LA TRANSIZIONE NELL'ECONOMIA RUSSA

XXI Secolo (2009)

La transizione nell’economia russa

Domenico Mario Nuti

L’evoluzione della Russia nel primo decennio del 21° sec. vede la continuazione del processo di transizione postsocialista, iniziato nel 1992 dopo la dissoluzione dell’URSS, la stabilità politica sotto due mandati presidenziali di Vladimir Putin (nominato ad interim dal presidente Boris El´cin il 31 dicembre 1999, poi eletto nel marzo 2000 e rieletto nel 2004) e la continuazione del suo potere in veste di primo ministro sotto la presidenza del suo successore Dmitrij Medvedev (dal 2008). Dopo un declino economico decennale culminato con la gravissima crisi finanziaria dell’agosto 1998, la Russia ha goduto di una decisa ripresa economica grazie alla svalutazione del rublo, conseguenza della crisi, al flusso crescente di investimenti diretti esteri e – fino a metà 2008 – all’aumento dei prezzi del petrolio e del gas. La loro drastica e altrettanto rapida riduzione, nonché l’impatto della crisi finanziaria globale, hanno successivamente ridotto lo sviluppo fino a portare l’andamento dell’economia in territorio negativo nel 2009 peggiorandone in maniera significativa le prospettive future, nonostante la contenuta risalita del prezzo del petrolio nel primo quadrimestre del 2009. Con Putin la Russia, che negli anni Novanta aveva introdotto un modello economico di tipo capitalista molto liberale, dal 2003 si è trasformata indirizzandosi verso lo statismo, senza per questo prendere tuttavia la strada della restaurazione comunista. Si discute oggi se, e fino a che punto, l’attuale sistema politico ed economico della Russia possa essere considerato come quello di un Paese ‘normale’.

Gli anni Novanta

Una comprensione di questi processi e tendenze richiede alcuni brevi richiami sulla transizione postsocialista della Russia nel decennio precedente (sull’evoluzione sovietica nel periodo 1945-1991, cfr. Hanson 2003). Il fallimento del tentato putsch dell’agosto 1991 conduceva a dicembre dello stesso anno alla disintegrazione dell’Unione Sovietica nelle 15 repubbliche che la componevano, concordata dai loro presidenti in una riunione ad Alma Ata. Il 25 dicembre dello stesso anno si dimetteva il presidente dell’Unione Michail S. Gorbačëv. Il 2 gennaio 1992 cominciava in Russia un radicale programma di liberalizzazione dei prezzi, con l’immediata trasformazione della pressione inflazionistica preesistente, fino ad allora repressa e visibile sotto forma di code e mercati neri – uno dei fattori che avevano impedito le riforme e quindi contribuito al collasso del sistema – in rapida inflazione aperta (del 245% al mese in gennaio, del 2250% all’anno nel 1992). Al tempo stesso si rendeva convertibile il rublo a un cambio fluttuante, drasticamente svalutato molto al di sotto (inizialmente di ben 36 volte) del tasso di cambio implicito nella Purchasing power parity (PPP) rispetto al dollaro statunitense.

L’adozione di quel programma da parte della Russia dapprima forzava le altre repubbliche a seguire la stessa politica di liberalizzazione dei prezzi, in virtù dell’appartenenza alla comune area del rublo, sia pure con variazioni locali, poi portava alla disintegrazione della stessa area del rublo, mediante l’adozione di monete locali nelle varie repubbliche, prima come surrogati del rublo, poi come monete proprie dei nuovi Stati indipendenti. L’inflazione continuava il suo corso, a tassi diversi nelle diverse monete e con periodi più o meno lunghi di disinflazione. Insieme alla stabilizzazione si iniziavano i processi di liberalizzazione del commercio estero, di legalizzazione di imprese e proprietà private, di privatizzazione del patrimonio di Stato e le altre trasformazioni sistemiche già intraprese a partire dal 1990 dalla Polonia e dagli altri Paesi satelliti dell’URSS. In questo modo crollava il sistema economico instaurato nell’Unione Sovietica negli anni 1928-1932 e rimasto fondamentalmente immutato nonostante innumerevoli tentativi di riforma. Si spezzavano il blocco commerciale dei Paesi socialisti, il COMECON (o CMEA, Council for Mutual Econ-omic Assistance), nonché l’alleanza militare del Patto di Varsavia, mentre già nel 1990 si erano riunificate la Germania Democratica e quella Federale.

Accelerava il declino del reddito e del consumo, come del resto negli altri Paesi della transizione postsocialista nell’Europa centro-orientale, ma in misura e per una durata maggiori, e si registrava una più lenta ripresa rispetto a questi Paesi europei. La fig. 1 indica la recessione e la successiva ripresa della Russia, che segue da vicino la media dei Paesi della transizione. Questa media tuttavia è la combinazione di una breve e relativamente minore recessione dei Paesi dell’Europa orientale (per es., un declino del solo 18% in Polonia nel 1990-1992) e di una prolungata e severa recessione nella maggior parte dei Paesi della Confederazione degli Stati indipendenti (CSI), costituita dall’ex URSS meno i tre Stati baltici (Estonia, Lettonia e Lituania): in Moldavia si registrava una caduta ufficiale del reddito del 65%, mentre in Russia era del 40%.

Fino a un certo punto questa recessione – del tutto inattesa – può essere stata esagerata da cambiamenti di procedure statistiche e di comportamento delle imprese (Nuti 2007). Ma la sua scala è tale da non lasciare dubbi. Per Mundell (1997), per es., la recessione dei Paesi della transizione è stata reale e peggiore di quella del 1929. Egli indica come una delle principali cause la disintegrazione economica e monetaria (del COMECON, dell’URSS e dell’area del rublo), la frammentazione dell’Unione in quindici repubbliche ognuna con la sua moneta, nonché quella della Cecoslovacchia e della Iugoslavia. Tali cambiamenti avevano ridotto il volume del commercio con il passaggio dai flussi pianificati e pagati in rubli (interni o trasferibili; in dinari in Iugoslavia) a prezzi politici, al nuovo sistema con flussi commerciali pagati in dollari a prezzi del mercato internazionale e difficili da bilanciare.

In parte la recessione era causata anche da un vuoto sistemico, con la perdita di istituzioni di pianificazione prima che apparissero le istituzioni del mercato e la conseguente disorganizzazione (Blanchard 1997), dovuta alla scomparsa dei tradizionali legami di forniture (backwards and forward linkages) non ancora sostituiti da nuove relazioni contrattuali. In parte la recessione era dovuta a discutibili misure di politica economica, quali politiche monetarie e fiscali eccessivamente restrittive che portarono all’over shooting dei programmi di stabilizzazione. In Russia, per es., una severa stretta creditizia intorno al 1994-95 condusse a tassi reali di interesse superiori al 200%, con conseguente cessazione degli investimenti, crescita della disoccupazione, accumulo di arretrati nelle transazioni fra imprese, nel pagamento delle tasse, degli acquisti del governo, di salari e pensioni. In questo modo si demonetizzava l’economia, e per oltre il 40% delle transazioni industriali si ritornava al baratto.

Sono questi i fattori principali della recessione da transizione, specialmente per la Russia, piuttosto che l’impatto della terapia d’urto (shock therapy) criticata dai fautori di un approccio graduale alla transizione. Infatti l’ambito di scelta fra i due approcci era estremamente circoscritto (Nuti 2007), ed era comunque necessario portare i prezzi a un livello che eguagliasse domanda e offerta, unificare i tassi di cambio, rompere il monopolio statale della proprietà e del commercio estero, come del resto era stato fatto nella transizione della Cina e del Vietnam.

Tre tentativi di stabilizzazione furono operati prima della crisi del 1998: nel 1992, nel 1993-94 e nel 1995-1997. A metà del 1992 venne lanciato un programma di privatizzazione di massa, mediante vouchers convertibili in proprietà statale, distribuiti gratuitamente al 97% della popolazione russa; in questo modo alla metà del 1994 i due terzi del PIL erano prodotti da imprese private, con una inattesa prevalenza di partecipazione azionaria dei lavoratori nelle imprese in cui essi lavoravano. Altre forme di privatizzazione vedevano la vendita di intere imprese o di pacchetti azionari, nonché la scandalosa cessione di azioni di imprese pubbliche date in pegno alle banche a prezzi stracciati in cambio di prestiti che si sapeva in partenza non sarebbero stati restituiti (loans for shares, o debt for equity swaps).

Questi processi della transizione si sono tradotti in una marcata concentrazione della ricchezza, dovuta principalmente a tre processi di appropriazione. Il primo è l’accesso privilegiato dell’élite politica a prodotti primari – compreso il petrolio – il cui prezzo interno viene mantenuto per molto tempo significativamente al di sotto del prezzo internazionale, e la cui esportazione è controllata da quote e da licenze anch’esse soggette ad accesso privilegiato. Il secondo è l’accesso al credito a tassi d’interesse di favore, altamente negativi in termini reali soprattutto rispetto all’inflazione nel mercato degli immobili o delle azioni. Il terzo è l’appropriazione delle azioni di imprese di Stato da parte di insiders, soprattutto dirigenti e banchieri: i primi mediante il rastrellamento delle azioni inizialmente distribuite ai dipendenti, i secondi attraverso la sopra ricordata conversione di crediti verso lo Stato in azioni cedute sottoprezzo.

È così – e non attraverso il successo d’impresa in un’economia concorrenziale di mercato – che si è formato un gruppo ristretto di oligarchi plurimiliardari. A fronte di tutto questo sono aumentate la povertà e la disuguaglianza del reddito.

Secondo la World bank, la percentuale della popolazione sotto il livello nazionale di povertà è passata dall’1,5% alla fine dell’era sovietica a livelli superiori al 40% a metà degli anni Novanta. Secondo l’ufficio statistico russo Goskomstat, il coefficiente di Gini, una misura di disuguaglianza che va da 0 (per assoluta uguaglianza) al 100% (per la totale concentrazione del reddito in un unico soggetto) era del 28,9% nel 1991 ed è salito al 40% nel 2000.

Nei primi anni della transizione la Russia si distingueva per un deciso deterioramento delle condizioni di salute, per l’aumento della mortalità per malattie cardiovascolari, alcolismo e morti violente, inclusi i suicidi, e per una marcata riduzione della speranza di vita soprattutto dei maschi, la cui mortalità aumentava del 60% nei primi anni Novanta.

Il Paese ha seguito percorsi economici e politici non lineari, con frequenti regressi e diversioni e una crisi dell’economia reale e finanziaria culminata nell’agosto 1998. Questa fu determinata da un tasso di cambio sopravvalutato del rublo (che dal 1995 era ancorato all’interno di un ‘corridoio strisciante’ con il dollaro, e data la maggiore inflazione russa subiva un apprezzamento reale), drogato da tassi di interesse elevati – ambedue imposti anche dal Fondo monetario internazionale in chiave antinflazionistica – che però non erano compatibili con l’equilibrio del bilancio statale su cui gravavano gli elevati interessi sul debito pubblico. Altri fattori della crisi furono l’apertura agli investitori esteri dell’acquisto dei titoli di Stato (il cui rendimento raggiungeva il 70% con un tasso di cambio abbastanza stabile e quindi particolarmente attraente), il continuo salasso delle fughe di capitale, dell’ordine di grandezza intorno ai 5 miliardi di dollari all’anno; la difficoltà di riscuotere le imposte; il contagio della crisi finanziaria asiatica del 1997, nonché il ribasso del prezzo del petrolio del 1998 (Melloni 2006).

Proprio nell’agosto del 1998 il governo russo fece default sul suo debito, nonostante un massiccio aiuto del Fondo monetario internazionale, della World bank e dei governi occidentali; nel giro di pochi mesi il rublo si svalutò massicciamente, con il dollaro che passava da 6 a 24 rubli (in media 24,6 rubli nel 1999).

Dal 1999 in poi ebbe inizio una ripresa, subito seguita da un’accelerazione dello sviluppo, dovuta innanzitutto alla svalutazione del rublo, che ricostituiva i margini di competitività dell’industria russa. Se la svalutazione – come notato da Philip Hanson (2008) – era stata dunque il risultato di un fallimento della politica economica anziché una brillante strategia, la risposta positiva dell’industria russa risultò il frutto delle riforme degli anni Novanta.

La ripresa fu anche dovuta all’impatto di influssi crescenti di capitale e – già nel 1999-2000, e dal 2003 fino a metà 2008 – al successivo e spettacolare rincaro del petrolio e del gas, di cui la Russia è oggi rispettivamente il secondo e il primo esportatore nel mondo. Alcuni ritengono che il rincaro del petrolio possa avere dei risvolti negativi, di resource curse, o di Dutch disease (Russia’s oil and natural gas, 2006), ossia l’impedimento dello sviluppo manifatturiero per effetto della continua rivalutazione dovuta alle entrate petrolifere (come accadde appunto nei Paesi Bassi con le esportazioni di gas), ma la ricchezza non può mai ragionevolmente essere considerata un handicap. Tali risvolti negativi sono semmai la conseguenza di cattive politiche che non ne sfruttano appieno i benefici o addirittura ne amplificano gli svantaggi. Certo non è stato questo il caso della Russia: con le entrate petrolifere sono migliorati i conti con l’estero e i conti pubblici, si è risolto il gravoso problema dei pagamenti arretrati accumulati, si è ridotto il debito pubblico, le imprese hanno ricostituito la loro liquidità, sono ripresi gli investimenti e lo sviluppo.

Da Putin a Medvedev

La presidenza Putin (2000-2008) è stata caratterizzata da un’eccellente performance economica, dovuta a una gestione macroeconomica stabile e oculata, ai risultati delle riforme intraprese negli anni Novanta, a un andamento favorevole delle ragioni di scambio grazie al livello elevato e crescente dei prezzi del petrolio, del gas e di altri prodotti primari, nonché a un livello sostenuto di domanda interna.

Il progresso della Federazione Russa verso il completamento della sua transizione postsocialista a un’economia di mercato è indicato nella fig. 2, che riporta i ‘voti’ assegnati alla Russia nel 2008 dalla European bank for reconstruction and development (EBRD). Tale istituzione, fondata nel 1991 per assistere i Paesi della transizione postsocialista (attualmente ventinove) dal 1994 pubblica nel Transition report annuale una ‘pagella’ (scoreboard) in cui assegna un voto da 1 (poco o nessun progresso) a 4,3 (per il raggiungimento degli standard dei Paesi dell’OECD, Organisation for Econ-omic Co-operation and Development) su nove diversi aspetti della transizione: privatizzazione di larga scala (grandi imprese di Stato), piccola privatizzazione (abitazioni, appezzamenti di terreno, microaziende), ristrutturazione delle imprese, liberalizzazione dei prezzi, sistema del commercio estero e tassi di cambio, politica della concorrenza, riforma delle banche, istituzioni finanziarie non bancarie, riforma delle infrastrutture.

Questa evoluzione sistemica nel primo decennio del 21° sec. è stata accompagnata da una crescita reale del PIL a un tasso continuato di circa il 7% all’anno, con un miglioramento dei livelli di benessere della popolazione che ha visto il proprio reddito disponibile aumentare annualmente di più dell’8% (anche grazie al miglioramento delle ragioni di scambio fino a metà 2008; la fig. 1 indica l’evoluzione del PIL russo durante l’intero periodo della transizione). La popolazione al di sotto del livello di povertà si è ridotta al 14% nel 2007; è aumentata la classe media da 8 milioni nel 2000 a 55 milioni nel 2006. È cresciuto altresì il numero dei miliardari (in dollari), che nel 2007 è aumentato di 50 individui, raggiungendo il numero di 110, il più alto nel mondo dopo gli Stati Uniti. Il coefficiente di Gini è salito dal 40% nel 2000 al 42,2% alla fine del 2007, un valore che pone la Russia a un grado di disuguaglianza leggermente superiore a ogni Paese dell’Unione Europea, ma la rende più egualitaria degli Stati Uniti (47%) o della Cina (45%).

Nel primo decennio del nuovo secolo il bilancio dello Stato ha ottenuto ampi saldi positivi (fig. 3): le esportazioni sono passate da 100 miliardi di dollari nel 2000 a 350 miliardi nel 2007, la bilancia commerciale e i conti di parte corrente hanno registrato elevati saldi con una conseguente accumulazione di riserve. Queste sono passate da meno di 30 miliardi di dollari nel 2000 a 516 miliardi nell’ottobre 2008, corrispondenti a oltre un anno di importazioni (più altri 160 miliardi in un fondo di stabilizzazione corrispondente a circa il 10% del PIL, poi suddiviso in un fondo di riserva, a sostegno dei conti pubblici, e in uno per il benessere della nazione). Sono aumentati gli investimenti, a un tasso medio superiore al 10% nel 2000-2008 (inizialmente inferiore nel 2001 e 2002). Gli investimenti diretti esteri sono cresciuti costantemente (con una leggera flessione nel 2005), passando da 2,5 miliardi di dollari nel 2000 a 27,5 miliardi nel 2007; salivano – fino agli inizi del 2008 – i valori di borsa (del 19% solo nel 2007); sono migliorate le tendenze demografiche, pur sempre con una popolazione in declino, ma con una crescente natalità e una mortalità decrescente; si è ridotto il tasso di disoccupazione dal 10% nel 2000 al 6% nel 2006.

Nei primi tre anni del suo mandato Putin ha seguito politiche economiche liberali, che hanno incoraggiato tanto la costituzione e la crescita delle imprese, quanto lo snellimento burocratico, lo sviluppo dei mercati fondiario e finanziario. È stata introdotta un’imposta ad aliquota fissa (flat tax) del 13% sul reddito personale (che è giudicata la più bassa nel mondo dopo quella degli Emirati Arabi Uniti), e quindi scarsamente progressiva.

Nel 2003 tre quarti della produzione di petrolio era nelle mani di compagnie private, con la Jukos come leader. Nell’ottobre 2003 veniva arrestato il proprietario della Jukos, Michail Chodorkovskij, potente oligarca con ambizioni politiche, e lo Stato attaccava la sua società, i cui assets passavano alla compagnia petrolifera statale Rosneft; l’oligarca è tuttora (2009) sotto processo e imprigionato in Siberia. In generale, dal 2003 è cominciato un periodo di rafforzamento dello Stato e dell’intervento di quest’ultimo nell’economia, anche con le funzioni di proprietario-imprenditore.

La quota del settore privato nel PIL, del 70% nel 2000-2004, è diminuita al 65% nel 2005-2007 (EBRD, Transition report 2007). La quota dello Stato nell’industria del petrolio è aumentata da meno del 20% nel 2004 a oltre il 50% nel 2007. Il controllo dello Stato è aumentato nelle banche fino al 38%, nonché nell’industria meccanica e nelle industrie collegate alla difesa. Sono state formate delle holdings di Stato nei settori automobilistico, aerospaziale, cantieri navali, pipelines, ferrovie. C’è l’intenzione dichiarata di ‘russificare’ o nazionalizzare settori strategici non ancora precisati. I fondi sovrani sono proprietari di quote di capitale non solo in Russia e nella CSI, ma anche globalmente. L’ambiente in cui operano le imprese e la scala della corruzione sono deteriorate. La Russia si è spostata da politiche di libero mercato a quelle associate a un developmental state. Sembra avere realizzato «un’economia duale, in cui le regole del gioco economico si sono andate evolvendo in modo piuttosto diverso nei diversi settori» (Hanson 2007a, p. 869): un incrocio, si potrebbe aggiungere, fra la Polonia e la Bielorussia. Al tempo stesso si è smantellato il monopolio statale della generazione e distribuzione di elettricità a livello locale. Questa politica mista è stata accompagnata da politiche fiscali e monetarie notevoli per la loro prudenza e ortodossia, anche per il ruolo svolto da Aleksei Kudrin, ministro delle Finanze dal 2000. Non è chiaro se questa economia duale descritta da Hanson sia un sistema misto sostenibile, ma l’esperienza corrente mostra che una buona dose di statismo è compatibile con un profondo coinvolgimento nel processo di globalizzazione.

Il cambiamento di modello obiettivo effettuato dalla Russia è perfettamento legittimo. Il problema è che, quando si cambia la propria destinazione a metà strada, sicuramente si accresce il costo e la durata del viaggio.

La reintegrazione nell’economia mondiale

La distanza fra un’economia di tipo sovietico e una di mercato è massima nel commercio internazionale (a parte ovviamente il regime di proprietà). Eppure in Russia, come in tutti i Paesi della transizione, è su questo terreno che si è realizzato il maggiore e più rapido progresso nel passaggio al mercato. Questo perché già nel periodo sovietico vi era esperienza diretta di commercio con l’estero, anche con economie di mercato; perché gli stessi partner commerciali rivelano le opportunità di scambio e prendono l’iniziativa, e perché le istituzioni necessarie per il commercio internazionale possono essere introdotte dall’oggi al domani, con un semplice decreto: la legalizzazione di operazioni commerciali estere senza bisogno di autorizzazioni e licenze, l’abolizione delle quote, la riduzione delle tariffe, la stessa convertibilità della moneta (attraverso l’istantanea legalizzazione delle transazioni in valuta estera).

Il punto di partenza (1992) consisteva in una divisione internazionale del lavoro per due terzi pianificata all’interno del blocco, con il commercio con le altre repubbliche trattato come commercio interno fino alla fine dell’URSS, e le importazioni ed esportazioni intraprese da grosse imprese di commercio internazionale specializzate per gruppi di merci, con una sopravvalutazione della valuta che però non aveva effetti perché inconvertibile; il cambio variava a seconda dei gruppi di merci e dei partner commerciali. Molto rapidamente la Russia si reinseriva nell’economia globale, con l’apertura lenta e tuttora incompleta in settori come quello dell’energia, anche se a costo del collasso iniziale dei suoi scambi con l’estero. Questa reintegrazione ha preso la forma di una nuova distribuzione dei suoi flussi commerciali dai Paesi della CSI a quelli occidentali e soprattutto all’Unione Europea che, insieme alla Svizzera e alla Norvegia, nel 2008 ha assorbito la metà delle esportazioni russe (a fronte della quota CSI, 15%, e soltanto al 3-4% degli Stati Uniti; Hanson 2008).

La Russia ha una quota elevata di esportazioni (33,9% del PIL nel 2006) e una più modesta di importazioni (21,2%), anche se il surplus commerciale (9,55% del PIL di conto corrente) tende a ridursi (v. supra). Il livello di protezione tariffaria è relativamente basso (intermedio fra quello inferiore della Cina e quello superiore dell’India). Il commercio è caratterizzato da una quota estremamente ridotta delle sue esportazioni manifatturiere (16,8% del totale delle merci; fra queste, scarseggiano le esportazioni di alta tecnologia, dato il ritardo russo nei prodotti elettronici, e nella diffusione di tecnologia dell’informazione). La dipendenza della prosperità russa dalle esportazioni di petrolio, gas e metalli mette in dubbio la sostenibilità di uno sviluppo continuato. I progressi del commercio estero saranno influenzati dal probabile successo della domanda da parte della Russia di entrare nella World trade organization (WTO), senza per questo modificare drasticamente la divisione del lavoro.

Julian Cooper (2006) analizza la competitività e il cosiddetto Revealed comparative advantage (RCA) delle esportazioni russe in un contesto globale, paragonando gli indici di RCA (teorizzati dall’economista Béla Balassa nel 2000 e nel 2004) anche rispetto a una lista di concorrenti internazionali. Oltre a idrocarburi e materie prime la Russia risulta avere RCA anche nell’industria chimica e in altri settori ad alta intensità di energia, la cui competitività sarà erosa se e quando la Russia onorerà il suo impegno ad alzare il prezzo interno dell’energia, anche nell’ambito delle negoziazioni con la World trade organization.

Cooper conferma che la Russia non ha RCA nell’industria manifatturiera, a eccezione di un gruppo di prodotti (strumentali alla costruzione di reattori nucleari, o nei vagoni ferroviari da trasporto) in cui ha ereditato una posizione di virtuale monopolio dall’era sovietica. La Russia frequentemente ha RCA per i materiali grezzi o di prima lavorazione (per es., legname, carta, non mobilia; alluminio, ma non prodotti fatti di alluminio ecc.). Nel periodo 2000-2004, con l’aumento del prezzo dell’energia, salivano le esportazioni di prodotti energetici a scapito di altre più tradizionali. La promozione delle esportazioni richiederà un grande sforzo di ristrutturazione della capacità e dell’occupazione, di investimenti pubblici e soprattutto di investimenti diretti esteri.

In questo primo decennio vi è stato un forte flusso annuale di investimenti diretti esteri, in ambedue le direzioni, con un significativo rientro di capitali – dopo la fuga degli anni Novanta già ricordata – da Cipro, dalle Isole Vergini e dagli altri paradisi fiscali. Il flusso in entrata, tuttavia, si è concentrato soprattutto nell’energia e nelle materie prime, nel commercio al dettaglio e in altri servizi, con una modesta partecipazione dei settori industriali a eccezione del comparto alimentare, in netto contrasto con la Cina.

La crisi del 2008-2009

Nella seconda metà del 2008 si riduceva, per effetto del rallentamento della domanda globale, il prezzo del petrolio di circa tre quarti, da 148 dollari a meno di 40. Secondo l’ufficio studi della Central bank of Finland, un aumento permanente di 10 dollari del prezzo del barile di petrolio genera un aumento dell’1% del tasso di sviluppo del PIL della Russia; presumibilmente tale moltiplicatore agisce anche per la discesa del prezzo, in senso negativo. Il rublo è stato l’oggetto di pressioni e speculazioni al ribasso, nei confronti sia del dollaro sia dell’euro, inizialmente contrastate dalla Central bank of Russia con massicce perdite di riserve, dell’ordine di 160 miliardi di dollari, poi gradualmente assecondate; a metà febbraio 2009 il dollaro è salito a oltre 39 rubli, con un ceiling ufficiale a 41 rubli, e le riserve erano scese a 387 miliardi di dollari. Nel maggio 2009 il tasso medio di cambio del rublo si è rafforzato passando a 37,1 rubli per dollaro, in seguito alla ripresa del prezzo del petrolio che si avvicinava ai 70 dollari al barile, e all’aumento del prezzo del rame e del nichel. Nel 2008 le esportazioni si erano ridotte di un terzo e le importazioni del 4%, una tendenza che accelerava nell’ultimo trimestre. L’agenzia Fitch a febbraio 2009 ha abbassato il rating di lungo termine per i prestiti russi da BBB+ a BBB, indicando una prospettiva negativa per il futuro. Secondo le dichiarazioni del ministro Kudrin alla fine di febbraio 2009, le entrate del bilancio statale nel 2009 sono risultate in calo del 31,5% rispetto al consuntivo 2008, e di ben il 42% rispetto al bilancio preventivo, di cui circa il 10% era destinato al supporto delle banche e alle spese sociali addizionali per fronteggiare la crisi. La Commissione europea ha previsto anche una riduzione del surplus sia della bilancia commerciale sia del conto corrente della Russia, rispettivamente al 5,1% e al 6,3% del PIL nel 2009, e all’1,4% e 2,7% nel 2010.

Le previsioni ottimistiche per il 2009 si sono invertite, passando a una previsione ufficiale di una caduta del reddito del 2,2%. Nel maggio 2009 la Commissione europea ha previsto una caduta del 3,8%, il Fondo monetario internazionale addirittura del 7,5%. A gennaio 2009 la disoccupazione è cresciuta infatti di 300.000 unità, raggiungendo l’8%. Anche l’agenzia di rating Standard & Poor’s ha ipotizzato una contrazione nel 2009 per la prima volta in dieci anni. Per l’agenzia il fatto che l’economia russa sia meno aperta di altri Paesi emergenti ha dei vantaggi durante una crisi. Le esportazioni passeranno da un terzo a un quarto del PIL, ma il declino sarà meno marcato in termini reali. Lo sviluppo (ha dichiarato il consigliere presidenziale Arkady Dvorkovich alla fine di febbraio 2009) riprenderà dalle produzioni dirette alla domanda interna. La svalutazione del rublo stimolerà la sostituzione delle importazioni.

La proporzione della popolazione danneggiata a seguito del deprezzamento del valore delle case e dalle perdite di borsa non è così larga come in Europa, e quindi dovrebbe avere un impatto minore sul consumo. Nel 2008-09 senza dubbio si ridurrà la ricchezza e probabilmente con essa anche il numero dei miliardari russi, spesso over-extended con acquisizioni basate sul credito e svalutate nel mercato.

Sotto l’impatto del contagio della crisi globale e del ribasso di petrolio e gas, nel 2008 l’indice RTS di borsa si è ridotto del 70% (la peggiore performance russa dal 1998, e una delle peggiori nel mondo) con i titoli industriali al –80% e quelli petroliferi al –60%; una leggera ripresa a gennaio veniva interamente perduta in una settimana a febbraio. Con la ripresa del prezzo del petrolio e l’attesa di una rivalutazione del rublo recuperavano i valori di borsa soprattutto nei settori petrolifero, delle costruzioni, delle vendite al dettaglio, e alcune banche.

Convenzionalmente si considerava un elemento di forza del sistema finanziario russo la notevole presenza di capitale straniero, con circa un quinto degli assets bancari del Paese nelle mani di banche a controllo estero. E invece – come in altri Paesi della transizione – queste banche paradossalmente hanno amplificato la crisi: come notato da Hanson (2008), le filiali delle banche estere in Russia – compresi giganti come Raiffeisenbank, Credit Suisse e ING – nel settembre 2008 hanno ritirato circa 10 miliardi di dollari dalla Russia per far fronte alle loro obbligazioni nei Paesi di origine; mentre nell’ultimo trimestre del 2008 le banche e le compagnie russe hanno dovuto ripagare 47,5 miliardi di dollari ai prestatori.

Si profilano – anche se su una scala inferiore a quella dei Paesi occidentali – salvataggi e ricapitalizzazioni bancarie. Alla fine di ottobre 2008 sono stati iniettati nel sistema finanziario russo in varie forme 6 trilioni di rubli, equivalenti a circa 230 miliardi di dollari, pari a circa due terzi del bilancio federale pianificato per il 2008 (Hanson 2008). Il governo ha promesso 500 miliardi di rubli (circa 12 miliardi di euro) per stabilizzare la borsa; un terzo di questi soldi sarebbe stato già versato. A dicembre 2008 il governo ha designato 295 imprese ‘critiche per lo sviluppo economico’ in tutti i settori, eleggibili per un sistema di prestiti garantiti introdotto a febbraio 2009, il quale include altre 1200 imprese nel settore della difesa. A gennaio 2009 la produzione automobilistica è scesa dell’80% rispetto a quella del gennaio 2008; fra le misure adottate in questo settore ci sono tariffe doganali, prestiti ai consumatori e un massiccio acquisto di vetture per il settore pubblico. Il bilancio del 2009 ha stanziato ben 300 miliardi di rubli (pari a 6,5 miliardi di euro) in fondi di garanzia, di cui un terzo è destinato al settore della difesa. Altre ondate di interventi pubblici certamente seguiranno.

L’evoluzione statista della Russia, che ha anticipato una simile evoluzione dei Paesi occidentali a partire dalla seconda metà del 2008, tornerà utile nella gestione della crisi economica mondiale.

La pressione inflazionistica, che già aveva subito una piccola accelerazione nel 2007 (fig. 4), ha continuato la sua ascesa trascinando con sé il tasso di interesse. Essa sarà sempre più difficile da controllare, da parte di una banca centrale che ora persegue anche altri obiettivi diversi dalla stabilità dei prezzi, senza il ricorso a misure amministrative. La riduzione dell’afflusso di petrodollari e di investimenti diretti esteri dovrebbe facilitare il controllo della massa monetaria senza bisogno di ricorrere alla sterilizzazione di tale afflusso, ma pressioni inflazionistiche potrebbero risorgere come conseguenza di una crisi fiscale.

Nel periodo 2000-2008 i salari reali sono aumentati più rapidamente della produttività, riducendo la competitività internazionale – già fortemente erosa dall’apprezzamento del rublo durante il periodo, e solo parzialmente recuperata dalla più recente svalutazione – del gruppo limitato di beni diversi dall’energia che la Russia è in grado di esportare. La lievitazione dei salari è anche dovuta a scarsità locali di lavoro in alcuni settori e qualificazioni, e alla crescente militanza.

Il Ministero dello Sviluppo Economico e del Commercio alla vigilia della crisi già prevedeva per il 2011 un deficit commerciale, che ora può essere anticipato. Seppure l’indebitamento estero pubblico della Russia è in via di riduzione ed è praticamente in estinzione al 2,7% del PIL nel 2007, il debito estero privato è invece in rapido aumento, raggiungendo circa il 40% del PIL, facendo aumentare il debito estero complessivo del Paese. Al momento ciò non rappresenta un problema, ma lo potrebbe diventare se i trend globali dovessero peggiorare.

Le riserve di capacità produttiva sembrano essere vicine all’esaurimento. Lo stato delle infrastrutture pubbliche è carente, se si lasciano da parte le vistose realizzazioni che si vedono a Mosca e San Pietroburgo. Lo sviluppo futuro a questo punto dipenderà da nuovi investimenti in capacità e infrastrutture, che tuttavia sono ancora insufficienti.

Nel 2007 il Ministero dello Sviluppo Economico e del Commercio, in collaborazione con il Centro per la ricerca strategica e altre organizzazioni statali, ha formulato un concetto (proekt) dello sviluppo socioeconomico di lungo periodo della Federazione Russa, con obiettivi di modernizzazione e diversificazione proiettati al 2030. Questo concetto doveva costituire il programma del presidente Medvedev, e su questo è basato il discorso programmatico di Putin al Consiglio di Stato nel febbraio 2008. Le previsioni vedevano al 2020 tre scenari, rispettivamente di: a) inerzia, con una continuata prevalenza del settore dell’energia e materie prime ma con un marcato rallentamento nella crescita delle esportazioni e un tasso di sviluppo annuale del PIL 2011-2020 del 3-3,5%, con un investimento in R&D a un costante 1% del PIL; b) concentrazione nell’energia e materie prime, con lo sfruttamento pieno dei vantaggi comparati della Russia in questo settore, un tasso annuale del PIL 2011-2020 del 5-5,5% e un maggiore investimento in R&D crescente gradualmente dall’odierno 1,1% del PIL al 2% nel 2020 e 3% nel 2030; c) innovazione, ossia lo scenario b con in più un maggiore sviluppo della produzione di tecnologia alta e media, con un più elevato tasso di sviluppo del 6,4-6,5% a costo di un ancor maggiore investimento (elevato dal 20 al 35% del PIL nel 2020) e maggiori spese di R&D fino all’2,8% nel 2015, il 4,0% nel 2020 e il 4,7% nel 2030. Questo dovrebbe assicurare nel 2020 un reddito pro capite di circa 30.000 dollari (in PPP) rispetto ai 13.000 dollari del 2007, una vita attesa di 72 anni (65,6 nel 2006), una crescita della popolazione fino a raggiungere 145 milioni (da 142 milioni nel 2008).

È quest’ultimo lo scenario ambizioso approvato dopo molte discussioni nel gennaio 2009. Osservatori informati, come Cooper (2008) e Hanson (2008), lo hanno giudicato irrealistico: nelle previsioni demografiche, nell’aspettativa di successo nella promozione di aumenti di produttività, nell’attesa – già smentita – di un continuo aumento del prezzo delle materie prime, senza l’incentivo di un ambiente concorrenziale favorevole all’innovazione (Cooper in particolare si rivela pessimista circa le possibilità che in Russia si realizzi una knowledge economy).

Nelle circostanze della crisi globale e del suo contagio, e della riduzione dei prezzi delle materie prime e del petrolio, è probabile che la Russia invece che nell’opzione c venga a trovarsi in una situazione intermedia fra le opzioni a e b, con una massimizzazione delle esportazioni di petrolio e di materie prime, ma a basso prezzo – anche perché è ancora difficile per i produttori e il governo calcolarne il costo marginale – e un relativamente modesto tasso di sviluppo.

Un Paese normale?

Intorno al 2005 si è svolta nella letteratura occidentale una vivace discussione circa il fatto se la transizione fosse stata completata con successo non solo nei nuovi Stati membri dell’Unione Europea, aiutati dai vincoli e dalle regole di convergenza cui essi sono soggetti, ma anche in altri Paesi coinvolti nella transizione, compresa la Russia, considerata come un ‘Paese normale’ (Shleifer, Treisman 2004).

Formulata in questi termini l’affermazione non significa molto. Paragonato ad altri Paesi posti a un simile livello di sviluppo economico e politico ogni Paese è necessariamente vicino alla norma, altrimenti non si potrebbe considerare tale. Il problema piuttosto è se la Russia – indipendentemente dal suo livello di sviluppo – si avvicini agli standard delle economie di mercato avanzate e integrate nell’economia globale, secondo canoni definiti, per fare un esempio, dall’appartenenza all’OECD.

Una vivace confutazione della normalità della Russia è stata fornita da Rosefielde (2005), il quale ha sostenuto che la Russia è un Paese anormale e fornisce una valutazione devastante del suo sistema politico e giuridico, che egli giudica autocratico, della corruzione e delle diffuse interferenze politiche con l’allocazione del mercato. Inoltre anche una distribuzione del reddito apparentemente simile (come quelle della Russia e della Cina nel 2007, sopra citate) può nascondere una profonda diversità. La disuguaglianza nel capitalismo ‘normale’ dipende soprattutto dal successo imprenditoriale ed è il prezzo dell’efficienza; in Russia dipende principalmente – come si è visto – dal saccheggio delle risorse nazionali durante la transizione, e quindi è una forma inefficiente di disuguaglianza. In grande misura il grado di ‘normalità’ della Russia è una funzione crescente del prezzo del petrolio e del gas.

Se si osservano gli indici compilati dalla EBRD a sintetizzare il progresso della transizione in dieci settori (fig. 2), si vede che la maggior parte delle economie della transizione sono ancora a una notevole distanza dai pieni voti.

Nel 2007 la Russia ha un voto di 3 rispetto a un massimo di 4,3, apparentemente un rispettabile 76% (lo score del 2008 è invariato, ma il massimo voto ottenibile viene portato a 4,5, peggiorando il grado di progresso). Ma la scala della EBRD nel 2007 va da 1 a 4,3 e quindi, per calcolare la percentuale di realizzazione dell’obiettivo OECD, si devono convertire i voti EBRD a una scala da 0 a 1. Si trova allora che la Russia e la maggior parte delle economie di transizione sono ancora a un livello uguale oppure inferiore a [(3-1)/(4,3-1)] ossia il 60% dei pieni voti. Essi sono quindi al di sotto degli standard OECD di almeno 40% – un gap di gran lunga maggiore di quanto non sembri, e che non incoraggia compiacimenti.

Infine, Michael Keren e Gur Ofer (2007) hanno seguito un metodo introdotto da Simon Kuznets e cercano regolarità fra il livello di sviluppo dei vari Paesi e gli attributi dello Stato e della base istituzionale, quali gli indici di governance della World bank e gli indici di corruzione di Transparency international. Le deviazioni dei Paesi della transizione, e particolarmente della Russia e dell’Ucraina, dal sentiero di sviluppo istituzionale caratterizzato da Kuznets li porta a concludere fermamente che non si tratta di Paesi ‘normali’.

Ciononostante, non si può sottovalutare l’immenso progresso della Russia sia verso la democrazia sia verso l’economia di mercato e la reintegrazione nell’economia globale, compiuto nel periodo 1992-2009. Il ruolo dello Stato è ancora notevole ma non totalitario. Produttori e consumatori hanno una voce considerevole – anche se non esclusiva in fatto di investimenti – nell’allocazione delle risorse, su tipo e scala di produzione, selezione delle tecniche, occupazione, scelta di fornitori e di acquirenti, prezzi. Il sistema bancario non è più monolitico e strumentale alla pianificazione in termini fisici. Il costo è la presenza di monopoli, la disoccupazione, l’inflazione (ma aperta e non tale da distruggere i ruoli della moneta), la mancanza di regolamentazione e di governo societario, la diffusa corruzione. Il sistema lascia molto a desiderare, e molto rimane da compiere, ma ciò dovrebbe essere possibile mediante riforme senza il bisogno di rivoluzioni sistemiche e l’inevitabile trauma che esse comportano.

Bibliografia

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