La scienza nell'antichità greco-romana

Storia della Scienza (2001)

La scienza nell'antichità greco-romana

Geoffrey E.R. Lloyd
John Vallance

La riscoperta del passato

Siamo abituati a guardare alle conquiste dell'antichità greco-romana con ammirazione e persino con timore reverenziale. In particolare, spesso pensiamo ai Greci come agli ideatori di quasi tutto quello che la civiltà moderna ha di positivo. Questo è vero soprattutto per la scienza occidentale che, secondo questa concezione, sarebbe una specifica invenzione dei Greci. A sostegno di questa tesi, viene portato un lungo elenco di conquiste, in cui figurano sia scoperte scientifiche particolari sia definizioni di alcuni metodi scientifici. Tra le prime ricordiamo le ipotesi eliocentriche di Aristarco, i principî di Archimede, la scoperta della precessione degli equinozi di Ipparco, la scoperta del sistema nervoso di Erofilo e molte altre. Tra le seconde, la definizione delle principali caratteristiche della ricerca empirica e il riconoscimento dell'importanza dell'espressione matematica quantitativa delle leggi che regolano il verificarsi dei fenomeni fisici.

Questo approccio alla storia della scienza greco-romana è inevitabilmente viziato da due errori d'impostazione connessi tra loro, il primo dei quali di carattere specifico, vale a dire il finalismo, e l'altro di carattere più generale, cioè l'anacronismo. In questo contesto con 'finalismo' intendiamo riferirci alle interpretazioni di eventi del passato che attribuiscono a coloro che vi erano coinvolti il potere di anticipare il futuro, come se la scienza antica avesse avuto come meta la scienza moderna. A rigor di termini, ciò che oggi definiamo 'scienza moderna' ‒ le ricerche condotte nelle università e nei laboratori ‒ è un fenomeno iniziato soltanto all'inizio del XIX sec.; l'uso stesso del termine 'scienza' come sinonimo di 'scienza naturale' si è imposto nel XIX secolo. Le istituzioni all'interno delle quali oggi ci si dedica a queste ricerche non hanno un equivalente nell'antico mondo greco-romano; soprattutto, oltre alle istituzioni della scienza moderna, erano assenti le idee guida che hanno impresso un impulso decisivo al suo sviluppo moderno. La stessa idea moderna dell'importanza della scienza come fonte di miglioramento ‒ attraverso la tecnologia ‒ del benessere materiale degli esseri umani non ha un corrispondente nel pensiero antico. Le ricerche antiche non erano affatto orientate alla scoperta di questo ideale e finalizzate alla sua realizzazione.

Con ciò giungiamo al secondo problema, quello più generale dell'anacronismo. Non è difficile individuare il nodo della questione. Né i Greci né i Romani disponevano di un solo concetto che corrispondesse esattamente a quello di 'scienza'; infatti, il vocabolo latino da cui quest'ultimo deriva, scientia, così come il corrispondente termine greco, epistḗmē, designano la conoscenza in generale e non quella dei fenomeni naturali, per non parlare di una conoscenza acquisita attraverso un programma di ricerca sistematico basato su una metodologia convalidata ‒ vale a dire scientifica. Il par. 4 sarà dedicato all'esame delle molte e contrastanti idee degli antichi su quale genere di conoscenza dei fenomeni naturali fosse possibile acquisire, sui metodi da impiegare per ottenerla e, in particolare, sul modo in cui fosse possibile convalidare i risultati di una data ricerca.

Un'altra serie di termini moderni deve essere considerata potenzialmente fuorviante. I termini 'astronomia', 'fisica', 'geografia', 'geometria', 'zoologia' e 'chimica' derivano tutti da vocaboli greci; i primi quattro, in particolare, non sono che semplici calchi dei corrispondenti termini greci. Tuttavia, gli scopi, la prospettiva e i metodi di queste discipline erano sostanzialmente diversi da quelli delle corrispondenti discipline moderne.

Ciò è illustrato perfettamente da quello che era indicato con i due termini 'astronomia' e 'fisica'. L''astronomia' aveva indubbiamente a che fare con i molteplici aspetti dello studio delle stelle e delle regioni celesti. Come si articolava però questa disciplina? Gli antichi a volte distinguevano l'analisi e la previsione dei moti dei corpi celesti dalla predizione, fondata sullo studio di questi moti, degli eventi che si sarebbero verificati sulla Terra. La prima corrisponde approssimativamente alla nostra 'astronomia', e la seconda alla nostra 'astrologia'. Ma, benché disponessero di due termini per indicare lo studio delle stelle, astronomía e astrología, e i loro corrispettivi latini, astronomia e astrologia, sia i Greci sia i Romani li usavano indifferentemente per designare i due generi di indagine. L'espressione 'studio delle stelle' li includeva entrambi e non era impiegata soltanto in riferimento alla disciplina che oggi chiamiamo 'astronomia'.

Nel caso del termine 'fisica' la questione è più complicata. L'antico termine greco physikḗ era impiegato in riferimento a tutti gli aspetti dello studio della Natura ‒ anche se le componenti di quest'ultimo erano oggetto di discussione ‒ e non soltanto a ciò che oggi chiamiamo 'fisica', distinguendo questa disciplina dalla 'chimica' e dalla 'biologia'. Così il primo problema è che il termine greco physikḗ ha una maggiore estensione del moderno 'fisica'. Ma il termine antico indica un campo molto più ampio anche di quello definito da ciò che oggi chiamiamo 'scienza naturale'. Nella Fisica di Aristotele troviamo infatti discussioni di questioni astratte relative al tempo, allo spazio, all'infinito e alla causalità che rientrano nel campo d'indagine della disciplina che oggi chiamiamo 'filosofia della scienza', più che in quello della 'scienza naturale'.

La prima premessa di questa introduzione è che i Greci e i Romani non potevano prevedere il futuro sviluppo della scienza e che quindi non si può certamente supporre che questo rappresentasse lo scopo delle loro ricerche. La seconda è che vi sono profonde differenze tra il contesto concettuale entro cui erano condotte le indagini antiche e quello delle ricerche moderne. Non possiamo presumere che gli antichi ricercatori affrontassero le diverse aree d'indagine con gli stessi scopi, presupposti e interessi che associamo alla ricerca moderna. A queste due premesse bisogna aggiungere un'altra fondamentale osservazione, su cui ritorneremo nella terza parte di questa analisi. Ci riferiamo alle opinioni sostanzialmente discordanti dei diversi autori, persino per quanto riguardava la definizione del campo d'indagine e della metodologia di una singola disciplina. In effetti, questa diversità di idee è ‒ come si vedrà ‒ una caratteristica fondamentale del pensiero greco-romano. Gli antichi non soltanto non avevano l'idea 'moderna' di scienza, ma non avevano neppure le 'stesse' idee riguardo ai diversi campi d'indagine della Natura.

Problemi metodologici

Le osservazioni preliminari esposte nel precedente paragrafo hanno importanti implicazioni sul nostro approccio allo studio storico della scienza dell'antichità greco-romana. In generale, negli studi dedicati a questo tema ci si è limitati a cercare in ciò che rimane dei testi degli antichi autori gli indizi anticipatori dei risultati della ricerca moderna. Ciò è assolutamente inaccettabile; in questa indagine infatti non bisogna adottare il punto di vista della scienza moderna, bensì quello degli antichi stessi.

Il nostro principale compito sarà quello di tentare di ricostruire il modo in cui gli antichi concepivano il proprio campo d'indagine, gli scopi e i presupposti delle loro ricerche, le loro opinioni riguardo sia ai metodi da adottare sia agli obiettivi che speravano di conseguire o pensavano di aver conseguito.

La natura delle testimonianze disponibili impone severi limiti a questa ricostruzione. Solamente per un piccolo numero di autori antichi disponiamo di consistenti corpus di testi originali abbastanza ben conservati nei manoscritti sopravvissuti. Euclide, Archimede, Tolomeo, Galeno, come pure Platone, Aristotele e Teofrasto, sono, da questo punto di vista, relativamente ben rappresentati; invece per molti altri la situazione è ben diversa. Di alcune delle più importanti figure di scienziati, infatti, non ci è pervenuta integra nessun'opera originale. Ciò vale, per esempio, per gli atomisti del V sec. a.C., Leucippo e Democrito, per l'astronomo e matematico del IV sec. Eudosso, per i biologi del III sec. Erofilo ed Erasistrato; in altri casi, invece, come, per esempio, quello dell'astronomo del II sec. a.C. Ipparco, disponiamo non del trattato più importante, ma di un'opera minore.

In questi casi siamo costretti a ricostruire il pensiero degli autori sulla base di testimonianze indirette, che spesso si rivelano critiche o persino apertamente ostili. Nel valutare queste testimonianze dobbiamo sempre chiederci 'perché' l'autore antico citi i suoi predecessori o li commenti in questo o quel modo. Il problema delle idee preconcette si pone non soltanto quando un autore antico cita i suoi predecessori per confutarli, ma anche quando le citazioni e i commenti si propongono di suscitare la nostra ammirazione. Una delle più convincenti illustrazioni di questo atteggiamento è offerta dal modo in cui Galeno, il celebre medico del II sec. d.C., tenta di ricostruire gli autentici insegnamenti di Ippocrate di Coo, l'insigne medico del V sec. a.C. I testi medici del V e IV sec. noti col nome di Corpus Hippocraticum corrispondono a una serie di opere profondamente eterogenee e in generale gli studiosi concordano nel ritenere che nessuna di esse possa essere attribuita con certezza a Ippocrate. Peraltro, benché sia consapevole dell'esistenza di una 'questione ippocratica', Galeno tenta ugualmente di ricostruire i principî fondamentali degli insegnamenti di Ippocrate, giungendo alla conclusione che su tutte le questioni essenziali le opinioni dell'autore coincidono con le sue.

Nessuno dei processi di trasmissione attraverso cui la scienza greco-romana è stata tramandata è immotivato; e non ci riferiamo solamente alle eventuali idee preconcette delle antiche fonti indirette. È importante individuare i fattori che contribuirono alla sopravvivenza di alcuni autori e alla scomparsa di altri. Tra questi fattori, due dei più importanti sono rappresentati dai giudizi degli stessi autori antichi riguardo a quale fosse l'opera considerata fondamentale o più aggiornata in un determinato campo d'indagine e, in secondo luogo, dai presupposti ideologici degli autori in questione.

La perdita dei testi di molti matematici attivi prima di Euclide potrebbe essere stata parzialmente determinata dalla riconosciuta esaustività dell'opera stessa di Euclide, gli Elementi. La disponibilità degli Elementi rendeva superflua o persino vana l'esigenza di preservare, vale a dire di trascrivere, le opere di autori come Teeteto ed Eudosso. Allo stesso modo, la scomparsa dei testi di Erofilo ed Erasistrato, riflette la percezione che, in molte aree dell'anatomia e della psicologia, la loro opera fosse stata rimpiazzata da quella di Galeno ‒ ipotesi avvalorata dai giudizi espressi frequentemente dallo stesso Galeno.

Al secondo fattore va attribuita una grande importanza. Non è un caso che molti degli autori degnamente rappresentati da un consistente corpus di testi riprendano in questa o in quella versione la concezione secondo cui il Cosmo è stato prodotto dalla benevolenza, dall'ingegno e dall'intelligenza ordinatrice di una forza, di volta in volta identificata con una divinità trascendente o con una forza immanente alla Natura, in altre parole la dottrina filosofica nota come teleologia. È vero che ci sono pervenute integre alcune opere di coloro che sostenevano una concezione opposta, e tra queste il celebre De rerum natura composto da Lucrezio nel I sec. a.C. Ma in generale, nei testi che ci sono giunti, gli oppositori delle dottrine teleologiche ‒ coloro cioè che negavano che nel Cosmo operasse un'intelligenza ordinatrice e che escludevano il ricorso alla divinità o alle cause finali nella spiegazione dei fenomeni naturali ‒ sono meno rappresentati dei loro avversari. Ciò rende inevitabilmente molto più complesso il tentativo di ricostruire il dibattito antico.

Bisogna sempre tener conto dei problemi relativi alle idee preconcette e alle lacune delle nostre fonti. Ma, nonostante queste difficoltà, dobbiamo andare avanti e utilizzare nel miglior modo possibile le testimonianze disponibili. È necessario scegliere, come punto di partenza, lo stesso genere di questioni già menzionato a proposito dell'astronomia, vale a dire che cosa in effetti gli antichi includessero nello studio delle stelle, e approfondire l'analisi chiedendosi quali fossero, secondo loro, le componenti dello studio sulla costituzione ultima degli oggetti fisici, come consideravano lo studio del corpo umano o le cause e la cura delle malattie e soprattutto se ritenessero che le loro teorie e i loro metodi d'indagine dovessero essere definiti, giustificati e verificati. Per rispondere a questi interrogativi dobbiamo andare al di là di una semplice analisi intellettuale delle idee e degli argomenti dei Greci e dei Romani dell'Antichità. Dobbiamo chiederci perché i pensatori antichi intrapresero certi studi. Quali erano le loro motivazioni? In che modo lo studio della Natura si accordava ai valori delle società antiche? E ancora, come i pensatori in questione si guadagnavano da vivere, o come dovevano guadagnarsi da vivere? Naturalmente, per le ragioni precedentemente esposte, nell'antico mondo greco-romano non esistevano le condizioni per tentare di intraprendere la 'carriera' di scienziato. Ma se non esistevano istituzioni destinate alla scienza, gli equivalenti delle moderne università e dei laboratori di ricerca, dobbiamo chiederci quali ruoli erano destinati a coloro che si dedicavano a questa o a quell'area dell'indagine della Natura, e a quale forma di sostegno essi potevano accedere. Questi ricercatori si definivano 'filosofi', 'medici', 'architetti' o 'matematici', ma, come vedremo nel par. 5, l'interazione all'interno di ogni singolo gruppo e quella tra i diversi gruppi forniva all'indagine della Natura una cornice sostanzialmente diversa da quella definita dalle istituzioni della scienza moderna. Vi erano, come spiegheremo, alcuni centri di mecenatismo, di cui beneficiarono molti importanti ricercatori. Il mecenatismo era peraltro limitato e incerto, e in generale i mecenati erano mossi dal desiderio di consolidare la loro fama e la loro reputazione e non dall'interesse per il valore della scienza.

Nel seguente studio applicheremo questi principî metodologici. Concentreremo la nostra attenzione sul modo in cui gli antichi consideravano le loro indagini, su come pensavano che dovessero essere condotte, vale a dire sulla loro metodologia, e sui motivi per cui tali indagini erano apprezzate o remunerate. Questi autori non parlano di scienza; le loro discussioni su tali questioni sono imperniate su termini che potremmo tradurre con 'conoscenza' (epistḗmē, scientia), arte o competenza (téchnē, ars) e Natura (phýsis, natura), termini a loro volta problematizzati, dal momento che tali discussioni esprimono concezioni contrastanti sia su ciò che può essere considerato conoscenza o arte, sia sulle componenti del regno della Natura. Il paragrafo che segue sarà dedicato alla definizione del problema del pluralismo delle ricerche dei Greci e dei Romani nei diversi campi dell'indagine sulla Natura.

Il pluralismo e il problema delle origini e dei periodi

Abbiamo più volte sottolineato che nel mondo greco e romano la 'scienza' non era un fenomeno omogeneo. Dobbiamo quindi scomporla nei suoi distinti elementi: astronomia, medicina, matematica, filosofia della Natura e così via, tenendo sempre a mente che essi non corrispondono esattamente alle discipline che oggi portano questi nomi. In questo paragrafo affronteremo l'esame del problema delle origini degli antichi studi scientifici greco-romani, e quello della loro periodizzazione, attraverso l'analisi delle differenti forme che essi assunsero.

Il pluralismo della scienza greco-romana si è manifestato principalmente in due modi: abbiamo già osservato che coloro che operavano nelle diverse branche di quella che oggi chiamiamo scienza naturale non si consideravano 'scienziati', ma 'filosofi', 'medici', 'architetti' o 'matematici' e il primo tipo di pluralismo di cui dobbiamo tener conto concerne le differenze 'tra' queste antiche categorie; il secondo, invece, è quello riscontrabile 'all'interno' di ciascuna di esse. Il primo tipo di pluralismo è importante non soltanto perché ci consente di accedere alla comprensione delle categorie cui si richiamavano gli antichi ricercatori, ma anche perché riguarda il metodo e gli scopi della scienza. Non si deve pensare che i confini tra queste antiche categorie fossero rigidi e impermeabili o che queste fossero ben definite e univoche. Alcuni autori antichi dichiararono apertamente di voler ridurre queste barriere. Galeno compilò un trattato intitolato Il miglior medico è anche filosofo e per il romano Vitruvio poteva dirsi lo stesso degli architetti. In entrambi i casi la 'filosofia' era associata a un atteggiamento disinteressato e a una profonda comprensione teorica dell'argomento studiato. Ma non bisogna dimenticare che assimilandosi ai filosofi, i medici e gli architetti ‒ o in ogni caso le loro élites ‒ accrescevano il proprio prestigio.

Altri rappresentanti di queste professioni ritenevano invece che i confini tra queste categorie dovessero essere accentuati e non ridotti. È il caso del medico che redasse il trattato ippocratico intitolato L'antica medicina (probabilmente dell'inizio del IV sec. a.C.), dove, criticando esplicitamente i colleghi che avevano introdotto negli studi medici metodi e presupposti a suo parere assolutamente superflui e inutili, come, per esempio, la nuova moda del ricorso alle 'ipotesi', che egli associa alla 'filosofia', cita a sostegno della sua critica il caso del cosmologo della metà del V sec. a.C. Empedocle. Per questo medico la 'filosofia' non deve essere l'ideale cui la medicina dovrebbe tentare di avvicinarsi, ma, al contrario, la fonte di idee e di metodi perniciosi. Ritorneremo su ciò che la medicina poteva offrire in alternativa nel par. 4 del presente testo.

Una seconda categoria ricordata ne L'antica medicina è quella dei 'sofisti', ed è evidente che l'autore disapprova questi ultimi non meno dello studio che definisce 'filosofia'. Qui è necessario muoversi con prudenza, dal momento che il termine 'sofisti' non implicava necessariamente una sfumatura spregiativa. Esso poteva essere impiegato per designare il 'saggio' in generale: per esempio, quando Erodoto lo usa in riferimento a Solone (Historiae, I, 29) o a Pitagora (ibidem, IV, 95) esso non implica certamente un giudizio negativo. Tuttavia, questo termine iniziò a essere impiegato, soprattutto da Platone, per indicare i maestri e gli educatori che viaggiavano di città in città, accettando un compenso per i loro insegnamenti e che spesso in tal modo acquisivano una grande notorietà. Platone tenta naturalmente di dissociare Socrate da questo nuovo stile di insegnamento, mentre per altri autori, tra cui, per esempio, Aristofane, Socrate non è che uno dei tanti 'sofisti'. Tuttavia, ai fini della nostra analisi è importante rilevare in primo luogo che qui siamo in presenza di una valida prova del fatto che con l'insegnamento ci si poteva guadagnare da vivere e, in secondo luogo, che tra le materie insegnate da quelli che da Platone e da altri autori erano chiamati 'sofisti', molte riguardavano l'indagine scientifica. Alcuni, come, per esempio, Antifonte, erano matematici. Secondo Platone, l'enciclopedico Ippia insegnava non solo aritmetica e geometria, ma anche astronomia e musica. Benché alcuni autori del Corpus Hippocraticum critichino le lezioni pubbliche, o epídeixeis, associate all'attività dei sofisti, altri testi ippocratici sono trascrizioni di questo genere di lezioni. Questi ultimi furono redatti da autori che avevano poca o nessuna esperienza clinica e che erano educatori più che medici. Il primo tipo di pluralismo riguarda dunque la varietà dei ruoli cui potevano accedere coloro che si dedicavano a una o all'altra branca dell'indagine della Natura. Nel par. 4 seguiremo nei dettagli le controversie tra i diversi gruppi e individui sulla questione del metodo più appropriato a queste indagini. Il secondo tipo di pluralismo precedentemente menzionato è ancora più importante ai fini della nostra comprensione del problema delle origini della scienza greco-romana e per tentare di stabilire una valida periodizzazione di questo fenomeno. Esso riguarda la varietà 'all'interno' di ognuna delle vaste categorie precedentemente ricordate. Esamineremo la questione analizzando il caso della medicina, da cui è efficacemente esemplificata, quindi prenderemo brevemente in considerazione fenomeni analoghi concernenti la 'matematica' e la 'filosofia'.

Per rendere giustizia alla varietà della medicina greco-romana dobbiamo innanzi tutto precisare che essa non era rappresentata esclusivamente dalle opere del Corpus Hippocraticum e da famosi autori successivi come Celso, Sorano e Galeno, e questo non soltanto perché la letteratura medica che ci è pervenuta è una piccola parte di ciò che fu scritto. Il motivo più importante è che la medicina che associamo ai testi dell'élite letteraria è, come sappiamo, soltanto una delle tradizioni della pratica medica allora effettivamente esercitate. È vero che le prove dell'esistenza di queste altre tradizioni sono molto più fragili ‒ reperti archeologici sparsi ‒ e spesso indirette ‒ riferimenti di fonti frequentemente molto critiche. Benché oggi si ritenga che alcuni rappresentanti di queste tradizioni compilassero dei testi, nessuno di essi ci è pervenuto ‒ il che ci riporta ai problemi dei capricci della trasmissione e delle idee preconcette sopra ricordati. Tuttavia, per quanto sia difficile tentare di ricostruirle, queste altre tradizioni indiscutibilmente esistevano.

Il primo, più importante e forse anche più popolare genere di cura cui si ricorreva nel mondo greco-romano era quello praticato nei santuari dedicati ai grandi eroi e alle divinità della medicina e, in particolare, ad Asclepio. Benché alcuni culti medici siano anteriori al V sec. a.C., la grande diffusione di questi centri di cura e la fondazione di imponenti santuari come, per esempio, quello di Epidauro risalgono al IV sec. a.C., o al periodo immediatamente successivo, e sono quindi contemporanee ai più importanti testi ippocratici. Inoltre, sappiamo che questi santuari furono popolari non solamente nel periodo classico, ma fino al II sec. d.C. e oltre, e i testi di Elio Aristide, illustre oratore e statista, dimostrano che tra i loro clienti figuravano molti agiati membri dell'élite colta.

Il culto di Asclepio non era l'unico genere di medicina che si poneva sotto l'egida del divino o del sovrannaturale. Sappiamo, infatti, grazie a Platone e all'autore del trattato ippocratico intitolato De morbo sacro, dell'esistenza di guaritori, chiamati da questi autori 'purificatori', che vendevano amuleti e incantesimi e sostenevano di sapere quali divinità fossero responsabili di certe malattie e come queste ultime dovessero essere curate. I purificatori non operavano nei santuari dove venivano portati i malati, ma vendevano i propri rimedi ai familiari dei malati, convincendoli della loro efficacia. Tuttavia, anche i purificatori ricorrevano al divino nella spiegazione della malattia e della cura. Entrambe le nostre due principali fonti condannano la loro opera come superstiziosa ciarlataneria, ma questo è, naturalmente, soltanto uno degli aspetti della questione. Non conosciamo il punto di vista dei purificatori, ma non abbiamo motivo di credere che essi siano stati messi in condizione di non operare dalle critiche dei razionalisti. Dobbiamo tenere a mente che, nonostante le loro affermazioni, per quanto riguardava malattie acute come 'il male sacro' (l'epilessia), i medici ippocratici non disponevano di terapie efficaci. I purificatori potevano quindi a loro volta obiettare che i rimedi dei medici ippocratici fossero inefficaci e che le proprie credenze si accordassero meglio con quelle dei loro pazienti. Gli ippocratici ribattevano che i purificatori trascuravano il fatto che la malattia avesse una causa 'naturale'. La parola 'Natura' qui serve a distinguere il genere di medicina praticato dagli ippocratici da quello dei loro rivali, che potevano essere screditati o rifiutati perché non tenevano conto delle leggi che regolano i fenomeni naturali.

Anche la terza e la quarta corrente della medicina greca sono scarsamente rappresentate nei testi che ci sono pervenuti. Ci è giunta soltanto notizia dell'esistenza di individui chiamati 'tagliatori di radici' (rhizotómoi) e 'venditori di droghe' (pharmakopõlai) che erano specializzati nella raccolta, nella vendita e nella somministrazione di farmaci a base di erbe e di altri rimedi. Non ci è pervenuto nessuno dei loro testi, e in ogni caso dobbiamo presumere che ben pochi si affidassero a questo mezzo di comunicazione. Una delle nostre principali fonti, Teofrasto, paragona i 'tagliatori di radici' a coloro che chiama 'medici' (iatroí) e critica quelle che definisce stravaganti pretese dei primi. Tuttavia, sarebbe sbagliato sottovalutare le conoscenze disponibili negli ambienti estranei a quello dei medici eruditi sulle proprietà e sugli effetti della ricca riserva di 'materia medica', usata fin dai tempi più antichi nel mondo greco-romano, come, del resto, sottovalutare gli eventuali contributi dei 'tagliatori di radici' e dei 'venditori di droghe' a questa riserva.

Giungiamo così al quinto gruppo di terapeuti, quello costituito dalle donne che esercitavano pratiche mediche, chiamate in generale maĩai.

Questo termine è spesso tradotto con 'levatrice' ed è evidente che l'assistenza al parto e la cura della madre e del bambino erano affidate abitualmente a donne esperte in queste pratiche. Tuttavia, è chiaro che la loro funzione non si riduceva esclusivamente a questi compiti, dal momento che il loro consulto era richiesto per un'ampia gamma di altri problemi. È probabile che la maggior parte delle donne inferme facesse ricorso a queste guaritrici; la decisione di rivolgersi a un medico maschio sarebbe infatti spettata al capofamiglia, ma molte pratiche mediche ‒ in realtà la grande maggioranza ‒ non richiedevano il suo coinvolgimento.

Questo rapido esame dei diversi generi di cura e di terapeuti menzionati nelle testimonianze è sufficiente a dimostrare che la 'medicina' assumeva molte forme diverse. È importante sottolineare che 'nessuno' di questi antichi praticanti era in possesso di titoli legalmente riconosciuti che abilitassero all'esercizio della professione. Non esistevano ordini professionali incaricati di soprintendere all'educazione dei medici e di controllare il livello di qualità delle pratiche. Le varie componenti della medicina antica si misuravano quindi l'una con l'altra in condizioni più paritarie di quelle esistenti oggi, quando la medicina definita 'alternativa' è alternativa a pratiche che godono del sostegno di una professione medica legalmente riconosciuta, come pure dell'autorevolezza della scienza stessa. Se in alcuni ambienti greci e romani il nome di Ippocrate godeva di un grande prestigio, la popolarità della medicina praticata nei santuari era altrettanto o persino più grande di quella dispensata dai medici razionalisti rappresentati nei testi che ci sono pervenuti. In ogni caso, gli stessi medici razionalisti, così critici nei confronti dei rivali che si richiamavano ad altre tradizioni, polemizzavano aspramente tra loro. Dai testi ippocratici, passando per i dibattiti dei gruppi medici ellenistici, fino a Galeno e oltre, i sostenitori delle diverse teorie sull'origine delle malattie, sull'idoneità dei metodi di cura, sulla natura delle conoscenze e delle pratiche mediche, si confrontarono in dispute astiose in cui erano evidentemente in gioco i mezzi di sussistenza e la reputazione dei disputanti. Esamineremo nei dettagli questo punto nel par. 4.

Se l'eterogeneità dell'antica medicina nel mondo greco-romano è indubbiamente sorprendente, è possibile individuare esempi di pluralismo anche nel campo della 'matematica', come pure in quello della 'filosofia'. L'antico termine greco mathēmatikḗ deriva dal verbo manthánein a cui in generale era attribuito il significato di 'apprendere'; l'espressione máthēma designava quindi potenzialmente ogni branca del sapere.

Nella Repubblica (534 e) Platone afferma che il più elevato máthēma è la dialettica, lo studio delle Forme intelligibili ed eterne, che culmina nella comprensione della Forma della divinità. Tuttavia, Platone naturalmente riconosce l'esistenza di altre branche del sapere e, in particolare, delle due parti della matematica (l'aritmetica e la geometria) come pure dell'astronomia e dell'armonia. Sembrerebbe quindi che l'antica 'matematica' corrispondesse, anche se in senso lato, alla disciplina oggi designata da questo termine; tuttavia, a un'analisi più approfondita si rivelano notevoli fattori di complessità. Tra questi ultimi, tre sono particolarmente importanti ai fini della nostra analisi: la disputa sullo status ontologico dell'aritmetica e della geometria; l'applicazione dell'aggettivo 'matematica' non soltanto all'astronomia, ma anche all'astrologia; i dibattiti epistemologici sui metodi più appropriati da applicare a quelle che definiremmo scienze matematiche.

Il primo fattore di complessità trova un'efficace illustrazione nei testi di Platone e di Aristotele. Per Platone, il concetto di triangolarità è eterno e intelligibile; il suo status ontologico è completamente diverso da quello dei triangoli effettivamente percettibili che sono imprecisi e perituri. Opponendosi a questa concezione, Aristotele nega l'esistenza di oggetti matematici separati e trascendenti, affermando che il matematico studia le proprietà matematiche degli oggetti fisici, astraendo, naturalmente, dalle loro proprietà fisiche. In questo modo, egli subordina la matematica alla fisica, pur ammettendo che, poiché essa astrae dalle proprietà fisiche degli oggetti fisici, è più esatta della fisica.

Il sostantivo mathēmatikós, 'matematico', non designava soltanto coloro che studiavano l'aritmetica e la geometria, ma aveva un campo d'applicazione molto più vasto. Secondo Aristotele (Physica 194 a 7 segg.), l'ottica, l'armonia e la geometria erano i mathḗmata 'più fisici'. I raggi di luce, i suoni e i moti dei corpi celesti rientravano nel campo d'indagine della fisica, vale a dire della 'Natura', benché il loro studio potesse richiedere l'uso della geometria e dell'aritmetica. Ma il termine 'matematico' era frequentemente impiegato anche per designare coloro che si dedicavano a quella che oggi definiremmo 'astrologia'. Anche questo studio, dopo tutto, era basato su calcoli matematici, per esempio, su quelli necessari a determinare le posizioni dei pianeti al momento della nascita di un individuo ‒ gli oroscopi ‒ che dovevano essere interpretati in base a quelle che erano considerate correlazioni empiricamente accertate tra i corpi celesti e il destino individuale. Qui ci troviamo in presenza di un genere di 'matematica' che certamente consentiva a coloro che lo praticavano di guadagnarsi da vivere. Tuttavia, lo status dell'astrologia non era affatto scontato. Alcuni, per esempio Cicerone, assimilavano questo genere di divinazione alla superstizione; altri, tra i quali lo scettico del II sec. d.C. Sesto Empirico, attaccarono l'astrologia nell'ambito di una critica generale dei 'matematici'. Tra i dogmatici, gli epicurei ritenevano che gran parte delle indagini degli astronomi, come pure degli astrologi, non fosse che vana speculazione. Tuttavia, tra i difensori dell'astrologia figuravano molti tra i più importanti teorici dell'astronomia dell'Antichità e, in particolare, Tolomeo. Secondo quest'ultimo, sia lo studio dei corpi celesti sia le predizioni, basate su questo studio, degli eventi che si sarebbero verificati sulla Terra, sono legittimi, ma, mentre l'astronomia è, o dovrebbe essere, esatta, l'astrologia è congetturale, basata su ipotesi, che tuttavia, a suo avviso, avevano superato la prova del tempo (Tetrabiblos, I, 1).

Il terzo fattore di complessità riguarda la disputa sui metodi d'indagine più appropriati alle scienze matematiche e, in particolare, all'ottica e all'armonia, che Aristotele considerava, come abbiamo già osservato, i mathḗmata 'più fisici'. Nella misura in cui richiedevano l'impiego della geometria e dell'aritmetica, queste ultime potevano essere assimilate agli stessi studi matematici e quindi essere considerate scienze esatte. Tuttavia, questi non erano i soli metodi o modi d'indagine adottati. L''armonia', per citare l'esempio più documentato, includeva un'ampia gamma di studi, a un'estremità della quale potremmo collocare le indagini volte a soddisfare le esigenze dei musicisti, di orientamento pratico ed estranee alla giustificazione teorica dei contrasti percepibili tra le consonanze e le dissonanze. All'estremità opposta si trova l'esortazione di Platone (Respublica, 530 d segg.) a considerare questo studio una branca della teoria dei numeri, vale a dire, l'indagine di quali numeri diano luogo a consonanze e quali no, senza tener conto dei suoni che si ascoltano. Tra questi due estremi ‒ tra coloro che concordavano nel ritenere che si dovesse tener conto sia della percezione sia della ragione ‒ vi erano però accese dispute sulla questione dei metodi più appropriati all'analisi, che per alcuni dovevano prendere a modello l'aritmetica, e per altri la geometria. Ci si chiedeva se il suono fosse un continuum e quindi, come la linea geometrica, fosse divisibile all'infinito o se, al contrario, i rapporti fondamentali fossero quelli che potevano essere espressi come proporzioni tra numeri interi. I più importanti testi antichi, da quelli risalenti al IV sec. a.C. di Aristosseno, fino a quelli redatti da Tolomeo e da Porfirio nel II e III sec. d.C., dimostrano l'esistenza di un'ampia gamma di posizioni, che esprimono non soltanto una maggiore o minore propensione a dar peso ai dati empirici e ai giudizi dei musicisti, ma anche diverse opinioni riguardo al tipo di matematica da applicare in questa scienza.

Si potrebbe essere indotti a pensare che se la 'medicina' e la 'matematica' erano costituite da una congerie di studi, la 'filosofia', che includeva la 'filosofia della Natura', fosse meno suscettibile di interpretazioni diverse e più univoca. È vero che nel periodo successivo ad Aristotele, le due scuole filosofiche più importanti e ben definite, vale a dire lo stoicismo e l'epicureismo, adottarono concezioni molto simili al campo d'indagine della 'filosofia', anche se le loro posizioni su alcune importanti questioni teoriche erano radicalmente opposte. Gli stoici ritenevano infatti che il Cosmo fosse unico, che l'Universo fosse pervaso da una causa intelligente e provvidenziale, che il tempo, lo spazio e la materia fossero continui divisibili all'infinito; gli epicurei sostenevano che il Cosmo fosse costituito da un numero infinito di mondi, che non esistesse alcuna causa provvidenziale e che il tempo, lo spazio e la materia fossero costituiti da unità atomiche indivisibili. Le due scuole filosofiche erano in disaccordo anche su questioni metodologiche ed epistemologiche, ma entrambe concordavano nel ritenere che tali questioni, nonché la logica e la spiegazione dei criteri della conoscenza, appartenessero al campo d'indagine della filosofia, come l'etica, del resto, che costituiva lo scopo principale dell'indagine filosofica. Sia per gli stoici sia per gli epicurei, la 'fisica', lo studio della Natura, era la terza componente della filosofia, anche se entrambe le scuole subordinavano la fisica all'etica: lo studio dei fenomeni naturali non era importante in sé, ma perché, fornendo le spiegazioni delle cause dei fenomeni, consentiva di raggiungere la pace dell'animo, l'ataraxía, condizione indispensabile per la felicità.

Nell'età ellenistica, quindi, almeno tra queste due scuole, esisteva un sostanziale accordo sulle principali componenti della 'filosofia'. Prima di allora, Aristotele si era limitato a stabilire alcune distinzioni di carattere generale tra le indagini pratiche e quelle teoriche, e nell'ambito di queste ultime, tra la 'teologia', la 'matematica' e la 'fisica'. Tuttavia, non dobbiamo sottovalutare le caratteristiche innovative della classificazione aristotelica, e neppure le divergenze tra i modelli di 'filosofia' e di attività 'filosofica' proposti prima di Aristotele. Certamente, coloro che convenzionalmente sono designati come 'filosofi presocratici', non pensavano a sé stessi come a individui impegnati nello stesso genere di indagine, che perseguivano gli stessi scopi e indagavano gli stessi temi. In ogni caso, il termine 'filosofia' appare raramente nei testi antecedenti a Platone che ci sono pervenuti, e quando è utilizzato da Eraclito per designare coloro che sono "esperti di molte cose" (DK 22 B 35) esso non implica un'approvazione incondizionata. I pitagorici ed Empedocle si distinguono per l'interesse per le norme etiche connesse alla salvezza dell'anima, che credevano potesse trasmigrare, dopo la morte, in altre specie di creature viventi. Alcuni presocratici elaborarono concezioni cosmologiche, sottolineando in molti casi la natura divina dei principî fondamentali evocati in queste concezioni. Coloro che Aristotele definisce physikoí, 'naturalisti' o filosofi della Natura, tentarono di spiegare diversi tipi di fenomeni naturali, dai terremoti alle eclissi e alle differenze esistenti tra la costituzione fisiologica degli individui di sesso maschile e quelli di sesso femminile. Anche se Platone critica queste concezioni che, a suo avviso, non tengono conto dell'azione del 'bene', è necessario tuttavia precisare che per molti naturalisti la Natura era divina in sé stessa, anche se nessuno di essi evoca particolari divinità per spiegare i fenomeni naturali.

Queste osservazioni preliminari, in cui si rivela la diversità delle applicazioni di alcuni dei principali termini classificatori, indicano i presupposti fondamentali su cui si deve basare ogni tentativo di risolvere i problemi relativi alle origini e alla periodizzazione della scienza greco-romana. Bisogna innanzi tutto scomporre la 'scienza' nelle sue principali componenti: la medicina, la matematica, la filosofia della Natura e così via. In tal modo, ci si renderà immediatamente conto che sarebbe assurdo pensare di poter dare una risposta precisa al problema delle origini della medicina greca, se con quest'espressione si designano le origini dell'interesse per i tentativi di alleviare la sofferenza e di curare le malattie; questo interesse, infatti, nasce con il genere umano. Il fenomeno che dobbiamo proporci di definire è invece quello dell'emergere di una vera e propria pluralità di concezioni e di pratiche mediche, che, come abbiamo sottolineato, includeva un'ampia gamma di posizioni, che andavano dal ricorso al sovrannaturale al tentativo di enunciare esaurienti teorie naturalistiche sulle malattie e sui metodi di cura.

Ciò vale anche per la matematica, in quanto l'utilizzazione dei numeri e delle operazioni di calcolo, in una delle tante forme assunte dalla registrazione delle notazioni, è largamente diffusa, se non universale nelle società umane. In questo caso il nostro explanandum sarà lo sviluppo, in Grecia, di concezioni ben determinate su ciò che la 'matematica' poteva o doveva includere e di tipi ben determinati di ragionamento matematico. Quindi, partendo dall'emergere di idee concorrenti sulla natura della conoscenza matematica, passeremo a definire il tentativo di elaborare dimostrazioni deduttive dei teoremi matematici e di esporre l'intero sapere matematico all'interno di un'unica cornice. Giungiamo infine al pluralismo nella 'filosofia'. La concezione secondo cui la filosofia greca sarebbe nata nel VI sec. a.C., con l'opera di un solo individuo, Talete, deriva in definitiva da Aristotele; quest'ultimo infatti affermò che la ricerca di quelle che definiva cause naturali era iniziata con Talete. Orbene, se è vero che Talete elaborò una concezione cosmologica, o più esattamente cosmogonica, basata su un principio materiale, l'acqua, non bisogna però dimenticare che, come abbiamo già constatato, nel periodo presocratico esistevano molti stili diversi di indagine filosofica. Il nostro explanandum in questo caso non deve essere l'origine della 'filosofia' in sé, ma l'emergere di questi stili e scopi in diretta competizione tra loro, attraverso i quali diversi tipi di maestri intellettuali si contendevano la fama e il prestigio. In tutti questi casi, il pluralismo presente nei diversi campi d'indagine, benché renda più arduo il compito d'individuarne il punto d'origine, ci fornisce anche importanti indicazioni sul modo in cui affrontare il problema; in ciascuno di essi, il fattore evolutivo su cui dobbiamo concentrarci è lo sviluppo di una particolare cornice degli scambi intellettuali, che consentiva di esprimere concezioni alternative e di valutare i loro meriti e i loro punti deboli. Per comprendere il fenomeno indicato dall'espressione composita 'antica scienza greca', dobbiamo, prima di tutto, concentrarci sull'emergere della rivalità e del dibattito.

Naturalmente, nessuna spiegazione di fenomeni complessi come quelli ora indicati può riuscire a individuare tutte le condizioni necessarie, per non dire sufficienti, all'explanandum, ma alcune osservazioni, positive e negative, possono contribuire in una certa misura a precisarne la descrizione. In primo luogo, da un punto di vista negativo si può affermare che l'emergere di una tale cornice di scambi intellettuali sarebbe stata inconcepibile in una società autoritaria, per esempio in una cultura dominata da una forma di ortodossia religiosa, o da un rigido rispetto per le tradizioni del passato. I Greci ammiravano poeti come Omero ed Esiodo, legislatori leggendari come Licurgo, ma certamente non fino al punto di ritenere che queste figure fossero al di sopra di ogni critica; al contrario, molti dei filosofi più antichi, tra cui, per esempio, Senofane ed Eraclito, criticarono esplicitamente Omero ed Esiodo ‒ oltre che alcuni filosofi. In secondo luogo, e questa volta da un punto di vista positivo, i dibattiti nel campo della medicina, della filosofia della Natura, della matematica, possono essere paragonati, al di là degli aspetti rigorosamente intellettuali e teoretici, a quelli che si svolgevano nelle sfere della politica e della giustizia. Molti cittadini greci avevano una vasta esperienza diretta dei dibattiti delle assemblee politiche e dei tribunali e, benché fosse particolarmente diffuso nelle democrazie, questo fenomeno non era certamente limitato a queste ultime. Nelle discussioni relative a quale fosse la migliore costituzione politica emerge un pluralismo molto simile a quello riscontrato nel campo della medicina e della filosofia, dove concezioni o soluzioni profondamente diverse dei problemi potevano essere discusse in dibattiti aperti. Nei tribunali, dove spesso più di cento dikastaí esercitavano allo stesso tempo il ruolo di giudici e di giurati, furono elaborati stili di difesa ancora una volta analoghi a quelli impiegati largamente nel campo dell'indagine scientifica. Senza dubbio, non intendiamo affermare che gli sviluppi scientifici qui presi in esame fossero un prodotto diretto dei processi politici. Se pensiamo del resto alle circostanze generali che portarono all'accettazione dei dibattiti scientifici, la loro accettabilità, o meglio, la loro familiarità in campo politico e giuridico non può non essere considerata un contributo importante.

Nel ridefinire i problemi relativi alle sue origini, scopriamo che la 'scienza greca' ha profonde radici sociali e culturali nel pluralismo degli organismi politici greci e nella pratica di certe forme di scambio intellettuale in altre sfere della vita della società greca. Ora dobbiamo chiederci in quale misura la tradizionale periodizzazione della storia greca, dai tempi più antichi alla dominazione romana del mondo mediterraneo, possa risultare valida anche nelle questioni relative allo sviluppo del pensiero scientifico.

Tradizionalmente si usa dividere la storia greca in quattro periodi principali, che sono l'arcaico (anteriore alla nascita delle istituzioni delle città-stato), il classico (fino alle conquiste di Alessandro), l'ellenistico (fino alla conquista di Alessandria da parte dei Romani) e quello romano.

Non ci dilungheremo sul primo di questi quattro periodi, per le ragioni già esposte a proposito del tema delle 'origini'. Naturalmente, sin dall'inizio della loro storia, i Greci tentarono di curare le malattie e utilizzarono i numeri, ma, come abbiamo già osservato, non è questo il punto. Gli sviluppi messi in luce nel campo della medicina, della matematica e della filosofia della Natura non sono mai anteriori alla nascita delle città-stato. Ma la transizione dal periodo classico a quello ellenistico fu accompagnata da cambiamenti significativi in campo scientifico? Possiamo affermare che in questo senso si rivelò decisiva la fondazione della stessa Alessandria, poiché, a partire da questo momento, se Atene seguitò a essere il più importante centro dell'attività filosofica (rappresentata da scuole come lo stoicismo e l'epicureismo), molte aree della matematica e della medicina subirono una significativa evoluzione in altri centri e, in particolare, proprio ad Alessandria. Esamineremo più avanti la spinosa questione delle dimensioni dell'attività di promozione della ricerca da parte del Museo fondato dai Tolomei ad Alessandria e di istituzioni rivali, create in altre città del mondo ellenistico, anche se precisiamo sin d'ora che i mecenati non intendevano tanto promuovere la scienza, quanto attrarre le personalità più in vista in ogni disciplina.

Dal punto di vista intellettuale, certi cambiamenti riassumibili nell'espressione 'specializzazione delle scienze' ebbero luogo nell'età ellenistica, vale a dire dopo la morte di Aristotele. Abbiamo già osservato che in questo periodo, nonostante un maggior consenso sulle parti della 'filosofia', vi erano ancora accesi dibattiti su problemi fondamentali di fisica, di epistemologia e di etica, le sue componenti. Inoltre, la funzione del vasto compendio di conoscenze matematiche compilato da Euclide, gli Elementi, fu quella di offrire uno specifico modello di ragionamento matematico. Alcuni di coloro che si richiamavano a questo modello limitarono le loro attività alla matematica o a quelle branche della fisica che potevano essere affrontate attraverso la matematica, come dimostrano i casi di due insigni ricercatori, Archimede e Apollonio.

Tuttavia, non bisogna esagerare il livello di diffusione di questa tendenza alla specializzazione. Abbiamo già menzionato gli esempi di Galeno e di Vitruvio, che dimostrano come i confini che dividevano la 'filosofia' dall''architettura' e dalla 'medicina' fossero messi in discussione da autori che si ritenevano impegnati in entrambi i campi. Per quanto riguarda la matematica, sarà sufficiente citare il caso esemplare di Tolomeo, i cui interessi spaziavano dall'astronomia all'astrologia, dall'armonia all'ottica, come pure alla metodologia e all'epistemologia, prese in esame nel breve trattato intitolato Il criterio e l'egemonico. Tutti questi esempi dimostrano che, nonostante la crescente specializzazione di certe aree d'indagine, almeno fino al II sec. d.C. esistevano ancora ricercatori 'generalisti', che si dedicavano a un'ampia gamma di indagini.

A partire dall'età ellenistica, aumentò la deferenza per la tradizione e l'autorità e, in particolare, per i nomi più illustri della scienza classica; dopo il II sec. d.C. la spinta innovativa declinò, come dimostra l'evoluzione stilistica dei testi sopravvissuti, in cui i commentari, per definizione destinati non tanto all'esposizione di idee originali quanto alla preservazione e all'interpretazione delle grandi opere del passato, assunsero un'importanza crescente. Tuttavia, quest'evoluzione non pose fine al dibattito, come dimostrano le polemiche, spesso aspre, tra i diversi commentatori di Aristotele e, in particolare, quella che nel VI sec. oppose Simplicio, un pagano di Atene, a Filopono, un cristiano di Alessandria. Del resto, la forma del commentario non precluse la diffusione delle idee originali, per esempio nel campo dell'analisi dei problemi di quella che oggi chiamiamo dinamica, anche se in alcuni casi le nuove idee erano presentate come corrette interpretazioni del pensiero degli autori del passato.

È importante osservare che il mutamento della situazione politica delle città-stato greche che, in seguito alle conquiste di Alessandro e poi a quelle di Roma, persero gran parte della loro indipendenza, non coincise con la perdita di quello che abbiamo identificato come il carattere distintivo della storia dell'indagine scientifica greco-romana, vale a dire la discussione e la valutazione di concezioni alternative attraverso l'argomentazione e il dibattito aperti.

La conoscenza della Natura e le sue giustificazioni: ragione e osservazione

Tra coloro che oggi consideriamo i più insigni scienziati greci e romani non esisteva, come si è detto, alcuna identità di vedute sulla natura dell'indagine scientifica; essi, infatti, affrontavano gli stessi temi con scopi, metodi e concezioni diversi gli uni dagli altri e non si consideravano 'scienziati', ma 'medici', 'matematici', 'architetti' o 'filosofi'. Molti ritenevano che le loro indagini fossero finalizzate alla comprensione della Natura, ma vi erano moltissime dispute sia sui metodi da adottare per raggiungere questo scopo sia su ciò che rientrava nell'ambito della 'Natura' stessa. Questo ci porta a esaminare la questione del modo in cui era giustificata la validità delle spiegazioni dei fenomeni naturali. Coloro che partecipavano a tali dispute ritenevano infatti che la giustificazione delle proprie tesi fosse il loro compito principale. Inoltre, l'antagonismo tra valutazioni contrastanti non nasceva soltanto dal desiderio di offrire la spiegazione più esauriente dal punto di vista intellettuale; come si vedrà, erano in gioco i mezzi di sussistenza e la reputazione dei disputanti. Inizieremo, tuttavia, col riepilogare gli argomenti più importanti. Con una certa approssimazione si possono individuare due approcci principali, ciascuno dei quali si presenta in diverse varianti, talvolta opposte le une alle altre, ma in alcune occasioni combinate tra loro. Il primo è rappresentato dalle concezioni che pongono l'accento sulla ragione, e il secondo da quelle che sottolineano il ruolo dell'osservazione e dell'esperienza.

La concezione secondo cui le tesi relative alla conoscenza devono essere giustificate attraverso il ricorso alla ragione ed elaborate basandosi sulla ragione risale al V sec. a.C. e, in particolare, a Parmenide. Secondo questo modo d'intendere, i dati della percezione sono non soltanto illusori, ma radicalmente falsi e devono quindi essere rifiutati. Anche se molti dissentivano dalle conclusioni a cui lo stesso Parmenide era giunto attraverso lo studio di 'ciò che è', secondo cui la pluralità, il divenire e il mutamento dovevano essere negati, tuttavia alcuni riconoscevano che i dati della percezione dovessero essere considerati inattendibili, e che solamente la ragione e l'argomentazione fossero guide affidabili nel cammino verso la verità. L'attenzione rivolta alla ragione e all'argomentazione suscitò un'esigenza non soltanto di verità, ma di certezza, che svolse un ruolo decisivo nello stimolare l'elaborazione della nozione di dimostrazione rigorosa. Platone ricorre più volte alla contrapposizione tra ciò che è certo (o ciò che può essere dimostrato) e ciò che è solo probabile, tra la conoscenza e l'opinione, e spesso se ne avvale per distinguere la vera filosofia dalla mera persuasione che altri ‒ i 'sofisti', gli oratori, i politici ‒ manipolavano. Secondo Platone, i dibattiti che si svolgevano nei tribunali e nelle assemblee politiche erano un modello fortemente 'negativo' e il suo stile filosofico - tra i cui scopi non figuravano la probabilità né la persuasione, bensì la verità oggettiva, garantita dalla spiegazione razionale che il filosofo era in grado di offrire - doveva essere giudicato superiore rispetto a essi, così come agli insegnamenti dei sofisti.

Platone utilizzò il vocabolario della dimostrazione senza, tuttavia, definire la dimostrazione stessa. Il merito di aver compiuto un ulteriore passo in avanti, e di aver fornito questa definizione spetta infatti ad Aristotele. Negli Analitici primi ‒ il primo trattato di logica formale ‒ Aristotele studia tutte le forme valide di ragionamento sillogistico e negli Analitici secondi afferma che una dimostrazione rigorosa, oltre a essere formalmente valida, deve essere basata su premesse che rispondano a requisiti ben definiti, vale a dire su premesse vere, primarie e dimostrative delle conclusioni. Le premesse maggiori, quelle da cui discende la dimostrazione, non possono essere dimostrate per evitare i due problemi tra loro connessi del circolo vizioso e del regresso all'infinito; esse devono essere punti di partenza indimostrabili ma riconosciuti come veri, e Aristotele le suddivide in assiomi, definizioni e ipotesi.

Gli esempi da lui citati sono tratti soprattutto dalla matematica, anche se la ricomposizione delle argomentazioni matematiche in sillogismi si rivela in una certa misura artificiosa o difficoltosa. Tuttavia, il modello aristotelico della dimostrazione esercitò un forte potere d'attrazione, tanto che alcune sue versioni furono riproposte non soltanto nella matematica e in certe branche dell'indagine matematica come l'armonia e l'ottica, ma anche in campi completamente diversi, come, per esempio, in quelle che oggi chiamiamo scienze della vita e persino nella medicina. Lo stesso Aristotele, soprattutto nelle ultime sezioni degli Analitici secondi, cita alcuni esempi tratti da altre aree d'indagine, per esempio dalla botanica, ma nella pratica delle sue vaste indagini zoologiche egli non presenta i risultati sotto la forma di sillogismi conformi ai criteri della dimostrazione rigorosa indicati negli Analitici secondi. A dire il vero, questi risultati non sono presentati in genere sotto la forma di sillogismi, e, nel Libro I del De partibus animalium, per esempio, troviamo conferme esplicite del fatto che in questo contesto l'autore ricorre a una nozione meno rigorosa di dimostrazione, probabilmente perché era ben conscio della complessità dei problemi affrontati e della natura provvisoria dei suoi risultati.

Il fascino del modello della dimostrazione rigorosa derivava, oltre che dall'analisi teorica di Aristotele, anche dall'effettiva pratica dei matematici greci. Gli Elementi di Euclide, in particolare, dimostravano che era possibile esporre un ricco corpus di conoscenze matematiche in un unico e completo sistema assiomatico-deduttivo. In seguito, la statica e la dinamica di Archimede, per esempio, assunsero la forma di studi rigorosamente matematici, in cui una sequenza di risultati è dedotta da una serie limitata di postulati. L'esigenza di offrire una dimostrazione rigorosa emerge chiaramente anche nella sua De mechanicis propositionibus methodus, dove un certo 'metodo' meccanico ‒ probabilmente quello in base al quale le forme geometriche sono analizzate nei segmenti indivisibili che le costituiscono e raffrontate le une alle altre intorno a un punto che serve da fulcro ‒ è definito esplicitamente un metodo euristico. I risultati così ottenuti, benché corretti, devono, secondo l'autore, essere dimostrati attraverso i metodi di esaustione, rigorosamente matematici. Ancora una volta, in alcune branche della matematica ‒ come, per esempio, l'armonia e l'astronomia ‒ l'esigenza di esattezza si esprime nell'esortazione all'uso dell'aritmetica e della geometria. Nel libro che apre la Syntaxis mathematica, il trattato astronomico di Tolomeo, si proclama la superiorità della 'matematica' (in cui è inclusa l'astronomia matematica) sia sulla 'teologia' sia sulla 'fisica'; secondo Tolomeo, l'oggetto della teologia è piuttosto oscuro e la fisica è il regno della congettura, mentre la matematica consente di ottenere risultati certi, garantiti dall'impiego di argomenti geometrici e matematici.

È più sorprendente ritrovare il modello della dimostrazione rigorosa, more geometrico, assunto come ideale in aree d'indagine molto distanti, per esempio negli studi medici. Galeno, che era anche un originale logico formale, afferma che questo genere di dimostrazione deve essere impiegato il più ampiamente possibile dai medici teorici, e nella sua discussione sulle sedi delle diverse funzioni vitali, afferma di aver dimostrato che la sede del sistema nervoso è il cervello, e quella delle passioni il cuore. D'altro canto, nell'applicazione della nozione di ragionamento assiomatico-deduttivo allo studio dei fenomeni naturali, si riproponeva continuamente il problema di riuscire a enunciare proposizioni che esprimessero assiomi indimostrabili ma conosciuti come veri. Il paradosso è che lo stesso Galeno fu un grande indagatore empirico e riuscì a fornire descrizioni minuziose, per esempio, dei percorsi e delle funzioni di particolari nervi. Quelle che potrebbero essere definite le sue dimostrazioni anatomiche, tra le quali la scoperta del nervo ricorrente laringeo, erano di prim'ordine, ma non rispondevano ai suoi stessi rigorosissimi criteri secondo cui una dimostrazione poteva essere considerata valida solamente se era ricomposta in un enunciato logico formale, e derivata da punti di partenza assiomatici.

Se alcuni ritenevano che le tesi relative alla conoscenza dovessero essere giustificate attraverso il ricorso alla ragione e all'argomentazione, altri si richiamavano all'osservazione e all'esperienza, ricorrendo a concetti quali 'percezione' (aísthēsis), 'ricerca' (historía) e molti altri che si riferiscono all'esperienza e alla verifica (empeiría, peĩra). Se Parmenide aveva rifiutato i dati della percezione, che considerava fuorvianti, già nel periodo presocratico altri avevano restituito loro almeno una certa credibilità. Già prima di Parmenide, Senofane aveva affermato che la verità non è rivelata, ma che va scoperta col passare del tempo. Alla fine del V sec., Anassagora enunciò il principio fondamentale secondo cui bisogna usare ciò che appare (i phainómena) come 'immagini' di ciò che è oscuro, una concezione in seguito confermata dall'atomista Democrito. Questo significava, in molti casi, inferire spiegazioni di fenomeni oscuri basandosi su analogie, avvertite o intuite, con fenomeni più familiari.

Nel trattato medico già menzionato, L'antica medicina, troviamo una delle più fondate critiche del dogmatismo riduttivo che, secondo l'autore, derivava da un'errata riproposizione nel campo della medicina di idee tratte dalla filosofia, nel tentativo di derivare l'intera medicina da un limitato numero di 'ipotesi', come il caldo e il freddo o l'umido e il secco. Benché non sia possibile sapere a chi fossero rivolte queste critiche, le concezioni biasimate dall'autore presentano evidenti analogie con quelle di alcuni cosmologi presocratici che avevano tentato di spiegare la grande diversità dei fenomeni basandosi su uno o pochi principî. In alternativa all'uso delle 'ipotesi', l'autore propone una concezione della medicina basata sull'esperienza. È questo l'antico metodo, sperimentato e verificato, attraverso il quale la medicina ha compiuto e potrà seguitare a compiere le sue scoperte. I postulati arbitrari sono irrilevanti. Come in altre arti, anche nella medicina vi sono buoni e cattivi praticanti che, almeno in una certa misura, occorre giudicare in base ai risultati. Ci troviamo in presenza di una delle più chiare asserzioni del punto di vista secondo cui per essere considerato legittimo uno studio non deve necessariamente offrire delle certezze. A coloro che si ostinavano a esigere principî incontrovertibili, questo medico teorico ribatteva che la medicina è un'arte autentica anche se soltanto raramente raggiunge la certezza.

In molti casi, i tentativi di sviluppare metodi d'indagine empirici e di ampliare la raccolta dei dati disponibili ebbero uno scarso successo. Ricorderemo soltanto uno di questi tentativi, lo studio del vuoto, prima di rivolgerci ad altri esempi, in cui l'impiego di metodi empirici diede risultati più significativi.

Il dibattito sul vuoto è una delle questioni sulle quali le più importanti scuole filosofiche ellenistiche si schierarono su posizione opposte. Come Platone e Aristotele, gli stoici ritenevano che lo spazio, il tempo e la materia fossero continui divisibili all'infinito, mentre gli epicurei svilupparono le concezioni degli atomisti del V sec. a.C. Leucippo e Democrito, secondo i quali questi enti erano in definitiva costituiti da unità indivisibili. Sia gli stoici sia gli epicurei ritenevano che la percezione fosse il criterio ultimo della verità; tuttavia, questo problema fisico non poteva essere risolto con un semplice appello a ciò che ognuno poteva osservare. Così, entrambe le parti si richiamarono alla stessa serie di fenomeni, interpretandoli sulla base di diversi presupposti impliciti. Gli epicurei sostenevano che per spiegare il movimento bisognasse presupporre degli spazi vuoti tra gli oggetti; gli stoici si appellavano all'esempio dei pesci che si muovono nell'acqua, a riprova del fatto che questi spazi vuoti non fossero necessari, sebbene a questa obiezione gli epicurei avrebbero potuto ribattere che gli spazi vuoti esistevano benché non fossero osservabili.

Un più deciso tentativo di presentare nuove realtà empiriche mostra quanto fosse difficile percorrere questa strada. Nel I sec. d.C. Erone di Alessandria diede un valido contributo a numerose discipline, dalla geometria all'analisi tecnica della costruzione delle macchine belliche. Nel trattato dedicato allo studio dell'aria, la pneumatica, Erone critica coloro che propongono teorie senza produrre prove tangibili dei risultati e accusa i 'filosofi' di assegnare l'onere della prova soltanto all'argomentazione. Erone tenta di dimostrare le proprie concezioni, per esempio l'idea che il vuoto potesse essere prodotto artificialmente, richiamandosi ai fenomeni percepibili, e a tal fine descrive una serie di esperimenti che dimostrano, tra l'altro, la possibilità di evacuare l'aria da un recipiente a tenuta stagna o di comprimerla al suo interno. Benché siano descritti con notevole accuratezza, questi esperimenti sono però chiaramente inconcludenti; i teorici del continuum che Erone intendeva confutare, avrebbero potuto, infatti, interpretare questi risultati alla luce della propria tesi dell'elasticità della materia e negare che essi dimostrassero che il vuoto può essere creato artificialmente.

Si è spesso sostenuto che il vero punto debole della scienza greco-romana fosse quello di non attribuire la dovuta importanza alla sperimentazione, ma questa tesi non è che una semplificazione eccessiva, dettata da criteri anacronistici. L'esempio di Erone dimostra che in alcune occasioni si tentò di creare artificialmente le condizioni che consentissero di indagare sui fenomeni, anche se non sempre questi tentativi portarono alla risoluzione dei problemi affrontati. Quello di Erone non è un caso isolato. Nelle sezioni dell'Ottica, dedicate allo studio della riflessione e della rifrazione della luce, Tolomeo descrive alcuni esaurienti esperimenti sia per dimostrare le leggi della riflessione sia per misurare gli angoli di rifrazione in tre coppie di mezzi, dall'aria all'acqua, dall'aria al vetro e dall'acqua al vetro. Le indagini di Tolomeo sulla rifrazione illustrano un altro problema relativo agli esperimenti antichi; l'esame dei risultati mostra infatti che essi furono aggiustati affinché concordassero con le leggi teoriche ‒ implicite ‒ che l'indagine si proponeva di esplorare. In questo, e in molti altri casi, gli esperimenti descritti dagli autori greci e romani servivano più a confermare la prova a cui ci si appellava che a operare una discriminazione tra ipotesi alternative ugualmente credibili in partenza. L'ideale secondo cui ci si deve dedicare alla sperimentazione e valutare i suoi risultati partendo da presupposti neutrali era in via generale estraneo al pensiero antico.

Tuttavia, bisogna ricordare un caso in cui i metodi empirici portarono a sviluppi sorprendenti, cioè l'indagine dei problemi nel campo dell'anatomia e della fisiologia in cui ci si avvalse della dissezione e talvolta della vivisezione di animali e persino, in un ristretto numero di occasioni, di esseri umani. Il primo ricercatore greco ad applicare questi metodi allo studio di organismi animali fu Aristotele. Egli non affrontò lo studio della zoologia con uno spirito induttivo, raccogliendo una serie di dati considerati utili in sé, ma affermò, al contrario, di voler rivelare le cause dei fenomeni e, in particolare, le cause formali e finali, anche se il modo in cui tentò di conseguire tale obiettivo dimostra che le sue indagini zoologiche non si limitarono alla ricerca di dimostrazioni assiomatico-deduttive ispirate al modello degli Analitici secondi. L'uso di questi metodi su soggetti umani fu in gran parte limitato alle indagini di Erofilo ed Erasistrato, due medici alessandrini attivi all'inizio del III sec. a.C.; ricordiamo che ad Alessandria l'osteologia umana seguitò a essere insegnata fino ai giorni di Galeno. Queste indagini si distinguono per tre fondamentali caratteristiche. In primo luogo, esse dipendevano dal sostegno dei Tolomei; secondo Celso, la principale fonte di conoscenze sul corpo umano, cioè la vivisezione, era praticata, infatti, su criminali detenuti nelle prigioni regie. In secondo luogo, le dissezioni anatomiche e le vivisezioni praticate nel primo periodo ellenistico aprirono indubbiamente la strada a una serie di importanti scoperte, tra cui quella del sistema nervoso. In terzo luogo, questi metodi erano e rimasero profondamente controversi. Il ricorso alla vivisezione, per esempio, era condannato dallo stesso Celso, che lo giudicava crudele; altri sostenevano che anche la pratica della dissezione fosse inutile (dal momento che i medici potevano acquisire le conoscenze anatomiche di cui avevano bisogno attraverso la pratica clinica) o persino che i suoi risultati fossero irrilevanti poiché riguardavano non il corpo nel pieno possesso delle sue funzioni, vivente, ma quello morto. Molti medici ellenistici, soprattutto quelli noti come empirici e metodici, adottarono un atteggiamento negativo nei confronti sia della dissezione sia della vivisezione, anche se, nel II sec. d.C., come abbiamo già accennato, ciò non impedì a Galeno d'impiegare questi metodi nelle sue vaste indagini anatomiche.

Nel corso dell'Antichità classica la questione dei metodi più appropriati alle diverse aree d'indagine fu discussa non meno di altri importanti problemi che concernevano i temi più disparati, dalle cause delle malattie e dai costituenti ultimi degli oggetti fisici, alle corrette spiegazioni delle armonie musicali o dei moti dei pianeti. Spesso le questioni metodologiche emergevano proprio nelle dispute attorno a questi problemi fondamentali: agli avversari era contestata la comprensione stessa dell'argomento in questione o i metodi d'indagine, per concludere che se i metodi impiegati non erano corretti, le loro tesi non potevano che essere false. In questo paragrafo abbiamo rivolto la nostra attenzione a una caratteristica costante della scienza greco-romana, l'esigenza di giustificazione; il pluralismo preso in esame nel paragrafo precedente si estendeva anche ai modi di giustificazione. Il nostro prossimo compito sarà quello di riesaminare le cornici istituzionali all'interno delle quali operavano gli antichi ricercatori greco-romani e di dimostrare che la rivalità tra gruppi e individui in diretta competizione tra loro fu un fattore decisivo nella definizione di una delle più importanti cornici intellettuali in cui erano condotte le antiche ricerche.

Le istituzioni: le rivalità tra gruppi e individui

Quali erano le istituzioni all'interno delle quali era condotta la ricerca scientifica greco-romana? Come si guadagnavano da vivere, ammesso che fossero costretti a farlo, coloro che si dedicavano a questa attività? In quale misura dipendevano dal mecenatismo, e, nei casi in cui è riscontrabile l'esistenza di questa forma di protezione della cultura, quali erano le motivazioni dei mecenati?

Abbiamo in parte già descritto le profonde differenze che dividono il mondo moderno da quello antico. Gli antichi non disponevano di laboratori di ricerca che finanziassero le ricerche degli scienziati; non vi erano neppure istituzioni paragonabili, quanto a capacità organizzative, ai moderni dipartimenti scientifici universitari. Ci è nota l'esistenza di alcune istituzioni, per esempio le scuole di filosofia di Atene, ma coloro che vi operavano si guadagnavano da vivere con l'insegnamento, più che con la ricerca. Ad Alessandria, i Tolomei fondarono il Museo e un'imponente biblioteca, ben presto imitati in altre città ellenistiche, ma nessuna di queste istituzioni era esclusivamente destinata a promuovere la ricerca scientifica. Del mecenatismo dei Tolomei beneficiarono non soltanto scienziati come Erofilo ed Erasistrato ma anche poeti, critici letterari e grammatici. Secondo quanto afferma Filone di Bisanzio, i Tolomei finanziarono anche alcuni studiosi di problemi meccanici, ma per un ben preciso motivo di ordine pratico, dato che nel caso citato le loro ricerche dovevano servire a perfezionare le catapulte e altri strumenti bellici. Possiamo quindi affermare che nel mondo greco-romano il mecenatismo di cui beneficiò la scienza fu limitato negli scopi e incostante nelle applicazioni, dal momento che dipese sempre dal capriccio dei mecenati. Anche la vasta attività di mecenatismo dei Tolomei fu motivata soprattutto dalla ricerca della fama e del prestigio.

Gli scienziati che abbiamo ricordato potevano essere remunerati per i servizi che offrivano; i vari tipi di medici erano pagati per curare gli ammalati e, a partire dalla fine del periodo classico, in alcuni casi essi furono assunti dalle città per esercitare la propria professione al servizio del pubblico, e più tardi ad alcuni fu accordata l'esenzione da certe tasse. Gli architetti erano pagati non soltanto per progettare e costruire edifici; Vitruvio racconta, infatti, che uno dei suoi compiti era quello di soprintendere alla costruzione e alla manutenzione delle catapulte e delle baliste. Gli astrologi, poi, potevano sempre contare su una vasta clientela.

A queste professioni si può forse aggiungere la principale attività di chiunque rivendicasse il possesso di qualsiasi tipo di conoscenza specifica, vale a dire l'insegnamento. Non ci riferiamo soltanto ai filosofi, ma anche ai matematici e ai medici, che si guadagnavano da vivere o integravano i loro proventi grazie a questa attività. Soprattutto nel secondo caso, l'insegnamento non serviva soltanto a soddisfare la curiosità di coloro che s'interessavano a una certa materia per ragioni di educazione generale; molti degli allievi di questi medici aspiravano infatti a esercitare a loro volta la professione.

Gli stili dell'insegnamento e i contesti in cui erano adottati erano molto diversi gli uni dagli altri. I cosiddetti sofisti del V sec. a.C. spesso ricorrevano alle lezioni pubbliche, sia come momento educativo in sé sia come mezzo per riuscire ad attrarre in modo permanente nuovi allievi. Sin dal periodo classico, si segnalano dibattiti pubblici tra oratori rivali; come abbiamo già osservato, questi dibattiti erano per molti aspetti analoghi a quelli che si tenevano intorno agli affari di Stato, nelle assemblee politiche, o a quelli tra accusatore e difensore nei tribunali. Secondo il trattato ippocratico del IV sec. a.C. La natura dell'uomo, a volte erano gli stessi spettatori a decidere a chi spettasse la vittoria. I dibattiti, quindi, oltre a essere teatro dell'esplorazione intellettuale dei problemi astratti, offrivano una valida opportunità a chi voleva farsi una reputazione. L'aggressivo antagonismo di molte discussioni intellettuali dell'antica Grecia non si spiega solamente con l'influenza esercitata dai modelli della politica e dell'amministrazione della giustizia; in esso si riflette anche il desiderio di notorietà di chi volesse imporsi (o confermarsi) come 'maestro' intellettuale, desiderio che induceva non soltanto a difendere il proprio punto di vista, ma anche a tentare di demolire quello dei rivali, dei predecessori e dei contemporanei, e, in alcuni casi, perfino quello dei loro stessi maestri.

Non sempre però i maestri greci operarono come individui isolati. Sia nel campo della filosofia sia in quello della medicina, molti si riunirono in gruppi, formando così delle 'scuole'; alcune di queste, come l'Accademia di Platone, il Liceo di Aristotele e il Giardino di Epicuro, disponevano di sedi, spesso dotate di biblioteche. In epoca romana, ai direttori di queste scuole lo Stato iniziò persino a corrispondere uno stipendio. Tuttavia, è necessario non dare troppa importanza al carattere formale delle istituzioni in questione e non travisare le intenzioni di coloro che le frequentavano. Gli allievi non si proponevano di conseguire un titolo che gli consentisse di dedicarsi a loro volta all'insegnamento; questo fenomeno infatti si diffuse soltanto nelle università del Tardo Medioevo, che, a partire da questo momento, iniziarono a svolgere funzioni completamente diverse da quelle delle antiche accademie, nelle quali non esistevano corsi di studio formali. Anche se, come abbiamo già osservato, sia gli epicurei sia gli stoici avevano elaborato idee ben definite riguardo alle componenti costitutive della 'filosofia', i singoli membri di questi gruppi avevano interessi personali molto diversi gli uni dagli altri. L'Accademia di Platone era frequentata da matematici e da aspiranti statisti, come pure da coloro che condividevano gli interessi metafisici di Platone. Anche la gamma degli interessi dei seguaci di Aristotele era molto ampia; non bisogna dimenticare che lo stesso Aristotele fu membro dell'Accademia per circa vent'anni.

Le scuole filosofiche non si proponevano di uniformare gli interessi dei loro membri e neppure di formulare una dottrina ortodossa, alla quale tutti gli associati fossero costretti ad aderire. È vero che gli epicurei erano noti per la loro fedeltà alle concezioni del fondatore della scuola, ma in generale il pensiero dei fondatori delle diverse scuole era reinterpretato a ogni generazione ‒ come dimostrano i dibattiti tra coloro che si definivano platonici sugli insegnamenti dello stesso Platone. Tuttavia, nel contesto dell'antagonismo tra le diverse scuole, i contrasti interni svolsero un ruolo importante. Le scuole si contendevano gli allievi, ma non potevano contare indefinitamente sull'adesione di coloro che avevano attratto. Tanto per le scuole, quanto per i singoli maestri, uno dei modi più efficaci per acquistare una certa reputazione e per consolidarla era il dibattito pubblico e, come nelle dispute individuali, la demolizione delle ragioni degli avversari era un elemento altrettanto decisivo per l'elaborazione delle proprie.

In questo contesto il ruolo delle scuole filosofiche fu quello di formare alleanze più o meno strette intorno a scopi argomentativi difensivi o offensivi. Inoltre, ritroviamo caratteristiche molto simili nei diversi gruppi che si formarono al di fuori del dibattito filosofico, persino nel campo della medicina. È vero che alcune delle cosiddette scuole mediche, per esempio quelle associate a Coo e a Cnido, o la più recente setta detta dei dogmatici, sono in gran parte frutto della fantasia dei commentatori o degli storici, ma, anche quando disponiamo di più valide prove del fatto che certi insegnamenti erano condivisi e trasmessi all'interno di un gruppo, come nel caso degli empirici e dei metodici del periodo ellenistico, il modello di riferimento non deve essere quello delle scuole mediche moderne, bensì quello delle antiche istituzioni filosofiche già prese in esame. Come i filosofi, a volte i medici si riunivano in gruppi per difendere le loro concezioni sulla natura della medicina e le loro teorie sulle malattie e sui metodi di cura.

In mancanza di altri tipi di istituzioni, simili, per esempio, a quelle in cui oggi ci si dedica alla scienza, queste antiche 'scuole' costituivano un elemento importante della cornice delle indagini filosofiche, mediche e di altre aree d'indagine. L'antagonismo stesso tra individui e gruppi può essere considerato un importante fattore di stimolo dell'analisi critica delle teorie enunciate, che finiva con l'influenzare lo stile spesso aggressivo dell'esposizione delle analisi. Il pluralismo riscontrato nelle diverse aree delle indagini antiche riflette questo antagonismo, attraverso il quale i singoli individui o i gruppi tentavano di acquisire una reputazione o di consolidarla. Ciò è evidente anche nello sviluppo delle dimostrazioni assiomatico-deduttive, che, come si è detto, fu dovuto sia alla pratica dei matematici sia alle riflessioni teoriche di Aristotele. Nel considerare l'influenza della prova more geometrico in altre aree d'indagine, bisogna infatti tener conto di un'ulteriore caratteristica, vale a dire che, nel contesto delle rivalità cui accennavamo sopra, l'incontrovertibilità, nei casi in cui poteva essere ottenuta, era una sorta di trionfo argomentativo. Nel momento in cui si raggiungeva la certezza, la vittoria era assicurata. Il problema che si poneva continuamente era che per ottenere questo risultato bisognava non soltanto operare un'inferenza valida, ma anche presentare assiomi veri, conosciuti come tali e indimostrabili, e nella pratica accadeva spesso che, non appena enunciata, la tesi che dimostrava l'incontrovertibilità, diveniva a sua volta oggetto di controversia.

Conclusioni

La scienza assunse forme diverse nelle differenti culture delle società antiche. I diversi aspetti delle indagini dei Babilonesi e degli Egizi nel campo dell'astronomia e della matematica sono stati presi in esame nelle sezioni precedenti di questo volume, mentre alle conquiste della scienza cinese sarà dedicato un altro volume di quest'opera.

Abbiamo dedicato il capitolo introduttivo di questa sezione alla descrizione della cornice in cui operavano gli scienziati greco-romani. A dire il vero, gli aspetti da prendere in considerazione sono molto più numerosi di quelli qui esaminati. Le idee di importanti, interessanti e originali ricercatori, infatti, si rivelano irriducibili a ogni tentativo di generalizzazione. Anche in questo caso, non possiamo che ribadire le riserve già espresse a proposito dei limiti di ciò che si può spiegare in maniera esauriente. Tuttavia taluni aspetti del modo in cui l'indagine scientifica greco-romana riflette la società in cui era condotta sono indubbiamente importanti. Il pluralismo, qui posto in evidenza, è doppiamente significativo. Da un lato, esso deve ispirare cautela agli interpreti e agli storici; i fenomeni che riconduciamo alla voce 'antica scienza greco-romana' infatti, non sono una serie omogenea e unitaria di indagini, come quest'etichetta potrebbe indurre a pensare. Gli antichi ricercatori in questione non potevano sapere che sarebbero stati considerati degli 'scienziati', non potevano prevedere il futuro. I loro scopi e i loro metodi erano in ogni caso diversi anche da quelli di coloro che nel XVII sec. si sarebbero richiamati ai modelli d'indagine dell'antica Grecia. Dall'altro lato, l'antico pluralismo mette in luce un'importante caratteristica della scienza greco-romana, che tenteremo di illustrare con alcune osservazioni comparative.

Come in molte altre società antiche, gran parte delle ricerche nel campo dell'astronomia fu condotta dai membri dell'élite intellettuale, ma in Grecia e a Roma quest'ultima non era rappresentata da una classe chiusa ed esclusiva di scribi. La questione della diffusione dell'alfabetizzazione nelle comunità greco-romane è ancora oggetto di discussione e sarebbe avventato pensare che coloro i quali sapevano leggere e scrivere anche soltanto il proprio nome fossero molto numerosi. Inoltre, abbiamo già avuto occasione di osservare che la tradizione medica non era affatto una prerogativa di coloro che erano in grado di compilare trattati su questo tema. Tuttavia, la capacità di scrivere era abbastanza diffusa da svolgere un ruolo significativo nella trasmissione delle idee nel mondo greco-romano sin dalla fine del periodo classico, anche se gran parte degli insegnamenti o, a dire il vero, gran parte degli scambi intellettuali, era oggetto di forme di comunicazione orali e dirette.

Le indagini degli astronomi, dei cosmologi e persino dei medici teorici erano utilizzate a sostegno di un messaggio politico o ideologico. La nozione secondo cui l'Universo è il prodotto di un'intelligenza ordinatrice benevola è molto più significativa delle importanti questioni relative all'indagine sui moti dei pianeti o dell'anatomia o sulla fisiologia degli esseri umani o di altri animali. Contrariamente a quanto accadeva nell'antica Cina o a Babilonia, in Grecia e persino a Roma, non vi era però alcuna identità di vedute sulla natura di quest'ideale politico. Come gli antichi Cinesi, i Greci comparavano il macrocosmo al microcosmo del corpo e a quello dello Stato, ma l'interpretazione del macrocosmo e dei microcosmi era molto più univoca per i Cinesi che per i Greci. Il pluralismo riscontrato nelle indagini scientifiche greco-romane rispecchia il pluralismo dei punti di vista politici, e il confronto tra questi ultimi non cessò neppure quando non vi fu più nessun'altra alternativa all'accettazione del dominio imperiale romano.

L'endemicità del dibattito ‒ o, più precisamente, della disputa ‒ nella cultura greco-romana non può comunque essere spiegata limitandosi ad affermare che i Greci erano litigiosi di natura. L'antagonismo riflette una caratteristica distintiva della carriera della maggior parte dei maestri intellettuali; per acquistare notorietà essi, infatti, ricercavano il prestigio derivante dalla vittoria argomentativa sui rivali nei dibattiti pubblici. Indipendentemente dalla profondità dei loro studi, era questo il modo più efficace attraverso il quale i filosofi, i medici teorici e gli altri ricercatori potevano farsi una reputazione, da cui dipendevano i loro mezzi di sussistenza, almeno come insegnanti. Qui emerge una profonda differenza con la posizione relativamente stabile garantita dai privilegi degli scribi dei templi di Babilonia o dall'accesso al servizio civile imperiale in istituzioni come l'Ufficio dell'Astronomia dell'antica Cina.

Il reinserimento dell'antica scienza greco-romana nel suo contesto ci consente, dunque, di osservare alcune delle sue ammirevoli conquiste non solamente come opera del genio individuale, ma anche come riflesso dello sviluppo di una particolare cornice dello scambio intellettuale della quale abbiamo descritto alcune principali caratteristiche. I capitoli che seguono saranno dedicati all'esame, quanto più possibile dettagliato, di tutti i complessi aspetti dell'opera di vari ricercatori, nei diversi periodi dell'Età Antica.

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