La scienza presso le civiltà precolombiane. Il mondo naturale degli Aztechi

Storia della Scienza (2001)

La scienza presso le civilta precolombiane. Il mondo naturale degli Aztechi

Doris Heyden

Il mondo naturale degli Aztechi

Nella cultura azteca del XV sec., la scienza era parte di un insieme organico e senza soluzioni di continuità che legava la società umana al mondo naturale. In nahuatl, la lingua azteca, non esisteva un termine che indicasse la 'scienza', e ciò che noi definiremmo attività scientifica o artistica era chiamato temachio tlaliliztli ('ciò che ha un significato, che comunica un messaggio, che rappresenta un buon esempio e che dev'essere ben eseguito'). Gli Aztechi probabilmente avrebbero definito lo scienziato toltecatl, con un termine usato per designare l'uomo saggio e che significava 'una fiaccola accesa che illumina la via'. Così la loro idea di scienza può essere sintetizzata come possesso e disseminazione di sapere, come proiezione di ciò che è ben eseguito, in breve, come saggezza. La scienza era la chiave per la risoluzione dei problemi della sopravvivenza di ogni giorno ed era utilizzata in tutte le circostanze della vita quotidiana. In questo contesto, il complesso sistema del calendario azteco, lo studio dei fenomeni celesti e terrestri, e il loro ruolo di regolazione dei cicli agricoli costituiscono un indissolubile intreccio di scienza, credenze ed esperienza. Per questa ragione, ogni discussione sulla scienza degli Aztechi è strettamente connessa alle teorie sull'Universo, ai miti, ai rituali e, in generale, all'insieme delle loro credenze.

Il perfetto equilibrio tra l'uomo e la Natura è un ideale a cui hanno sempre aspirato tutte le società. La concezione del mondo propria di una cultura esprime la sintesi di conoscenze empiriche, credenze religiose e rituali sociali in un insieme strutturale coerente. In quest'ottica storia naturale e storia sociale sono inseparabili perché lo sviluppo di una società riflette in gran parte l'uso e il controllo delle credenze, dei miti e dei rituali che spiegano l'ambiente naturale. La scienza azteca si basava sull'osservazione critica della Natura, filtrata tuttavia dal rapporto dell'uomo con il sacro. La stabilità del Cosmo dipendeva dall'attività umana; i nobili della corte informavano infatti il nuovo sovrano del fatto che uno dei suoi obblighi consisteva nel mantenere l'equilibrio cosmico, affinché la società funzionasse in modo altrettanto equilibrato, sulla base di una dualità di forze complementari e opposte (rappresentate, per es., dalla contrapposizione fra maschio e femmina, fuoco e acqua, stagione umida e stagione asciutta, ecc.). Il tlatoani, il sovrano azteco, e i suoi sudditi utilizzavano la scienza, cioè la loro esperienza e la loro conoscenza critica del mondo naturale, per conservare l'equilibrio cosmico e quindi la stabilità sociale.

Poiché le conoscenze degli Aztechi erano trasmesse come parte di una più vasta tradizione orale, le fonti d'informazione riguardo alla storia, alla vita e ai costumi di questa antica popolazione messicana, come pure alle loro concezioni sulla Natura, sono costituite dalle cronache scritte nel XVI e nel XVII sec. dai discendenti della nobiltà indigena, dai religiosi e dai conquistatori che dal vecchio mondo giunsero nella Nuova Spagna. Vi sono tre fonti principali particolarmente significative per la nostra indagine. In primo luogo, le cronache scritte dal frate francescano Bernardino de Sahagún (1499 ca.-1590), che giunse nella Nuova Spagna nel 1527 e divenne uno dei più importanti cronisti dell'antico Messico. I suoi scritti, basati sulle testimonianze di alcuni appartenenti alla nobiltà indigena della capitale azteca, Tenochtitlan, furono redatti inizialmente con lo scopo di convertire i figli dell'aristocrazia sconfitta e hanno un valore particolare perché contengono abbondanti informazioni sulle credenze indigene. Un altro importante cronista del popolo azteco, che voleva raccogliere conoscenze più approfondite che risultassero utili all'opera di evangelizzazione, il frate domenicano Diego Durán (1538 ca.-1588), ci offre un'immagine diversa della società. Gli informatori di Durán, al contrario di quelli di Sahagún, provenivano infatti dagli strati più bassi della società, erano rappresentanti della gente del mercato, dei semplici contadini, degli indigeni che vivevano lontano dalla capitale. Possiamo infine rinvenire alcuni dati ulteriori nell'opera di Francisco Hernández (1517 ca.-1587), il fisico e naturalista di corte a cui Filippo II di Spagna (1527-1598) affidò nel 1572 l'incarico di organizzare una spedizione per raccogliere e catalogare esemplari di flora e di fauna in ogni parte del Messico.

Come altre popolazioni del Messico preispanico, gli Aztechi consideravano l'ambiente naturale come un padre e una madre a cui parlare e di cui aver cura. Tra gli uomini e la Natura, infatti, si era instaurato un dialogo costante. Durante le feste la gente parlava e cantava agli alberi; anche il vento parlava, sussurrando tra i rami degli alberi e tra le rocce. S'iniziava la giornata, o una qualsiasi attività, parlando al Sole, alla Luna e alle stelle, alle colline e alle caverne, agli alberi e ai fiori; l'Universo era identificato con gli elementi che consentivano la sopravvivenza. Non possiamo conoscere esattamente quali fossero le credenze, religiose e secolari, di una popolazione vissuta tanti secoli fa, ma sappiamo, attraverso le fonti scritte del periodo coloniale, che gli elementi erano personificati, erano loro attribuiti dei nomi ed erano adorati in quanto facenti parte della Natura. In effetti, le divinità erano spesso espressioni di fenomeni naturali; per esempio, il dio Xiuhtecuhtli ('il Signore Turchese'), personificava le fiamme, mentre l'acqua era chiamata Chalchiuhtlicue ('Colei che indossa la veste color giada'), perché rendeva la terra verde come la giada.

Come in tutte le società agricole, la terra, l'acqua e le stagioni occupavano un posto importante nella vita e nel pensiero degli Aztechi. La conoscenza dei corpi celesti e dei loro movimenti, che annunciavano l'arrivo della stagione piovosa (da giugno a settembre) al termine di quella asciutta (da ottobre a maggio), regolava i cicli agricoli determinando il tempo della semina e quello del raccolto che doveva provvedere al sostentamento generale, il tempo della caccia e persino quello della guerra. Inoltre, gli Aztechi possedevano una profonda conoscenza della flora e della fauna, la cui documentazione oggi si rivela un utile strumento per ricostruire la grande diversità biologica ‒ maggiore persino di quella attuale ‒ che esisteva in Messico nel periodo preispanico. Nei miti e nelle credenze, gli Aztechi operavano una sintesi tra la loro conoscenza della Natura, basata sull'osservazione diretta, e le loro idee relative al funzionamento del Cosmo; dopo tutto, ancora oggi è questo il compito fondamentale della scienza.

Il territorio: il concetto di Terra e le sue caratteristiche

Il sistema di classificazione, o sistema tassonomico azteco, è molto complesso e rivela un ingegnoso intreccio di elementi linguistici, naturali e concettuali. Gli Aztechi concepivano lo spazio ‒ tanto quello terrestre quanto quello celeste ‒ e tutto ciò che si trovava al suo interno, in un modo visivo, individuando cioè delle analogie sulla base della percezione di una somiglianza fisica. Per esempio, essi definivano gli oggetti rotondi come le uova o le pietre aggiungendo il suffisso qualificativo -tetl al loro numero, mentre nel contare tortilla, pezzi di stoffa, stuoie di canna oppure altri oggetti strutturati in file o in livelli sovrapposti, si aggiungeva il suffisso -ipilli. Il suffisso -tlamantli, invece, era impiegato per contare i sermoni, le scarpe, la carta, i piatti e i granai, come pure i cieli o i livelli celesti.

Nell'Universo azteco vi erano nove livelli terrestri e tredici celesti. Sulla sommità si trovava Omeyocan, 'il Luogo della Dualità', dominato dalla coppia creatrice formata da Tonacatecuhtli e Tonacacihuatl, 'il Signore e la Signora del Nostro Sostentamento'. Quest'ordine includeva anche Tlalticpac, 'la superficie della Terra', e Mictlan, 'la Terra dei Morti'. Si credeva infatti che lo spirito umano, dopo la morte, intraprendesse un arduo viaggio attraverso questi regni per raggiungere infine Mictlan, il luogo del riposo.

Nella Historia de México, che risale al XVI sec., è narrata la creazione del mondo dal corpo di Tlaltecuhtli, un grande coccodrillo che galleggiava su un mare immenso. Un giorno due divinità, Quetzalcoatl e Tezcatlipoca, decisero di creare la Terra, così afferrarono Tlaltecuhtli e lo strapparono in due parti. Sollevarono una metà in alto, ed essa divenne il cielo; l'altra metà fu invece la Terra. Le altre divinità, afflitte a causa di questo smembramento, con le parti del suo corpo crearono i mezzi di sostentamento per l'umanità: alberi e piante dai capelli, fiori ed erbe dalla pelle, sorgenti e grotte dagli occhi, fiumi e grandi caverne dalla bocca, valli e montagne dal naso.

L'antica popolazione messicana classificava il territorio metodicamente, a partire dalle caratteristiche che potevano giovare alle sue attività, soprattutto all'agricoltura. Tra i criteri impiegati dagli Aztechi per la classificazione del territorio erano incluse la geografia, la qualità del suolo, la presenza di laghi o fiumi, e la condizione che l'attività a cui finalizzarlo fosse ben accetta alla divinità tutelare. Un gruppo di cacciatori, per esempio, avrebbe potuto stabilirsi soltanto in una zona in cui i conigli e i cervi fossero stati numerosi, perché il dio della caccia, Camaxtli, esigeva offerte periodiche di selvaggina.

In nahuatl, tlalli significa 'terra', e gli agricoltori e la gente che lavorava la terra dovevano semplicemente aggiungere un prefisso a questa parola per definirne le qualità. Sahagún descrive quarantacinque varietà di suolo, distinte in base a qualità come la sostanza, la struttura, la consistenza, il colore, la posizione topografica o l'utilità. La parola tetlalli veniva impiegata, per esempio, in riferimento a un terreno pietroso (te-tl, 'pietra'), non adatto alla coltivazione; xalalli (da xal-li, 'sabbia') significava invece terreno sabbioso, poco produttivo, povero di sostanza. I suoli che contenevano resti di canne decomposte, che erano usate come fertilizzante, erano chiamati tollalli (da toll-in, 'canna'), mentre tlal-coztli (da coztic, 'giallo') era il nome dei terreni gialli considerati particolarmente fertili. Allo stesso modo, toctli stava a indicare la 'terra naturalmente fertile', mentre atoctli (da a-tl, 'acqua') era il terreno fertilizzato dall'acqua che lo inondava rendendolo in tal modo produttivo per l'agricoltura.

La popolazione si rivolgeva alla terra, il suolo produttore di beni, anche con una serie di titoli onorifici che si riferivano ai suoi innumerevoli poteri. Essa era chiamata Monantzin ('Vostra Madre') perché le piante grazie alle quali l'umanità viveva erano create nel suo grembo; era anche definita Tlalli yiollo ('Cuore della Terra'), Toci ('Vostra Nonna'), Tonan ('Nostra Madre'), e Teteoinnan ('Madre degli dèi'). La terra era anche la Madre del Mais, i cui fratelli erano i temporali che scendevano su di lei per fertilizzarla. Tra i molti nomi che le venivano attribuiti vi era inoltre quello di Principessa Terra, con cui le si rivolgevano i coltivatori, i quali, prima della semina, intonavano un incantesimo. Come ci riferisce Ponce de León: "Madre nostra, desideriamo penetrare la tua superficie e conficcare le vanghe dentro di te" (Tratado de los dioses y ritos de la gentilidad, ed. Garibay, p. 126).

I tratti caratteristici dell'ambiente naturale, le colline, le montagne, i vulcani e le caverne erano considerati con un particolare rispetto. I pendii delle colline, tepetlalli (da tepe-tl, 'collina, montagna'), erano stati inseriti dagli Aztechi nelle classificazioni del terreno e poi inclusi nell'elenco redatto da Sahagún dei luoghi che si trovano in alto, in basso, in piano e in pendenza. La popolazione attribuiva alle montagne nomi descrittivi; così, Iztaccihuatl ('la Donna Bianca') è un vulcano coperto di neve che si trova vicino al lato orientale di Tenochtitlan (oggi Città del Messico) e con questo nome s'identificava anche la dea che si riteneva vivesse al suo interno in una caverna. Accanto a esso vi è Popocatepetl ('la Montagna Fumante'), mentre Matlalcueye, che si trova a oriente, era 'Colei che indossa la veste verde'.

Gli Aztechi chiamavano Madre sia le montagne sia i laghi. Si riteneva che le montagne fossero piene d'acqua, come giare, o fossero simili all'utero femminile; a volte, infatti, soprattutto durante i terremoti, si poteva osservare l'acqua sgorgare dalla parte inferiore di una collina. Molte città erano situate vicino alle montagne, poiché si credeva che queste fossero dei protettori naturali; la presenza in uno stesso luogo di montagne e del prezioso liquido significava sicurezza. Al pari delle montagne, sia le colline sia i laghi e i fiumi erano così favorevoli agli insediamenti umani che una città venne chiamata altepetl ('collina piena d'acqua'). Le montagne e i vulcani erano rispettati, temuti e amati, tanto che gli Aztechi dedicavano loro una festa mensile nel ciclo rituale. Durante il Tepeilhuitl, la festa della 'Montagna Cielo', erano modellate con la pasta d'amaranto immagini di montagne dalla forma umana vestite con abiti di corteccia, i cui lineamenti erano plasmati con semi e con gomma liquida; queste piccole sagome di montagne erano disposte sugli altari all'interno delle case, dove si celebravano cerimonie in loro onore. Le immagini del Popocatepetl e dell'Iztaccihuatl, i due vulcani che dominano il Messico centrale, erano poste nel centro, circondate da altre montagne e vulcani come, per esempio, il monte Tlaloc e Matlalcueye. Alla fine del periodo della festa le figure d'amaranto erano decapitate e mangiate; si credeva infatti che la pasta d'amaranto, resa sacra attraverso i riti, curasse le malattie. Così nel XVI sec. Durán scriveva riguardo al Messico e al Popocatepetl:

Il Messico è un paese in cui la terra trema continuamente e dove le montagne spesso gettano fumo. Il Popocatepetl è un vulcano ancora attivo; esso rumoreggia, borbotta, emette fumo ed erutta cenere e rocce da talmente tanti secoli che coloro che oggi vivono sui suoi declivi, così come ‒ da tempo immemorabile ‒ i loro antenati, sentono queste manifestazioni come parte del loro patrimonio. Nei tempi antichi questa montagna era venerata dagli indigeni come la più importante delle montagne, specialmente da quelli che si trovavano nelle sue vicinanze o sui suoi pendii. Sia per il clima che per altre piacevoli caratteristiche è la più bella zona del paese. Anche se i suoi declivi sono disagevoli, a causa del susseguirsi di precipizi, e il terreno è estremamente irregolare, essa è densamente popolata ed è sempre stato così, per via delle ottime acque che nascono dal vulcano. […] Più sono vicini [al vulcano], più raccolgono con anticipo [i frutti e il grano] e più questi sono saporiti. […] Per queste ragioni la popolazione venera [la montagna] e la tiene in grande stima. (Book of the gods and rites and the ancient calendar, p. 255)

Le popolazioni dell'altopiano del Messico centrale, inclusi gli Aztechi, rispettavano dunque il vulcano e celebravano riti in suo onore. Ancora oggi gli abitanti del luogo, come una volta i loro antenati, considerano il Popocatepetl un membro della famiglia e chiamano la grande montagna Don Gregorio. Credono che questo personaggio mitico viva nel cono fumante e che sia la personificazione del vulcano stesso. Secondo loro egli intrattiene relazioni confidenziali con tutti i centri vicini e trascorre gran parte del suo tempo dormendo, tuttavia di quando in quando si alza e si rammenta di fare visita a questo o a quel villaggio. Così, sputando e fumando, si dirige verso un paese, a cui lascia in dono qualunque cosa gli accada di portare con sé, di solito lava e cenere. La popolazione gli è grata di queste attenzioni poiché sa che i doni di Don Gregorio, una volta raffreddati, renderanno i suoi campi molto più fertili. Allora tutti si recano in pellegrinaggio sui ripidi pendii per depositare offerte di ringraziamento e di propiziazione, e per evitare che Don Gregorio faccia loro visita troppo spesso.

Gli Aztechi ritenevano, assieme a sei altri gruppi etnici, di avere avuto origine in un luogo mitico della Creazione chiamato Chicomoztoc ('sette caverne') poiché la caverna era il simbolo dell'utero, il luogo delle origini; pensavano inoltre che tale luogo fosse il cuore di una montagna, il grembo della Terra. Tutte le caverne erano considerate luoghi sacri, siti in cui si svolgevano cerimonie e offerte. Secondo i miti, il Sole, la Luna, gli dèi e gli uomini erano stati creati nelle caverne, e queste ultime erano utilizzate come magazzini di semi e di altri alimenti. I semi del mais, infatti, venivano immagazzinati in una montagna chiamata Tonacatepetl ('la montagna della nostra sussistenza'), nella quale il dio Quetzalcoatl li custodiva per l'umanità.

L'acqua

Il mondo degli Aztechi, situato nel cuore dell'Impero nella zona nota come bacino del Messico, era un mondo acquatico. La struttura del bacino, costituito da un altopiano circondato da vulcani, favorì la formazione di cinque laghi, oggi pressoché scomparsi, due salati (il Texcoco e lo Xaltocan), due d'acqua dolce (lo Xochimilco e il Chalco), e uno metà dolce e metà salato (il lago Zumpango).

La varietà ambientale di questa zona acquatica rese i laghi enormemente ricchi sia di flora sia di fauna. Tuttavia, questo ecosistema era apprezzato non soltanto per la complessità biologica e per il potenziale nutritivo, ma anche perché esso era un elemento fondamentale dell'identità degli Aztechi e delle loro origini mitologiche. Essi erano infatti chiamati anche atlaca ('la gente del lago') e chinampaneca ('gente del chinampa'). Nel periodo precedente al loro esodo, avvenuto nel XII sec., vivevano ad Aztlén, il 'Paese degli Aironi', un'isola che si trovava al centro di un lago in quello che ora è il Messico occidentale. Lì erano circondati da tutto ciò che un ambiente acquatico ricco può procurare ‒ pesci, crostacei, uccelli, piante acquatiche, animali che si abbeveravano alla riva del prezioso liquido ‒ e dall'acqua dolce, sempre disponibile per irrigare i campi coltivati. In questa situazione apparentemente ideale, una parte della popolazione, che venne in seguito chiamata mexica, era legata da un rapporto di vassallaggio ad altri gruppi associati, ai quali doveva consegnare la maggior parte dei frutti provenienti dalle attività che si svolgevano attorno al lago. In tal modo essa pativa la fame e l'umiliazione malgrado la ricchezza dell'ambiente acquatico. Alla fine questa condizione, o forse la siccità o altri urgenti motivi, spinsero la comunità mexico-azteca e altri sei gruppi prossimi a essa a emigrare in cerca di una vita migliore. La popolazione mexico-azteca fu l'ultima a partire; si diresse verso est, fermandosi periodicamente per seminare e per raccogliere, proseguendo poi nella ricerca di una terra promessa che doveva essere l'immagine speculare di Aztlén, un paese circondato dall'acqua.

La comunità mexico-azteca non perse mai di vista questa meta acquatica: la Terra Promessa era immaginata come un luogo pieno d'acqua, ricco di vegetazione acquatica e di animali. Durante la migrazione, il dio dell'acqua e della terra, Tlaloc, aveva accolto come un figlio Huitzilopochtli, la divinità tutelare, o guida, della comunità mexica, e gli aveva detto che il luogo del grande lago sarebbe stato la loro dimora. Giunti nel bacino del Messico, gli Aztechi finalmente trovarono l'oggetto della loro ricerca; le rive e le montagne che circondavano questa ricca area, però, erano già occupate. Dopo aver affrontato molte avversità, il gruppo mexico-azteco si stabilì su una piccola isola insignificante, che gradualmente, e con molta fatica, trasformò nella grande Tenochtitlan, la capitale del più grande Impero dell'America Centrale.

Questo ambiente acquatico non solo riproduceva l'immagine del paese d'origine idealizzato, Aztlén, ma forniva anche le basi della sopravvivenza. Nel lago e attorno a esso si trovava una stupefacente varietà di prodotti alimentari (animali, piante, insetti, alghe, messi coltivate) e di materiale da costruzione. La parte salata del lago veniva intensamente sfruttata per il sale stesso e per le alghe che vi si trovavano; le acque salate inoltre erano la dimora di Huixtocihuatl, la sorella dei tlaloque, gli dèi della pioggia e dell'acqua. Essa era la dea del sale e al tempo stesso la raffigurazione dell'acqua salata.

Spirulina geitlerii, anch'essa proveniente dal lago salato, è un'alga dal ricco contenuto proteico riscoperta soltanto nel XX secolo. Conosciuta in nahuatl col nome di tecuitlatl, derivante dalle parole che designavano le pietre rotonde (tetl) e gli escrementi (cuitlatl), a causa dell'aspetto verdastro e melmoso che assumeva quando galleggiava sulla superficie del lago, la spirulina era raccolta dai pescatori. Essi l'accumulavano in reti finemente intrecciate e la modellavano in forma di palla, poi l'essiccavano e ne facevano focacce che erano fatte a pezzi e mescolate a pomodori, a peperoni piccanti o a erbe. I primi cronisti spagnoli paragonavano questi pani o focacce al formaggio.

I laghi d'acqua dolce (Xochimilco e Chalco) fornivano agli Aztechi mezzi di sussistenza ancora più diversificati; molte specie animali (cervi, conigli, lepri) giungevano infatti al lago per abbeverarsi o venivano da lontano per godere degli inverni miti e dell'abbondante cibo fornito dalla regione. Nei laghi vivevano inoltre numerose specie di uccelli e di pesci. È evidente quindi come in questo ricco ambiente acquatico vi fosse cibo in abbondanza per tutte le classi, tanto per i nobili (pipiltin) quanto per il popolo (a cui veniva attribuito il nome di macehualtin).

Allo stesso tempo, il lago era coltivato intensivamente con il sistema delle chinampa, chiamate anche comunemente, ma erroneamente, 'isole galleggianti'. L'impiego delle chinampa nell'agricoltura risale a un periodo antecedente agli Aztechi, i quali lo appresero da culture più antiche, e rappresenta una della grandi conquiste della scienza preispanica; ancora oggi si possono rinvenire testimonianze di questo sistema a Xochimilco, all'estremo sud di Città del Messico. Si costruivano piattaforme rettangolari, separate da stretti canali, distendendo sul basso fondale del lago pali di legno ricavati dai salici del luogo, dai quali in breve tempo nascevano radici che formavano strati compatti e che, successivamente, erano coperte col denso fango del fondale; irrigate abbondantemente, le chinampa erano estremamente fertili, giungendo a produrre fino a sette raccolti all'anno grazie alla preparazione del suolo per la semina e alla rotazione delle colture. Nel XVI sec. Durán descrisse anche il sistema di coltivazione del mais nelle chinampa in uso presso gli Aztechi. Egli narra di indigeni in canoa impegnati a costruire piattaforme di terreno sulla superficie dell'acqua, su cui seminavano e raccoglievano le piante destinate all'alimentazione ed elenca i vari tipi di campi di mais, alcuni già pronti per il raccolto, altri quasi maturi, altri ancora con i chicchi appena germogliati e infine quelli che erano stati appena seminati (The history of the Indies of New Spain, p. 222).

Le rive del lago, in modo particolare le aree di acqua dolce, erano paludose e ricche di vegetazione acquatica costituita soprattutto da canne, giunchi e tife. Le piante acquatiche nel bacino erano così numerose, soprattutto nelle zone d'acqua dolce, che la parola tule ('giunco') divenne un sinonimo di metropoli e fu incorporata in diversi nomi di città. La palude coperta di canne era un rifugio e una fonte di cibo per le anatre, per altri volatili e animali diversi, e persino per gli uomini; inoltre, le radici di alcune specie di canna erano commestibili. Oltre a essere utili per le costruzioni e in alcune arti minori quali la fabbricazione di canestri, di strumenti musicali e di mobilio, le canne e i giunchi svolgevano un ruolo così importante nell'economia che divennero i simboli del potere. La stuoia di canna era un'immagine metaforica della sovranità; i sovrani aztechi erano infatti raffigurati su troni dall'alto schienale sovrastati da un baldacchino fabbricato intrecciando le lunghe fibre di un particolare tipo di canna. Le stuoie di canna erano anche importanti luoghi simbolici di alcuni riti di passaggio, quali la nascita, il matrimonio e la morte; per esempio, vi si sedevano le giovani coppie durante la celebrazione del matrimonio e su di esse si posavano i bambini appena nati. La divinità azteca Nappatecuhtli, uno dei tlaloque o dèi dell'acqua, era la patrona di coloro che lavoravano la canna.

Nymphaea mexicana, o giglio d'acqua, era un'altra pianta acquatica molto comune ed è raffigurata con le sue larghe foglie e i suoi fiori in alcuni dipinti delle più antiche città del bacino del Messico, come Teotihuacan. Oltre ai gigli acquatici, vi erano altre piante galleggianti, come Nymphaea fallax ‒ i cui fiori gialli erano molto appetiti non soltanto dagli animali ma anche dagli uomini ‒ e una considerevole varietà di piante Fanerogame.

La flora

Il Messico e l'America Centrale sono una delle aree del mondo in cui esiste la maggiore varietà di piante. Attualmente, si stima che la flora messicana annoveri circa 220 famiglie, 2410 generi e 22.000 specie. Il 10% circa dei generi e il 52% delle specie sono endemiche, cioè esistono esclusivamente in Messico, ma è una stima per difetto e potrebbe probabilmente essere aumentata del 10%. L'endemismo è più pronunciato nella macchia xerofita, nelle praterie e a livello delle specie: delle 300.000 specie di piante esistenti nel mondo, 30.000 si trovano nel bacino del Messico, la cui posizione geografica, che si estende su entrambi i lati del Tropico del Cancro, crea le condizioni ottimali per una considerevole eterogeneità ambientale. Metà del territorio del Messico si trova, infatti, in una zona in cui il clima è caldo e umido, mentre l'altra metà fa parte di una regione arida nella quale le temperature tendono a divenire estreme. La diversità delle condizioni climatiche, che oscillano dal caldo al temperato, al freddo, al moderatamente secco fino al secco, ha favorito la varietà delle specie vegetali e animali; varietà che dipende anche da un altro importante fattore, il carattere montuoso dell'intero paese, che è il risultato della sua complessa storia geologica.

Il mais, i fagioli e la zucca costituiscono da sempre i tre alimenti base della dieta messicana; tuttavia, per quanto riguarda il periodo preispanico, a essi bisogna aggiungere anche l'amaranto, il peperone piccante e i pomodori. Il sistema di semina e di raccolta nelle chinampa dei frutti della triade alimentare di base aveva una grande importanza: piantando frequentemente l'uno accanto all'altro il mais, i fagioli e le zucche si favoriva infatti in modo del tutto naturale il potenziamento del raccolto in quanto i fagioli e gli altri legumi fissano biologicamente l'azoto e lo rendono disponibile nel suolo come fertilizzante. Questo accostamento facilitava inoltre la riduzione dei danni provocati dagli insetti, tanto che recentemente è stato consigliato come mezzo per diminuire l'uso dei pesticidi.

Di solito l'amaranto era piantato contemporaneamente al mais, a poca distanza dai semi di quest'ultimo; poiché la sua crescita procedeva molto più in fretta, era pronto per essere raccolto come verdura commestibile prima di poter interferire con la raccolta del mais.

Il mais è il pilastro della dieta messicana; la varietà più antica o teosinte (Euchlaena mexicana) era l'antenato selvatico del mais coltivato (Zea mays). Si ritiene che il teosinte risalga a un periodo compreso tra 9000 e 7000 anni fa, mentre la coltivazione del mais è stata recentemente datata a 4500 anni fa basandosi sullo spettrometro di massa. Per quanto riguarda l'epoca azteca, Bernardino de Sahagún identificava molti tipi diversi di mais distinguendoli in base al colore, come ‒ per esempio ‒ iztac tzintli o olotl tzintli ('mais bianco'), che cresce sui terreni irrigati e in modo particolare nelle aree coltivate col sistema delle chinampa. Tra gli altri egli citava il mais giallo, il mais rosso peperoncino, il mais azzurro-verde, il mais marrone scuro o nero e il mais screziato. Gli Aztechi mangiavano il mais sotto forma di tortilla (farina di granturco lavorata in strati sottili), di atole (una farinata semiliquida di mais), e di tamale (pasta di farina gialla avvolta in foglie di mais). Esso era usato nella preparazione di questi alimenti dopo essere stato sottoposto a un processo di calcinazione, che prevedeva l'immersione dei semi in una soluzione composta dal 5% di ossido di calcio (CaO) e da acqua calda. Questo trattamento accresceva in modo significativo il valore nutritivo del mais, elevandone il contenuto di calcio, di niacina e di proteine. La scoperta di questo processo, i cui sviluppi richiedono un lungo periodo di osservazione e di sperimentazione, e i cui benefici non sono immediati, rappresenta una grande conquista scientifica azteca.

Come tutti gli elementi naturali, anche questo cereale era divinizzato; gli veniva attribuito il nome di Tonacatl ('la nostra carne'), ed era trattato con grande rispetto. Secondo una tradizione preispanica centroamericana, le divinità creatrici avrebbero plasmato i primi uomini col mais. A esso molto spesso era attribuita un'identità femminile e alle sue differenti fasi di crescita erano associate divinità diverse. Jilote o Xilotl (la giovane e tenera spiga del mais verde) era divinizzata nella dea Xilonen, sempre rappresentata come una fanciulla. Vi era poi la dea dell'appetitoso mais maturo, Chicomecoatl ('Sette Serpenti'), il cui nome si riferiva alla data di nascita che il calendario le assegnava. Cinteotl ('il divino mais') era invece la divinità maschile associata al mais; egli era figlio di Xochiquetzal, la dea dei fiori e delle piante in generale, e del dio della vegetazione Piltzintecuhtli Xochipilli, la loro fertile unione in una grotta sotterranea era una metafora della fecondità dell'agricoltura. Gli Aztechi (come oggi i Messicani) apprezzavano anche un altro prodotto del mais, lo huitlacoche, noto come 'fungo del mais', il delizioso fungo commestibile grigio, nero e bianco, simile a un'escrescenza. La dea dello huitlacoche era Atlantonan, la protettrice dei lebbrosi, forse a causa della sua associazione con ciò che veniva considerato deturpato. La raffigurazione di queste divinità nell'arte e nelle interpretazioni rituali che avevano luogo durante le feste era altamente simbolica; esse erano riconoscibili dai costumi, dai colori dipinti sul viso e sul corpo e dagli oggetti che portavano in mano. Le dee della vegetazione, in modo particolare quelle del mais, avevano sempre una o due piume sul capo che rappresentavano la barba della pannocchia. Sul copricapo era spesso annodato un nastro rosso che ricordava l'inizio della stagione del raccolto. Nel periodo che precedeva la raccolta del mais questo nastro appariva tra gli ornamenti di Xilonen e, nei riti in suo onore, una giovane donna con gli attributi della dea ne diveniva l'immagine vivente e alla fine era sacrificata. Prima le veniva tagliato il nastro assieme a una parte dei capelli, i quali simboleggiavano la barba o ciuffo del mais, poi veniva decapitata, come una spiga di mais recisa dal gambo. Riti analoghi erano celebrati anche in onore di Chicomecoatl, la dea del mais maturo.

Il mais era così importante che nei campi venivano celebrati riti propiziatori per ottenere un raccolto abbondante. Secondo Durán, i coltivatori, prima di seminare, in base a un tipico rituale della semina e della mietitura, portavano con sé bracieri di incenso di copale con cui irroravano tutto il campo. La raffigurazione di una divinità, di solito Cinteotl, era posta in mezzo al campo e riceveva l'incenso e il caucciù, come pure le offerte di cibo e di pulque, per garantire il buon esito del raccolto.

La carta ricavata dalla corteccia del fico del Messico era tagliata a strisce e cosparsa di gomma liquida, di sangue e di fiori, per ottenere un'offerta gradita agli dèi, in particolare a quelli della vegetazione, dell'acqua e dell'abbondanza. Anche in occasione dell'immagazzinamento dei semi si svolgevano cerimonie analoghe; i semi di mais e quelli di altre piante erano posti in un canestro insieme al piccolo simulacro di una divinità e depositati in un granaio, un'enorme struttura simile a un vaso del tipo di quelle visibili ancora oggi in alcune zone della campagna messicana. Lo scopo del rituale era di proteggere il mais immagazzinato dai roditori, dagli insetti e da altri flagelli.

Anche la coltivazione dei fagioli, secondo alimento base della dieta messicana, è molto antica: Phaseolus acutifolius (tepari) è coltivato nel Messico centrale da 5000 anni, e in altre zone da 1000 o 1200 anni. Sono state enumerate, per il Messico, ben 37 varietà di fagioli, delle quali le più importanti nella regione centromessicana sono Phaseolus vulgaris e Phaseolus cochineas o ayacote. Il mais e i fagioli costituivano una dieta quasi perfetta, ma dovevano essere integrati col peperoncino piccante, col pomodoro e con altri alimenti; la deficienza di niacina e di lisina del mais è infatti compensata dall'associazione con i fagioli o con l'amaranto, come si usava fare anticamente in Messico. Mescolare il mais con i fagioli era così importante che in alcuni periodi dell'anno divenne un rituale; all'inizio della stagione delle piogge, che oggi comincia all'incirca a giugno, le piante del mais e dei fagioli erano cresciute abbastanza per poter essere mangiate assieme. Per celebrare quest'evento, gli Aztechi allestivano una grande festa chiamata Etzalcualiztli, che significa 'mangiare il mais cucinato con i fagioli'. Nello stesso tempo, la popolazione osservava la ricorrenza nota con il nome di 'Riposo degli strumenti servili', durante la quale si recava nei campi e onorava gli attrezzi agricoli, offrendo loro omaggi alimentari.

Le Cucurbitacee, il terzo membro dell'antica triade alimentare messicana, sono un gruppo di piante composto soprattutto da zucche; fanno parte di questa famiglia 90 generi e circa 800 specie diffuse in varie zone della Terra. Originarie del nuovo mondo, sono conosciute come zucche o meloni, e le più piccole oggi sono chiamate zucchine o zucche estive. Esetium edule, oggi noto col nome di chayote, e Cucurbita maxima o morshata, una zucca rossastra dalla forma sferica, comparivano molto di frequente nella dieta azteca. Anche i fiori della zucca, che sbocciavano durante la stagione delle piogge, erano considerati un cibo prelibato.

La dieta messicana ormai da migliaia di anni prevede l'uso di peperoncini piccanti come spezie. Le più antiche testimonianze sull'uso del peperoncino sono venute alla luce durante gli scavi nel sito di Tehuacan e risalgono a un periodo che va dal 7000 al 5000 a.C. Il peperoncino, Capsicum annuum, è stato probabilmente la prima pianta coltivata in Messico. La maggior parte delle varietà appartiene al genere Capsicum, che presenta un'ampia gamma di colori e di aromi; sono state elencate 149 varietà di peperone piccante messicano, ciascuna col suo nome (alcune sono in effetti sempre le stesse, ma sono chiamate in modo differente nelle diverse zone del paese). Le cronache del Conquistatore Anonimo, apparse nella seconda metà del XVI sec., affermavano che gli Aztechi usavano come condimento un tipo di peperoncino chiamato chile con il quale accompagnavano tutti i cibi (The chronicle of the Anonymous Conquistador, p. 172). Oltre alle proprietà aromatizzanti, il peperoncino aveva anche qualità medicinali ed era impiegato, a quanto sembra, come sedativo; esso era così importante che gli Aztechi lo richiedevano come tributo, in modo particolare le varietà reperibili esclusivamente nelle pianure tropicali.

L'amaranto (Amarantus hipochondriacus e Amarantus cruentus), come già detto, era un altro importante componente della dieta azteca, tanto che appare ripetutamente negli elenchi dei tributi destinati alla capitale. Nel seme di amaranto la parte proteica è pari al 16-18%, con un alto contenuto di lisina, un amminoacido di cui gli altri semi sono di solito carenti. In alcune regioni questa pianta aveva la stessa importanza del mais, a cui era spesso mescolata e che sostituiva nella preparazione dei tamale, dell'atole e delle tortilla. Le foglie tenere dell'amaranto erano preparate pressappoco nello stesso modo in cui oggi cuociamo gli spinaci, ma il seme era la parte più frequentemente utilizzata; la sua importanza era così grande da essere considerato il corpo degli dèi. I semi di questa pianta ricca di proteine erano infatti macinati e mescolati fino a formare una pasta chiamata huauhtli o tzoalli, con la quale gli Aztechi modellavano immagini degli dèi durante alcuni rituali, per esempio in occasione della festa Tepeilhuitl precedentemente citata. Secondo Bernardino de Sahagún, nel giorno della festa Panquetzaliztli, il corpo della divinità protettrice degli Aztechi, Huitzilopochtli, era plasmato con questa pasta, a cui talvolta si aggiungevano mais macinato, salvia, sangue umano e miele scuro di agave (Florentine Codex, III, p. 5). L'immagine di pasta era ritualmente uccisa, spezzettata e poi mangiata dagli officianti. Successivamente alla conquista, tuttavia, l'uso alimentare dell'amaranto divenne molto meno diffuso, probabilmente a causa del timore del clero che, considerato il suo uso rituale così simile a quello del sacramento dell'eucaristia nel rito cattolico, temeva di perpetuare le pratiche indigene 'eretiche'.

Anche il pomodoro, di cui vi erano svariati tipi, tutti appartenenti alla famiglia delle Solanacee, costituiva un ingrediente assai rilevante nell'alimentazione azteca. C'erano pomodori rossi, come lo xitomatl (Lycopersicum esculentum), e verdi (Physalis ixocarpa), una varietà dei quali è il miltomatl, o pomodoro dei campi di mais. Gli Aztechi usavano fondamentalmente il pomodoro verde, che tostavano per rimuoverne la pelle simile a carta, e di cui poi tritavano la polpa fino a farne una salsa. Il cronista del XVI sec. Juan Bautista Pomar (1530 ca.-fine XVI sec.) scrive, tra l'altro, dell'importanza del pomodoro, soprattutto sotto forma di salsa, e benché fosse un frutto lo include nell'elenco dei vegetali inviato in Europa (Relación de Tezcoco, p. 63).

In Messico vi sono più di 100 varietà di Opuntia che vengono coltivate non soltanto per le foglie, commestibili una volta rimosse le spine, ma anche per i frutti che crescono attorno alla foglia, piccoli e dalla forma simile a quella di una pera. Gli Aztechi mangiavano in molti modi il nopal o fico d'India (Opuntia ficus indica); esso costituì a lungo il sostentamento vitale, soprattutto durante gli anni difficili della migrazione da Aztlén al bacino del Messico, e fu così che entrò a far parte della storia e del mito divenendo elemento costitutivo dell'emblema della fondazione di Tenochtitlan. Questo emblema, in cui è raffigurata un'aquila appollaiata su un fico d'India che stringe un serpente nel becco, commemora uno dei segni profetizzati da Huitzilopochtli, che doveva indicare il luogo dove il suo popolo, dopo una lunga migrazione, avrebbe alla fine fondato la capitale.

Gli Aztechi coltivavano per diversi usi anche un'altra pianta, l'agave, spesso erroneamente assimilata a un cactus. La famiglia delle Amarillidacee comprende otto generi e circa 350 specie. Il genere Agave, da cui derivano due sottogeneri, Littaea e Agave, è di capitale importanza per le popolazioni del Messico centrale. Alcuni reperti risalenti a 8000 anni fa, rinvenuti nella Caverna Terribile a Coahuila, nel Messico nordoccidentale, dimostrano l'antichità di questa pianta in quanto in questo luogo sono stati trovati resti diversi sotto forma di fibre, di foglie, di tessuti, di sandali e di corde. Nella grotta della Candelaria, a Coahuila, si scoprirono fibre tessili di Agave lechugia e di altre piante quali la iucca, e mummie umane avvolte in bende di agave. Nel Tehuacan, a Puebla, sono stati rinvenuti resti di diversi tipi di agave risalenti a un periodo compreso tra il 6500 a.C. e il 1500 d.C.

L'agave è sempre stata chiamata "l'albero delle meraviglie e dei miracoli", nome appropriato poiché è in grado di provvedere a quasi tutte le necessità della sopravvivenza. Essa ha inoltre un valore nutritivo anche sotto forma di idromele, il dolce succo estratto dalla sua polpa che era fatto fermentare e trasformato in pulque, una bevanda alcolica rituale. Con l'idromele si poteva preparare l'atole (una farinata semiliquida di mais) mentre il cuore della pianta, chiamato pina, era tagliato e mangiato; erano tostati e mangiati anche i vermi dell'agave rossa o bianca, una consuetudine, questa, che si è conservata fino ai nostri giorni. Dalle foglie dell'agave si ricavavano fibre con cui s'intrecciavano corde e fili che erano usati per confezionare borse, cinture, tessuti, abiti e amache di buona qualità. Le grandi foglie piatte e spesse erano utilizzate per costruire tetti, tubi da drenaggio, recinti o muri per delimitare i terreni. Le foglie acuminate erano invece usate come forchette, aghi o spilli e la loro punta aguzza serviva per forare le orecchie, la lingua o altre parti carnose del corpo, o per versare il sangue che era offerto agli dèi. Sempre dall'agave si ricavavano una specie di sapone e fibre usate come ornamento o per costruire le sponde delle culle dei bambini; infine, era utilizzata nella fabbricazione della carta. L'importanza dell'agave era così grande che essa fu divinizzata in Mayahuel, la dea raffigurata nei codici illustrati come una parte della pianta.

Tra tutti i doni dell'agave, il pulque era forse il più importante per i rituali e la vita sociale azteca; si tratta di una bevanda con una bassa gradazione alcolica (circa il 5%), ottenuta come succo dai fusti recisi durante la fioritura. Esso è ricco di vitamine, specialmente di quelle appartenenti al complesso B, come pure di amminoacidi. Tuttavia, poiché era una bevanda tossica, gli Aztechi emanarono leggi per limitarne il consumo in particolar modo durante lo svolgimento delle feste rituali; era consentito bere soltanto agli adulti che avevano figli già grandi, e preferibilmente agli anziani, perché si temeva che gli altri venissero meno ai loro doveri. Vi erano molti dèi del pulque, il più importante dei quali era Ome Tochtli ('Due Conigli'); il coniglio era un simbolo del bere, e dire che qualcuno "era preso dal coniglio" significava dire che era completamente ubriaco. Talvolta il pulque era sostituito da Amanita muscaria, un fungo allucinogeno. In nahuatl questo fungo era chiamato teonanacatl, che significa 'fungo divino' o 'carne degli dèi'. Esso era uno stimolante estremamente importante ingerito in occasione delle feste rituali, non veniva però consumato insieme al pulque perché la loro combinazione sarebbe stata troppo pericolosa. Quando le feste erano terminate, i nobili mangiavano i funghi crudi e sotto il loro influsso avevano visioni e rivelazioni sul futuro.

L'unica bevanda che, secondo le testimonianze, poteva essere consumata liberamente durante i banchetti rituali era il cioccolato. L'albero che produceva il frutto del cacao (Theobroma cacao) cresceva soltanto ai tropici, in particolare nelle aree costiere, perché bisognoso di un clima caldo per svilupparsi rigogliosamente; i suoi semi, noti come fave, giungevano nel bacino centrale attraverso il commercio o come tributi ed erano un prodotto raro e squisito estremamente apprezzato, consumato esclusivamente dall'élite azteca. Essi venivano macinati assieme ad altri semi e la polvere così ricavata era posta in recipienti provvisti di beccuccio cui si aggiungeva l'acqua; il liquido così ottenuto veniva mescolato con un cucchiaio e versato da un vaso all'altro fino a divenire schiumoso. A volte il cioccolato era dolcificato con il miele o con la vaniglia, o mescolato al mais, ai semi macinati di ceiba (Ceiba pentandra) e persino al peperoncino. Per favorire il riposo del nobile azteco e per distrarlo dai suoi numerosi doveri verso lo Stato, si aggiungevano spesso al suo cioccolato fiori di eloxochitl (Magnolia schiedeana) o di altre piante.

Il cacao non era semplicemente un cibo e una bevanda rara e squisita, ma svolgeva anche la funzione di moneta. Nei mercati di Tenochtitlan e nella città gemella Tlatelolco, si potevano usare le fave del cacao per acquistare una qualsiasi merce in vendita e persino gli schiavi. Nei magazzini del sovrano Motecuhzoma II Xocoyotzin (1466-1520) erano depositati quarantamila sacchi di cacao, contenenti 960 milioni di fave, che facevano di lui un uomo veramente ricco. I sontuosi banchetti, una componente importante della vita dell'aristocrazia azteca, terminavano con una tazza di cioccolato schiumoso e con una pipa di tabacco. Bernal Díaz del Castillo (1495-1581) descrive come Motecuhzoma II Xocoyotzin finisse abitualmente i suoi banchetti aspirando il fumo da piccole canne riempite di liquidambar mescolato a tabacco, dopodiché si stendeva e si addormentava subito (The true history of the conquest of Mexico, p. 173). Il genere Nicotiana, a cui appartiene la pianta del tabacco (Nicotiana tabacum), è un membro della famiglia Solanacee; Nicotiana rustica è invece un tabacco selvatico, originario dell'America Centrale e successivamente diffuso verso il Nord. Il tabacco non era fumato soltanto alla fine dei pasti, ma aveva un ruolo importante nella religione, nei rituali e nella medicina. Poiché era considerato magico e si riteneva che fosse il corpo di Cihuacoatl, uno degli aspetti della dea madre degli Aztechi, il tabacco era invocato in quasi tutti gli incantesimi che onoravano gli dèi o gli elementi naturali. Esso era presente in tutti i generi di azioni rituali perché si pensava che il suo fumo purificasse tutto ciò con cui veniva a contatto. Il fumo di questa pianta sacra era inoltre una forma di comunicazione tra gli uomini e le divinità, e i sacerdoti abitualmente portavano appesa al centro della schiena una zucca piena di tabacco. Gli antichi Messicani usavano le sue foglie, a volte dopo averle macinate, anche come analgesico topico.

Nel mondo naturale degli Aztechi erano presenti molti alberi tra cui l'ocotl, una varietà di pino estremamente apprezzata per il suo legno resinoso, che era usato per le torce. Il cipresso gigante, Taxodium mucronatum, era conosciuto come ahuehuetl ('il vecchio del lago') perché non poteva vivere lontano dall'acqua, come del resto Salix babylonica, un tipo di salice piangente, e lo huejote o ahuejote (Salix bonplandiana). La popolazione del Messico centrale usava il legno di queste due ultime specie di alberi per fabbricare i pali che erano posati nel fango per costruire le chinampa. Gli alberi svolgevano un ruolo chiave nelle cerimonie poiché rappresentavano ‒ come gli altri componenti del mondo vegetale ‒ la Creazione, la vita e i mezzi di sussistenza. Come gli altri elementi naturali, tutto il mondo vegetale era considerato animato e sacro; certi alberi erano adorati come divinità e si offrivano loro preghiere e sacrifici. In alcune regioni si credeva che la stirpe umana fosse giunta sulla Terra attraverso le radici della ceiba, in altre si riteneva che gli alberi originariamente fossero stati uomini, così essi erano trattati come sacri antenati. Era un albero a tenere insieme la Terra e il Cielo, e vi era un albero in ciascuno dei quattro angoli del mondo. Anche le metafore del re, del governo o del maestro erano riferite agli alberi; un sovrano, per esempio, era paragonato al grande pochotl, la ceiba, o allo huehuetl, il cipresso gigante, perché questi alberi maestosi offrivano protezione e ombra a coloro che gli stavano vicini.

I giardini messicani erano veri orti botanici, in cui le piante erano classificate in modo scientifico; nei magnifici giardini dei sovrani, in modo particolare in quelli di Motecuhzoma II Xocoyotzin, vi era un settore che ospitava le piante medicinali ed era aperto al pubblico. Le piante esotiche erano ritenute così necessarie che si organizzavano spedizioni per acquistarle; Motecuhzoma I Ilhuicamina (1390 ca. -1469), per esempio, desiderava alcuni fiori che crescevano solamente nella zona di Oaxaca, così inviò i suoi soldati nel luogo che oggi si chiama Tlaxiaco per raccogliere i fiori allucinogeni tlapatl (Datura stramonium) dell'albero tlapalizquixochitl (Bourreria huanita).

Quando acquistavano piante esotiche, gli Aztechi portavano via dai luoghi d'origine anche i giardinieri che si dovevano prendere cura di esse. Questi consideravano sacro tale incarico e periodicamente celebravano cerimonie in onore della loro dea protettrice, Coatlicue, madre di Huitzilopochtli. Tra i più famosi giardini dell'epoca vi erano quelli del re Nezahualcoyotl di Tezcoco (1402 ca.-1470 ca.), come pure quelli di Iztapalapa e di Oaxtepec. Nezahualcoyotl limitò la quantità di ciò che poteva essere raccolto nei suoi giardini e pretese che tutto fosse registrato con cura, istituendo così una forma rudimentale di controllo ecologico.

L'elenco delle piante e dei fiori considerati fondamentali dagli Aztechi è veramente lungo. Erano necessarie enormi quantità di fiori per le festività mensili e per i bisogni quotidiani dei signori e dei nobili che li portavano indosso come segno di prestigio; inoltre, molti fiori erano impiegati nella medicina e nell'industria tradizionale. Tra i più ricercati figuravano la dalia (Dahlia cochinea), che oggi è il fiore nazionale; il cempoalxochitl, il garofano indiano (Tagetes erecta), tuttora usato nelle cerimonie del giorno dei morti; la 'mano del diavolo' o macpalxochitl (Chiranthodendron pentadactylon), che era ricercato sia come segno di magnificenza sia per le sue proprietà medicinali e infine il chimalxochitl o elianto, oggi più noto col nome di girasole (Helianthus annuus), che era il simbolo del prigioniero di guerra. I fiori svolgevano inoltre un ruolo nell'economia; gli artigiani aztechi, per esempio, utilizzavano un collante ricavato dal bulbo del tzacuhtli, un'orchidea, per realizzare mosaici lapidari e oggetti di metallo. La più importante divinità dei fiori era Xochiquetzal ('Fiore prezioso'), la dea della vegetazione.

Per concludere, la vegetazione e in particolar modo i fiori rappresentavano una forma di comunicazione metaforica tra gli uomini e gli dèi, contribuivano a soddisfare la sensibilità estetica della popolazione e il suo bisogno di sicurezza e sotto forma di tributo riflettevano il controllo del territorio e assumevano, infine, un ruolo simbolico nel mantenimento del potere e del governo.

La fauna

I mammiferi più venerati erano il giaguaro messicano (Panthera orca) e il cane. Nel mito, nei simboli e nell'arte, l'ocelot (Felis pardalis) e il puma (Felis concolor) erano frequentemente raffigurati con gli stessi attributi del giaguaro; però quest'ultimo, denominato 'tigre' nelle cronache, si distingueva per le macchie a forma di petalo. Apprezzato per il suo coraggio, esso veniva chiamato "il principe e il signore degli altri animali" e il suo nome fu attribuito a uno dei più importanti ordini militari. Il giaguaro era considerato anche una delle manifestazioni dell'onnipotente dio Tezcatlipoca, sotto la forma di Tepeyollotl ('Cuore della montagna'), perché era associato alle grotte e all'oscurità e le sue macchie erano considerate un riflesso del cielo notturno.

Il cane americano, invece, noto col nome di itzcuintli (Canis familiaris), era una specie priva di pelo abitualmente allevata per essere mangiata. Al tempo stesso, il cane svolgeva un importante ruolo simbolico quale accompagnatore dei morti; si credeva infatti che un cane rosso conducesse l'anima al Mictlan, l'estremo luogo di riposo.

Nell'ambiente lacustre abitato dagli Aztechi vivevano molte specie di animali selvatici, come alcuni anfibi, quali l'axolotl ('cane d'acqua') o la salamandra (Ambystoma dumerili), e alcune specie di rane (Rana esculenta, Rana montezumi e Rana temporaria), i quali avevano un elevato valore nutritivo ed erano spesso utilizzati nella medicina. Le tartarughe (del genere Kinosternon), chiamate ayotl, erano considerate un cibo prelibato, e con le uova di pesce si preparavano torte da mangiare con le verdure. Il pesce era usato nella preparazione dei tamale oppure era cotto con farina di mais o con molte erbe che crescono soltanto in Messico, come per esempio l'epazote. La fauna ittica dei laghi era costituita da: Aterinidi, pesci piccoli e simili a sardine, ricchi di proteine, di niacina e di vitamina A; Cipridini; Goodeidi.

Le notti di Luna piena erano ritenute il momento migliore per la pesca. Oltre agli strumenti tradizionali ‒ reti, fiocine, aste da pesca, lance ‒ gli Aztechi impiegavano sostanze chimiche naturali, come il mixpatli (Buddleia sessiliflora). Come narra Francisco Hernández questa pianta in acqua aveva un effetto sedativo sui pesci, mentre era innocua per gli uomini, facilitando la pesca. La divinità più strettamente associata ai pescatori era una manifestazione di Tlaloc, Opochtli, il dio della popolazione acquatica e degli uomini che vivevano vicino all'acqua o sulla sua superficie. Si credeva che Opochtli avesse inventato la rete, l'atlatl (uno strumento per scagliare fiocine) e altri attrezzi per la pesca, come pure le aste che si usavano per muovere le imbarcazioni e le trappole per catturare gli uccelli.

I crostacei e gli insetti acquatici erano estremamente apprezzati. Il crostaceo più diffuso era un gamberetto d'acqua dolce chiamato acocil (Cambarelus montezumi o Cambarelus mexicanus), con il quale si riempivano i tamale o era consumato tostato. Tra gli altri cibi prelibati che provenivano dal lago vi erano poi le zanzare, o mosquito, e diversi tipi di larve. L'axaxayacatl ('faccia d'acqua'), un tipo di zanzara (Corisella texcocana), produceva una larva chiamata ahuautli ('amaranto d'acqua'), che è stata definita il caviale messicano.

La popolazione di uccelli acquatici del bacino del Messico è una delle più varie del mondo. Ogni autunno, verso ottobre, milioni di uccelli, in particolar modo anatre, migrano dalle regioni settentrionali verso il Messico, dove vi è abbondanza di laghi. Nel XVI sec. Motolinía (m. 1568) sosteneva che fosse il cibo galleggiante sulla superficie dell'acqua ‒ probabilmente spirulina, uova di pesce, zanzare, uova di insetti ‒ ad attrarre un così grande numero di uccelli e di pesci, come pure a favorire l'abbondanza di piante (Memoriales o libro de las cosas de la Nueva España y de los naturales de ella, p. 373). Alcuni uccelli erano stanziali, ma la maggior parte si spostava per poi tornare, attratta dal clima mite e dall'abbondanza di cibo. I volatili più diffusi erano gli anseriformi comprendenti anatre, oche, aironi e spatole. Come cibo erano molto apprezzati i vari uccelli acquatici e le quaglie (Callipepla squamata). Gli Aztechi conoscevano un solo modo per catturare gli uccelli acquatici, e in particolare le anatre: svuotavano grandi zucche e le facevano galleggiare sulla superficie dell'acqua per abituare gli uccelli alla loro vista, poi s'immergevano e, usandole come maschere attraverso le quali respirare, afferravano gli uccelli per le zampe, quando questi si posavano sull'acqua.

L'importanza degli uccelli non consisteva soltanto nella loro carne, poiché gli Aztechi, come le altre antiche popolazioni messicane, utilizzavano il piumaggio per confezionare abiti, scudi e insegne. Si utilizzavano prevalentemente le piume delle specie locali o quelle ricevute in tributo dalle regioni sottomesse; le lunghe e sontuose piume del quetzal e di altri uccelli tropicali erano invece importate dal Sud, in particolare dalla regione che oggi comprende il Guatemala e alcune aree del Chiapas. Le piume erano un segno di prestigio e di distinzione; vi era infatti una legge che proibiva di portarle senza l'autorizzazione del sovrano, perché esse erano privilegio dei signori e dei re, tanto che nell'esercito erano proibite ai soldati semplici.

I sovrani possedevano aviari per uccelli rari; Sahagún redige un lungo elenco degli uccelli che svolgevano un ruolo importante nella vita degli Aztechi. Il tlaoquechol, o spatola rosa (Ajaia ajaia), era molto popolare e le sue piume rosa e rosso peperoncino contrastavano in modo sorprendente con le tonalità del suo habitat lacustre. La cotinga, dal petto rosso porpora e dal dorso azzurro chiaro, così come molti pappagalli, era particolarmente ricercata per il piumaggio dai colori brillanti. La gallinella purpurea (Porphyrula martinica) era chiamata 'capo di specchio' a causa di una macchia sul capo che sembrava uno specchio, e si supponeva che Motecuhzoma II Xocoyotzin avesse visto riflesso in uno di questi 'specchi' l'avverso fato della venuta degli Spagnoli. L'aquila svolgeva un ruolo di primo piano nell'universo simbolico azteco. Le sue penne erano un segno di distinzione e di prestigio, mentre le piume della parte inferiore del corpo erano raccolte e posate in segno di morte sul capo dei prigionieri scelti per essere sacrificati. Questo rapace rappresentava l'immagine della divinità protettrice Huitzilopochtli, che sotto questa forma aveva guidato il suo popolo durante la migrazione, quando un'aquila posata su un fico d'India aveva indicato il luogo della Terra Promessa agli Aztechi. Huitzilopochtli era anche associato al colibrì, ed effettivamente il suo nome significa 'colibrì a sinistra'. Il tacchino (huexolotl) era un cibo rituale consumato soprattutto durante i banchetti dei nobili; Meleagris gallopavo, che oggi è abitualmente tenuto in cattività e allevato, era una specie diffusa nel Messico centrale, e nella valle di Tehuacan ne sono stati rinvenuti resti che risalgono a un periodo che va da 7000 a 9000 anni fa. Meleagris o Agriocharis ocellata, il tacchino che presenta sulla coda un occhio azzurro-verde, era in origine un uccello snello, intelligente, agile e veloce nel volo; perciò iniziò a essere associato all'onnipotente dio Tezcatlipoca con il nome di Chalchiuhtotolin ('uccello prezioso'). Il pellicano era considerato il re degli uccelli. Una volta catturato, i cacciatori lo sventravano immediatamente per verificare la propria fortuna nelle sue viscere; credevano infatti che se al suo interno avessero trovato un gioiello prezioso, giada o penne, sarebbero diventati ricchi; se invece avessero trovato un pezzo di carbone sarebbero morti.

Di solito gli insetti non sono considerati parte integrante del mondo degli Aztechi, pur essendo stati una componente fondamentale della loro dieta; le zanzare, le formiche, le api, le cavallette, le vespe, le uova di mosquito, i vermi dell'agave e i pidocchi erano infatti una ricca fonte di proteine e di minerali quali la niacina, la tiammina, la riboflavina, il calcio, il potassio, lo zinco e il magnesio. La popolazione del Messico centrale si cibava di questi e di molti altri insetti, persino dei nidi di vespe, che erano considerati un cibo particolarmente squisito. Inoltre, gli insetti possedevano alcune proprietà medicinali e si riteneva che proteggessero dal male; il teotlacualli ('cibo divino'), per esempio, era una mistura di scorpioni, ragni, millepiedi e altri insetti velenosi, macinati assieme al tabacco per preparare una pozione magica che poteva essere utilizzata come offerta agli dèi, oppure, spalmata sul corpo, serviva a proteggere dal pericolo.

Secondo le cronache del XVI sec., in Messico ogni aspetto della Natura era considerato sacro: le stelle, il Sole e la Luna, le nuvole, gli alberi e i fiori, e persino gli attrezzi agricoli. Gli Aztechi e le altre popolazioni di questo continente non dominavano la Natura ma neanche ne erano dominati, piuttosto la capivano e la rispettavano, interagendo con gli elementi naturali e trattandoli come fratelli. Ogni cosa naturale aveva un suo posto e una sua utilità: sia per la sopravvivenza, come cibo, materiale da costruzione, abbigliamento e armi; sia per finalità religiose, per esempio come figure di divinità plasmate con i semi, con il legno o con le pietre; sia per scopi economici, nell'industria, nel commercio e nei tributi; sia, infine, come espressione simbolica della coesione politica e sociale. Ogni componente della Natura che fosse stato ritenuto utile fu anche oggetto di osservazione e fece parte della concezione del mondo, che oggi è definita scienza azteca.

Bibliografia

Fonti

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