La Sicilia greco-romana

Sicilia (2017)

La Sicilia greco-romana

Flavia Zisa

Ci sono luoghi, nella Sicilia dei Greci, in cui si può comprendere tutto. Sono luoghi della sintesi. Uno di questi, dove si ascolta e comprende il respiro olimpico, è la Valle dei Templi di Agrigento. Ma esiste anche un altro luogo in cui, invece, si comprende l’universo degli uomini. Si trova nel Parco della Neapolis a Siracusa ed è quel filo di bianca parete calcarea che separa e unisce insieme la Latomia del Paradiso e il Teatro Greco e che confluisce in quel magico triangolo vertiginoso e profondissimo chiamato ‘Orecchio di Dionisio’.

In questo tratto esatto, il Colle Temenite venne lavorato in double-face: nella parte oscura e sotterranea fu scavata la latomia, luogo di fatica e prigionia, di cui l’Orecchio (fig. a p. 519) è il tratto più sconvolgente; sulla parte esterna, quella solare che guarda sul più bel porto di Sicilia, fu ricavato a giorno il luminoso teatro (fig. a p. 518), dove Eschilo in persona rappresentò I Persiani e che oggi è palcoscenico delle rappresentazioni classiche dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico. Seduti su quei gradini ad ascoltare le parole di Oreste o di Edipo, interrogandosi sulla natura umana e sul proprio destino, è ancora possibile sentir risalire dal basso l’eco infernale dei prigionieri sepolti vivi nella Latomia, così come Tucidide descrisse le agonie degli Ateniesi catturati dai Siracusani nel 413 a.C. durante la Guerra del Peloponneso. Qualcosa che riassume il doppio volto dell’uomo: da una parte, l’arte più sublime; dall’altra, le crudeli conseguenze delle azioni degli uomini. Al cielo, spettatori liberi di riflettere su sé stessi e, nelle profondità, prigionieri senza neanche un barlume per guardare la propria morte.

Del resto, il dono della sintesi è una prerogativa dei Greci: nella statuaria, nei templi, nelle parole, ogni cosa non è mai eccessiva, ma esattamente giusta. E questo immenso luogo scavato all’inverosimile, dalle dimensioni spettacolari e quasi ingombranti, che ispirò il tormentato Caravaggio per la sua tenerissima martire nel Seppellimento di Santa Lucia, in realtà altro non è che la perfetta sintesi di tutte le contraddizioni umane. Una eredità della Sicilia greca, dalla tragica modernità.

La colonizzazione greca della Sicilia, avviata intorno all’VIII secolo a.C., corrisponde alla prima vera e grande rivoluzione culturale, non solo dell’Isola, ma anche di gran parte del Mediterraneo meridionale e, per proiezioni storiche successive, anche dell’Europa. Impattante, organizzata, innovativa e modificatrice, questa travolgente migrazione muterà vigorosamente la forma e la sostanza del paesaggio fisico e culturale dei luoghi di approdo, dando origine – insieme agli eventi contemporanei in Magna Grecia – al primo melting pot d’Occidente. D’ora in poi, niente sarà più come prima in Sicilia e le vicende si moltiplicheranno con quel ritmo incalzante tipico dell’identità ellenica, così modernamente veloce rispetto alle altre culture antiche contemporanee. L’Isola entra nella Storia occidentale e nascono le città con i loro spazi organizzati, i commerci e gli scambi, le alleanze e i conflitti, l’arte e l’architettura.

Su tutto, giocherà un ruolo determinante la trasmissione dei culti greci, della loro iconografia e delle loro dinamiche religiose, che con le loro feste e i loro luoghi del sacro incideranno profondamente sulla personalità culturale dell’Isola, talvolta fondendosi con le tradizioni locali e dando i frutti di un florido e quanto mai originale scenario artistico e monumentale, percepibile attraverso templi e spazi sacri disseminati in ogni angolo di questo nuovo territorio ellenizzato. Ogni colono greco portava in Occidente le stesse amicizie e rivalità ma anche le cifre culturali tipiche della città di provenienza, le quali, ripiantate in territori già ricchi di contenuti indigeni, diedero origine a quella singolare compagine culturale che definiamo, nella sua complessità, sotto il termine di ‘siceliota’. Sulle motivazioni della colonizzazione greca in Sicilia e in Magna Grecia, sterminate le ipotesi e gli studi, così da ammettere l’esistenza di una ‘questione’ tuttora non esaurita. Sappiamo, infatti, come si è svolto e quando ha avuto inizio lo straordinario processo di espansione e sedimentazione della civiltà ellenica nelle coste orientali e meridionali della Sicilia, ma non sappiamo perché. O almeno in parte. Essi stessi, i Greci, vollero rivestire di mito – il mito della fondazione – le dinamiche che lo generarono, assegnando per ogni città il ruolo di fondatore a un personaggio, l’ecista, che non sapremo mai se realmente esistito, ma che puntualmente fu da essi eroicizzato e tramandato.

Con molta più precisione, i contributi emersi dagli scavi archeologici e dai contesti dei ritrovamenti continuano a rilasciare progressive informazioni sulle modalità con le quali i nuovi arrivati si sono sostituiti, o integrati, con le popolazioni indigene. L’immagine che se ne ricava è quella di una graduale fusione, anche nel caso di Siracusa, unica colonia corinzia in Sicilia: nonostante le fonti antiche abbiano infatti raccontato di un’occupazione ellenica che non fece sconti agli abitanti che già la occupavano, recenti scavi indicherebbero che l’ingresso dei coloni fu meno aggressivo di quanto si pensasse.

Per quanto possiamo deputare alle diverse motivazioni le spinte propulsive che disegnarono questo fenomeno, è un dato di fatto che tutte le colonie greche di Sicilia siano nate in luoghi ben caratterizzati: posizione strategicamente controllabile, ampio retroterra agricolo, costa favorevole all’uso portuale, bacini fluviali o fonti sorgive nelle vicinanze, un’altura per l’impianto dell’acropoli, faro di comunicazione eterna con gli dei di Olimpia.

Non erano luoghi sconosciuti ai nuovi fondatori: il processo, questa volta organizzato e sistematico, segue infatti un periodo di cosiddetta ‘precolonizzazione’, una sorta di viaggi e perlustrazioni ragionate del territorio, sulla scorta della memoria lasciata dalla precedente frequentazione micenea delle stesse zone, avvenuta nella seconda metà del II millennio a.C. Il processo sistematico di fondazioni coloniali in Sicilia, che si concluse nel corso del VI secolo a.C., fornirà alle stirpi elleniche il controllo della costa orientale, meridionale e di parte di quella tirrenica: i Calcidesi costituirono la prima colonia di Sicilia a Naxos, e a seguire Zankle (Messina) e Mylai (Milazzo), Leontini (Lentini) e Katane (Catania); i Megaresi edificarono Megara Hyblaea, che a sua volta creò Selinunte; i Corinzi di Siracusa basarono la loro prima subcolonia a Camarina, mentre nuclei da Rodi e Creta fondarono Gela, che a sua volta dette vita ad Akragas (Agrigento). Ugualmente, il controllo fu esteso all’entroterra, seguendo le tracce di territori agricoli e strategicamente vitali alla sopravvivenza e crescita delle prime colonie-madre, come nel caso di Casmene e Akrai, fondate da Siracusa.

Molte di queste colonie greche vivono ancora. Altre sono state abbandonate o distrutte, ma tra quelle che vivono ancora spicca, per la grandiosità storico-artistica che l’ha avvolta per millenni, Siracusa, la più magnificente, grande, ricca e potente tra le città del mondo ellenico d’Occidente, la città dalle cinque città, quella che si spinse fin sul Tirreno per sconfiggere gli Etruschi a Cuma nel 474 a.C., dopo aver già vinto i Cartaginesi a Himera nel 480 a.C. La città che scrisse uno dei capitoli più sanguinosi della Guerra del Peloponneso scontrandosi con Atene, suo competitor più autorevole del momento, e che assunse diversi ruoli durante le prime due Guerre puniche. Città della tirannide per eccellenza, col suo ruolo centrale nello scacchiere storico della Sicilia greca e il suo motore propulsivo, spesso distruttivo, Siracusa legò a sé le sorti di tutte le altre colonie greche e di gran parte dell’Isola. Una città che, grazie al suo porto, anzi doppio porto, il più scenografico della Sicilia, poteva vedere l’alba e il tramonto sullo stesso luogo. La città che in un certo senso aprì e chiuse l’esperienza greca in Sicilia, con la sua caduta nelle mani dei Romani nel 212 a.C. Sarà quindi obbligato, negli accenni alle vicende della Sicilia greca, dover ricorrere spesso a Siracusa anche quando parleremo delle altre città attraverso i loro luoghi, i monumenti e le opere conservate nei musei siciliani: essendo impossibile sintetizzare il complesso scenario storico lungo oltre sei secoli, saranno l’arte, l’architettura e i miti a parlare.

In tale compagine internazionale, multietnica e in frenetica spinta creativa, la Sicilia greca si presenta oggi con un patrimonio culturale sterminato sia per il visitatore che per lo studioso. Le due matrici, quella dalla madrepatria da cui arrivavano flussi continui e quella della produzione locale, si riflettono l’una sull’altra, in un crocevia culturale senza precedenti. Grazie anche ai continui interscambi con la Grecia, ma anche con altre culture del Mediterraneo, la Sicilia antica nel periodo dei Greci ha importato un immenso patrimonio artistico di opere, poi deposto nelle tombe dei propri cari o come offerte nei santuari, o come statue di culto nei loro templi. Sicché è possibile trovare, in qualsiasi museo archeologico siciliano, accanto a un’opera che i coloni avevano importato dalla Grecia anche una creazione che gli stessi coloni avevano rimodellato, con nuovi linguaggi, attingendo alle icone, ai miti e alle formule artistiche della madrepatria.

Agli inizi del VII secolo a.C. l’artigianato in Sicilia era già attivo, organizzato e specializzato. Botteghe di Argivi a Siracusa producevano grandi vasi per uso funerario, come il cratere dalla necropoli del Fusco (fig. a p. 521), mentre a Gela venivano realizzati vasi di influenza cretese e rodia e Megara Hyblaea esportava fino a Siracusa e a Gela la propria produzione di vasi policromi raffiguranti scene dal mito (fig. a p. 520), affermando così il possesso di una padronanza tecnica e narrativa già matura e competitiva. In una regione priva di marmo e per un popolo che in madrepatria esprimeva sul marmo splendori infiniti, la necessità di operare su terracotta e su pietra portò i Greci di Sicilia a un altissimo livello di specializzazione nei due materiali.

In pietra, già i primi templi come l’Apollonion di Ortigia, del 565 a.C. circa, che con le sue colonne monolitiche costituisce il capostipite lapideo in Italia, avviando l’affermazione del tempio dorico periptero in Sicilia. Grazie alla firma del suo committente (o architetto) scolpita su un gradino della crepidine orientale, il pioneristico edificio sembra anche voler trasmettere ai suoi contemporanei l’orgoglio e l’impegno dei coloni nel costruire una nuova Grecia in Occidente, avviando così una competizione che durerà fino a tutta l’età ellenistica, nel continuo riflettersi di immagini speculari e insieme diverse.

Iniziò, nel frattempo, anche la grande specializzazione nel modellare la pietra in ambito figurativo. Dalla Necropoli nord di Megara Hyblaea, negli anni Cinquanta del Novecento venne recuperata, in quasi mille frammenti, una splendida statua in pietra calcarea raffigurante una madre seduta su trono che allatta due gemelli, la cosiddetta Kourotrophos (fig. a p. 524), capolavoro dell’artigianato locale del 550 a.C. circa. La figura, che avvolge in un unico abbraccio il momento più tenero della maternità, ricorda lo stile arcaico greco-orientale di Samo e Mileto e manifesta il controllo di una tecnica scultorea autonoma dalle grandi potenzialità. In più, nella sapienza dell’universale messaggio trasmesso, l’opera oltrepassa le dimensioni formali per regalare, con il suo abbraccio dal tenore mediterraneo, una serenità che ingloba lo spettatore di qualsiasi epoca.

Le manifestazioni del culto in età arcaica sono praticamente ovunque ed esplode in tutta la Sicilia greca la produzione di statuette in terracotta, la maggior parte come rappresentazioni di Demetra e Kore, che affollavano le stipi votive e i santuari di ogni città ellenica. Del resto, la presenza nell’Isola di abbondanti depositi argillosi favorì la produzione di terrecotte e, non a caso, a Selinunte scavi recenti hanno scoperto la più vasta area industriale di terrecotte e ceramiche del mondo antico finora conosciuta, occupata da fornaci, alcune risalenti già al V secolo a.C. Sempre in terracotta, numerose le arule, cioè piccoli altari spesso destinati al rituale familiare che si celebrava presso santuari domestici ricavati all’interno dei quartieri abitativi: da Centuripe a Morgantina, Gela e Siracusa, con zoomachie o scene del mito, dal VI al III secolo a.C. in tutta la Sicilia è un tripudio alle divinità, sia pubblico che privato. Come nel caso di un altare gelese del 500-475 a.C. (fig. a p. 527), che ritrae tre figure femminili in piedi, con tutta verosimiglianza Demetra, Kore e Afrodite, sormontate da una zoomachia. Il culto delle tre dee ebbe una diffusione capillare per secoli in tutta la Sicilia greca.

Da templi, necropoli, santuari e quartieri urbani vengono anche statue interamente in marmo. Lo stile Severo, così denominato da Goethe a seguito di una intuizione di Winckelmann, equivale in Grecia a uno dei massimi livelli di creazione artistica, preludio nobilissimo allo sviluppo dell’arte classica. Esso corrisponde agli anni tra il 480 e il 450 a.C., iniziato subito dopo l’epocale vittoria navale degli Ateniesi sui Persiani a Salamina. Le statue abbandonano il sorriso arcaico e quel blocco della postura ereditato dalle esperienze egizie e orientali, mentre il corpo umano si apre allo spazio circostante adeguandosi con sapiente naturalezza all’azione compiuta: prima la gamba che incede in avanti con classe e ponderatezza e, infine, la piena azione liberata e compiuta, come nel Discobolo di Mirone. Gli artisti greci pensano, in questi decenni straordinari, studiano ed esprimono una conquista spaziale mai avvenuta prima nella storia dell’arte mondiale. L’uomo non è più raffigurato in posa iconica, ma diventa uno studio complesso che porterà Policleto, intorno al 450 a.C., a delineare con il suo Doriforo il Canone della perfezione ponderale della figura umana scultorea, punto cardinale non solo nella storia dell’arte ma nel progresso della scienza.

L’Efebo di Agrigento (fig. a p. 528), scultura in marmo greco-orientale, rappresenta uno dei momenti più significativi di questo periodo cruciale, tra l’arcaismo e il periodo classico, ed è considerato uno dei capolavori dello stile Severo in Sicilia. Anche in questo caso, non si può prescindere dal contesto storico che lo inquadra: nel 480 a.C., in simbiosi con gli avvenimenti in madrepatria, i tiranni Terone di Agrigento e Gelone di Siracusa sconfissero i Cartaginesi a Himera, sugellando così la piena vittoria ellenica anche in Occidente. La statua, ritrovata nel 1897 in una cisterna della Rupe Atenea, Acropoli di Agrigento, ritrae forse un atleta e presenta attinenze stilistiche con il famoso Efebo di Kritios dell’Acropoli di Atene; in tale contesto, sia storico che artistico, l’esemplare agrigentino è particolarmente prezioso perché fornisce chiare conferme sulle straordinarie capacità di relazione e sul legame rapido e aggiornato che intercorreva, quasi in tempo reale, tra le due sponde del mondo ellenico.

Un bronzetto da Adrano (fig. a p. 529), databile al 460 a.C., arricchisce il repertorio dello stile Severo in Sicilia: ritrae un giovane nudo in piedi, con il volto leggermente reclinato verso destra e le braccia lievemente allargate. Interpretato come un atleta che reggeva una phiale libatoria, si distingue per i contorni sfumati e le graduali transizioni degli elementi anatomici: secondo alcuni studiosi, sarebbe opera di Pitagora di Reggio, bronzista attivo tra il 480 e il 450 a.C., specializzato nelle raffigurazioni di atleti.

Dall’estremo lembo occidentale della Sicilia proviene una delle sculture in marmo greco-orientale più enigmatiche e straordinarie dell’arte greca, e forse del mondo (figg. alle pp. 530-531). La prima curiosità è il fatto che sia greca – per materiale e per ambito artistico – ma sia stata rinvenuta a Mozia, colonia punica distrutta nel 387 a.C. proprio dai Greci di Siracusa, sotto gli ordini spietati di Dionisio il Vecchio. La seconda curiosità è che non sappiamo chi raffigurasse: auriga, sacerdote, divinità, atleta vincitore o magistrato punico? La terza è che non c’è accordo sulla datazione: prima o seconda metà del V secolo a.C.? La quarta è che non conosciamo l’autore: Pitagora di Reggio, artista siceliota o scultore ateniese? E ancora: come mai un’opera greca si trovava in territorio storicamente nemico, cioè fenicio, vestita in modo né propriamente fenicio né propriamente greco? In estrema sintesi, questi gli interrogativi essenziali su cui gli studiosi cercano di dare risposta dall’ottobre 1979, quando il suo splendore venne inaspettatamente alla luce, durante gli scavi nei pressi del santuario in località Cappiddazzu.

Il 480 a.C., come abbiamo visto momento spartiacque per la civiltà greca, apre anche la stagione dei grandi progetti architettonici. Il tempio di Atena (figg. alle pp. 532-535), sulla vetta di Ortigia, l’Acropoli dell’antica Siracusa, costituisce oggi l’unico esempio di edificio sacro frequentato ininterrottamente da fedeli per millenni. Dedicato, secondo la tradizione, ad Atena come ringraziamento per la vittoria siracusana a Himera del 480 a.C.,

con l’avvento del cristianesimo venne convertito in chiesa e infine, dopo la fase islamica, fu inglobato nelle strutture dell’attuale cattedrale, con la fronte barocca a invertirne l’ingresso a Ovest rispetto all’originale greco, obbligatoriamente rivolto a Est, cioè verso la Grecia.

Esso costituisce un irripetibile sguardo d’insieme sulla storia, un libro aperto su millenni di vita: con molte delle sue colonne doriche ancora in situ, su via Minerva e nello spazio interno delle navate, è sede principale del culto nella città, con particolare riguardo alle celebrazioni di Santa Lucia, patrona di Siracusa. Il regalo è immenso: i fedeli di oggi possono celebrare nella cella del tempio antico, laddove neanche i Greci, a parte i sacerdoti, avevano accesso. Un privilegio non così anticamente e non così lungamente possibile altrove.

Anche Agrigento aveva partecipato alla vittoria sui Cartaginesi con il suo tiranno Terone. Sotto di lui e, dopo qualche anno, durante la democrazia di Empedocle, la città avvia la costruzione della spettacolare serie di templi dorici sulla collina meridionale (fig. a p. 536): sintesi perfetta della percezione del sacro, la Valle dei Templi è luogo della concentrazione olimpica per eccellenza in Sicilia.

Il processo è ormai inarrestabile. La Sicilia diventa anche un caso-studio per Platone, che vi fa visita ben tre volte, nella sua sofferta esplorazione delle tirannidi siceliote. E così, nel giro di pochi secoli dall’approdo sistematico delle prime stirpi elleniche, la Sicilia acquista le forme di un paesaggio unico che si traduce in un altissimo impegno urbanistico e architettonico: i teatri conquistano la loro forma definitiva (prima delle rimodulazioni di età romana) da Siracusa a Tindari, Catania, Morgantina, Taormina, come un palcoscenico unico dislocato in tutta la Sicilia greca; la più epica cinta muraria del Mediterraneo, voluta da Dionisio il Vecchio, a tratti ancora visitabile, circondava per

27 chilometri le cinque città di Siracusa, con il nucleo apicale di controllo nel Castello Eurialo, la più grande fortezza del mondo greco, opera dell’ingegno scientifico e militare, probabilmente utilizzata anche da Archimede. Dalla fine del IV secolo a.C. con Agatocle e nel III secolo a.C. con Gerone II, numerosi e ulteriori impulsi culturali provengono dalle relazioni internazionali intessute con i potentati ellenistici di Epiro, Macedonia e, soprattutto, Egitto: in tale contesto si inserisce la nave di lusso Syrakosia, costruita nel 214 a.C. sotto la sovrintendenza di Archimede, ricca di mosaici, marmi e altre preziosità, che proprio Gerone II donò a Tolomeo III.

Allo stesso periodo risale un raro esemplare della bronzistica greca di età ellenistica: lo splendido Ariete da Siracusa, oggi al Museo Archeologico Regionale ‘Antonino Salinas’ di Palermo (figg. alle pp. 544-545), che originariamente si trovava in coppia con un altro ariete, distrutto durante i moti del 1848 a Palermo, dove insieme erano pervenuti a seguito di varie vicissitudini e che al tempo di Federico II erano esposti ai lati del portale del Castello Maniace, in Ortigia.

All’interno del multiforme scenario della Sicilia greca, va considerato anche un capitolo che ne fa parte, ma rimane separato, perché sfortunatamente decontestualizzato dai luoghi di rinvenimento: il gruppo di capolavori sottratti nella seconda metà del Novecento dalle attività criminali dei cosiddetti ‘tombaroli’ e recentemente restituiti all’Isola. Le certosine indagini delle autorità giudiziarie italiane hanno appurato la provenienza di alcuni capolavori dall’antica città di Morgantina, terra di spoliazione clandestina per decenni, dove ha operato la base di una rete criminale con triangolazioni tra Svizzera, Londra e

Stati Uniti: gli acroliti arcaici; la colossale statua di culto femminile, la Dea di Morgantina (figg. alle pp. 546-547), opera d’arte postfidiaca dell’arte siceliota; gli argenti ellenistici del Tesoro di Eupolemos (figg. alle pp. 548-549), e infine la Testa di Ade, restituita all’Italia nel gennaio 2016. Datati dal VI al III secolo a.C., sono tutti esemplari eccellenti della creatività della Sicilia greca, ora esposti presso il Museo Regionale di Aidone, nell’inusuale doppio ruolo di conservatore di memorie antiche e contemporanee.

Fuori contesto, cioè senza certezza del luogo di provenienza, è anche una delle opere più famose del patrimonio archeologico siciliano: il Satiro danzante bronzeo (figg. alle pp. 550-551), recuperato nel 1997 nelle acque del Canale di Sicilia antistanti Mazara del Vallo. Anche questo esemplare, al pari della scultura marmorea di Mozia, pone molti interrogativi agli archeologi: opera originale di Prassitele, o tardo-ellenistica, o del I secolo d.C., in ogni caso costituisce uno dei rarissimi esempi di statuaria in bronzo pervenuti dall’antichità e ritrae un satiro, figura semiferina del corteo dionisiaco, identificabile sia per le orecchie equine che per la coda (perduta) di cui rimane il foro di attacco sul dorso. Se assegnabile al tardo ellenismo, seppur colto nel suo passaggio lungo le coste siciliane dove sprofondò nel naufragio della nave che lo trasportava, il Satiro danzante rappresenta il tramite ideale anche del passaggio dall’età greca a quella romana.

Alcuni studiosi preferiscono definire il primo periodo romano in Sicilia, quello repubblicano tra il III e I secolo a.C., come Sicilia ellenistica, piuttosto che Sicilia repubblicana. Del resto, quando conquistarono l’Isola, i Romani trovarono città organizzate e strutturate secondo i canoni del pieno ellenismo: agorà, porti, quartieri residenziali ed edifici pubblici, opere di ogni bellezza, una efficiente rete viaria regionale, relazioni commerciali internazionali, oltre a una terra dalla straordinaria fecondità. Ma anche una Sicilia politicamente lacerata da un carosello di alleanze e inimicizie intestine dovute ai lunghi e sanguinosi scontri delle Guerre puniche, che portarono Roma vittoriosa su tutti i fronti. E fu proprio la Sicilia a regalare il bonus più inaspettato a Roma, giocando – da sconfitta – quel ruolo propulsore di civiltà che l’aveva contraddistinta per secoli. Quando, infatti, nel 212 a.C. Marcello espugnò Siracusa, dopo la lunga resistenza che la città condusse insieme ad Archimede, che in quell’occasione trovò la morte, il console romano scoprì un patrimonio di splendori artistici che poi portò in trionfo a Roma, dando così ai suoi cittadini il primo, vero, tangibile ed epocale incontro con l’arte greca. La ricchezza di questo nuovo territorio annesso alla disponibilità romana rimarrà per sempre nei racconti stupiti di Cicerone, cui molto si deve per la ricomposizione della memoria di ciò che non ci è pervenuto. La cosiddetta Venere Landolina (fig. a p. 552), copia romana del II secolo d.C. da un originale greco del II secolo a.C., testimonierebbe anche l’esistenza di laboratori copistici romani di scultura greca (perduta) così come avvenne a Roma per tutto l’Impero.

L’intervento politico romano portò nell’Isola grandi alterazioni dei quadri amministrativi, sociali ed economici ma apportò anche rifunzionalizzazioni dei contesti preesistenti laddove il bisogno pragmatico necessitava di spazi utili alla nuova società. L’agorà di Morgantina ne è un esempio: un Macellum del primo periodo dell’occupazione romana della città si impianta sul preesistente recinto sacro e sulla tholos, come a voler dirottare sulla funzione commerciale la precedente destinazione dell’agorà che, oltre che commerciale, era in età greca soprattutto cultuale e politica. La Sicilia rimarrà, per tutta la durata dell’Impero, una terra fondamentalmente utile all’approvvigionamento agricolo, cruciale per i rifornimenti annonari, il granaio di Roma sia in tempo di pace che di guerra: «populo Romano pace ac bello fidissimum annonae subsidium» (Liv. XXVII, 5). Già Augusto ne aveva tracciato il destino, con la riorganizzazione del territorio basata sulla creazione di latifundia imperiali. Sorsero così le prime ville padronali, non solo nell’entroterra ma anche sulla costa, un fenomeno che esploderà nei secoli III e IV con la costruzione di grandi ville signorili, vere e proprie ‘città private’ lontane dalle città: Eloro, Patti, Sofiana e, soprattutto, la Villa del Casale di Piazza Armerina (figg. alle pp. 553-555), oggi sito UNESCO.

Con quest’ultima – la più grande villa romana finora conosciuta – la storia dell’archeologia ha restituito non solo un eccezionale monumento residenziale, ma anche un documentario sulla vita dell’Impero, come un film che scorre su una pellicola musiva e narra di genti africane e orientali, momenti di palestra e di caccia, scene del mito, vestiti, animali esotici, divinità ed eroi nelle loro più celebri performance. Il pantheon era rimasto lo stesso e i racconti del mito attingono della stessa fonte greca. Ma cambiano le funzioni e i valori: il godimento del singolo signore, sia esso un privato o l’imperatore in persona, prende definitivamente il posto del godimento dei cittadini della polis greca.

In un modo che solo i tempi dell’archeologia, frammentaria e mai finita, consentono per chiarire la nostra conoscenza del passato, l’esperienza greco-romana in Sicilia sembra concludersi proprio con la Villa del Casale, nelle sue modulazioni temporali che lambiranno il Medioevo e con la sua pirotecnica esplosione di colori e narrazioni, che giungono a noi come ultimi bagliori di una luminosa festa millenaria.

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