatico) e l. (inteso come filosofia o come metodo).

Lo Stato laico

La consapevolezza della distinzione tra sfera religiosa e sfera politica nasce con il cristianesimo: dal passo evangelico che esorta a dare «a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio» (Matteo, 22, 21) sino alla ‘teoria delle due spade’ enunciata da papa Gelasio I (494), nell’Occidente cristiano si è sempre distinto tra potere religioso e potere politico, assegnando al primo l’auctoritas e al secondo la potestas (➔ autorità). Tale distinzione non ha comunque evitato – al di là dei forti contrasti, durati per tutto il Medioevo – che religione e politica si sostenessero a vicenda: la prima, servendosi della potestas civile per far valere i suoi precetti; la seconda, ricorrendo all’auctoritas religiosa per fondare i suoi titoli di legittimità e rafforzare l’obbligazione politica. Quando, in seguito alla Riforma, l’unità religiosa dell’Europa si è spezzata, la religione non ha rappresentato più un motivo di unione, bensì di drammatico contrasto: l’esperienza delle guerre di religione, tra 16° e 17° sec., ha giocato un ruolo decisivo nella ricerca, da parte del moderno giusnaturalismo (➔), di un fondamento autonomo all’obbligazione politica, fondamento che per i pensatori liberali doveva permettere la convivenza, all’interno dello Stato concepito come garante della coesistenza pacifica, di individui appartenenti a confessioni diverse. Si è trattato di un cammino molto lungo, scandito da due tappe principali: l’affermazione, sul finire del 17° sec., del principio della tolleranza e il pieno dispiegarsi, all’inizio del 19° sec., del principio della libertà religiosa. Il primo è stato teorizzato da Locke nell’Epistola sulla tolleranza (1689), dove viene tracciata una chiara distinzione tra potere politico e potere religioso: il primo, anche se basato sul consenso, si serve della coercizione per far rispettare le proprie decisioni; il secondo, destinato alla cura delle anime, può servirsi soltanto della persuasione. «Occorre una luce – scrive Locke – perché muti una credenza dell’anima: e la luce non può essere data in alcun modo da una pena inflitta al corpo». Società civile e società religiosa sono quindi due realtà completamente distinte: e chi vuole confonderle, sottolinea il filosofo inglese, «mescola due cose così separate come il cielo e la terra». Quanto alle Chiese, esse devono improntare i loro rapporti alla più larga tolleranza, giacché «ogni Chiesa è ortodossa per sé stessa ed erronea o eretica per gli altri». Ciò non significa che le Chiese non abbiano il diritto di darsi regole dogmatiche e organizzative e di scomunicare quei fedeli che non le rispettino; ma alla scomunica religiosa non deve seguire alcuna conseguenza civile (nessuna violenza di tipo fisico o verbale, nessuna confisca di beni). La tolleranza lockiana (i cui limiti stanno nell’esclusione di atei e cattolici, nonché nella sussistenza di una confessione di Stato, quella anglicana) diverrà piena libertà religiosa soltanto nel corso del 19° sec., quando tutte le confessioni religiose (negli Stati liberali) diverranno egualmente libere di fronte allo Stato, che non si identificherà con nessuna di esse, assumendo così un carattere apertamente ‘laico’. Se la laicità dello Stato richiede la netta separazione tra Stato e Chiesa, essa non implica tuttavia atteggiamenti anticlericali, antireligiosi o irreligiosi: anzi, la linea di pensiero che da Locke, passando per i costituenti americani, giunge sino a Constant e Tocqueville riconosce alle fedi religiose un ruolo fondamentale ai fini del mantenimento della libertà e della coesione sociale.

Laicità del pensiero e laicismo come filosofia

Sul piano specificamente filosofico, la rivendicazione dell’autonomia del pensiero dalla teologia e dalla religione fa senz’altro parte della tradizione laica. Sotto questo profilo, gran parte del pensiero moderno, a differenza di quello medievale, ha un’ispirazione laica: da alcune correnti del pensiero umanistico-rinascimentale al razionalismo e all’empirismo, dalla scienza moderna all’Illuminismo, sino ai grandi sistemi ottocenteschi (idealismo, marxismo, positivismo) e alle loro riprese novecentesche. Si tratta tuttavia di un ventaglio così ampio e diversificato di posizioni, che l’elemento della ‘laicità’ assume connotazioni profondamente differenti. La distinzione fondamentale passa tra la rivendicazione dell’autonomia della ragione (che può convivere con la dimensione religiosa attraverso una distinzione di ambiti o assumendo un atteggiamento agnostico) e l’affermazione di una completa autosufficienza della ragione (comunque concepita), che non lascia spazio per altre dimensioni. Tale affermazione conduce a tre atteggiamenti verso la religione: la sua accettazione soltanto in forma razionale (➔ deismo), che va di pari passo con la critica alle religioni rivelate in quanto mere imposture (un esempio paradigmatico può essere individuato in Voltaire); la sua accettazione come momento transeunte dello sviluppo spirituale, destinato a essere comunque superato dalla filosofia (idealismo e neoidealismo); il suo completo rifiuto (➔ ateismo), fondato sulla convinzione che ogni religione nasca dall’alienazione (Feuerbach, Marx). Se per l. si intende una visione del mondo il cui tratto essenziale sta in un rigoroso immanentismo e in un integrale secolarismo, le ultime due posizioni ne costituiscono le incarnazioni filosoficamente più organiche e coerenti.

Laicismo come metodo

Secondo alcuni studiosi, tuttavia, il l. non è una filosofia, ma un metodo fondato su postulati di ispirazione liberale. Per Abbagnano, il l. è «il principio dell’autonomia delle attività umane, cioè l’esigenza che queste si svolgano secondo regole proprie, che non siano a esse imposte dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli cui essi si ispirano». Il l. è quindi un principio che tutela l’autonomia delle attività umane, svolgendo una funzione analoga al principio di libertà nei rapporti tra gli individui: sul piano storico, esso avrebbe esplicato la sua azione tutelando l’autonomia dello Stato dalle ingerenze ecclesiastiche, ma in seguito difendendo la religione dalle ingerenze politiche e ogni forma di sapere da influenze ideologiche e/o politiche. È chiaro che in una simile accezione il l. perde ogni carattere antireligioso. Su questa linea si colloca anche Calogero, per il quale il l. non è una filosofia o un’ideologia politica, ma il metodo che rende possibile il pluralismo filosofico e ideologico: il suo principio consiste infatti nel «non pretendere di possedere la verità più di quanto ogni altro possa pretendere di possederla». Inteso come metodo, il l. assume una connotazione antidogmatica, che lo pone in diretta polemica con le ideologie totalitarie e con le filosofie che pretendono di fornire un sapere onnicomprensivo ed esaustivo.