La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Transizione epidemiologica e transizione sanitaria

Storia della Scienza (2004)

La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Transizione epidemiologica e transizione sanitaria

Lorenzo Del Panta
Lucia Pozzi

Transizione epidemiologica e transizione sanitaria

Nel quadro dell'evoluzione di lungo periodo della popolazione mondiale, l'accelerazione della crescita registrata negli ultimi secoli costituisce un fatto nuovo e certamente irripetibile. Alla base di questa accelerazione ‒ che ha interessato, o sta interessando, le diverse aree del mondo ‒ vi è la trasformazione del regime demografico nei paesi più sviluppati. In precedenza, si registravano tassi di mortalità e natalità elevati; oggi la mortalità è molto contenuta, grazie al miglioramento delle condizioni igieniche e alimentari e al progresso medico-scientifico, e anche la natalità è assai ridotta, in virtù di una forte capacità di controllo volontario dei meccanismi riproduttivi. Questa svolta cruciale nella storia dell'umanità, che viene identificata con la locuzione 'transizione demografica', ha interessato, tra il XIX e il XX sec., la popolazione europea e altre popolazioni (soprattutto di origine europea) oggi sviluppate, ma non è affatto completata in gran parte del nostro pianeta.

Tav. I

La Tav. I riporta le stime elaborate dalla Population Division delle Nazioni Unite, secondo la classica ripartizione in grandi aree geoeconomiche che considera, da un lato, i 1200 milioni ca. di individui che vivono attualmente nella parte più ricca del mondo, dall'altro i 650 milioni ca. dei paesi più poveri; in posizione intermedia si trova la grande aggregazione dei 'paesi in via di sviluppo'.

Da questi dati si osserva che nella seconda metà del XX sec. le società sviluppate hanno completato una transizione demografica iniziata già nel secolo precedente, mentre un rapido e importante cammino è stato compiuto dalla maggioranza della popolazione del pianeta (la grande realtà dei 'paesi in via di sviluppo'). La situazione si è invece ancora scarsamente evoluta nel gruppo dei paesi più poveri, per i quali risulta che il numero medio di figli per donna è sceso, in quasi mezzo secolo, appena da 6,6 a 5,5 figli, mentre i progressi nella sopravvivenza sono stati abbastanza modesti. In questi paesi, infine, il livello della mortalità nel primo anno di vita, sia pure dimezzato rispetto agli anni Cinquanta del XX sec., corrisponde, mediamente, a quello che caratterizzava l'Italia alla vigilia del secondo conflitto mondiale.

Il processo di riduzione della mortalità, che ha richiesto un arco di tempo secolare in Europa, si è sviluppato attraverso una 'transizione epidemiologica', espressione in uso per indicare un mutamento a lungo termine del quadro generale delle principali cause di morte: il passaggio da una situazione di prevalenza di malattie infettive a patologie croniche e degenerative, con un conseguente slittamento in avanti dell'età di morte. Tale mutamento, che può considerarsi concluso nei paesi più ricchi, ha percorso, soprattutto nell'ultimo mezzo secolo, buona parte del suo cammino anche in quelli classificati come paesi in via di sviluppo.

Quando si considera, insieme all'evoluzione del quadro nosologico, anche il complesso dei fattori che stanno alla base della transizione epidemiologica e, in particolare, le risposte che le diverse società sono riuscite a fornire per contrastare le malattie e i loro esiti mortali, si è soliti utilizzare la locuzione più ampia di 'transizione sanitaria'. Dove la transizione sanitaria si è evoluta con successo, tre sono i fattori cui ciò è imputabile: (a) il miglioramento del tenore di vita (e in particolare i progressi nell'alimentazione), conseguente allo sviluppo economico; (b) i progressi della biologia e della medicina, che hanno dapprima rivelato i meccanismi di trasmissione delle principali malattie infettive, consentendo forme di difesa individuale o collettiva, mettendo quindi a disposizione mezzi preventivi e terapeutici efficaci; (c) i mutamenti culturali e di comportamento, in gran parte legati al miglioramento dei livelli di istruzione, che hanno reso possibile la diffusione delle conoscenze e delle norme igienico-sanitarie più rilevanti per la salute individuale. Il peso di questi diversi gruppi di fattori è difficilmente quantificabile. In linea generale, si può ammettere che, nella fase iniziale della transizione sanitaria dei paesi europei, un peso rilevante sia da attribuire ai progressi nell'istruzione, che hanno favorito comportamenti igienici più adeguati e il miglioramento dei livelli nutritivi. Nella seconda metà del XX sec., in quella vasta area del pianeta dove si sono registrati rapidi e importanti progressi nella sopravvivenza, un ruolo decisivo hanno certamente avuto la veloce e massiccia diffusione delle tecniche mediche disponibili e già collaudate, e più in generale la messa in atto di politiche sanitarie efficaci, in grado di estendere i benefici effetti delle nuove tecnologie a gran parte delle popolazioni. Purtroppo, proprio l'incapacità, o l'impossibilità, di organizzare politiche della salute adeguate ai bisogni e alle condizioni materiali delle popolazioni ha determinato il gravissimo ritardo con il quale, nei paesi più poveri, si sta svolgendo questa transizione.

La transizione sanitaria nei paesi sviluppati

Nell'insieme delle nazioni sviluppate, la durata media della vita ha oggi raggiunto i 75 anni ma, per secoli, questo indicatore aveva registrato soltanto incrementi assai modesti. I primi segnali di un cambiamento si erano manifestati, per alcuni paesi, durante il XVIII sec.; tuttavia il declino della mortalità ha avuto inizio nell'Ottocento, non solo grazie alla diminuzione della frequenza e della gravità delle crisi epidemiche acute, ma anche per la riduzione dei rischi di morte alle diverse età in periodi di 'normalità'. Tutto questo è avvenuto non senza battute d'arresto: basti pensare ad alcune gravissime crisi alimentari (in Irlanda nel biennio 1845-1846, in Finlandia nel 1868, nell'Unione Sovietica nel 1932-1933), e alla pandemia influenzale del 1918-1919 che, solo in Europa, causò almeno due milioni di morti.

fig. 2

Lo spreco di vite umane nell'antico regime demografico era enorme, come si può osservare nel grafico relativo all'esperienza italiana (fig. 2). Le due curve rappresentano il numero dei sopravviventi a ogni età di un contingente teorico iniziale di 100.000 persone sottoposto, in un caso, all'esperienza di mortalità del 1881 e nell'altro a quella del 1999. La superficie compresa fra le due curve raffigura il divario fra un regime demografico 'antico' e uno 'moderno' e permette di individuare le età in corrispondenza delle quali tale divario è maggiore. Si osservi la specularità delle due curve: quella del 1999 si mantiene elevata sino ai 65-70 anni, per poi precipitare rapidamente; nella curva del 1881, si osserva, invece, un crollo immediato provocato dalla drastica selezione negli anni dell'infanzia, cui fa seguito un lento declino nelle età adulte.

Nel passaggio al nuovo regime demografico, la discesa della mortalità, pur molto simile nei suoi meccanismi essenziali, è stata contraddistinta da un'estrema eterogeneità nei tempi, nei ritmi, nei livelli e anche in talune caratteristiche strutturali, in parallelo al diversificato evolversi del progresso economico e sociale.

In Europa il declino fu assai più precoce nei paesi scandinavi, in Inghilterra e in Francia (ma quest'ultima partiva da un livello assai più elevato); in tali paesi, nella prima metà dell'Ottocento, si erano già ottenuti notevoli risultati nella lotta contro la mortalità, grazie non soltanto ai progressi in campo economico, ma anche alla modernizzazione delle strutture civili e amministrative. La Tav. I consente, inoltre, di constatare che gli Stati Uniti e l'Australia appaiono inizialmente avvantaggiati rispetto alle nazioni europee più progredite. Si tratta di dati largamente attesi, in considerazione del fatto che si riferiscono a popolazioni di origine europea che si trovavano a beneficiare di migliori condizioni igieniche generali, legate anche alle più ampie disponibilità di spazi. Ben diverso è il caso del Giappone che, partendo da una condizione nettamente sfavorevole, è oggi il paese con la più alta speranza di vita alla nascita.

La convergenza che si osserva fra i paesi europei, attestati su una sopravvivenza media assai elevata, non è, in realtà, del tutto priva di eccezioni. In Russia, la speranza di vita alla nascita è attualmente di appena 60 anni per gli uomini, mentre raggiunge i 72 per le donne. Negli anni Novanta, in concomitanza con il crollo del sistema sovietico, il forte impoverimento della popolazione, il netto peggioramento dell'alimentazione, il dilagare della violenza, un altissimo consumo di alcool e non ultimo l'inquinamento ambientale hanno determinato un notevolissimo regresso nella speranza di vita maschile, scesa a un livello inferiore a quello medio dei paesi in via di sviluppo.

Nelle fasi iniziali del processo di transizione, i più bassi valori della speranza di vita alla nascita dei paesi dell'Europa meridionale e orientale erano in massima parte imputabili alla maggiore mortalità dei bambini. La supermortalità negli anni dell'infanzia, soprattutto in quelli successivi al primo, costituisce infatti un tratto tipico dell'esperienza dei paesi e delle aree in ritardo nel processo di transizione sanitaria. Il progressivo recupero del ritardo nelle fasce di età infantili e giovanili, insieme a una minor mortalità nelle classi di età adulta e senile per malattie del sistema circolatorio e per molte forme neoplastiche, ha consentito all'Italia e alla Spagna di conquistare posizioni sempre più favorevoli nella graduatoria delle nazioni europee (Tav. I).

Per poter interpretare le differenti modalità con cui si è svolta la transizione sanitaria, è essenziale il ricorso ai dati sulle cause di morte. Il contributo principale all'aumento della sopravvivenza è venuto, ovunque, dalla riduzione della mortalità dovuta a un insieme di cause: le malattie infettive, le malattie dell'apparato respiratorio (polmoniti e bronchiti) e le gastroenteriti. Nell'Europa meridionale, in particolare, è stata fondamentale la lotta contro le malattie infettive tipicamente infantili (morbillo, scarlattina, difterite e pertosse) e, soprattutto, le malattie del sistema respiratorio e le enteriti. In Inghilterra è stata invece determinante la diminuzione dei decessi per tubercolosi polmonare, la cui altissima frequenza nella seconda metà dell'Ottocento è un'efficace testimonianza dei notevoli costi sanitari del processo di industrializzazione.

Per l'Italia, dove i dati sono disponibili dal 1887, è possibile evidenziare (ma queste considerazioni possono essere estese ad altri paesi mediterranei) come il livello medio della mortalità, ancora negli ultimi decenni dell'Ottocento, fosse condizionato, in misura di gran lunga maggiore rispetto alle nazioni europee più progredite, dalle malattie infettive che si diffondevano per contagio d'ambiente o attraverso acqua e alimenti inquinati, aggravate dalla sottonutrizione e dalla povertà della maggior parte della popolazione; tali malattie provocavano, in effetti, oltre il 60% di tutti i decessi. Alla fine del secolo le sole enteriti determinavano in media ogni anno, il 12% di tutte le morti. La portata demografica di queste affezioni è evidente se si pensa che il 43% dei 90.000 decessi annui imputabili a questa causa riguardava bambini nel loro primo anno di età e un altro 36% era relativo a bambini fra 1 e 4 anni di vita.

Veicoli dei germi patogeni delle enteriti sono, com'è noto, il cibo e l'acqua inquinati. La diffusione di questo genere di malattie ha un chiaro significato sociale: è indice delle abitudini igieniche di una popolazione, delle sue infrastrutture igienico-sanitarie (sistemi di approvvigionamento idrico, reti fognarie, ecc.) e, più in generale, del tipo di cure prestate ai bambini, in particolare durante la delicata fase dello svezzamento. La diffusione delle gastroenteriti, ma soprattutto l'elevata letalità di queste affezioni nei paesi dell'Europa meridionale, evidenzia, accanto a carenze infrastrutturali, maggiori lentezze da parte delle amministrazioni nell'adozione di misure e provvedimenti concreti ed efficaci per la tutela della salute dei bambini, in special modo di quelli abbandonati e indigenti, e in generale un ritardo nel promuovere una cultura di attenzione all'infanzia.

Soltanto nel corso del Novecento il ritardo fu colmato, grazie a un complesso di fattori che comprendono i progressi nella legislazione sanitaria e nelle infrastrutture igieniche, la creazione di dispensari per lattanti e di nuove strutture ospedaliere e ambulatoriali pediatriche, nonché le maggiori attenzioni nella cura dei bambini all'interno delle famiglie, favorite anche dalle campagne di divulgazione igienica intraprese dai pediatri.

La malaria ha un ruolo fondamentale per spiegare le differenze di mortalità nell'Europa del passato in aree geografiche a diversa qualificazione ambientale, anche in funzione del clima e della latitudine. L'eradicazione dell'infezione malarica (completata nei paesi dell'Europa meridionale solo alla fine del secondo conflitto mondiale grazie all'impiego del DDT) ha richiesto un impegno lungo e su vari fronti, che ha beneficiato sia dei progressi della biologia e della medicina sia di quelli delle tecniche per il prosciugamento e la bonifica dei territori paludosi. La malaria ha interessato in passato, oltre alle regioni mediterranee, anche molte aree dell'Europa settentrionale e occidentale, nelle quali però il declino è iniziato ben prima delle scoperte relative ai protozoi che provocano gli accessi febbrili (i plasmodi) e ai vettori responsabili della trasmissione (le zanzare del genere Anopheles). La progressiva scomparsa dell'endemia malarica dai paesi più progrediti, con largo anticipo rispetto a tante plaghe povere e poco popolate dell'Europa mediterranea, può essere spiegata facendo ricorso a un insieme di fattori.

Un ruolo centrale va attribuito al risanamento e al prosciugamento dei terreni paludosi, che venivano progressivamente messi a coltura. Anche l'aumento del bestiame domestico svolse un ruolo non secondario, perché rese disponibile alle zanzare un'alternativa al sangue umano. Infine, l'impiego del chinino a partire dalla fine dell'Ottocento contribuì a ridurre la diffusione della malaria, là dove un'efficiente organizzazione sanitaria permise effettivamente di raggiungere, con questo presidio sanitario, le popolazioni più a rischio. Ciò avvenne soltanto parzialmente, per esempio, nelle zone più sperdute e arretrate del Mezzogiorno d'Italia. Qui, come in altre vaste aree dell'Europa mediterranea, la persistenza dell'endemia malarica ha seguitato a condizionare pesantemente i livelli di mortalità ben oltre la fine del XIX secolo.

La transizione sanitaria nei paesi in via di sviluppo e in quelli meno sviluppati

Per gran parte dei paesi del mondo (a eccezione di quelli più sviluppati) la fase iniziale della transizione sanitaria può essere collocata intorno alla metà del XX secolo. È comunque a partire dal 1950 che è possibile, sulla base delle stime delle Nazioni Unite, analizzare l'evoluzione del regime demografico dei singoli paesi, nonché aggregare i risultati di queste stime in grandi ripartizioni geoeconomiche. Secondo la classificazione attualmente adottata dalle Nazioni Unite, l'area dei paesi sviluppati comprende tutti i paesi europei, l'America Settentrionale (Stati Uniti e Canada), l'Australia, la Nuova Zelanda e il Giappone.

All'estremo opposto vi è un gruppo di paesi estremamente poveri, situati in gran parte nell'Africa subsahariana. Infine, dei 4 miliardi e 200 milioni ca. di persone che oggi vivono nel gruppo di paesi classificato come 'in via di sviluppo', più della metà sono concentrati nei due grandi colossi demografici (Cina e India).

Complessivamente, il regime demografico attuale nel vasto raggruppamento dei paesi in via di sviluppo (Tav. I) è paragonabile a quello che caratterizzava i paesi più sviluppati all'indomani della Seconda guerra mondiale. Nel secondo dopoguerra, il trasferimento del bagaglio di conoscenze e di tecnologie medico-sanitarie dai paesi più avanzati a quelli in via di sviluppo portò spesso a immediati successi, che consentirono di passare rapidamente da livelli di mortalità elevatissimi a livelli medio-alti. Sotto l'egida della World Health Organization (OMS), campagne specifiche, come quella volta all'eradicazione della malaria nell'isola di Sri Lanka tramite irrorazioni massicce di DDT (1946-1948), ebbero successo, dando l'illusione che la lotta per debellare i principali flagelli sarebbe stata rapida e sicuramente vincente.

Ben presto risultò però chiaro che, in assenza di un processo di sviluppo economico e sociale, l'impiego pur massiccio delle tecnologie disponibili per combattere la diffusione di determinate malattie o per curarne gli effetti sulla salute non avrebbe consentito, da solo, di compiere ulteriori progressi. A partire dalla fine degli anni Settanta del Novecento, anche la WHO ha operato una revisione importante delle sue strategie di azione. L'accento è stato posto sulla necessità di interventi capillari di carattere semplice ed economico, capaci di raggiungere la maggioranza delle persone con tecniche medico-sanitarie efficaci. Si è però insistito anche sulla necessità di assicurare alle popolazioni più povere un livello alimentare sufficiente, insieme alla disponibilità di acqua potabile e a condizioni igieniche accettabili; soprattutto, è stato indicato come prioritario, il miglioramento del livello di istruzione delle donne, alle quali, in ultima analisi, sono affidate la salute e la sopravvivenza dei bambini.

Tra i paesi in via di sviluppo, il caso della Cina è assai significativo, anche se non può essere generalizzato, in ragione della particolare organizzazione politica e sociale che ha contraddistinto questo grande paese nell'ultimo mezzo secolo. Negli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento l'obiettivo del miglioramento della salute per la totalità della popolazione è stato perseguito in Cina con campagne di prevenzione di massa, con un grande sforzo volto alla formazione di personale sanitario e alla creazione di vari livelli di assistenza (dispensari nei villaggi rurali, centri sanitari nei borghi di medie dimensioni e infine veri e propri ospedali nei capoluoghi di distretto).

I progressi nella salute, traducibili in termini di aumento della speranza di vita e di diminuzione della mortalità infantile, sono stati notevoli soprattutto fino alla metà degli anni Settanta, e non hanno risentito in maniera rilevante neppure degli sconvolgimenti determinati dalla rivoluzione culturale. Successivamente, con l'avvio delle riforme economiche e la parziale privatizzazione dell'assistenza sanitaria, nonostante gli ulteriori e sicuramente notevoli progressi nel tenore di vita della popolazione cinese nel suo complesso, i guadagni in termini di sopravvivenza sono divenuti più modesti e le disparità tra le popolazioni delle aree urbane (dove si è andata concentrando la nuova ricchezza prodotta dalla liberalizzazione economica) e le aree rurali si sono nuovamente ampliate.

Tuttavia, per quanto riguarda le condizioni sanitarie, la situazione più preoccupante nel panorama mondiale è ancora oggi quella dei paesi inclusi nella categoria dei meno sviluppati. Nella Tav. I sono riportate le stime (relative al 2001 ed elaborate dalla WHO) dei decessi per grandi gruppi di cause registrati nell'intero pianeta e in un gruppo di paesi tra i più poveri dell'Africa subsahariana.

Se si tiene conto del fatto che, nei paesi sviluppati, i decessi causati da malattie infettive e parassitarie oscillano tra l'1 e il 2% del totale, e che per l'intera popolazione mondiale tale quota raggiunge ancora il 19%, si può ben capire come la cifra del 56% di morti per tale gruppo di malattie nei paesi più arretrati dell'Africa stia a indicare che la maggior parte del cammino della transizione epidemiologica, in quest'area del mondo, deve ancora essere percorso. All'interno del gruppo delle malattie infettive e parassitarie, sono evidenziate le cifre dei decessi imputabili ad alcune particolari forme morbose (tubercolosi, HIV/AIDS, infezioni diarroiche, morbillo, malaria) che, insieme alle infezioni respiratorie e alle patologie neonatali, contribuiscono maggiormente a deprimere i livelli di sopravvivenza in buona parte del mondo, essendo in particolare responsabili di elevatissimi rischi di morte in età infantile.

Si tratta comunque di forme morbose per gran parte delle quali sarebbe oggi possibile intervenire efficacemente o in via preventiva o a livello di terapia. È sufficiente affermare che le forme diarroiche dell'infanzia sono ben controllabili con la semplice e assai poco dispendiosa terapia di reidratazione orale, mentre il morbillo che, come è ben noto, non costituisce più da tempo una causa di mortalità nei paesi sviluppati, può essere debellato con efficaci campagne di vaccinazione.

Quanto alla tubercolosi (la cui recrudescenza nei paesi più poveri è attualmente, purtroppo, legata anche alla diffusione dell'infezione da HIV), la WHO valuta che 8 milioni ca. di individui vengano contagiati ogni anno nel mondo, e comunque l'elevata letalità della malattia (oltre 1,5 milioni di morti l'anno, su un totale di infettati stimato nell'ordine dei 15 o 20 milioni) potrebbe essere drasticamente ridotta con cure adeguate. Inoltre, la sua diffusione potrebbe essere limitata migliorando le condizioni igieniche e ambientali in cui vivono le popolazioni più colpite.

Anche nella lotta contro la malaria, negli ultimi anni non possono essere evidenziati progressi decisivi. Pur limitata ormai, almeno nei suoi effetti più letali, al continente africano, tale malattia è ancora responsabile ogni anno, in quest'area, di almeno 1,5 milioni di decessi (di cui circa la metà bambini al di sotto dei 5 anni), mentre i casi di malattia registrati ogni anno in Africa si ritiene possano essere oltre 250 milioni (quasi mezzo miliardo a livello mondiale). Patologia complessa e difficile da controllare, per il fatto di essere una tipica 'malattia dei poveri' la malaria non ha beneficiato delle risorse necessarie per sviluppare terapie sempre più efficaci e in grado di contrastare la capacità dei plasmodi di divenire resistenti ai trattamenti.

Per di più, paradossalmente, mentre in Europa lo sviluppo dell'agricoltura è andato di pari passo con il prosciugamento delle aree paludose e, di conseguenza, con modificazioni ambientali sfavorevoli alla diffusione della zanzara (Anopheles labranchiae) ivi responsabile della trasmissione della malattia, in Africa lo sviluppo dell'attività agricola è andato di pari passo con un incremento dell'anofelismo (con la specie Anopheles gambiae) e dunque della diffusione della malaria.

In conclusione, il fronte delle emergenze sanitarie a livello mondiale è diventato negli ultimi decenni l'Africa subsahariana, la cui popolazione sta tuttora aumentando a un ritmo impressionante: la popolazione attuale è di 650 milioni ca., ma le previsioni più recenti delle Nazioni Unite indicano per il 2020 una cifra vicina al miliardo di individui. Il problema di alimentare questa massa crescente di individui è, di per sé, enorme.

Le stime della FAO indicano che la generale condizione di sottoalimentazione si è mantenuta quasi stazionaria negli ultimi decenni. La mortalità infantile rimane ancora, mediamente, attorno al 100 per mille, con punte ben più elevate in alcuni paesi. La durata media della vita ha progredito lentamente fino all'inizio degli anni Novanta del XX sec., ma il progresso si è arrestato al di sotto della soglia dei 50 anni; nell'ultimo decennio, soprattutto a causa dell'impressionante diffusione del virus dell'HIV, si assiste addirittura a un regresso.

Secondo le stime più recenti della WHO, dei 42 milioni ca. di persone che attualmente sono colpite dal virus, 29 milioni ca. vivono nei paesi dell'Africa subsahariana, area nella quale si verificano ogni anno oltre 3 milioni di nuovi episodi di contagio e oltre 2 milioni di decessi. Purtroppo, la risposta a questa tragedia da parte della comunità internazionale appare, a tutt'oggi, assolutamente inadeguata.

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