La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Microbiologia

Storia della Scienza (2004)

La seconda rivoluzione scientifica: scienze biologiche e medicina. Microbiologia

William C. Summers

Microbiologia

La microbiologia ebbe inizio con l'invenzione del primo strumento, il microscopio ottico, che permise di visualizzare oggetti di dimensioni inferiori ai limiti delle normali capacità visive umane. Tale scienza è giunta però anche a includere le numerose proprietà di questi oggetti che possono essere osservate a livello macroscopico o in modo indiretto, come il metabolismo, le malattie e i prodotti dell'attività microbica. Della storia della microbiologia fanno parte, per citare solamente qualche esempio, anche i vari tipi di fermentazione e lavorazione degli alimenti, la preservazione dei materiali dal decadimento microbico e i concetti di malattia e contagio.

Il termine 'microbo' è ampio e generico e connota vari organismi biologici caratterizzati principalmente dalle loro piccole dimensioni. I francesi furono i primi ad adottarlo, dopo che il chirurgo Charles Sédillot (1804-1883) lo aveva utilizzato per la prima volta all'Académie Nationale de Médecine su suggerimento del grande lessicografo e linguista Maximilien-Paul-Émile Littré (1801-1881). Questo termine è stato applicato a batteri, muffe, virus, protozoi e, a volte, perfino a piccoli parassiti pluricellulari, quali gli artropodi e i vermi, nonché alle cellule eucariote in coltura. Alcuni organismi, come le alghe unicellulari, sembra siano rimasti nel dominio della botanica e raramente vengono considerati microbi.

La classificazione dei microbi

La prima classificazione biologica degli organismi osservati al microscopio fu proposta verso la metà del Settecento dal naturalista danese Otto Friderich Müller (1730-1784), il quale introdusse parte della terminologia attualmente ancora in uso. Il suo sistema contemplava due gruppi principali di organismi: quelli senza organi esterni visibili e quelli che invece presentavano tali strutture. Il primo gruppo era suddiviso in due sottogruppi, uno dei quali comprendeva cinque generi, di cui due (Monas e Vibrio) sono forme batteriche riconosciute anche oggi.

Nella prima parte del XIX sec. la fisica e la tecnologia ottica consentirono la costruzione di microscopi composti più raffinati, con lenti che correggevano le aberrazioni cromatiche e in parte anche quelle sferiche, permettendo un'osservazione più dettagliata del mondo dei microbi. La classificazione microbiologica moderna fu inaugurata dalle ricerche di Carl Gustav Ehrenberg (1795-1876), che nel 1838 pubblicò Die Infusionsthierchen als vollkommene Organismen (Gli infusori come organismi completi), un grosso volume di 574 pagine con 64 tavole colorate a mano. I suoi disegni esplicitavano la convinzione che gli Infusori (una categoria comprendente batteri, protozoi, rotiferi e diatomi) fossero tutti animali e che quindi fossero organizzati in base agli stessi principî degli animali più grandi. Ehrenberg riteneva che questi piccoli organismi avessero stomaci microscopici e fossero animali perfetti e completi. Tre delle 22 famiglie di Infusori di Ehrenberg ‒ Monadina, Cryptomonadina e Vibronia ‒ includevano organismi oggi riconoscibili come batteri; la famiglia Vibronia comprendeva cinque generi: Bacterium, Vibrio, Spirochaeta, Sprillium e Spirodiscus. La morfologia di questi organismi era piuttosto approssimativa, per esempio Bacterium aveva filamenti simili a bastoncelli che mostravano divisioni trasversali.

Dopo Ehrenberg, la più importante classificazione fu pubblicata nel 1854 da Ferdinand Julius Cohn (1828-1898). Cohn ipotizzò che i Vibronia di Ehrenberg appartenessero al regno vegetale piuttosto che a quello animale e sostenne che i batteri fossero molto simili alle ben note alghe microscopiche; di conseguenza, egli classificò i batteri come Mycophyceae o Wasserpilze (funghi d'acqua). L'opera principale di Cohn, Untersuchungen über Bacterien (Ricerche sui batteri, 1872, 1875, 1876), esercitò una grande influenza e pose le fondamenta della batteriologia moderna. Cohn sosteneva che i batteri appartenevano al mondo biologico conosciuto, mentre Karl Wilhelm von Nägeli (1817-1891) affermava che quei funghi microscopici potevano nascere spontaneamente. La sua teoria dava forte sostegno a una proposta alternativa di classificazione dei batteri, che non richiedeva necessariamente una regolarità di forme negli organismi prodotti spontaneamente da animali o piante. La convinzione dell'esistenza di una molteplicità di forme divenne nota come ipotesi del 'pleomorfismo'; essa si basava sull'osservazione del fatto che molti funghi sembravano cambiare forma a seconda delle condizioni e dello stadio del loro ciclo di sviluppo. In contrasto con il pleomorfismo, Cohn e i suoi seguaci sostenevano la tesi del 'monomorfismo', secondo la quale ogni tipo di organismo aveva una forma fissa e definita. La risoluzione della controversia tra pleomorfismo e monomorfismo sarebbe stata cruciale per il futuro della classificazione e della tassonomia dei batteri. Wilhelm Zopf (1846-1909) si schierò decisamente dalla parte di Nägeli a sostegno della dottrina pleomorfica ma, seppure implicitamente, seguì quella monomorfica nel suo schema di classificazione pubblicato nel 1885 e intitolato Die Spaltpilze (Gli schizomiceti).

Alla fine del secolo, Walther Migula (1863-1938) e Sigurd Orla-Jensen (1870-1949) classificavano i batteri non soltanto secondo la morfologia, includendo caratteri ‒ quali la patogenicità, le condizioni necessarie al loro sviluppo e le reazioni alla colorazione ‒ fondati su metodi morfologici più avanzati (a livello di strumenti e di metodi di colorazione), sulle tecniche di coltura pura e su una migliore conoscenza delle attività funzionali dei batteri (come l'azione patologica e le fermentazioni).

Tutti questi metodi di classificazione, dalle osservazioni di Ehrenberg al primo lavoro di David H. Bergey (1860-1937) e della Society of American Bacteriologists, l'opera Bergey's manual of determinative bacteriology (1923), si sono rivelati molto utili per classificare e riconoscere i batteri isolati. Un altro scopo della classificazione e della tassonomia è quello di stabilire i rapporti evolutivi, ma le strutture osservabili dei batteri offrono relativamente poche informazioni; inoltre le loro dimensioni di base e la loro forma non forniscono molte indicazioni sulla loro evoluzione. Solo da quando si è cominciato ad analizzare i batteri con metodi biochimici e genetici (genomica) è stato possibile formulare classificazioni che andassero oltre quelle dell'inizio del XX secolo.

Le teorie dei germi e le loro applicazioni

I primi microscopisti ipotizzarono subito che i loro animaletti potessero essere collegati alla malattia, alla fermentazione e alla putrefazione. Tuttavia, dal momento che le teorie allora vigenti su quei processi non includevano i microbi nelle loro spiegazioni, queste idee non si svilupparono fino al XIX sec., quando si cominciarono a conoscere più a fondo i batteri a livello biologico e gli scienziati si concentrarono sulla fisiologia e sulla 'chimica animale' per meglio comprendere la biologia e la medicina. Il processo di fermentazione era talmente importante e tanto ampiamente studiato da costituire il modello in base al quale venivano interpretati gli altri processi biologici. La digestione era considerata analoga alla fermentazione, come anche i processi di putrefazione e distruzione dei tessuti che si verificavano negli ascessi. Il chimico tedesco Justus von Liebig (1803-1873) considerava la malattia come una putrefazione del tessuto causata da sostanze tossiche non-viventi (ma 'vitali'). Se trasferite a un altro individuo, queste tossine potevano indurre ulteriore putrefazione 'per contatto'. La tesi di Liebig spiegava in tal modo sia il contagio sia i suoi effetti fisiologici; secondo questa teoria, le fermentazioni derivavano dall'introduzione di tali fermenti non-viventi in un ambiente favorevole, come nel caso del succo d'uva per la produzione del vino.

Il dibattito della metà del XIX sec. sulle varie teorie del contagio era strettamente collegato alle controversie sulla generazione spontanea e il vitalismo. Ci si chiedeva se la fermentazione (e, per analogia, la malattia) richiedesse la presenza di organismi viventi e se fosse un processo strettamente chimico o implicasse qualche componente 'vitale'. Se la fermentazione richiedeva sempre la presenza di organismi viventi (lieviti), si poneva il quesito da dove venissero i lieviti che si formavano nel caso di fermentazioni apparentemente spontanee quali quelle del vino e della birra. Alcuni incidenti occasionali ('malattie') verificatisi durante la fermentazione del vino e della birra portarono Louis Pasteur (1822-1895) a concludere che, per produrre la fermentazione alcolica, fosse necessaria l'introduzione, intenzionale o accidentale, di un organismo vivente, il lievito. Sulla base di esperimenti, Pasteur contestò decisamente la tesi della generazione spontanea. Le sue teorie furono appoggiate dal fisico inglese John Tyndall (1820-1893), secondo il quale, durante gli esperimenti che sostenevano di dimostrare la generazione spontanea, la polvere e le particelle presenti nell'aria costituivano una fonte di contaminazione.

Le ricerche di Pasteur ‒ che seguivano quelle meno note di Agostino Bassi (1773-1856) della prima metà del secolo ‒ su una malattia che colpiva animali economicamente importanti come i bachi da seta dimostrarono che la sua causa era un microbo specifico. Verso la metà degli anni Settanta dell'Ottocento, Pasteur formulò l'ipotesi che ogni malattia contagiosa fosse causata da un microbo specifico, una generalizzazione che sarebbe stata chiamata 'teoria dei germi'. Nel XIX sec. i medici erano particolarmente interessati alle cause di malattie chiamate febbre putrida, setticemia, febbre postoperatoria e piemia, le quali erano spesso trasmissibili da un animale all'altro tramite l'inoculazione nel sangue. Il pus di una ferita umana, per esempio, poteva causare la malattia negli animali; tuttavia il rapporto tra le cellule del pus, globuli bianchi, e le altre componenti del sangue era ancora poco chiaro. Casimir Davaine (1812-1882) esaminò il sangue di animali affetti da carbonchio e setticemia e riferì che i batteri erano presenti soltanto nel caso di esemplari sofferenti di quelle patologie. Egli estese i suoi esperimenti inoculando quantità crescenti di materiale estratto dagli animali malati; dimostrò quindi che l'agente trasmissibile (o 'virus', per usare la terminologia dell'Ottocento) poteva essere titolato e che le diverse specie animali avevano una diversa sensibilità all'agente virulento. Queste ricerche riscossero grande interesse ma, ciononostante, alcuni ricercatori consideravano ancora i batteri come una conseguenza piuttosto che una causa della malattia.

Theodor Albrecht Edwin Klebs (1834-1913), che lavorava presso l'ospedale militare di Karlsruhe, studiò diverse morti per setticemia dovuta a ferite da arma da fuoco e dimostrò che, in quasi tutti i casi da lui esaminati, erano presenti forme diverse di batteri. Egli contribuì molto alla conoscenza delle infezioni da ferita e ideò diversi approcci allo studio di tali infezioni, che furono subito adottati da Robert Koch (1843-1910). Koch esercitava la professione di medico nella cittadina di Wollstein nei pressi di Pozen (nell'attuale Polonia) e studiava le infezioni da ferita per stabilire se fossero o meno di origine parassitica (batterica). Egli utilizzava le nuove tinture all'anilina per la colorazione dei campioni, possedeva le raffinate lenti a immersione in olio fabbricate a Jena da Carl Zeiss e il nuovo illuminatore di Abbe. Condusse esperimenti di inoculazione negli animali e rifletté attentamente su quello che doveva fare per dimostrare, in modo incontrovertibile, che le infezioni da ferita prodotte negli animali tramite inoculazione di pus erano, in realtà, causate dai batteri presenti nel pus. Nel saggio Untersuchungen über die Aetiologie der Wundinfectionskrankheiten (Ricerche sull'eziologia delle malattie da infezione delle ferite, 1878) perfezionò notevolmente gli standard di studio e di descrizione dei rapporti tra batteri e malattie; tuttavia, nonostante il riconoscimento da parte della comunità scientifica dell'importanza di questa pubblicazione, molti medici erano ancora scettici. Ricerche simili furono condotte da molti altri studiosi come Alexander Ogston in Scozia e Daniel E. Salmon in America.

Koch era consapevole della necessità di metodi più accurati per la coltura e l'identificazione dei batteri; grazie ai suoi nuovi sistemi di colorazione e ai miglioramenti da lui introdotti nelle colture su una superficie solida, le sue ricerche fecero importanti passi avanti. Koch fu un pioniere anche nell'uso della fotomicrografia, una tecnologia rivelatasi importante per diffondere le sue teorie e convincere i suoi critici. Nel 1881 egli scoprì che sulla superficie di una fetta di patata sterilizzata era possibile coltivare colonie di batteri. Ben presto riprese il lavoro di Oscar Brefeld, che aveva posto le basi pratiche e teoriche degli esperimenti con le colture pure, e dimostrò che era possibile ottenere una coltura pura di batteri allevando singole colonie su un mezzo solido. Cominciò a cercare un mezzo sterile, trasparente e solido e, dopo aver inizialmente tentato con la gelatina, scelse come agente gelificante un carboidrato più stabile, l'agar-agar. Inizialmente, il mezzo era versato su un piatto di vetro, ma ben presto l'assistente di Koch, Julius Richard Petri (1852-1921), introdusse leggere modifiche e inventò la piastra a fondo piatto con coperchio che ha preso il suo nome ed è usata ancora oggi per l'allestimento di colture.

Quando si iniziò a utilizzare questo metodo di isolamento delle colture pure, molte delle questioni che avevano dato origine al dibattito tra monomorfismo e pleomorfismo furono risolte. Identificare e classificare i batteri divenne più semplice e sicuro ma, soprattutto, Koch fu finalmente in grado di dimostrare che uno specifico tipo di batterio era l'agente virulento presente nel sangue, nel pus e negli estratti di tessuti degli animali su cui aveva effettuato sperimentalmente l'inoculazione. Nel corso di diversi anni (1876, 1878, 1882), Koch stabilì una serie di criteri per 'dimostrare' che uno specifico batterio era la causa di una determinata malattia. Nel 1882, nel fondamentale saggio sull'eziologia della tubercolosi, Die Aetiologie der Tuberculose, affermava che, per dimostrare che la tubercolosi è una malattia parassitaria, che è causata da un'invasione di bacilli ed è condizionata essenzialmente dalla loro crescita e dalla loro moltiplicazione, era necessario isolarli da qualsiasi prodotto della malattia dell'organismo animale che potesse attaccarvisi e, somministrando i bacilli isolati agli animali, riprodurre la stessa condizione morbosa che, come è noto, si ottiene inoculando il materiale tubercolotico che si è sviluppato spontaneamente. In alcune versioni successive dello stesso Koch e di altri autori, questa affermazione viene combinata con i risultati di altri suoi scritti per formulare i criteri che diverranno poi noti come 'postulati di Koch', anche se lo scienziato non utilizzò mai questa espressione (v. oltre).

Alla fine del XIX sec., dal momento che ormai erano disponibili nuovi metodi di ricerca batteriologica, i sostenitori della teoria dei germi cominciarono a 'dare la caccia ai microbi'; mano a mano che riuscivano ad associare una malattia dopo l'altra a specifici organismi patogeni, la corsa alla ricerca delle cause batteriche di tutte le malattie subì un'accelerazione. Oltre alle possibili cause batteriche del cancro, qualcuno cominciò a ipotizzare anche cause batteriche per le malattie mentali.

Sanità pubblica e igiene

Nel XIX sec. le nuove teorie sulla sanità pubblica, vista anche l'importanza che attribuivano alla sporcizia come causa delle malattie, inglobarono facilmente quelle sui germi. In Inghilterra, Edwin Chadwick (1800-1890) dimostrò che era possibile influire sui tassi di mortalità, e probabilmente sulla salute pubblica in generale, introducendo alcune riforme sanitarie; i batteriologi fecero notare inoltre che le cosiddette 'condizioni di sporcizia' erano proprio quelle in cui i batteri si sviluppavano più facilmente. Molti importanti batteriologi del XIX sec. si interessarono ai problemi dell'acqua, al controllo della qualità degli alimenti, alle fognature, nonché al trattamento dei rifiuti.

Sempre in Inghilterra, Joseph Lister (1827-1912) era il principale sostenitore dell'applicazione della teoria dei germi di Pasteur nella pratica chirurgica. Nel 1868 egli usò per la prima volta il fenolo (detto anche acido fenico) in sospensione oleosa durante un'operazione per impedire che la ferita si infettasse. Le sue teorie sull'igiene in sala operatoria diedero il via a una nuova era e produssero al contempo una drastica riduzione del tasso di mortalità postchirurgica che era dovuta a infezioni.

Oltre che in medicina, le teorie dei germi trovarono applicazione anche in agricoltura. Già nel 1767 Giovanni Targioni Tozzetti (1712-1783) aveva ipotizzato che le ruggini dei cereali potessero essere causate da un'infezione prodotta da funghi microscopici e nel 1807 Constant Prévost aveva prodotto infezioni sperimentali, dette 'carboni', e usato soluzioni di solfato di rame allo scopo di disinfettare i semi delle piante. Alla metà del XIX sec. era già noto che alcuni funghi (muffe del genere Penicillium) erano responsabili di alcune patologie della vite, di conseguenza si cominciò a trattare i vigneti con sostanze chimiche, come la sospensione in acqua di solfato di rame e idrato di calcio (miscela di Bordeaux), perché si sapeva che erano in grado di eliminare gli organismi pericolosi.

In seguito si dimostrò che anche altri tipi di microorganismi erano causa di malattie. All'inizio del XX sec. alcuni scienziati scoprirono che piccole forme intracellulari obbligate simili a batteri, note come Rickettsia, erano gli agenti patogeni di specifiche malattie, quali il tifo petecchiale (Charles Nicolle, Howard T. Ricketts e Stanislaus Prowazek) e la febbre esantematica delle Montagne Rocciose (Ricketts). Le Chlamydiae, altri parassiti intracellulari che si ritiene siano vagamente collegati ai batteri gram-negativi, furono identificate nel 1952. I microbi più piccoli viventi in Natura, i micoplasmi, sono un gruppo di organismi pleomorfico e molto diffuso; riescono spesso a passare attraverso i filtri convenzionali e furono originariamente classificati come virus filtrabili. La prima malattia riscontrata, attribuita ai micoplasmi, fu la pleuropolmonite dei bovini, studiata dallo stesso Pasteur (1883), da Edmond Nocard (1898) e da Jules Bordet (1910). Di conseguenza, fino a non molto tempo fa i micoplasmi sono stati chiamati 'organismi simili all'agente della pleuropolmonite' o PPLO. Un altro microorganismo isolato dalla polmonite atipica primaria umana si propaga nel tessuto degli embrioni dei polli ed è divenuto noto come agente Eaton (1944).

La microbiologia della sanità pubblica si sviluppò inizialmente a partire dai problemi dell'igiene e del controllo delle malattie epidemiche. L'epidemiologia e la microbiologia divennero quindi strettamente legate e considerate come la naturale continuazione della teoria dei germi e della scoperta dei microbi nell'ambiente. Tra i principali problemi di sanità pubblica vi era la sicurezza alimentare, che determinò l'istituzione di laboratori microbiologici statali per controllare le mucche da latte al fine di verificare se fossero affette da tubercolosi e per effettuare altri controlli sanitari.

In parte anche per reagire alle numerose epidemie di colera dell'Ottocento, entro la fine del secolo molte grandi città avevano istituito commissioni sanitarie permanenti. I laboratori governativi, municipali e statali, fungevano da centri di diagnostica, dove i medici e i funzionari della sanità potevano isolare microbi, fare diagnosi e vigilare sulla comunità. Questi laboratori combinavano studi di microbiologia diagnostica ed epidemiologia, lavoro sul campo e iniziative di quarantena e di ricerca per definire il raggio d'azione della microbiologia nell'ambito della sanità pubblica.

Parassitologia e protozoologia

I protozoi furono riconosciuti come microbi specifici nel 1836, quando, grazie a metodi moderni, Alfred Donné (1801-1878) descrisse il protozoo Trichomonas vaginalis. Questa scoperta fu subito seguita dall'identificazione di Endamoeba gingivalis da parte di Gros nel 1849, di Balantidium coli da parte di Malsten nel 1856, di Giardia lamblia da parte di Vilém Lambl nel 1859 e di Trichomonas hominis nel 1860 a opera di Davaine. Furono tuttavia gli studi di Charles-Louis-Alphonse Laveran (1845-1922), che nel 1880 identificò uno specifico organismo nel sangue dei malati di malaria, a permettere di applicare la teoria dei germi ai protozoi. L'espansione coloniale del XIX sec. portò gli europei in contatto con ambienti esotici e climi tropicali; il nuovo settore della medicina tropicale si sviluppò quindi a partire dalla necessità di comprendere meglio le nuove malattie, che spesso erano viste come un ostacolo alla colonizzazione e allo sviluppo commerciale. Questo interesse per la medicina tropicale determinò la scoperta dei protozoi coinvolti in altre due importanti malattie umane, Leishmania donovani (1900), che causa il Kala Azar, e Trypanosoma gambiense (1901), responsabile della tripanosomiasi o malattia del sonno africana.

Sebbene fosse ormai possibile associare un tipo specifico di protozoi a una particolare malattia, i meccanismi di trasmissione di molte di queste malattie protozoiche (come anche di alcune di quelle batteriche) erano misteriosi. Nel 1869, quando Melnikov scoprì lo stato larvale della tenia canina, Dipylidium canium, nelle pulci dei cani, si cominciò a studiare gli artropodi quali possibili agenti di trasmissione tra ospiti animali e umani. Nel 1878, Patrick Manson provò che la zanzara Culex quinquefasciatus poteva costituire un ospite intermedio nel ciclo vitale della microfilaria, Wucheria bancrofti, responsabile dell'elefantiasi, e nel 1893 Theobald Smith e Fred Kilbourne dimostrarono che la zecca è il vettore di trasmissione della febbre bovina texana. Molto importante fu la scoperta ‒ effettuata negli anni Novanta dell'Ottocento nel corso di alcune ricerche complementari da Giovanni Battista Grassi (1854-1925) e Ronald Ross (1857-1932) ‒ che la zanzara è il vettore di trasmissione della malaria. Questo avrebbe permesso di affrontare in modo diverso uno dei principali problemi di sanità del mondo. Alla fine del XIX sec., dopo che furono stabiliti i principî della biologia dei vettori, fu possibile cominciare a controllare diverse altre importanti malattie protozoiche, batteriche, virali ed elmintiche, tra cui la febbre gialla, il morbo di Chagas, il tifo e la peste.

Virologia

A partire dagli anni Ottanta dell'Ottocento il principale metodo per lo studio dei microbi fu il filtraggio. Vennero costruiti filtri molto fitti in grado di trattenere organismi piccolissimi come i microbi, allo scopo di sterilizzare i fluidi e stabilire la natura particolata dei materiali infetti. Due tipi molto usati furono il filtro di Chamberland, che prende il nome da Charles Chamberland dell'Institut Pasteur, e il filtro Berkfeld. Il primo è un tubo di porcellana non invetriata (un filtro a 'candela') attraverso il quale è possibile far passare i liquidi sotto pressione; il secondo è una colonna di farina fossile (Kieselguhr) e ha il nome del proprietario della miniera nei pressi di Hannover da cui proveniva il materiale. Un agente infettivo che passava attraverso uno di questi filtri era denominato 'filtrabile'.

Il termine 'virus' inizialmente fu usato per quella componente dell'inoculo che causava la malattia; si applicava sia ai batteri sia ad altri organismi. Uno degli obiettivi principali dei primi microscopisti era quello di isolare e identificare i virus presenti nel sangue, nei tessuti, nei campioni di espettorato e di feci, che potevano trasmettere una specifica malattia quando erano inoculati in un ospite predisposto. Alcuni di questi virus riuscivano a passare attraverso i filtri che trattenevano i batteri e per distinguerli dagli altri furono chiamati 'virus filtrabili'. Questo termine continuò a essere usato nella letteratura specializzata fino agli anni Trenta, quando si cominciò a omettere l'aggettivo filtrabile e a parlare semplicemente di virus per designare gli agenti infettivi che riuscivano a passare attraverso i filtri.

Il mosaico del tabacco fu la prima malattia attribuita a un agente filtrabile. Martinus Willem Beyerinck (1851-1931) studiò questa patologia, che costituiva un problema devastante per i coltivatori di tabacco olandesi, per più di dieci anni e nel 1898 scoprì che il virus era filtrabile e trasmissibile in serie. Beyerinck suggerì che si trattasse di un nuovo tipo di agente, vivente e non-particolato, un contagium vivum fluidum. Qualche anno prima, Dmitrij Iosifovič Ivanovskij (1864-1920) aveva già dimostrato che l'agente del mosaico del tabacco era filtrabile ma, dal momento che era riuscito a trasferire la malattia mediante le colonie di batteri, si era convinto che si trattasse di una malattia batterica. La natura dei virus filtrabili come quello del mosaico del tabacco (TMV) era controversa. Alcuni pensavano che si trattasse di un agente chimico, forse un componente cellulare, mentre altri ritenevano che fosse un essere vivente organizzato, troppo piccolo per essere individuato al microscopio, un 'ultramicrobo'. I vari tentativi di studiare il virus del mosaico del tabacco furono frustrati dall'impossibilità di coltivare l'agente al di fuori della pianta infetta e dalla difficoltà di individuarlo e misurarlo. Nel 1935 Wendell M. Stanley (1904-1971) riferì di essere riuscito a cristallizzarlo, un risultato sorprendente che rimetteva in discussione la definizione dei termini 'vivente', 'infetto' e 'microbo'. In base alle loro analisi chimiche, Stanley e i suoi collaboratori erano convinti che il virus fosse composto soltanto di proteine. La cristallizzazione era il criterio standard per stabilire la purezza dei composti chimici e, per analogia, delle proteine. Dai risultati di Stanley si poteva dedurre che i virus filtrabili come quello del mosaico del tabacco fossero proteine infette che si autoreplicavano; indirettamente, questa conclusione rafforzava la convinzione che anche i geni fossero molecole proteiche. La componente RNA del virus (il 7% ca. del suo peso) fu scoperta in Inghilterra da Sir Frederick C. Bawden (1908-1972) e Norman W. Pirie (1907-1997), ma la controversia sulla natura dei virus non era ancora finita. Ci si chiedeva infatti come si replicassero, da dove avessero origine, se fossero autonomi o appartenessero alla cellula e, infine, se dovessero essere considerati come macromolecole o come microbi.

Si scoprì che i virus filtrabili erano la causa di patologie umane contagiose come l'herpes labiale, l'influenza e la poliomielite, nonché di malattie animali quali il colera suino, la rabbia e il vaiolo bovino, tra quelle che colpiscono i mammiferi, e la leucemia e i sarcomi tra quelle dei volatili. La comprensione del fatto che questi virus fossero parassiti intracellulari e non potessero essere coltivati al di fuori del loro ospite, o almeno di cellule ospiti, determinò l'uso del tessuto embrionale e di cellule coltivate in vitro come metodi di coltivazione e di analisi standard. La coltivazione del virus della poliomielite nelle cellule del rene delle scimmie, realizzata da John F. Enders (1897-1985) e dai suoi colleghi, portò a una migliore comprensione di questo virus e infine alla possibilità di controllarlo tramite le immunizzazioni, prima con virus morti (vaccino di Salk) e poi con un vaccino vivo attenuato efficace per via orale, il vaccino Sabin.

Nel 1911 Peyton Rous (1879-1970) scoprì che un filtrato senza cellule del sarcoma di una gallina, se inoculato in altre galline, poteva indurre sarcomi simili e nel 1908 Wilhelm Ellerman e Olaf Bang suggerirono che la leucemia aviaria poteva essere causata dall'inoculazione di un agente filtrabile. Questo gruppo di virus cancerogeni, non collegati tra loro per struttura, patogenesi o genealogia, permisero di comprendere più a fondo le interazioni tra geni, virus e cellule. Verso la metà degli anni Cinquanta, grazie ad alcuni esperimenti condotti sugli animali, erano stati individuati diversi tipi di virus oncogeni, ma i possibili responsabili di tumori umani furono isolati molto tempo dopo. La maggior parte di questi virus tumorali (o retrovirus) ha genomi a RNA che possono essere copiati nel DNA e integrati nel genoma della cellula per risiedervi in simbiosi, provocando in molti casi una trasformazione neoplastica. Una scoperta interessante fu che l'organismo associato all'AIDS, il virus dell'immunodeficienza umana (HIV), identificato per la prima volta negli anni Ottanta, appartiene allo stesso gruppo di virus, anche se non provoca tumori.

Oggi è noto che i batteriofagi sono virus che infettano i batteri, ma in origine non si pensava che fossero simili ai virus filtrabili. Nel 1915, in Inghilterra, Frederick W. Twort (1877-1950) scoprì la 'trasformazione vetrosa' dei micrococchi, un fenomeno trasmissibile in serie che uccideva i batteri. L'interpretazione che Twort diede di questo fenomeno era poco chiara e ambigua, tuttavia a Parigi Félix d'Herelle (1873-1949) osservò in modo indipendente la lisi delle colture di batteri della dissenteria, notando che il principio litico trasmissibile in serie era filtrabile e che questo agente poteva produrre placche nelle colture di batteri confluenti. Ipotizzò che si trattasse di un microbo che parassitizza i batteri, vale a dire un virus dei batteri. D'Herelle inventò il metodo quantitativo di conta delle placche, ricostruì il ciclo vitale fondamentale di questo agente e lo denominò batteriofago, concentrandosi soprattutto sull'applicazione dei batteriofagi alla terapia e alla profilassi delle malattie infettive quando ancora non esistevano gli antibiotici. Anche se sembrava promettente, e attualmente la si sta riprendendo in considerazione, questa applicazione fu eclissata dalla meravigliosa scoperta degli antibiotici nei primi anni Quaranta. La natura biologica dei batteriofagi rimase controversa fino a quando, con l'utilizzazione del microscopio elettronico, non fu possibile chiarire che essa era particolata. Il microscopio elettronico, inventato in Germania nel 1931 da Max Knoll (1897-1969) ed Ernst Ruska (1906-1988), alla fine degli anni Trenta aveva raggiunto un potere risolutivo sufficiente per dimostrare la natura particolata di diversi virus, compresi i batteriofagi. Queste scoperte permisero finalmente di unificare la virologia, e i batteriofagi furono infine accettati come virus dei batteri.

I virus, e i fagi in particolare, si sono rivelati molto utili per studiare i processi cellulari che utilizzano nel corso del loro ciclo vitale. La duplicazione dei geni dei batteriofagi è stata studiata con l'obiettivo di comprendere la replicazione dei virus in un batterio infetto, dalla singola particella che dà inizio all'infezione alla produzione di centinaia di fagi poco tempo dopo. La storia della virologia è caratterizzata da un continuo cambiamento di paradigmi: prima i virus sono microbi, poi diventano macromolecole, prima sono causa di malattie, poi servono a curarle. Mentre i virus filtrabili classici sono nucleoproteine con un genoma a DNA o RNA avvolto da un involucro di proteina, due altri tipi di agenti patogeni filtrabili, i viroidi e i prioni, scoperti negli anni Sessanta e Settanta, non rientrano in questa categoria di microbi.

Negli anni Settanta, mentre studiavano le cause di una malattia delle piante, il tubero fusiforme della patata, Theodor O. Diener e i suoi colleghi scoprirono che essa veniva trasmessa in Natura da una piccola molecola di RNA priva di proteine. Si dimostrò così che piccoli RNA simili, denominati viroidi, erano la causa di molte patologie delle piante conosciute; finora tuttavia nessuna malattia degli animali è stata attribuita ai viroidi. Sebbene il loro meccanismo di funzionamento sia ancora poco chiaro, si ritiene che l'RNA che viene trasmesso attraverso i semi o il polline sia in grado di interagire con le proteine bersaglio e di modificarne il funzionamento favorendone la replicazione. Non è ancora noto se l'RNA abbia una funzione genetica.

Altri agenti patogeni controversi sono causa di diverse malattie neurologiche che sembrano avere una lunga latenza tra il momento dell'esposizione e lo sviluppo dei sintomi. Denominati inizialmente 'virus lenti' per questo motivo, secondo gli studi condotti a partire dagli anni Sessanta non sarebbero classici virus costituiti da nucleoproteine. Nel 1966 Tikvah Alper e i suoi colleghi scoprirono che l'agente patogeno della virosi nervosa degenerativa della pecora (scrapie) era altamente resistente sia ai raggi ultravioletti sia ai raggi X; tale risultato suggeriva che questo agente contenesse pochissimo acido nucleico o, addirittura, non ne contenesse affatto. La depurazione dell'agente patogeno della virosi nervosa degenerativa, estratto dal tessuto cerebrale di criceti infetti effettuata da Stanley B. Prusiner e dai suoi colleghi, ha prodotto una proteina senza acido nucleico denominata 'prione'. Il prione che produce la virosi nervosa degenerativa è il prodotto di un normale gene, ma con una conformazione proteica anormale. Secondo l'ipotesi del 'prione proteico' la causa di queste malattie neurologiche, tra le quali il kuru, il morbo di Creutzfeld-Jakob e l'encefalopatia spongiforme bovina, è la presenza di una proteina ripiegata in modo anormale che altera in qualche maniera il funzionamento della cellula e favorisce ulteriori ripiegamenti anormali della normale proteina cellulare. Queste malattie sarebbero quindi causate da problemi di ripiegamento della proteina, e la loro contagiosità sarebbe collegata alla loro capacità autocatalitica di agire come substrato per la proteina normale: l'ipotesi tuttavia non è condivisa unanimemente.

La fisiologia microbica e la genetica

Molti ricercatori, tra i quali Sergej Nikolaevič Vinogradskij (1856-1953) e Beyerinck, misero in evidenza la diversità delle forme e del metabolismo dei microbi e furono i pionieri dello studio della fisiologia dei batteri. Queste ricerche dimostrarono che i microbi erano in grado di produrre utili 'metaboliti secondari', come il glicerolo, l'acido lattico, i pigmenti e altri composti intermedi. La microbiologia del terreno e quella lattiero-casearia si erano sviluppate nel XIX sec., favorendo la comprensione dei processi microbici nella produzione dei formaggi e nel deterioramento dei cibi, così come nella fertilizzazione del terreno con concimi e altri composti. Negli anni Trenta del Novecento queste ricerche sul metabolismo dei batteri erano entrate ormai a far parte della nuova biochimica.

Nei primi due decenni del XX sec. gli studi sui fattori di crescita e sulla funzione delle vitamine nella nutrizione degli animali e delle piante furono estesi anche ai microbi. A Parigi, André-Michel Lwoff (1902-1994), per esempio, studiò le condizioni necessarie per lo sviluppo dei protozoi, mentre in Inghilterra, Marjory Stephenson, Bert C.J.G. Knight e Paul Fildes analizzarono le condizioni necessarie per lo sviluppo dei batteri. In America, Edward L. Tatum (1909-1975) si dedicò alla biochimica dei funghi. Nel 1941, insieme con George W. Beadle (1903-1989) produsse una forma mutante del fungo Neurospora crassa, che richiede la presenza della piridossina, con una mutagenesi ottenuta utilizzando i raggi X, e fu dimostrato che negli esperimenti di accoppiamento esso si comportava secondo le leggi mendeliane. Beadle e Tatum giunsero alla conclusione che i geni fossero direttamente coinvolti nel controllo degli stadi metabolici, vale a dire degli enzimi, e formularono una teoria del gene che sarebbe divenuta nota come l'ipotesi 'un gene-un enzima', uno dei principî fondamentali della genetica molecolare moderna. Tale approccio, che utilizzava sia lo studio genetico sia quello biochimico dei microorganismi, si rivelò particolarmente fruttuoso e ben presto quasi tutti accettarono l'idea che i geni controllassero tutte le reazioni biochimiche della cellula. Nel 1947 Joshua Lederberg e Tatum estesero questo approccio ai batteri e scoprirono forme ricombinanti di Escherichia coli K12, dimostrando chiaramente l'esistenza della sessualità dei batteri.

Negli anni Quaranta e Cinquanta, mentre si accrescevano le conoscenze sui processi genetici dei microbi, stava maturando nello stesso tempo la comprensione della natura del gene stesso: anche in questo caso lo studio dei microorganismi risultò fondamentale. Verso la metà degli anni Venti numerose ricerche sulla virulenza degli isolati batterici suggerivano che, inoculati negli animali, alcuni ceppi di batteri teoricamente puri potessero dare origine a varianti caratterizzate da una virulenza diversa. Inoltre, era stato osservato che molti batteri per i quali la morfologia delle colonie era distinguibile, per esempio colonie lisce o ruvide, colonie pigmentate o non pigmentate, occasionalmente davano origine a varianti dell'altro tipo. Tale dissociazione di una coltura pura in un miscuglio di due tipi fu chiamata 'dissociazione batterica'.

Le prime spiegazioni della dissociazione partirono dall'idea che le colture avessero 'cicli vitali' e che le varianti dei batteri rappresentassero stadi diversi di tali cicli. Questo concetto della 'ciclogenia' batterica provocò un ritorno alla nozione ottocentesca di pleomorfismo e, negli anni Venti e Trenta, costituì la principale spiegazione della dissociazione. Mentre alcuni batteriologi, come Paul Henry De Kruif (1890-1971), sostenevano che la dissociazione batterica fosse spiegabile in termini di mutazione genetica delle singole cellule, l'enfasi sulle colture microbiche nel loro complesso piuttosto che sulla singola cellula fece dimenticare le basi genetiche del fenomeno di dissociazione. Negli anni Trenta esisteva però anche una teoria minoritaria secondo la quale la dissociazione doveva avvenire indipendentemente dall'esposizione all'agente utilizzato per rilevare il cambiamento, cioè un fago, un farmaco o una sostanza chimica.

Nel 1907 Rudolf Massini aveva scoperto una variante del Bacterium coli (Escherichia coli) che aveva perso la capacità di utilizzare il lattosio come fonte di carbonio, ma che spesso la riacquistava, e l'aveva chiamata B. coli mutabile. In uno studio chiaro e convincente, Isaac M. Lewis (1873-1943) esaminò tale mutazione collocando i batteri originari (lattosio-negativi) su piastre che contenevano glucosio oppure lattosio. Selezionando con cura le colonie delle piastre contenenti glucosio e verificando la loro capacità di utilizzare il lattosio, calcolò la frequenza dei batteri che usavano il lattosio nella coltura non esposta a esso. Tale frequenza era simile a quella riscontrata nelle colonie su piastre contenenti lattosio, quindi Lewis giunse alla conclusione che la mutazione si verificava prima della selezione e che non era la conseguenza dell'esposizione a condizioni selettive. Questo approccio chiaro ed elegante sarebbe poi stato supportato negli anni Quaranta da due altri approcci sperimentali.

Studiando la riproduzione dei batteriofagi Max Delbrück (1906-1981) e Salvador E. Luria (1912-1991) erano consapevoli del fatto che i batteri spesso sviluppavano una resistenza ai fagi. Nel 1943 questo fenomeno permise loro di esaminare la dissociazione in un'altra proprietà ereditaria dei batteri, la resistenza ai fagi. Grazie al loro costante uso di modelli statistici nello studio della neutralizzazione dei batteri e dei fagi con le radiazioni e alle loro conoscenze di fisica atomica, essi concepirono un approccio statistico ('test di fluttuazione') basato sulle proprietà della distribuzione di Poisson per dimostrare che i mutanti resistenti ai fagi sono presenti nella popolazione batterica prima ancora della sua esposizione ai loro effetti letali. Non soltanto le frequenze dei mutanti fluttuavano come previsto dalla distribuzione di Poisson, ma Luria e Delbrück dimostrarono che questa fluttuazione poteva essere utilizzata per calcolare il tasso di mutazione, vale a dire la probabilità che si verificasse una specifica mutazione per ogni divisione cellulare.

Nel 1952 Joshua ed Esther Lederberg idearono un metodo semplice e diretto per dimostrare ancora una volta che le mutazioni avvenivano in modo casuale, indipendentemente dalle procedure di selezione. Seguendo Lewis, escogitarono un sistema per spostare un gran numero di colonie da una piastra all'altra usando come mezzo di trasferimento una pezza di velluto. Le minuscole fibre del velluto fungevano da piccoli aghi per l'inoculazione e, quando veniva premuta sulla superficie di una piastra di coltura coperta di colonie, la stoffa catturava i batteri. I Lederberg usarono questa tecnica per studiare la resistenza ai fagi e alla streptomicina, esaminando un gran numero di colonie per individuarne le proprietà mutanti. In entrambi i casi era chiaro che gli esemplari mutanti erano comparsi prima dell'applicazione dell'agente selettivo.

Verso la metà del XX sec. si ammetteva unanimemente che i batteri avessero un qualche tipo di apparato genetico ma, dal momento che non erano visibili né un nucleo né cromosomi, la loro organizzazione genetica risultava ancora poco chiara. Nel 1952 J. Lederberg introdusse il termine 'plasmide' (una forma variante del quale sarebbe stata battezzata 'episoma' da François Jacob ed Elie Wollman nel 1959) per spiegare e descrivere i vari determinanti genetici dei microbi, come l'eredità citoplasmatica per i protozoi, la lisogenia per i fagi e, più tardi, i fattori di fertilità batterica. Oggi il termine plasmide indica una molecola circolare di DNA extracromosomico, che si replica autonomamente nella cellula e non è essenziale per quella specie (anche se alcune condizioni di coltura, per es. la presenza di certi nutrienti o antibiotici, possono rendere indispensabile il plasmide in casi specifici).

Alcuni plasmidi sono in grado di ricombinarsi geneticamente con il cromosoma, e ciò spiegherebbe perché in Natura i geni possono spostarsi da una specie all'altra, oltre a fornire una spiegazione dei passaggi chiave del processo di lisogenia dei batteri da parte di certi batteriofagi. Di conseguenza, il concetto di plasmide si è rivelato importante per comprendere la genetica del cancro, nonché alcuni schemi di evoluzione dei microbi (nella biotecnologia attuale, il ruolo dei plasmidi come vettori per il trasferimento dei geni è noto a tal punto da non richiedere una trattazione specifica).

Restava da chiarire la natura dei geni stessi e della loro espressione; due diversi filoni di ricerca microbiologica avrebbero condotto alle conoscenze attuali. Gli studi sulla virulenza batterica e la patogenesi della polmonite portarono a identificare il DNA come materiale genetico, conclusione destinata poi a essere confermata dalle ricerche sulla replicazione dei batteriofagi.

Nel 1928 Frederick Griffith (1877-1941) scoprì che i batteri uccisi con il calore appartenenti a una forma di pneumococco (Streptococcus pneumoniae) erano in grado di trasformare i batteri vivi di un'altra forma affinché mostrassero alcune delle proprietà antigeniche e di virulenza della forma uccisa dal calore. Questi risultati, che implicavano il passaggio delle colture miste attraverso animali, sembravano poco interessanti o irrilevanti ai batteriologi dediti allo studio dei caratteri ereditari dei microbi, ma si dimostrarono molto importanti per i patologi che si occupavano di polmonite. Quasi immediatamente, Oswald T. Avery (1877-1955), che lavorava presso il Rockefeller Institute, avviò un programma di ricerca sulla trasformazione dei tipi antigenici di Griffith. Le ricerche condotte nel suo laboratorio, prima da Martin Dawson e poi da James L. Alloway e infine da Colin M. MacLeod e Maclyn McCarty, stabilirono che il materiale di trasformazione appartenente ai batteri uccisi dal calore era proprio il DNA. La pubblicazione di questa ricerca nel 1944 segnò l'inizio di un nuovo modo di concepire l'eredità nei batteri; inizialmente ci fu un po' di riluttanza ad accettare il DNA come 'materiale genetico', riluttanza che potrebbe essere giustificata da diverse motivazioni. In primo luogo, fin dagli anni Trenta, quando si era cominciato a comprendere la complessità delle proteine, si era sempre ritenuto che il DNA fosse il polimero ripetuto di un tetranucleotide. I chimici delle proteine avevano dimostrato l'ampia diversità e individualità chimica delle proteine e la squisita specificità degli enzimi. La chimica delle proteine era esattamente quella che ci si aspettava dai geni, mentre si pensava che il DNA fosse troppo regolare per avere un potenziale genetico. Due importanti ricerche avrebbero ben presto sfidato questa convinzione; Rollin D. Hotchkiss dimostrò che le basi che compongono il DNA sono diverse nelle varie specie ed Erwin Chargaff scoprì incredibili regolarità nell'analisi di tutti i DNA: il numero delle purine era sempre uguale a quello delle pirimidine e il rapporto tra adenina e timina e tra guanina e citosina era sempre molto vicino a uno.

Uno degli obiettivi dei ricercatori che studiavano i batteriofagi negli anni Quaranta era stato quello di capire la riproduzione dei fagi. Nei primi anni Cinquanta la ricerca cominciò a poter disporre degli isotopi radioattivi, che furono subito applicati allo studio della biochimica della crescita e della replicazione dei fagi; l'esempio più noto e citato è l'esperimento del 1952 di Alfred Hershey e Martha Chase che dimostrò il ruolo fondamentale del DNA nella riproduzione dei batteri, a scapito dell'importanza delle proteine.

Il ruolo del gene nella trasmissione delle proprietà ereditarie dal genitore alla progenie nei microorganismi e quello che svolge nella loro crescita, nel loro sviluppo e nella loro fisiologia furono studiati separatamente. Spesso, per motivi pratici, si concentrò l'attenzione sui processi biochimici e fisiologici che permettono ai microbi di creare prodotti (sostanze chimiche, metaboliti secondari), di fermentare (alcol e prodotti latteo-caseari) e di causare problemi (decadimento, erosione). Alcuni microbiologi già nel XIX sec. avevano studiato la fisiologia dei microbi, tuttavia questo settore si sviluppò più rapidamente negli anni Trenta del Novecento.

Un fenomeno della fisiologia dei batteri che rappresentava un problema comune a tutti i microbi era quello dell''adattamento degli enzimi'. Le colture che crescevano su un substrato (per es., glucosio) e poi passavano a un altro substrato (per es., lattosio) spesso mostravano una crescita più lenta e successivamente si 'adattavano' al nuovo substrato. Il meccanismo che determinava questo adattamento fu argomento di intense discussioni e dibattiti fino alla metà degli anni Cinquanta; a quel punto Jacques Monod (1910-1976) e i suoi collaboratori dell'Institut Pasteur stavano già concentrando l'attenzione sulla specifica reazione di E. coli nel passaggio dal glucosio al lattosio come unica fonte di carbonio per la crescita. Studiarono i tassi di crescita, la cinetica degli adattamenti, i livelli degli enzimi più rilevanti, e la concentrazione dei substrati. Sorse allora un interrogativo fondamentale: quando l'enzima dell'adattamento faceva la sua comparsa, veniva creato ex novo, magari seguendo 'le istruzioni' della sostanza che lo aveva indotto (lattosio), o esisteva in uno stato preformato ed era stato stabilizzato o attivato dalla sostanza inducente? Questi interrogativi fisiologici furono riformulati dal gruppo del Pasteur in termini genetici, riconsiderando tutto il processo e ipotizzando un sistema intermedio per la sintesi dell'enzima distinto dall'enzima stesso. Essi sfruttarono le mutazioni che influivano sul fenomeno dell'induzione per individuare i componenti di questo ipotetico sistema di formazione degli enzimi. Il modello dell'operone per l'espressione del gene fu descritto per la prima volta da Jacob, David Perrin, Carmen Sanchez e Monod e poi rielaborato da Jacob e Monod nel 1961; i due scienziati sintetizzarono la fisiologia e la genetica dei batteri per fornire un'ampia spiegazione della biologia di E. coli. Questo modello unificò quasi tutto il pensiero biologico e mise fine alla separazione tra i sostenitori della genetica della trasmissione e gli embriologi continentali che vedevano i geni come agenti della crescita e dello sviluppo.

Tavola I - EVOLUZIONE DEI COSIDDETTI POSTULATI DI KOCH

I ‘postulati di Koch’ sono le procedure suggerite dal batteriologo tedesco Robert Koch (1843-1910) per dimostrare che un microorganismo specifico è la causa di una specifica malattia infettiva. Si tratta di una sorta di ‘regole auree’ riportate in tutti i trattati di medicina e microbiologia, anche se raramente viene sottolineato che la loro definizione non solo è passata attraverso una serie di tappe storiche precedenti la prima formalizzazione proposta da Koch, ma soprattutto che il successivo dibattito sul valore dei postulati e sulla natura delle prove utilizzabili per stabilire il ruolo causale di agenti patogeni o di altri fattori nella produzione delle malattie è andato incontro a un’evoluzione che ha praticamente coinciso con quella del concetto di causalità nelle scienze medico-sanitarie.

Koch formalizzò nelle prime pagine dell’articolo sull’eziologia della tubercolosi del 1884 le procedure mediante le quali era riuscito a stabilire l’eziologia microbica del carbonchio, la specie-specificità dei microbi che infettano le ferite, la funzione delle colture pure su terreni solidi e, infine, a isolare nel 1882 l’agente causale della tubercolosi. Di fatto egli proponeva la prima versione dei criteri batteriologici e sperimentali necessari per dimostrare che un determinato microorganismo è la causa specifica di una malattia infettiva. I tre postulati batteriologici prevedevano: (a) l'individuazione di una struttura estranea in tutti i casi di malattia; (b) la dimostrazione che questa struttura era un organismo vivente distinguibile da tutti gli altri; (c) che la distribuzione era correlata a e in grado di spiegare i sintomi della malattia. I postulati sperimentali riguardavano: (d ) la coltivazione del microbo all’esterno dell’ospite e il suo isolamento da altri prodotti della malattia che potessero essere causalmente correlati con essa; (e) l'inoculazione del microorganismo isolato su colture pure in animali da esperimento che devono mostrare gli stessi sintomi dell’animale malato originario.

Dopo soli sei anni, Koch riconosceva in un articolo pubblicato sul “British medical journal” che non era sempre possibile ottemperare ai postulati. Per varie malattie, come la febbre tifoide, la difterite, la lebbra e il colera non era possibile infettare animali con le colture pure, mentre per altre, come la malaria, era impossibile coltivare l’agente causale. Si sapeva inoltre dell’esistenza delle infezioni asintomatiche, in cui malattie dovute a microbi diversi potevano intervenire facendo del primo microorganismo un agente fortuito e non patogeno in presenza di una malattia non correlata.

Assunti tuttavia come metodologia standard per dimostrare il ruolo eziologico di un agente infettivo, i postulati, in modo particolare l’impossibilità di coltivare l’agente e riprodurre sperimentalmente la malattia furono utilizzati tra il 1906 e il 1916 come base argomentativa per mettere in discussione le scoperte di Howard T. Ricketts e Simeon B. Wolbach sull’eziologia della febbre esantematica delle Montagne Rocciose e del tifo epidemico.

Inoltre, i postulati erano stati concepiti sulla base dello studio di malattie infettive causate da batteri; di conseguenza, non potevano applicarsi alle malattie virali fino a quando, nel 1931, non furono sviluppate le colture cellulari per i virus. Nel 1937 il virologo Thomas M. Rivers sostenne l’esigenza di ridefinire nell’insieme i postulati di Koch specificamente per le patologie dovute ai virus. Per Rivers, accanto all’isolamento e alla riproduzione sperimentale della malattia, i criteri dovevano prevedere anche un’associazione regolare tra virus specifico e malattia, ovvero la dimostrazione che la presenza del virus nell’individuo malato non fosse una scoperta fortuita ma la causa della malattia in questione. Il virus doveva inoltre dimostrarsi ‘filtrabile’ e coltivabile attraverso cellule. Infine, anche la presenza di anticorpi contro l'agente infettivo e il tempo della loro comparsa nel siero del paziente potevano rappresentare una prova significativa dell’eziologia virale della malattia.

In un saggio intitolato Bill of rights for prevalent viruses comprising a guarantee against the imputation of guilt by simple association, Robert Heubner introduceva nel 1957 il concetto che i dati epidemiologici devono essere collegati a quelli microbiologici nella dimostrazione che un determinato virus è la causa di una specifica malattia. Inoltre, riconosceva come prova dell’eziologia virale di una malattia la sua prevenzione mediante un vaccino specifico. Fra il 1964 e il 1968 Baruch Blumberg scopriva l’antigene Australia, che risultava associato con l’epatite B e forniva una prova sieroepidemiologica dell’eziologia virale della malattia.

Alla luce del dibattito metodologico scaturito dagli studi epidemiologici che dimostravano l’associazione tra fumo di tabacco e cancro del polmone, e quelli che riconoscevano nei livelli elevati di colesterolo, nel fumo e nell’obesità fattori di rischio per lo sviluppo di patologie cardiovascolari, nel 1958 Jacob Yerushalmy e Carroll E. Palmer proponevano i criteri per stabilire la specificità di un effetto negli studi sulle cause di una malattia cronica. Essi introducevano il concetto di causalità multipla per le malattie cronico-degenerative, in opposizione a quello di causa unica che continuava a prevalere nella ricerca eziologica delle malattie infettive acute. Nel 1965 Austin Bradford Hill proponeva i criteri epidemiologici per stabilire l’associazione causale tra caratteristiche dell’ambiente o stili di vita e malattie: forza dell’associazione, consistenza dell’associazione, specificità dell’associazione, relazione temporale, gradiente biologico quantitativo, plausibilità, coerenza, sperimentazione, analogia.

Attraverso il lavoro teorico di Abraham Lilienfeld e Albert Evans veniva proposto da quest’ultimo, nel 1976, il ‘concetto unificato dei postulati di Koch’, per stabilire, a partire dai dati empirici, la causa di una malattia, sia essa acuta o cronica. Esso comprende dieci criteri: (1) la prevalenza della malattia dovrebbe essere significativamente più alta in chi è esposto alla supposta causa rispetto ai controlli non esposti; (2) l’esposizione alla supposta causa dovrebbe essere più frequente in chi presenta la malattia rispetto ai controlli senza malattia (quando tutti i fattori di rischio sono costanti); (3) l’incidenza della malattia dovrebbe essere significativamente più elevata in quelli esposti alla supposta causa rispetto a quelli non esposti, sulla base di studi prospettici; (4) la malattia deve seguire l’esposizione alla supposta causa (associazione temporale) con una distribuzione a campana dei periodi di incubazione; (5) uno spettro di risposte nell’ospite dovrebbe seguire l’esposizione alla supposta causa con un gradiente biologico plausibile da lieve a grave; (6) una risposta misurabile dell’ospite a seguito dell’esposizione alla supposta causa dovrebbe manifestarsi regolarmente in coloro in cui mancava prima dell’esposizione (per es., anticorpi) o dovrebbe aumentare se era già presente (tale quadro non dovrebbe manifestarsi nelle persone non esposte); (7) la riproduzione sperimentale della malattia dovrebbe avvenire con incidenze più alte in animali o uomini esposti in modo appropriato alla supposta causa rispetto ai non esposti; l’esposizione può essere deliberata nei volontari, sperimentalmente indotta in laboratorio, o dimostrata attraverso una regolazione controllata dell’esposizione naturale; (8) L’eliminazione o modificazione dell’ipotetica causa o del vettore che la trasmette dovrebbe ridurre l’incidenza della malattia; (9) la prevenzione o modificazione della risposta dell’ospite a fronte dell’esposizione alla supposta causa dovrebbe ridurre o eliminare la malattia; (10) il tutto dovrebbe avere un senso biologico ed epidemiologico.

Va ricordato che alla progressiva definizione del ‘concetto unificato’ dei postulati di Koch ha contribuito la discussione tra epidemiologi e giuristi sui criteri metodologici per affrontare le cause legali e le richieste di risarcimento per le malattie contratte negli ambienti lavorativi. Inoltre, il dibattito sui postulati ha stimolato e influenzato la riflessione metodologica sulla dimostrazione dei rapporti causali tra virus e tumori, tra agenti infettivi specifici ed epidemie, tra malattie croniche e risposte autoimmuni.

Con l’avvento della genetica molecolare, la ricerca microbiologica si è concentrata sull’identificazione dei determinanti della virulenza individuale che rende un microorganismo patogeno un patogeno. Nel 1988 Stanley Falkow ha formalizzato un insieme di postulati che possono essere utilizzati per dimostrare che una proprietà genetica è effettivamente determinante per la patogenicità. Le condizioni sono: la costante associazione tra il fenotipo o la proprietà sotto indagine e le specie patogene di un genere o con i ceppi patogeni di una specie; la relazione tra l’inattivazione specifica di un gene (o di più geni) associati con il tratto imputato della virulenza e una perdita misurabile di virulenza in un appropriato sistema modello; infine, la possibilità di riconferire la patogenicità mediante la complementazione di una mutazione, sia per mezzo di un plasmide sia per rimpiazzamento allelico del genemutato.Nel 1996 sono state quindi proposte delle Guidelines for establishing microbial disease causation by molecular means, che utilizzano come prove le analisi comparate delle sequenze nucleotidiche del patogeno.

I postulati cosiddetti di Koch continuano a rappresentare, in una qualche versione, i criteri metodologici da soddisfare per stabilire il ruolo causale di un agente patogeno. Tuttavia sono utilizzati spesso in un’accezione dogmatica, per criticare le imputazioni causali quando ci si trovi di fronte a scoperte che magari mettono in discussione teorie esistenti. È stato il caso della scoperta che Helicobacter pylori è la causa delle ulcere dello stomaco, ma soprattutto, nel corso degli ultimi quindici anni, si è sviluppata un’accesa discussione circa la possibilità che il virus HIV non sia la causa dell’AIDS in quanto non soddisferebbe secondo alcuni virologi e biologi i postulati di Koch. Gli argomenti con cui viene sostenuta tale tesi rifiutano le prove epidemiologiche e patogenetiche indirette, che come si è visto sono state integrate nei postulati di Koch. Nonostante siano criticati da più parti, i criteri godono tuttora di grande prestigio e rappresentano uno dei principali strumenti concettuali utilizzati per comprendere l’origine e l’eziologia delle nuove patologie. (G. Corbellini)

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