La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Scienza e cristianesimo: l'uomo e il Cosmo

Storia della Scienza (2001)

La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Scienza e cristianesimo: l'uomo e il Cosmo

Giulio Lucchetta

Scienza e cristianesimo: l'uomo e il Cosmo

Nell'affrontare i rapporti tra cristianesimo e scienza bisogna fare i conti con i modi propri dell'apologetica che, anche fuori dal clima del confronto diretto col paganesimo, mirano a evidenziare il disaccordo tra le grandi tesi sul mondo espresse dagli antichi e a sottolineare come queste proposte culturali si rivelino un sapere inutile ai fini della salvezza. Dal momento che un tale fine ultimo si realizza oltre i limiti dell'umana esistenza, tutto ciò che concerne l'orizzonte della vita terrena scompare dalla visione cristiana; di conseguenza, ci si dovrebbe aspettare un quasi unanime disprezzo per quel complesso di discipline volte a conoscere la Natura, il regno animale, la materia dell'Universo e il corpo umano; tuttavia, non tutte le voci dei Padri cristiani si uniformano a tale linea di pensiero. Per illustrare questa disparità di opinioni si è scelto di esaminare alcune interessanti ed emblematiche posizioni relativamente a due nuclei argomentativi, il corpo dell'uomo e il corpo del Cosmo, che in un certo senso caratterizzano la nuova temperie culturale.

Si vedrà, quindi, nella prima parte del percorso, come nei confronti della medicina, una disciplina scientifica che fin dalla più remota antichità pagana era stata oggetto di una venerazione così alta da sconfinare spesso nel mito, la diffidenza pregiudiziale espressa, per esempio, da Tertulliano sia progressivamente sostituita da un pacato e incontrovertibile processo di assorbimento dei contenuti di tale sapere ‒ è il caso di Basilio ‒ a prescindere dalla loro provenienza. Per di più, il patrimonio di nozioni di biologia e di anatomia, ereditato dal passato classico, arriva a essere riutilizzato, alla luce del nuovo significato da dare alla vita umana, entro lo statuto di una disciplina relativamente nuova come l'antropologia, che conta tra i suoi esponenti di spicco, oltre ai Padri cappadoci, Lattanzio e Boezio.

Se, per quanto riguarda il corpo umano e le sue cure, la polemica inizialmente accesa pare ben presto comporsi, invece essa rimarrà viva per quanto riguarda il corpo cosmico, al punto di riaccendersi durante le dispute trinitarie del V e VI sec.; però questa volta gli animi che si scaldano, contestando o valorizzando il rapporto con la cultura scientifica pagana, sono cristiani in ambedue i fronti, come testimonia la disputa sul numero e sulla forma dei cieli tra Teodoro di Mopsuestia, Filopono e Cosma Indicopleuste. In realtà, tale confronto rappresenta l'atto finale di un cammino divergente imboccato dai due indirizzi esegetici delle Sacre Scritture, che sono già presenti nel confronto precedente tra Origene e Basilio, riguardo alla dottrina della creazione del mondo e dell'origine delle specie naturali.

Le due diverse scuole di esegesi scritturale di Alessandria e di Antiochia giungono ora a far tesoro delle conoscenze degli antichi, ora a diffidarne, ma in definitiva non è più la scienza greca il motivo del contendere; la situazione è stata resa incandescente dai recenti confronti teologici i cui strascichi ancora dilaniano il mondo cristiano a Oriente. D'altronde, questo sembra il giudizio formulato in Occidente da un vescovo, Agostino, che, dal suo appartato osservatorio africano, restituisce il senso dell'equilibrio alla trattazione di argomenti propri della cultura scientifica, prefigurando in modo critico lo sviluppo esasperato delle posizioni teologiche.

La disputa sulla scienza pagana

Tertulliano

Nel contesto cristiano, Tertulliano (155/160-230 ca.) è la prima autorità spirituale che manifesta un'avversione autentica nei confronti della scienza dei pagani; nel suo De anima si scontra con i fisiologi dell'Antichità perché egli identifica l'anima nel respiro, considerando questo il principio vitale universale. Di fronte all'evidenza anatomica per cui il respiro non è presente in tutti gli esseri viventi, i quali per lo più si limitano a vivere ma non respirano essendo sprovvisti di particolari organi per la respirazione, egli si chiede quale sia "in un'indagine sull'anima umana, lo scopo di prendere in considerazione il problema della zanzara e della formica, dato che Dio artefice ha assegnato a tutti gli esseri viventi organi vitali propri a seconda della conformazione di ogni genere, tanto che non è possibile trarre alcuna conclusione da un argomento simile" (De anima, X, 2). Invece di riconoscere che il genere di prove addotte attraverso la comparazione con gli animali mette in difficoltà la sua teoria dell'anima/respiro, Tertulliano passa l'obiezione allo stesso Creatore, come se con tali argomenti i fisiologi intendessero mettere in dubbio la sua abilità. Non abbandonando la propria convinzione, gli viene spontaneo attribuire il mancato rinvenimento di riscontri reali all'incapacità dei medici di osservare il troppo piccolo; perplessità sono così sollevate sull'assunto che si possano fare esperienze risolutive. Tertulliano non dubita dell'uniformità dell'opera creatrice di Dio; dal respiro dipende la vita, manifestazione dell'anima, e il non rinvenirlo nella formica dipende unicamente dall'incapacità dell'anatomista. Ne deriva una pesante polemica sulla pratica sperimentale in medicina:

chi in verità si è addentrato nell'opera di Dio al punto tale da essere in grado di stabilire che questi organi mancassero a qualche essere vivente? Quel famoso Erofilo, medico o meglio vivisezionatore, il quale vivisezionò seicento corpi per esaminarne la natura, il quale odiò l'essere umano al fine di conoscerlo, che probabilmente non esplorò con coscienza tutte le sue viscere, dal momento che la stessa morte stava alterando quelle viscere prive di vita, e tanto più dato che non si trattava di una morte naturale, ma di un decesso vizioso avvenuto tra le operazioni della vivisezione? (ibidem, X, 4)

Il succo degli strali contro Erofilo è che la vivisezione risulta agli occhi di Tertulliano completamente inutile come prova, perché significa giudicare il vivente sulla base di ciò che vivente non è più. Un rilievo così acuto non gioca a favore di un metodo d'indagine più accorto, ma è usato tout court per annichilire questa indagine: "in questo campo infatti nessuno è un maestro, un giudice, un testimone così autorevole come il sesso della persona direttamente interessata. Parlate voi madri, voi che siete incinte, voi che siete puerpere, tacciano invece le donne sterili e i maschi" (ibidem, XXV, 3). Se Tertulliano si sofferma a descrivere lo stato di ascolto di una madre nei confronti del feto che vive nel proprio grembo è perché l'indicazione di questo accordo, di questo partecipare reciproco, di questo sentire profondo e viscerale, serve per mostrare come soltanto un vivente può offrire prove sulla natura di un altro vivente. All'appello alle madri, e dopo la descrizione della loro partecipazione alla vita che si forma, segue una cruda e analitica descrizione dello strumentario medico-chirurgico atto a procurare aborti; l'effetto drammatico è garantito e viene naturale il rigetto per quello che di raccapricciante la medicina ha saputo inventare, cioè strumenti di morte per chi dovrebbe venire alla vita. È evidente la forzatura ideologica; Tertulliano è un grande retore, non un uomo attratto da problemi scientifici. La competenza che egli mostra nel citare questo o quel chirurgo, questo caso famoso o quello strumento precipuo, è funzionale solamente ad acquistare agli occhi del proprio pubblico la fama di competente in materia, ma ogni vantata dimestichezza con i gabinetti chirurgici serve soltanto per denigrare pesantemente l'operato del medico; è il caso del famoso Erofilo classificato come lanius, cioè 'squartatore'. Se l'attività conoscitiva di quest'ultimo non rivela amore per l'umanità, Tertulliano offre allora un controesempio di scienza cristiana nelle visioni angeliche a cui andava soggetta una consorella che "conversa con gli angeli, a volte anche con il Signore, e vede e sente i misteri, conosce i cuori di certe persone e ottiene indicazioni sulla cura per quanti ne hanno bisogno" (ibidem, IX, 4). A garanzia del rigore di questa testimonianza, da una parte è messo in evidenza il fatto che le parole pronunciate durante le estasi "sono notate molto diligentemente perché siano ulteriormente esaminate" (ibidem), e, dall'altra parte, si dichiara l'esistenza di testimoni degni sicuramente di fede: "è testimone Dio e l'apostolo è il giusto garante all'interno dell'ecclesia dei futuri doni della grazia; ora se la stessa visione è risultata persuasiva fin nei particolari, dobbiamo crederle" (ibidem). Gli ambiti si sono sovrapposti, nel senso che si richiede al sapere scientifico quella 'comunione di intenti' propria della fede e alla fede la forza dimostrativa della scienza. Quale utilità può ancora avere la medicina per un credente che si lasci convincere da Tertulliano?

La 'terapia' dei Padri stiliti

L'esperienza diretta del malato, punto fermo della tradizione ippocratica, sembra non essere più necessaria, e non soltanto nell'episodio riportato da Tertulliano; la prassi terapeutica adottata da Antonio Abate, nella Vita redatta da Atanasio (295 ca.-373), è caratterizzata dal rifiuto categorico d'incontrare chi gli richiede la guarigione. O il santo fugge lontano, o la montagna si deve frapporre tra lui e il malato; solamente gli eventuali parenti sono ascoltati (Vita Antonii, 58, 1-5). L'incontro con il corpo del malato è sistematicamente evitato; d'altronde è evitato anche l'incontro con il proprio corpo, alla vista del quale il predecessore di Antonio, Amun, dovendo attraversare un fiume a nuoto, arrossì di vergogna (ibidem, 60, 1-6). Inutilizzabile è quindi tutta la circostanziata casistica raccolta dai medici antichi e la loro metodologia per usufruire dei dati dell'esperienza; il corpo malato né si visita né si ausculta; il sapere utile alla guarigione viene da Dio e soltanto la fede garantisce quel contatto che porta alla guarigione, come anticipazione della salvezza. Così, ai sapienti pagani che vanno a trovare Antonio (greci e per di più filosofi), egli appare incolto, in greco idiṓtēs, anzi, paradossalmente, proprio perché incolto, sapiente (ibidem, 72, 1-79, 6).

L'immagine di un cristianesimo decisamente avverso ad aprirsi alla cultura e alla ragione, e, al contrario, radicatissimo nei pregiudizi e nelle superstizioni, già perpetuate dalla religione egizia e dalle persistenti pratiche magiche, conosce una diffusione persino maggiore a giudicare da quello che era considerato il testo esemplare delle conoscenze naturalistiche ritenute utili alla salvezza del cristiano: Il fisiologo, bestiario biblico diffuso a cavallo tra il II e il III sec., tradotto e riscritto nelle varie culture locali dal V sec. in poi. La descrizione della formica risponde alle aspettative di Tertulliano:

ha detto Salomone nei Proverbi: "va' a vedere la formica, o pigro". Il fisiologo ha detto della formica che ha tre nature. La sua prima natura è questa; quando esse procedono in fila, ciascuna porta il suo chicco di grano in bocca, e quelle che ne sono prive non dicono alle compagne cariche: "dateci dei vostri chicchi", né glieli strappano con la forza, ma vanno a raccoglierne per conto proprio. Lo stesso si può trovare a proposito delle vergini sagge e delle vergini stolte. Seconda natura della formica. Quando mette in serbo il grano sotto terra, essa taglia in due parti i chicchi, perché al sopraggiungere dell'inverno essi non si inumidiscano e non comincino a germogliare e le formiche così non muoiano di fame. Anche i perfetti asceti nascondono allo spirito le parole del Vecchio Testamento, affinché la lettera non ti uccida; Paolo ha detto infatti: "la Legge è spirituale". Essendosi rivolti alla semplice lettera i Giudei sono morti di fame e sono divenuti assassini dei santi. Terza natura della formica. Spesso la formica va nel campo all'epoca della mietitura e si arrampica sulla spiga e porta giù il chicco, e prima di arrampicarsi annusa lo stelo della spiga, e al fiuto riconosce se è grano oppure orzo; e se è orzo non sale, se invece è grano, sale e fa cadere il chicco. L'orzo infatti è nutrimento delle bestie come dice anche Giobbe: "invece di orzo cresca per me il frumento". Fuggi anche tu dal nutrimento delle bestie e prendi il frumento riposto nel granaio celeste. Poiché l'orzo si paragona all'insegnamento degli eretici, il grano invece alla retta fede in Cristo. (Physiologus, XII)

Questo esempio della formica, non tra i più sorprendenti, serve per rimanere sulle tracce di questo insetto nella letteratura religiosa, alla ricerca di una conoscenza del mondo naturale che non lo trascenda. Nel caso de Il fisiologo è fin troppo evidente l'impegno di descrivere le abitudini dell'animale in chiave antropomorfica in modo che siano immediatamente riferibili alla necessità soteriologica; alla formica è attribuita persino la capacità di fiutare, particolarmente preziosa quando la sua integrità fosse in pericolo. L'esigenza di trarre un insegnamento utile alla salvezza condiziona la ricerca al punto che l'animale, più che trovare commento nelle Sacre Scritture, è direttamente costruito sulla base delle informazioni tratte da queste; infatti, quanto gli è attribuito non è riscontrabile a un'osservazione diretta, bensì circolava come un preteso dato osservativo negli esempi e nelle parabole del Vecchio e del Nuovo Testamento. Per venire incontro alle nuove esigenze di salvezza del cristiano, tutte le informazioni scritturali sono aggiornate nel III sec. per combattere i nuovi nemici della fede al momento più minacciosi: gli eretici.

La voce discordante dei Padri cappadoci

Si badi bene, però, che un simile atteggiamento, decisamente anticontemplativo e non conoscitivo della Natura per quello che essa è, se risulta in linea con le indicazioni di Tertulliano, non trova invece il consenso di un'autorità della Chiesa in armi contro le eresie e massimo organizzatore del monachesimo orientale, Basilio (329-379). Questi, proprio nell'indirizzare una lettera contro l'eretico Eunomio, riprende l'esempio della formica con un impianto decisamente diverso:

Pertanto chi si vanta di avere afferrato la conoscenza della realtà interpreti la natura della più piccola delle cose visibili, e dica qual è la natura della formica: se la sua vita si sostiene su funzioni respiratorie, se sul suo corpo si distinguono ossa, se è tesa nelle articolazioni da tendini e legamenti, se la posizione dei nervi è controllata tutt'attorno da una copertura di muscoli e ghiandole, se il midollo nelle articolazioni dorsali si prolunga dal sommo della testa fino alla coda […]. Pertanto chi vanta la conoscenza delle realtà esistenti parli prima della natura della formica e soltanto allora investighi la natura della potenza che supera ogni facoltà intellettiva. Ma se non hai ancora afferrato con la conoscenza la natura della piccolissima formica, come puoi vantarti di concepire l'incomprensibile potenza di Dio? (Epistulae, XVI)

Siamo di fronte all'esatto rovesciamento delle precedenti posizioni sull'esistenza o no dei polmoni nella formica, dato indiscutibile per gli incrollabili paladini della fede. A sentire Basilio, il credente deve dare prova di umiltà di fronte all'operato divino e accettare che a decretare l'esistenza o no di polmoni anche nella formica sia la Natura stessa, attraverso l'evidenza anatomica. Quella di Basilio non è una voce isolata; infatti, esiste un testo, Homoeliae X et XI, attribuito ai Padri cappadoci ‒ riconosciuto ora come la continuazione delle Homoeliae in Hexaemeron di Basilio, ora come opera di Gregorio di Nissa, suo fratello ‒ in cui ci si sbilancia ancora di più in favore della pratica della dissezione.

In quest'opera l'aspetto indagativo della scienza non si limita più al Libro, che con il linguaggio scritto uniforma tutto alla salvezza; piuttosto, è la Natura che si pone quale opera divina, pronta semmai a smentire chi pretenda di conoscerla compiutamente ancora prima di essersi accostato a essa. Da questa posizione risulta utile ogni fonte di aiuto: deve essere accettato anche l'aiuto proveniente dal mondo pagano quando si rivela espressione di identico stupore e meraviglia per l'opera del Creatore.

Un modello di scienza cristiana: l'antropologia

Il quadro appena delineato pone alcuni problemi; non soltanto non è uniforme l'atteggiamento dei Padri cristiani, ma non è uniforme neppure il concetto di scienza nei confronti del quale essi prendono posizione. Talvolta rifiutano di interessarsi al mondo materiale, o, al contrario, nutrono un'autentica curiositas per la Natura; in questo caso potrebbe ora capitare che si appellino alla tradizione scientifica già consolidata, o che, in netto contrasto con questa, ritenuta troppo compromessa con il passato pagano, intravedano la possibilità di un nuovo approccio alla Natura che parta da autentici presupposti cristiani.

Un esempio di cambiamento di prospettiva è offerto da una disciplina quale l'antropologia, che, avendo a che fare da una parte con le conoscenze dell'anatomia umana e delle sue funzionalità e, dall'altra parte, con quelle della psicologia e dei suoi correlati fisiologici, già in età pagana aveva organizzato questi elementi in modo da inserire l'uomo tra il mondo fisico e la dimensione metafisica dei principî. La nuova prospettiva suggerita dai Testi Sacri nel descrivere l'atto creativo è che il corpo stesso sia a immagine del Creatore. Su questo tema si forma una catena di exempla omogenei e concordi che, nel passaggio da autore ad autore, conosce approfondimenti e arricchimenti.

Lattanzio

Quale cerniera tra il mondo antico e quello rinnovato dalla religione cristiana troviamo un altro retore, Lattanzio (n. 250 d.C.); questi, a differenza di Tertulliano, non sembra rappresentare una cesura tra il mondo pagano e quello cristiano, in quanto nel trattare argomenti teologici non rinuncia all'habitus culturale nel quale si è formato, né, del resto, i tempi turbolenti immediatamente precedenti l'editto di Costantino lo permetterebbero. Allora Lattanzio, intellettuale convertitosi al cristianesimo, si ambienta nel nuovo contesto trasportandovi tutto il suo bagaglio formativo in un'opera, il De opificio Dei, dalla doppia valenza. Il titolo stesso risulta in bilico tra il De natura deorum di Cicerone e i vari De opificio hominis o De opificio mundi che seguiranno, nella tradizione esplicitamente cristiana, con i molti dèi di Cicerone ridotti a uno soltanto. Non basta; il programma di Lattanzio è infatti quello di riutilizzare molte nozioni del sapere pagano all'interno della trama creazionistica cristiana, con l'impegno di far emergere i contenuti più affini e integrabili, fermandone l'approfondimento giusto un momento prima di giungere alle differenze.

Curiosamente, è proprio la fisiologia del corpo umano che si presta a tale operazione; è sufficiente utilizzare le informazioni di Varrone e Plinio, integrarle con il finalismo naturale proprio di Aristotele e Galeno, al quale frequentemente si attinge di seconda mano, combattere la casualità ateistica di Epicuro e Lucrezio, sulla scia inaugurata da Cicerone, facendo intravedere sullo sfondo l'operato divino; in questo caso, è ovvio, il Dio è unico e creatore, ma per rendere appetibile alla cultura pagana tale rilevante novità, la Genesi è parafrasata con accenti virgiliani.

La duplicità è nello stile argomentativo di Lattanzio; nel descrivere il corpo umano tutte le informazioni di anatomia, persino di embriologia, sono corredate da elementi filologici, volti alla ricerca di un corrispettivo linguistico che aiuti e confermi. Valga, a tal proposito, l'esempio delle palpebre; dopo averne spiegata la funzione ecco che la qualità del loro movimento (palpitatio) è ritrovata all'interno del loro nome (palpebrae): "movimento incessante che nel congiungerle con una impercettibile rapidità non interrompe la continuità della vista e ridà forza allo sguardo" (De opificio Dei, X, 2). Oppure si veda la teoria del concepimento, nel descrivere la quale, dopo aver connesso vir a vim e a virtus, mulier a mollitia, Lattanzio espone le teorie del doppio seme, fino a descrivere la conformazione anatomica dell'utero; solamente la pudicizia lo obbliga a fermarsi, nel momento in cui giunge agli organi genitali.

Rimane una considerazione di un certo peso: "a mio avviso, è impossibile non dedurre che la formazione ha inizio a partire dalla testa"; la posizione di rilievo della testa, indicata attraverso un'immagine di ispirazione stoica, è spiegata da Lattanzio per il fatto che vi risiede l'anima: "chi governa il corpo intero abita nella sommità come in una cittadella del corpo, e niente sia al di sopra di chi dirige l'insieme per mezzo della ragione, allo stesso modo in cui il Signore, governatore del mondo, si trova alla sua sommità" (ibidem, XII, 7). Ecco l'aggancio 'dolce' della fisiologia umana con l'apparato teologico: sullo sfondo è apparso il Dio provvidente. Si delinea un'antropologia cristiana nel momento in cui s'indica il modus vivendi di un essere che nella disposizione dei suoi organi è l'immagine dei rapporti cosmici: "Dio avendo deciso di fare tra tutti gli animali solamente l'uomo celeste e tutti gli altri terrestri, lo eresse tutto dritto a contemplare il cielo, e lo fece bipede perché potesse vedere diritto la sua origine, mentre abbassò quelli verso terra e, poiché non vi è alcuna speranza per essi nell'immortalità, con tutto il corpo gettato a terra fece in modo che fossero schiavi del loro ventre e del loro cibo" (ibidem, VIII, 2).

Lattanzio ora nomina espressamente l'azione del Dio creatore; dalle sue parole traspare inoltre che nell'uomo si specchia il suo Autore, come soltanto nella Bibbia è detto, anche se il riferimento alla postura eretta è tratto da autori pagani, ossia il Platone della Respublica (IX, 10, 586 a) e l'Aristotele del De partibus animalium (IV, 10, 686 a).

Il corpo allora, salvo restando il sentimento della pudicizia per alcune sue parti, va esaminato e va esaltato, perché porta in sé la storia della sua creazione divina; esso è studiato come un testo da Lattanzio, poiché la sua natura e la composizione fisica offrono il racconto di tutto ciò che è successo all'inizio dei tempi come un dato tuttora presente ai nostri occhi.

I Padri cappadoci

La dignità dell'uomo rispetto agli animali è magnificata nel commento di Basilio alla Genesi, o Hexaemeron (Homoeliae in Hexaemeron, IX, 2, 6), ma è da Gregorio di Nissa (332/335-dopo il 394), fratello e continuatore dell'opera di Basilio, che il motivo è ripreso con vigore nel De opificio hominis (8): "La figura dell'uomo è eretta e guarda verso l'alto: cose queste degne del comando e della regalità. Il fatto che soltanto l'uomo tra gli esseri sia fatto così mentre il corpo di tutti gli altri è orientato verso il basso mostra chiaramente la diversa dignità degli esseri sotto il potere dell'uomo e di questa potenza che li sovrasta".

Il punto di arrivo del discorso di Gregorio è reso esplicito più avanti; fare dell'uomo "un microcosmo composto degli stessi elementi del tutto" significa "fare l'elogio della Natura dimenticando che in tal modo si rendeva l'uomo simile ai caratteri propri della zanzara e del topo […]. Ma in che cosa consiste, secondo la Chiesa, la grandezza dell'uomo? Non nella sua somiglianza con il Cosmo, ma nell'essere a immagine del Creatore della nostra Natura" (ibidem, 16).

In Occidente: Ambrogio e Boezio

Caratterizza il genere delle omelie il fatto che certe immagini, certe soluzioni a effetto, certe costruzioni retoriche passino da autore ad autore; Ambrogio (333/340-397) ne è un esempio illuminante. Sono noti i suoi contatti con i patriarchi orientali e la corrispondenza con Basilio; nel suo caso si va oltre i generici contatti, come testimonia il suo commento alla Genesi, traduzione quasi letterale dell'originale greco basiliano. La versione di cui Ambrogio disponeva era priva delle ultime omelie per commentare i passi della creazione dell'uomo; il testo di Ambrogio procede tuttavia lo stesso, appoggiandosi a Lattanzio: "rendiamoci conto che la costituzione del corpo umano è simile a quella del mondo, poiché come il cielo sovrasta l'aria, la terra e il mare che sono, per così dire, le membra dell'Universo, così vediamo che anche il capo sovrasta le altre membra del nostro corpo e le domina tutte come il cielo gli elementi, a guisa di rocca rispetto alla cinta muraria della città" (Homoeliae in Hexaemeron, VI, 9, 55).

Sullo stesso tema torna un cristiano dalla sicura preparazione teologica ‒ prese posizione anche sulla questione nestoriana ‒ ma di formazione ineccepibilmente classicista, analoga a quella di Lattanzio; si tratta di Anicio Manlio Torquato Severino Boezio (480 ca.-524/525). La sua capacità poetica, oltre che retorica, gli permette di riprendere nel De consolatione philosophiae l'immagine topica dell'uomo eretto e di trasformarla in termini autobiografici. Siamo agli ultimi atti della sua vita; ridotto in catene nel carcere di Pavia per ordine di Teodorico, gli appare la personificazione di Filosofia, inviatagli dalla grazia divina, che eleva un canto di lamento per le condizioni bestiali a cui il suo accolito è costretto:

costui, solito un tempo a percorrere, libero/ le eteree vie nel cielo aperto/ poteva fissare lo splendore del roseo Sole/ e osservare l'astro della gelida Luna/ e ogni stella che piegandosi su orbite diverse/ traccia incerti ritorni,/ egli, vincitore, fissava nei suoi calcoli/[…] or egli giace, svuotato di luce interiore/ e con le spalle gravate da pesanti catene/ mentre, tenendo chino per il peso il volto/ deve, ahimé, fissare la stolida terra. (De consolatione philosophiae, I, II, 6-12, 24-27)

In questo brano la posizione che rende l'uomo Boezio simile alle bestie è riconoscibile; vi sono invece novità nella descrizione del portamento eretto: lo sguardo non è rivolto direttamente a Dio come volevano i Padri, ma ai corpi celesti, i cui movimenti sono detti causare gli avvenimenti naturali terrestri. Se la filosofia media il contatto con Dio, l'astronomia, scientifica e contemplativa così come la idearono i Greci, rappresenta lo scalino verso la teologia; il cammino verso tale posizione sincretista di cui Boezio, vicino al clima alessandrino, si fa portavoce pochi anni prima della chiusura della Scuola di Atene è, come si vedrà, tutt'altro che lineare.

Le dispute sull''arché' nei 'Commenti alla Genesi' ('Hexaemeron') di Basilio e di Origene

Per ricostruire il diffondersi di una curiosità, all'interno della comunità cristiana, nei confronti di temi e oggetti naturalistici è utile analizzare la letteratura delle omelie dei commenti alle Sacre Scritture, tenendo presenti e distinti i vari elementi di questo rapporto articolato. Per esempio, esiste un interesse verso la phýsis e verso una sua definizione, che emerge dal dibattito trinitario; si avverte la necessità di rapportarsi all'esperienza, anche nel tentativo di verificare le tradizioni scientifiche dell'Antichità; ci si misura con la pratica scientifica in uso nelle accademie e nelle biblioteche. Dominante è l'esigenza del confronto testuale che sembra frapporsi al contatto diretto con i fatti naturali; questo non avviene soltanto in relazione ai Testi Sacri, ma anche ai testi del sapere scientifico tradizionale, cioè pagano, tra i quali assumono sempre maggior rilievo quelli peripatetici. Tutto ciò può essere riscontrato se si segue il filone letterario dei commenti e delle omelie condotte sul testo della Genesi; sul tema della Natura, della sua produzione e delle sue manifestazioni sensibili quei testi non mancano di misurarsi con le grandi teorie naturalistiche degli Antichi.

La separazione delle acque

Le omelie sulla Genesi di Basilio si focalizzano subito sul concetto di archḗ rapportandosi alla tradizione filosofica greca, da cui esso si discosta al momento della separazione delle acque, che si rivela un momento originale ed enigmatico; da qui prende avvio la particolare architettura naturalistica dell'esegesi basiliana. La separazione delle acque, al momento della creazione del firmamento, va interpretata alla luce di un altro avvenimento naturale, il diluvio universale, letto come ricongiungimento delle acque; così s'identifica uno dei quattro elementi naturali, "l'elemento più importante e vitale" (Homoeliae in Hexaemeron, III, 5, 4). Tutto si risolve, in definitiva, in un problema che potremmo chiamare di idraulica celeste; c'era il rischio, infatti, che tutta l'acqua si consumasse in presenza del calore del fuoco necessario alla vita:

ma che per il mondo il fuoco sia necessario, nessuno è talmente estraneo alla vita da aver bisogno di apprenderlo dalla ragione; non soltanto perché le arti che presiedono alla nostra vita hanno tutte bisogno del fuoco, voglio dire l'arte del tessitore, del calzolaio, del costruttore e dell'agricoltore, ma anche perché né la germinazione delle piante, né la maturazione dei frutti, né la nascita degli animali terrestri e acquatici e neppure la loro alimentazione avrebbero potuto esistere all'inizio o avrebbero resistito nel tempo senza la presenza del calore. Era dunque necessaria la creazione del calore per la formazione e la conservazione degli esseri; ed era necessaria l'abbondanza di acqua perché incessante e inesorabile è l'azione divoratrice del fuoco. (ibidem, III, 5, 6-7)

Il passo biblico è dunque letto in riferimento alla teoria naturalistica dei quattro elementi; il calore in tutto ciò che nasce e perisce diventa per Basilio espressione diretta della potenza divina espletata nell'atto creativo (ibidem, III, 6, 1). Una delle ragioni, egli osserva, per cui il firmamento ha questo nome è che mantiene stabile il fertile equilibrio tra gli elementi cosmici.

Un altro padre della Chiesa, Origene (183/185-253/254), si era in precedenza dedicato al commento della Genesi alla ricerca di riferimenti nascosti, tralasciando il significato letterale delle parole. La descrizione stessa della separazione delle acque è per Origene un gioco linguistico che racchiude il monito divino:

che ciascuno di voi prenda a cuore il compito di separare 'l'acqua che è in alto da quella che è in basso', al fine di comprendere e assimilare quest'acqua spirituale 'che è di sopra al firmamento' per tirare dal 'suo seno fiumi d'acqua viva' 'fluenti fino alla vita eterna', lontano, ben lontano dall'acqua che è in basso, cioè l'acqua dell'abisso dove le Scritture piazzano le tenebre e dove abitano 'il principe di questo mondo' e i 'draghi' nemici 'con i loro angeli', come ha detto più in alto. Partecipando dell'acqua superiore che è

al di sopra dei cieli, il fedele diventa celeste; egli s'applica alle cose superiori ed elevate, non ha alcuno dei suoi pensieri nella terra, ma tutti nei cieli e 'cerca le cose in alto, dove il Cristo siede alla destra del Padre'. (Homoeliae, I, 2)

Su questo passo dell'omelia di Origene, Basilio apre la polemica, diretta sui criteri dell'esegesi allegorica:

da parte nostra c'è qualche parola da dire a proposito della separazione delle acque, anche contro quegli autori ecclesiastici che, col pretesto del senso anagogico e di pensieri più alti, si rifugiano nelle allegorie, dicendo che con le acque s'intendono, in senso figurato, potenze spirituali e incorporee; in alto sopra il firmamento si sarebbero stabilite le migliori, mentre in basso, nelle regioni terrestri e materiali, si sarebbero fissate quelle cattive. Per questo, essi dicono, le acque superiori che stanno al di sopra dei cieli lodano Dio; cioè, sono le potenze buone che per la purezza del loro intelletto meritano di rendere la lode conveniente al Creatore. Le acque invece che stanno al di sotto dei cieli sarebbero gli spiriti malvagi, piombati dal loro elevato stato naturale nell'abisso delle malvagità […]. Questi discorsi noi li rigettiamo come combinazioni di sogni e favole da vecchierelle; intendiamo l'acqua come acqua, e la separazione effettuata dal firmamento accogliamola nel senso indicato. (Homoeliae in Hexaemeron, III, 9, 1-3)

Che l'atteggiamento di Basilio di fronte alle Scritture sia opposto a quello di Origene, lo attesta la dimostrazione che egli fornisce di come sia materialmente possibile che un corpo sferico, all'interno concavo, possa reggere sopra di sé le acque superiori (ibidem, III, 4, 3).

La creazione degli animali

A proposito della creazione degli animali dalle acque, nel testo biblico è insito un altro problema relativo all'affermazione secondo la quale le acque sono dette produrre solamente rettili e uccelli. Così risolve la questione Origene: "Io credo che una volta che il nostro spirito è stato illuminato da Cristo, nostro Sole, gli è stato ordinato di servirsi delle acque che sono in lui per produrre degli esseri che strisciano e degli uccelli che volano, cioè di distinguere ogni giorno i buoni e i malvagi pensieri per operare la separazione del bene dal male, poiché tutti e due vengono dal cuore" (Homoeliae, I, 8).

Origene riesce a essere di un'estrema coerenza; come prima l'acqua non era tale, così ora non lo sono né il mare né gli animali da esso generati dei quali peraltro parla il Sacro Testo; essi non significano sé stessi, ma sono segni di altro da sé. In questo modo, Origene sviluppa quasi un testo parallelo, fino al punto d'interpretare i grandi animali acquatici come segni dei "pensieri empi e dei disegni abominevoli contro Dio" (ibidem, I, 9).

Basilio rifiuta d'inoltrarsi in questa giungla metaforica; preferisce avere a che fare con quanto il testo materialmente dice, e così accetta di buon grado di spiegare anche quello che non dice, cioè il momentaneo silenzio sulla molteplicità delle forme animali. La sua soluzione è ingegnosa:

la voce del comando è un suono debole, anzi non è neppure voce bensì soltanto slancio e impulso della volontà, ma in quel comando la ricchezza del pensiero è così grande quante sono le diversità e le similitudini dei pesci; esporle tutte sarebbe come contare i flutti dell'oceano o tentare di misurare con le cotili l'acqua del mare […]. È alle primizie di ciascuna specie che ora comanda di germogliare come semi della Natura; la loro moltitudine poi è riservata alla successione del tempo avvenire, quando essi dovranno crescere e moltiplicarsi. (Homoeliae in Hexaemeron, VII, 1, 7-2, 1)

Egli allude alla differenza tra il linguaggio adottato da Mosè nello scrivere e la natura del comando divino; nella povertà sintetica di tale linguaggio verbale sono indicati soltanto gli estremi del regno animale. Creati i generi animali secondo i loro regni, le specie si ottengono per differenza o per somiglianza da quelle date come estreme; così il mare sembrerebbe contenere tutte le primizie, cosicché lo sviluppo delle altre specie, considerate intermedie, è soltanto questione di tempo. Un esempio di questo gioco con differenze e somiglianze è offerto dalla fisiologia della respirazione, problema che rimanda alla questione della formica:

la Scrittura ci ha mostrato l'affinità fisica degli esseri natanti con l'acqua, per cui i pesci separati per un poco dall'acqua periscono. Essi non hanno una respirazione tale da poter aspirare la nostra aria, ma quello che è l'aria per gli esseri terrestri lo è l'acqua per la specie acquatica, ed è chiaro il motivo, in quanto in noi c'è il polmone, organo sottile e molto poroso, che ricevendo l'aria mediante la dilatazione del torace, la diffonde e tempra così il nostro calore interno; nei pesci, invece, la dilatazione e la contrazione delle branchie, che ricevono e rigettano l'acqua, adempiono alla funzione della respirazione. (ibidem, VII, 1, 8-9)

Quanto è divulgato da Il fisiologo trova in Origene la sua versione colta. Convinzione diffusa dell'ambiente alessandrino è che l'insegnamento debba essere offerto al cristiano, per così dire, 'mascherato'; il discorso divino, per essere comprensibile a tutti, è stato costruito con termini facilmente riferibili a cose o ad animali per veicolare quegli stessi contenuti per i quali, negli ambienti scientifici, sono usati concetti astratti. Ecco che il 'mare' va inteso come animo umano in agitazione, il 'rettile' come cattivo pensiero; si tratta di modelli morali umani presentati per via zoomorfica. L'origine di tale atteggiamento potrebbe essere rintracciata in Clemente Alessandrino, maestro di Origene; nel suo Protrepticon voleva confrontare il 'canto nuovo' della Bibbia con i cantori dell'Ellade, come Orfeo o Eunomo, che, in quanto idolatri pagani, non potevano fare altro che ammansire gli animali. Invece, precisa Clemente, altri per il cantore cristiano sono i destinatari del messaggio dell'insegnamento:

Ma non è tale il mio cantore; egli non è venuto per sciogliere entro lungo spazio di tempo l'amara servitù dei demoni che ci tiranneggia, ma, trasferendoci dal giogo dei demoni al giogo dolce e soave della pietà, richiama nuovamente verso il cielo coloro che erano stati precipitati sulla Terra. Egli solo infatti, tra quanti mai furono, ammansiva le fiere più selvagge, cioè gli uomini; ammansiva volatili, cioè gli uomini frivoli; rettili, cioè gli ingannatori; leoni, cioè gli iracondi; porci, cioè i voluttuosi; lupi, cioè gli uomini rapaci. Pietra e legno sono i dissennati; ma più insensibile delle pietre è l'uomo immerso nell'ignoranza. (Protrepticon, I, 3, 2-4,1)

Se Clemente si sta confrontando con tutta la zoologia simbolica dello gnosticismo precristiano egiziano, Basilio non è angosciato da tali preoccupazioni. Non è soltanto interesse per gli animali, ma è vero entusiasmo per la Natura quello che spinge Basilio a voler infondere nei suoi uditori un senso di ammirazione per essa, che, come prodotto, porta in sé il ricordo del proprio Creatore (Homoeliae in Hexaemeron, V, 2, 7). Dal seme alla corteccia nulla sfugge della vita delle piante allo sguardo curioso di Basilio, il quale, come Aristotele e Galeno, giunge alla conclusione che "nulla è senza una causa; nulla è fatto a caso; tutto ha in sé una sapienza ineffabile" (ibidem, V, 8, 2).

Per Basilio ci si deve porre davanti alla Natura senza pregiudizi e senza che il suo esame sia finalizzato ad altro di diverso dalla sua conoscenza. Essa stessa c'insegna, in quanto diretta creazione di Dio, i suoi ritmi indirettamente utili a preservare la nostra esistenza:

così la natura degli esseri, mossa da quell'unico comando, attraversa la creazione con passo uguale nella nascita e nella morte, salvaguardando le successioni della specie mediante l'uguaglianza degli esseri, finché non raggiunga il suo termine […], conservando ciascun essere con la continuità delle successioni, lo accompagna fino al compimento dell'Universo. Non vi è tempo che distrugga o faccia sparire le peculiarità delle creature viventi, ma, come fosse or ora costituita, la Natura sempre giovane s'accompagna alla corsa del tempo. (ibidem, IX, 2, 2-3)

A conclusione del suo commento alla Genesi, come excursus sulla Natura creata da Dio, Basilio ritorna al confronto con Origene e all'esegesi allegoristica della Scuola alessandrina che sovrappone l'ambito naturale a quello umano facendo di quello metafora di questo; non ne condivide i modi e sente di dover ribadire la sua consapevole diversità:

conosco le leggi dell'allegoria, anche se non sono stato io a inventarle, ma le ho trovate negli scritti laboriosi degli altri. Coloro che non accettano i significati comuni della Scrittura, dicono che l'acqua non è acqua ma qualche altra sostanza, e interpretano le parole 'pianta' e 'pesce' nel senso che piace a loro, e spiegano la creazione dei rettili e degli animali selvaggi distorcendola secondo le proprie allegorie, come gli interpreti di sogni che spiegano le visioni fantasiose partorite nel sonno accomodandole a un loro scopo particolare. Ma io, quando sento parlare di erba, penso all'erba; e anche la pianta e il pesce, l'animale selvatico e quello domestico […]. A me pare che, proprio per non aver compreso questo, certuni abbiano tentato di accreditare alle Scritture, mediante alterazioni e allegorie, una dignità tratta dalla propria immaginazione. Ma questo è proprio di chi si fa più sapiente delle parole dello Spirito e introduce nella Scrittura le sue vedute personali col pretesto dell'esegesi. (ibidem, IX, 1, 2-3 e 7)

Uno stile allegorico, da una parte, e uno letterale, dall'altra, caratterizzano rispettivamente l'esegesi testuale delle comunità religiose di Alessandria e di Antiochia, e da questo primo confronto si potrebbe desumere che, per quanto riguarda la capacità di avvicinarsi ai fatti naturali, il realismo programmatico degli interpreti letterali segna un punto a suo favore. Le cose non andranno tuttavia sempre in tale modo, e il confronto tra scuole esegetiche tenderà a complicarsi; se rapportarsi alla Natura per conoscerne le causalità interne significa prima o poi fare i conti con la mediazione della cultura filosofico-scientifica (magari peripatetica, l'unica in grado di offrire schemi per la comprensione del regno animale), verrà il momento in cui questo filtro diventerà autonomo e si proporrà come interprete originale dei Sacri Testi, specialmente per i suoi riferimenti naturalistici e cosmologici.

Il divorzio dalla cultura pagana

Pur contrastando le conclusioni dei pagani, i Padri della Chiesa non disdegnarono d'impiegare metodi, argomenti e analisi forniti dalla cultura classica, non avvertendone l'estraneità come prodotto culturale. La storia, a sentire Ambrogio e Agostino, univa le due comunità in un disegno provvidenziale, per il quale sia il cammino della civiltà sia la politica espansionistica del mondo greco, romano e greco-romano risultavano funzionali alla massima espansione della religione cristiana, nata in una delle più trascurate provincie dell'Impero e destinata così a universalizzare il proprio contenuto spirituale. I mezzi che permettono la traduzione in termini universali e concettuali di un discorso che poteva essere soltanto la realizzazione di un messaggio profetico nazionale sono, dunque, la lingua e la cultura greco-ellenistica. D'altronde, il modo in cui l'imperatore Costantino risolve in un primo momento il debutto della questione cristologica, eseguendo con l'esiliare Ario la volontà del Concilio di Nicea (325), fa ben sperare sui rapporti fra Stato e Chiesa.

La convinzione di appartenere a un unico, inarrestabile sviluppo culturale, che si attua anche a dispetto delle volontà dei singoli, è ribadita da Giovanni Crisostomo (344/354-407). In un'omelia a commento della Genesi, Giovanni individua tale disegno divino fin dal momento in cui il re ellenistico Tolomeo concepì la grandiosa impresa di traduzione del testo biblico:

tutti i libri sacri del Vecchio Testamento, come tutti sapete, erano originariamente composti in ebraico. Non molti anni prima dell'avvento di Cristo, il re Tolomeo, che era patito di collezionare libri e ne collezionava dei più diversi tipi, si sentì in obbligo di aggiungere il testo della Bibbia ai libri già raccolti. Così convocò alcuni ebrei che vivevano a Gerusalemme e ordinò loro di tradurre i libri in greco, e tutto ciò fu portato a termine soltanto per compiacerlo. La cosa sorprendente di quest'opera della divina provvidenza fu che al beneficio del Vecchio Testamento poteva ora attingere non soltanto la gente che conosceva l'ebraico ma anche ogni vivente nel resto del mondo. Ciò che rende il fatto rimarchevole quanto paradossale è che tale iniziativa non fu presa da gente che credesse nel giudaismo, ma da un uomo devoto agli idoli e opposto nel suo credo alla vera religione. Voi così potete vedere come i fatti sono indirizzati dalla provvidenza del nostro Signore: i principî di verità si vendicano di chi si oppone loro. (Homoeliae, IV, 9)

In queste ultime righe, Giovanni sembra delineare, dietro il personaggio del re Tolomeo, la singolare figura dell'imperatore Giuliano (331-363), cui va attribuita una improvvisa e radicale inversione della politica religiosa. Ciò coglie di sorpresa la comunità cristiana che, dando per scontata la continuazione dell'orientamento imperiale antipagano culminante negli editti di Costanzo del 356, cresceva sulle vestigia della cultura ellenistica; comuni erano i maestri, le scuole (di Atene e di Alessandria) e la lingua ‒ oltre che la cultura ‒ greca, indiscusso mezzo di comunicazione sia all'interno sia fuori dei confini imperiali.

La restaurazione ripropone i vecchi culti e ribadisce d'autorità un modello completo e autosufficiente di civiltà e di paideía pagane, rivendicando la propria cultura e la propria antropologia e i diritti di proprietà sul patrimonio di scienze, lettere e arti che sembra in pericolo se lasciato nelle mani dei cristiani, insensibili e impermeabili ai valori dell'humanitas classica. È la prima volta che sono poste come radicalmente inconciliabili le due visioni del mondo; questa operazione, che rivela subito un costrutto grandioso ed efficace, porta nel 362 addirittura a un editto imperiale d'interdizione dal professare, dall'insegnare o dallo studiare la cultura pagana per tutti i cristiani, e le motivazioni di tale atto politico sono documentate in uno scritto dello stesso imperatore, il Contra Iudeos, elaborato tra il 362 e il 363 nel suo lungo soggiorno ad Antiochia. Da questa comunità religiosa si alza subito una voce vigorosa contro Giuliano, quella di Gregorio di Nazianzo (330-390), che, insieme al solidale amico Basilio e a Giovanni Crisostomo, era stato compagno di corso dell'imperatore alle lezioni del famoso retore Libanio ad Atene. Giovanni, poeta alimentatosi alle fonti classiche, nel suo Contro Giuliano l'apostata non rivendica apologeticamente una dignità culturale per la propria religione, ma contesta l'esistenza di una gestione privata di quella cultura, che è ormai patrimonio universale.

Tutto si blocca dopo pochi anni in seguito alla morte dell'imperatore ‒ considerato dagli uni apostata, dagli altri filosofo ‒ ma i rapporti con la cultura pagana non possono, ovviamente, tornare a essere quelli di una volta, o almeno non per tutti; in questo, infatti, si distinguono le due comunità religiose di Alessandria e di Antiochia, passate in modo differente per la crisi ariana e per quella giuliana. Nella resistenza alla politica di Giuliano si costituisce il primo nucleo della cosiddetta Scuola di Antiochia; l'immediata fioritura di pamphlets contro l'imperatore o contro gli scritti dell'imperatore testimonia la vitalità di una comunità di intellettuali cristiani, formatasi prima a scuola di retori pagani ad Atene, poi ad Antiochia. Resi sospettosi nei confronti di un sapere che possa sempre rivendicare le sue origini pagane, al modello della scuola presso il singolo retore essi avevano sostituito cenacoli attorno ad alcuni teologi ‒ da Giovanni Crisostomo a Teodoro di Mopsuestia, a Diodoro di Tarso ‒ la cui prassi esegetica era costruita sul modello di quella retorico-letteraria che privilegiava l'attenzione filologica al testo e la perpetuazione di modelli espressivi.

Ben altro orientamento adottò la Scuola catechetica di Alessandria, fondata da Panteno nel II sec. d.C., alla cui guida fu Clemente Alessandrino, seguìto dal suo allievo Origene. Questa scuola vantava un'armoniosa convivenza con quella neoplatonica di tradizione pagana, che, a sua volta, godeva di intrecci e scambi di professori e studenti con la Scuola di Atene. Sembra che ad Alessandria si potesse godere tutt'altro clima intellettuale da quello di Antiochia, e ciò era dovuto soprattutto alle progressive autolimitazioni che la comunità di studiosi pagani si era imposta nel corso dei secoli. Questa comunità fu in grado persino di attenuare una possibile reazione della scuola quando questa, nel V sec., si venne a trovare nel bel mezzo della recrudescenza dei conflitti tra le comunità religiose presenti nella città; tali conflitti culminarono con l'assassinio di Ipazia, scolarca e personalità di rilievo della cultura pagana locale, il cui corpo fu smembrato per le strade della città da una folla di cristiani inferociti, aizzati dagli attendenti del potente patriarca Cirillo. D'altronde, il patriarcato metropolitano, di origini apostoliche alla pari di Roma e Antiochia, a quel tempo era soltanto apparentemente contro i pagani o contro gli eretici; l'aspirazione di Cirillo e dell'ambiente egiziano era quella di fare di Alessandria il centro della vita religiosa d'Oriente, a scapito delle altre sedi patriarcali. Si avvicinava la riapertura della questione cristologica, passata momentaneamente in secondo piano per lo scontro con l'imperatore apostata; infatti, se il dogma niceno affermava la generazione ma la non creazione della persona del Figlio, restava da stabilire come conciliare in un'unica ipostasi la natura umana con quella divina (Concilio di Costantinopoli del 381). In linea con il proprio indirizzo interpretativo, gli alessandrini, guidati da Eutiche, erano propensi a considerare la natura umana del Cristo una sorta di allegoria vivente di quella divina (in questo modo il Suo corpo diventava una sorta di corpo divinizzato). Antiochia prendeva le distanze dalla posizione monofisita tenuta ad Alessandria, rimanendo fedele ai propri modi d'intendere i Testi Sacri: il corpo e la generazione del Cristo chiamato Figlio, come tali andavano intesi, e ciò comportava una duplicità di natura e di persona.

La Chiesa d'Occidente rimane estranea a questo scontro che porta in un primo momento alla scomunica di Nestorio (380 ca.-451) ‒ ideologo dei duofisiti antiocheni ‒ nel Concilio di Efeso (431) e poi alla condanna di Teodoro di Mopsuestia, di Teodoreto di Cirro e Iba di Edessa, ultimi eredi di tale indirizzo culturale, nel Concilio di Costantinopoli detto 'dei Tre Capitoli' (553). Tutt'al più, la sede di Roma era invocata allo scopo precipuo di avallare la condanna ora di questa, ora di quell'altra fazione in lotta. Il peso della politica religiosa imperiale si farà sentire di nuovo con l'imposizione dell'egemonia della sede patriarcale di Costantinopoli; per ottenere l'appoggio di Roma fu strumentale l'episodio, a prima vista marginale, dell'editto emesso da Giustiniano d'interdizione per coloro che insegnavano pubblicamente dottrine pagane, editto che portò alla chiusura della Scuola pagana d'Atene nel 529. Ciò voleva essere il segno di quanto si sarebbe potuto attuare contro la comunità nestoriana, dopo che lo stesso imperatore aveva preso parte attiva nella condanna dei Tre Capitoli. I nestoriani, vecchi e nuovi, non rimasero però ad Antiochia a subire le misure imperiali, già sperimentate in altre occasioni, ma presero la via della Persia, prima spostandosi a Edessa e successivamente a Ninive, dove attuarono un'intensa ripresa della vita spirituale e culturale, incrociando, paradossalmente, il proprio cammino con quello della comunità intellettuale pagana di Atene autoesiliatasi.

Le vicende delle scuole cristiane s'intersecano con quelle delle scuole pagane, sia nell'esilio sia nella sopravvivenza. La Scuola pagana di Alessandria è in grado infatti di evitare le sanzioni imperiali perché, grazie al più disteso clima di rapporti che ha saputo conservare con la comunità cristiana, è in grado di patteggiare la propria sopravvivenza con il nuovo patriarca, che ha tutto l'interesse di serrare le fila attorno a sé. Ecco l'occasione più idonea perché, nel dibattito esegetico, emerga una terza posizione dalla nutrita fazione degli studiosi cristiani delle università pagane, all'interno della quale si annoverano ancora personalità del calibro di Olimpiodoro e Giovanni il Grammatico.

Natura o sovrannaturalità dei cieli

Numero dei cieli

La pluralità dei cieli fin dall'inizio viene percepita dai cristiani come il retaggio del politeismo pagano, in quanto alla loro fede basta un cielo come regno di Dio e come patria dell'anima umana dopo la morte. Il punto di vista astronomico secondo il quale i pianeti sono fissati ciascuno su una sfera ‒ un cielo ‒ animata di moto rotatorio uniforme, eventualmente fissata per il suo centro su un'altra sfera rotante, moltiplica inesorabilmente i cieli in nome della complessità dei movimenti planetari riscontrati. Questo criterio quantitativo non è valido per il credente, agli occhi del quale la dimensione celeste, alla stregua dell'Iperuranio platonico, è propria del Creatore; semmai in essa sono presenti entità intelligenti non corporee, quali le anime umane dopo la morte e gli angeli, emissari di Dio. Qualitativamente distinto dalla Terra, il cielo non ammette né movimenti né molteplicità legati alla materia, e tanto meno può subire la sua riduzione a sofisticato meccanismo di traslazione planetaria; il movimento delle stelle e degli altri astri non è tale, né la luce che tali corpi emanano è materiale, bensì essi sono segni della Provvidenza, fiaccole di luce metaforica messe in mano alle schiere angeliche nel loro andirivieni tra cielo e Terra per rendere in qualche modo visibile l'azione del Creatore verso le proprie creature. Questa, in sintesi, è la dottrina diffusa che un padre della Chiesa come Teodoro di Mopsuestia sente di dover riaffermare alla luce dei testi biblici. Tuttavia, già Giovanni Crisostomo, uno dei suoi maestri, si era premunito, da un punto di vista filologico, di rilevare che nell'espressione "il regno dei cieli" l'uso del plurale era dovuto a un abbaglio linguistico provocato dalla traduzione detta 'dei Settanta':

non era senza un intendimento che vi ho raccontato questa storia: era per voi, miei cari, perché sappiate che il Vecchio Testamento non era composto in questa lingua ‒ cioè la nostra ‒ ma in ebraico. Ora, coloro che hanno una precisa conoscenza di questa lingua ci dicono che presso gli Ebrei la parola cielo è usata al plurale, e chi conosce la lingua siriaca ce lo può confermare. In questa lingua ‒ cioè in quella da loro usata ‒ nessuno potrebbe dire cielo, ma cieli. Così è logico che le parole pronunciate dal benedetto Davide, 'il cielo dei cieli', hanno questa forma non perché di cieli ve ne siano molti (il benedetto Mosè, lo sapete, ce l'ha insegnato), ma perché è idiomatico nell'ebraico usare il nome di una entità singola usando il plurale. (Homoeliae, IV, 10)

Che la questione del numero e della forma dei cieli non fosse marginale lo dimostra il fatto che era stata affrontata, con la sua proverbiale sagacia, anche da Basilio. Il Padre della Chiesa criticava l'astronomia degli Antichi per non avere affrontato il tema dell'origine del mondo, ma di questo stesso sapere riconosceva la precisione nella misurazione delle distanze degli astri, nell'attribuzione a questi ultimi di luce, perenne o no, e nella determinazione di quali di essi sono visibili a noi e quali invece si trovano agli antipodi. In sostanza, Basilio condivideva i fondamentali assiomi dell'astronomia sferica; forse la questione che gli sembrava di non secondaria importanza era ribadire anche per i corpi che si muovono circolarmente la necessità di un inizio (Homoeliae in Hexaemeron, I, 3). Così, pur deridendo la verbosità degli argomenti non concordi dei fisici pagani, non contestava la posizione centrale della Terra all'interno dell'Universo sferico; qualche perplessità affiorava, semmai, riguardo al numero dei cieli. Sull'argomento, d'altronde, Basilio non trovava alcun dato definitivo neppure consultando la letteratura scientifica; tra i filosofi della Natura alcuni parlavano dell'unicità del cielo, altri invece sancivano che esistevano sette cieli, quando non li affermavano addirittura in numero infinito; riteneva dunque opportuno non andare oltre la cauta affermazione che, realizzando una ricognizione sui testi biblici, egli era arrivato a contarne tre.

Giovanni Filopono contro Teodoro di Mopsuestia

Su questo punto la posizione dei Padri cappadoci incominciò a non combaciare con quella antiochena, quasi fossero tentati di farsi convincere dallo spirito osservativo dell'astronomia greca piuttosto che dalla lettura fedele dei Testi Sacri. Ciò è avvertito, quasi due secoli dopo, da un personaggio nuovo, in quanto per cultura del tutto estraneo all'agone cristologico: Giovanni Filopono (m. 567 ca.), appartenente all'ambiente della Scuola neoplatonica di Alessandria. Il suo grado nella gerarchia accademica è di grammatico, anche se il suo ruolo è di uditore, trascrittore ed editore dei commenti di Ammonio di Alessandria, allora scolarca. Salito al rango di pubblicista più o meno ufficiale della scuola in seguito alla strategia di riciclaggio realizzata dal corpo accademico per poter sopravvivere anche in ambiente cristiano, scrive un libello contro Proclo, ultimo grande campione del sapere pagano in Atene, che esce proprio contemporaneamente alla chiusura della gloriosa istituzione ateniese. È chiaro che non basta una pubblicazione per redimere una scuola, anche se questo sembra essere proprio il succo delle accuse che gli muove Simplicio, rappresentante dell'élite culturale ateniese colpita dalle sanzioni imperiali. Il fatto, comunque, è di una certa entità; se fino ad allora alle lezioni di tutte le scuole pagane potevano essere ammessi studenti o insegnanti cristiani, purché si limitassero allo studio o all'insegnamento delle fonti classiche del sapere, dopo la pubblicazione in Alessandria del Contra Proclum, seguito a breve distanza dal Contra Aristotelem, i membri di queste scuole possono liberamente manifestare il proprio atteggiamento d'indipendenza da tale sapere anche in nome di quel credo, altrove in diretta competizione. Così, mentre una scuola sopravvive aprendo il ruolo accademico ai cristiani ‒ come Elia, David e Stefano, discepoli di Olimpiodoro ‒, il corpo docente dell'altra, per coerenza nello stile di vita, imbocca la strada dell'esilio verso la Persia al seguito di Damascio, l'ultimo scolarca di Atene.

Non sappiamo se gli accordi con il patriarca di Alessandria comprendessero anche l'adesione alla sua politica di confronto con la comunità di Antiochia; fatto sta che Filopono, a suo agio ormai nei panni del polemista, apre un altro fronte prendendo posizione a fianco dei monofisiti, tra i quali si dichiara triteista; mette a punto un libello, il De opificio mundi, in cui attacca addirittura il grande Teodoro di Mopsuestia (350 ca.-428), per le tesi che erano già state messe all'indice nel Concilio dei Tre Capitoli.

La novità è tutta nell'impianto interpretativo che egli traspone dall'ambito filosofico a quello teologico; il mestiere del commentatore lo aveva appreso bene, prima sotto la guida diretta di Ammonio, poi in proprio, mettendo a punto capacità critico-razionali di tutto rispetto, fino a maturare posizioni originali, svincolate da quelle dell'autore commentato, Aristotele, ma comunque in grado di dialogare con lui sul piano delle conoscenze scientifiche. Individuato il punto debole nell'argomentazione dell'avversario, Filopono lo affronta con tutte le armi della cultura esegetica affinata nella palestra filosofica. Se nel suo obiettivo vi sono Teodoro e i suoi seguaci ‒ tra i quali magari Teodoreto di Cirro (393 ca.-457/460) ‒, gli fa buon gioco evidenziare le differenze con Basilio, che ai loro occhi era autorità da venerare; in tal modo, il ridicolo in cui sono gettate le tesi del Nestoriano va di pari passo con la rivalutazione della dottrina del grande maestro della Cappadocia, che era stata così pesantemente fraintesa.

Il disegno argomentativo di Filopono è duplice. Da una parte è sufficiente mostrare che Basilio non è in contrasto con la dottrina astronomica greca sia sul numero dei cieli sia sulla loro forma e sul loro funzionamento; dall'altra parte, far vedere come in Teodoro il rifiuto dell'apporto della razionalità scientifica nella sua interpretazione letterale lo porti oltre gli insegnamenti del Padre della Chiesa e oltre gli stessi Testi Sacri. Per quanto riguarda il primo obiettivo, Filopono spiega come il riferimento ai cieli ora al singolare ora al plurale, qualunque sia l'uso linguistico ebraico, nasca da un modo equivoco d'intendere il termine; precisamente, quando le sfere che portano agli astri sono dette 'cieli' in realtà non s'indicano entità a sé stanti, ma ci si riferisce a loro come parti organiche, "membra", di un unico cielo (De opificio mundi, III, 3). Basilio, d'altronde, nella sua polemica contro l'astrologia degli Antichi fa mostra, secondo Filopono, di non rigettare tutto il loro bagaglio d'informazioni astronomiche che riconosce esatte, quali la modellizzazione di tutti i movimenti degli astri, il calcolo esatto dei solstizi, dei pleniluni, delle eclissi e dei periodi impiegati dai singoli pianeti, e le previsioni dei loro allineamenti. A riprova della sua adesione all'astronomia sferica, cita la seconda omelia di Basilio (Homoeliae in Hexaemeron, II, 8, 1) quasi alla lettera:

dopo che è stato fatto il Sole, il giorno è l'aria che il Sole illumina mentre è nell'emisfero; quindi la notte è l'ombra della Terra che è al buio quando il Sole si nasconde. È manifesto quindi che costui oppose a questo emisfero che è sotto la Terra quello che è sopra la Terra e disse che il cielo ne è compreso. (De opificio mundi, III, 6)

Al contrario, il rifiuto pregiudiziale di tutto lo strumentario che la geometria astronomica greca ha elaborato per spiegare il funzionamento dei cieli ha portato Teodoro e i suoi seguaci ad amplificare il ruolo svolto dagli angeli nei cieli, trasformati in entità assistenti il movimento dei corpi celesti, siano essi astri o pianeti. D'altronde, il ricorso all'angeologia è reso obbligatorio dalla linea interpretativa inaugurata in ambito antiocheno; l'idea è che non soltanto il Testo Sacro debba essere preso alla lettera, ma che le difficoltà interpretative debbano essere risolte alla luce di altri passi testuali e non ricorrendo a fonti esterne, allo stesso modo in cui si era mosso Basilio di fronte all'enigma delle acque superiori. Così, Teodoro nell'Esodo (25, 8-38) trovava che lo stesso Mosè descriveva il tabernacolo da lui eretto nel deserto quale rappresentazione adeguata della creazione visibile di Dio; l'indicazione che il tabernacolo sia un týpos (riproduzione esatta) più che un sýmbolon (rimando), obbliga all'abbandono della geometrizzazione dell'Universo. Gli astri e il Sole stesso non girano più attorno alla Terra, ma si limitano a sparire dietro le montagne, perché la Terra, poggiata sulle fondamenta del mondo, è piatta, e per di più quadrangolare; il cielo le si stende sopra come la volta di una tenda.

Il ricorso all'assistenza angelica offre il fianco a una serie di critiche di Filopono nel suo De opificio mundi. La prima è che l'esistenza delle entità celesti addette a muovere il Sole e gli astri verrebbe anticipata rispetto al momento della loro creazione, scandito successivamente nella Genesi; inoltre, il fatto che tali entità spirituali svolgano una mansione fisica e che per poterla adempiere debbano occupare un luogo esterno al cielo a noi visibile implica, contraddittoriamente, che abbiano dei corpi e, quindi, che siano materiali. Ora, se non sono esseri materiali, non si vede come possano muoversi o muovere; se invece sono materiali, si cade nel ridicolo.

Cosma Indicopleuste contro Filopono

La reazione dell'ultima frangia dei più accesi nestoriani non si fa attendere. Ad Alessandria, in attesa degli esiti delle trattative che porteranno al decisivo Concilio di Costantinopoli ‒ con la condanna di Teodoro di Mopsuestia, Teodoreto di Cirro e Iba di Edessa ‒ Cosma Indicopleuste (VI sec. d.C.) nella Topographia christiana presenta un mondo che non è soltanto quello eterno dell'uomo greco, ma ne è la negazione, teatro di una vicenda che prevede una conclusione, raffigurata da Cosma nell'ascesa delle nostre anime. Cosma sancisce che il dispositivo delle sfere armillari è inconciliabile con l'episodio della separazione delle acque offerto dal Vecchio Testamento e con l'ascesa di Cristo offerto dal Nuovo Testamento, poiché l'intero armamentario celeste messo a punto dall'astronomia pagana risulta funzionale all'eternità del Cosmo stesso. Tutto ciò è incongruente con la realtà posta in essere dalla nuova fede; infatti, se le sfere salvaguardano l'eternità del mondo, non vi è spazio per uno stato migliore qual è la buona novella del Vangelo. Non regge l'ibrido che nasce dalla connessione tra la molteplicità delle sfere astrali e il dogma della resurrezione, anche perché diversi sono i loro fondamenti; se la logica consequenzialità del ragionamento è a fondamento dei costrutti dei filosofi pagani, è sulla speranza che va organizzata la conoscenza del mondo perché sia utile al cristiano. L'accento torna a cadere, come agli inizi per Tertulliano, sull'utilità di ogni conoscenza nell'economia della storia umana, quasi questa ne fosse il criterio di verità; la Natura si vede così ricacciata al ruolo di segno di altro per la salvezza dell'uomo.

Se le questioni sollevate da Filopono nei confronti dell'esegesi di Teodoro non riguardano temi teologici ma esclusivamente argomenti scientifici che semmai possono essere ricondotti al divario esegetico, così la risposta di Cosma mira a incriminare il contagio del sapere pagano; la lacerazione a monte serve a comprendere i toni esasperati del confronto, che risultano ben diversi da quelli tra Origene e Basilio. Così, il sapere scientifico è dipinto con caratteristiche demoniache e chi persegue l'ideale della commistione dei due mondi può essere accusato di operare per un ritorno al paganesimo.

I modi di questa polemica sembrano ricalcare il tono del libello Sulle statue di Giovanni Crisostomo, in quanto i recenti avvenimenti politico-religiosi ‒ quelli che vedono Cirillo contro Nestorio ‒ si sono sovrapposti all'antico astio contro l'utilizzazione ideologica della cultura pagana da parte di Giuliano. Nel difendere l'insegnamento di Teodoro di Mopsuestia, Cosma non fa altro che lanciare anatemi contro Filopono, senza del resto mai nominare né l'uno né l'altro; così molti dei suoi argomenti sono ad hominem, scadendo in forzati sarcasmi. Quello che più impressiona sono però le argomentazioni positive e le prove riportate, per esempio sul tema degli antipodi:

così gareggiano per non lasciare a nessuno la supremazia nell'impudenza o piuttosto nell'empietà, sì da affermare senza rossore che vi sono abitanti al di sotto della Terra. E quando qualcuno nel dubbio obietta loro che 'allora il Sole senza scopo si porta sotto Terra?', senza preoccuparsi del ridicolo subito rispondono che esistono gli abitanti degli antipodi che hanno la testa in giù e fiumi che tengono una posizione opposta a quelli di qua; essi adoperano per stravolgere tutto di sopra in sotto piuttosto che seguire i dogmi della verità. (Topographia christiana, I, 14)

L'appello qui introdotto ai "dogmi della verità" impone di riflettere sulla categoria dell'evidenza: l'evidenza dell'esperienza, come dato immediato, è usata contro quella che rivendica la ragione per le proprie tesi, atte a correlare le molteplici e contrastanti esperienze in una gabbia sistematica. Nel discorso di Cosma torna l'esigenza di trovare uno scopo negli avvenimenti materiali del Cosmo; così, l'esistenza degli antipodi non viene presentata come una conseguenza dell'ammessa sfericità del mondo e la circolazione del Sole nell'altro emisfero è vista come necessaria, e, quindi, plausibile, solamente dall'eventualità che esistano abitanti agli antipodi. A questo punto l'esperienza contingente, negando ogni possibilità di vita al rovescio, gioca un ruolo decisivo:

se si volesse indagare più minutamente sulla teoria degli antipodi, con facilità si svelerebbero le favole da nonnette di costoro. Se mettiamo i piedi di un uomo in opposizione ai piedi di un altro sicché si sostengano entrambi o in terra, o nell'acqua, o nell'aria, o nel fuoco o in qualsivoglia materia, come potranno trovarsi entrambi diritti? Come non si troverà l'uno ritto secondo Natura e l'altro di contro alla Natura a testa in giù? Tutto ciò è illogico ed estraneo al nostro ordine naturale. (ibidem, II, 20)

L'inversione, che pone gli effetti (gli abitanti agli antipodi) come cause (il movimento circolare del Sole intorno alla Terra) e viceversa, presuppone che a monte anche di ciò che accade normalmente esista sempre un disegno e una progettualità del Creatore orientata verso le sue creature; ne risulta frantumato il concetto di necessità, dato che il movimento regolare del Sole non dipenderebbe più dalla natura o dalla forma del cielo, bensì dalle intenzioni di Dio, che potrebbe, con altrettanta naturalezza, far muovere in modo diverso i corpi dalle forme più inconsuete, come una Terra oblunga o a forma di tabernacolo.

A fondamento della propria descrizione dell'Universo, Cosma introduce, invece del risultato di osservazioni astronomiche, il resoconto della sua ricerca testuale sul libro dei Salmi, sul libro di Isaia, sul libro di Zaccaria, sul libro di Giobbe. La prova è trovata all'interno di ciò che deve essere dimostrato; segno che non c'è nulla che deve essere dimostrato ab extrinseco, e i ragionamenti sulla sfera non sono di alcuna utilità. Così, la geometrizzazione del Cosmo è un sogno, il frutto dell'immaginazione dei costruttori della torre di Babele: "quando i primi uomini si furono levati fino a una grande altezza nel luogo in cui stavano costruendo la torre, cominciarono a riflettere di frequente sugli astri e, vedendo che al sorgere di alcuni corrispondeva il tramonto di altri, immaginarono che il cielo fosse sferico e che in qualche modo si evolvesse come girando su un tornio" (ibidem, III, 5).

Da qui ha origine l'inganno degli Antichi per cui il fittizio orizzonte della Natura del razionalismo greco non ha nulla a che fare con quello che Cosma definisce come "nostro ordine naturale". Mosè, invece, ha ricevuto da Dio l'ordine di costruire il tabernacolo (skēnḗ) esteriore come figura del mondo visibile perché Dio stesso gli ha permesso di vedere il modello (ibidem, II, 35).

Strumentali al funzionamento di siffatto Cosmo non sono più le leggi della Natura, bensì gli angeli emissari della volontà creatrice; la ragione, semmai, risiede nei loro criteri: "collocò nel firmamento del cielo la moltitudine delle Potenze invisibili affidando a esse il compito di muovere secondo un criterio razionale oltre che l'aria stessa, i corpi celesti, per farli sorgere, tramontare, evolvere in circolo, e garantire così un perfetto equilibrio alle piante e a tutto ciò che dai corpi celesti può trarre profitto" (ibidem, III, 30).

Un osservatore distaccato: Agostino

Prima che sorgesse la questione nestoriana, in Occidente e lontano dai clamori delle capitali in subbuglio Agostino (354-430), impegnato a sua volta nel commentare la Genesi, sembra cogliere tutti gli sviluppi di un così acceso dibattito esegetico e restituire all'intera questione la misura delle cose. In questi termini trae la morale degli avvenimenti che abbiamo seguito:

è estremamente turpe e dannoso e da evitare al massimo che si senta un cristiano delirare in questo modo su tali cose avendo l'aria d'appoggiarsi alle Scritture, al punto che a stento ci si possa trattenere dal riso vedendolo sbagliare su tutto il cielo, al modo che abbiamo detto. E ciò che è dannoso non è che si possa ridere di un uomo che sta sbagliando, ma che i nostri autori vengano creduti di aver professato tali opinioni da chi è estraneo alla nostra religione e che con loro grande danno, mentre ci dovrebbe stare a cuore la loro salvaguardia, siano ripresi come ignoranti e rifiutati. Infatti costoro, per affermare le loro vane accuse sui nostri libri, sono in grado di cogliere chiunque tra i cristiani quando erra su cose che loro perfettamente conoscono; in che modo, allora, potranno mai credere a quello che dicono questi libri sulla resurrezione dei morti, sulla speranza della vita eterna e sul regno dei cieli, già se pensano di trovarvi riconfermati gli errori per la sfera di realtà di cui si può fare esperienza o che si può dimostrare con indubitabili ragionamenti? (De Genesi ad litteram, I, 9, 39)

In relazione alle metafore astronomiche che alimentavano il dibattito tra Antiochia e Alessandria sulla forma dei cieli, cioè le immagini del cielo steso come una pelle (Salmi, 103, 2) o come una volta di tenda (Isaia, 40, 22-23), Agostino pone come imprescindibili alcune considerazioni: "se importa ‒ e importa ‒ di comprendere questi due testi per trovarli in accordo e senza alcuna reciproca contraddizione, importa anche che l'uno e l'altro di questi testi non siano in contraddizione con quelle dimostrazioni, se la ragione ne dichiara la verità con certezza, che insegnano che il cielo ha la figura di una sfera convessa in tutti i punti, se lo si può provare" (De Genesi ad litteram, II, 9, 21).

Infine, nel tentare a sua volta di portare a termine un'esegesi il più possibile letterale, muove alcune osservazioni "ai partigiani ostinati e rigorosi del senso letterale", per controbattere le assurdità dei quali non è necessario ricorrere all'interpretazione allegorica. "Senza abusare del linguaggio" è il monito ricorrente di Agostino; a suo parere le parole dei Testi Sacri non sempre si prestano in modo così esclusivo per i significati da essi prescelti, in quanto, per esempio, la pretesa 'volta' del cielo, presa alla lettera, non contraddice l'ipotesi della sfericità della Terra. Semplicemente, nel Testo Sacro si parla tenendo conto solo del proprio emisfero, non curando di offrire un'immagine globale del mondo. Per quanto riguarda poi l'immagine della tenda celeste connessa al termine 'pelle', Agostino fa notare che l'immagine evocata dipende da un'accezione limitata del suo referente, considerando solamente quella stesa sulle tende secondo l'uso dei popoli nomadi del deserto; vi sono, invece, pelli che, quando sono stese, non assumono la forma del piano su cui poggiano, ma prendono spontaneamente una propria forma, che può proprio rivelarsi sferica o comunque tonda. Significativamente, i due esempi naturali citati, l'utero e la vescica, sono tratti dall'anatomia (ibidem, II, 9, 22).

Se si ammette il movimento dei cieli è quindi in pericolo il firmamento biblico? Agostino, forse perché del tutto estraneo per ragioni storiche al fragore della battaglia trinitaria, mantiene al riguardo un sano senso critico nei confronti degli estremismi interpretativi, anche se sembra avvertirne i punti più critici; egli osserva come sia inutile impedire la curiositas dei ricercatori per cose che, in fondo, non riguardano da vicino l'interesse e la sopravvivenza della Chiesa:

da una parte il nome di firmamento non ci obbliga a pensare che il cielo sia immobile, dato che si può pensare che sia stato chiamato firmamento non per la sua immobilità, ma a causa della sua solidità o a causa del limite invalicabile dal quale sono divise le acque superiori da quelle inferiori. D'altra parte, se la verità ci persuade che il cielo è immobile, il movimento degli astri non ci può impedire di pensarlo tale. In effetti, coloro che hanno tutta questa estrema curiosità e il tempo da dedicare a queste ricerche hanno scoperto che, anche con un cielo immobile, se i soli astri si muovono possono avvenire tutti quei fenomeni che sono avvertiti e percepiti nelle rivoluzioni siderali. (ibidem, II 10, 23)

Una buona tattica, sembra consigliare Agostino, è quella di non impedire all'intelligenza umana di svilupparsi elaborando spiegazioni scientifiche che rispondano alle domande poste dall'osservazione naturale, dal momento che nulla può indurre a credere che tale sapere, per la sua natura razionale, minacci la fede, manifestandosi la verità tanto nell'uno quanto nell'altro campo.

Istituzioni scientifiche nel mondo cristiano

Il luogo comune della vocazione antiscientifica del cristianesimo, che trovava un paladino in Tertulliano, sembra essere confermato unicamente dalle posizioni ideologicamente avverse al cristianesimo stesso, come dimostra il precedente excursus sui cieli, che è paradigmatico sul modo di originarsi di opinioni diverse sorte tra i pensatori cristiani nei confronti di questioni scientifiche, frequentemente considerate retaggio culturale dei pagani.

Prendiamo come esempio la ricostruzione di questo particolare periodo storico della scienza antica offerta dal famoso medico arabo-egiziano Ibn ǧumay῾ Hibat Allāh al-Isrā᾽īlī (m. 1198) nel suo Trattato al Saladino sulla rinascita dell'arte medica:

dopo di lui [Galeno] la comunità cristiana emerse e prevalse sui Greci. I cristiani consideravano inutile dedicarsi alla pura speculazione e i loro re si disinteressarono delle sorti della medicina e dei suoi studiosi. Gli studenti non coltivavano più uno studio sistematico dell'arte medica perché trovavano troppo noioso leggere Ippocrate e Galeno [e] i vari manuali e compendi risultavano più attraenti. I più illustri medici di Alessandria temettero che l'arte potesse estinguersi e l'opera di Ippocrate e di Galeno potesse essere dimenticata. Chiesero e ottennero allora dai re di continuare a insegnare ad Alessandria, limitando il corso di medicina a venti libri, sedici di Galeno e quattro di Ippocrate. L'educazione [medica] sopravvisse così fino al tempo del califfo ῾Umar ibn ῾Abd al-῾Azīz, quando il direttore della scuola si convertì all'Islam [...]. L'insegnamento della medicina trasferì la sua sede ad Antiochia, ad Ḥarrān e poi in altre città e quando salì al califfato ῾Abd Allāh ibn Hārūn al-Rašīd rivitalizzò e promosse la scienza attirando a corte medici illustri. Senza la sua iniziativa la medicina e le altre scienze sarebbero andate perdute proprio nella terra dei Greci, che in questo campo tanto avevano eccelso. (I, 75 e 77)

Il quadro rappresentato, desolante per le sorti della gloriosa tradizione medica, è influenzato dall'impianto marcatamente ideologico della fonte, e questo fatto potrebbe comprometterne il valore informativo. Tuttavia sono molti gli spunti di riflessione offerti dal testo, anche a dispetto della sua doppia lontananza, cronologica e culturale, dai fatti di cui narra. È innegabile che il sentirsi in concorrenza con la religione cristiana porti l'autore a enfatizzare la differenza tra il comportamento dei re cristiani e quello dei califfi arabi; l'obiettivo dello scrittore egizio è quello di mostrare la cristianità come età di netto decadimento per gli studi e per ogni interesse verso la medicina, e come questo fatto dipendesse non soltanto dalla fede dominante presso gli studenti, ma anche dal mancato impegno dei re, una volta cristianizzati, di favorire e proteggere i centri di studio e di ricerca medici. L'impegno di Ibn ǧumay῾ Hibat Allāh al-Isrā᾽īlī è di spingere il proprio signore, Ṣalāḥ al-Dīn, che regnò dal 1169 al 1193, a non perdere l'occasione di fare meglio dei re cristiani in fatto di politica culturale e assistenziale; ciò spiega perché il suo racconto si soffermi a descrivere il declino, nella Tarda Antichità, dei poteri politici centrali nel patrocinare biblioteche e università. Al mondo arabo era giunta l'eco di quegli avvenimenti, e specialmente di come, di fronte alla chiusura della Scuola di Atene e all'eclissi degli altri centri di cultura ellenistica, Alessandria avesse salvaguardato la sua sopravvivenza limitando lo spettro dei suoi interessi, dato che doveva rendere conto all'autorità del patriarca non contando più su quella di un re. Sembra di capire che non sia solamente Ibn ǧumay῾ Hibat Allāh al-Isrā᾽īlī nel mondo arabo a pensare che la ragione storica dei recenti avvenimenti fosse politica; l'accentramento del potere non è risultato salutare per quei centri di cultura che altra fortuna avevano goduto sotto i re ellenistici, visto che neppure quel che rimaneva del Museo godette delle attenzioni dell'imperatore, interessato a crearsi qualcosa di simile a Costantinopoli.

La fonte Ibn ǧumay῾ Hibat Allāh al-Isrā᾽īlī si addentra, da una parte, nella descrizione del ridimensionamento del curriculum degli studi di medicina, testimoniando come nell'ultima fase della Scuola medica alessandrina si assista a una ripresa di Galeno, auctoritas senza confronti per la formazione istituzionalizzata dei medici di allora e che continuerà a dominare incontrastata la scena anche dopo il passaggio della scuola al mondo islamico; dall'altra parte, delinea il fenomeno parallelo dello spostamento dell'asse culturale verso Antiochia e Ḥarrān, che, nell'angolazione adottata dal medico, appare guidato dai califfi. Prima dell'apertura di questo canale diretto che unì, dopo la conquista araba, Alessandria a Baghdad, le strade che portano a Oriente, a Edessa e a Nisibe, erano state percorse in momenti diversi dalle comunità nestoriane di Antiochia nel tentativo di proteggere la propria Chiesa dal braccio imperiale al servizio dell'ortodossia conciliare. Un approdo fu Gundīshāpūr, in Persia, dove si era affermato un programma parallelo di assimilazione della cultura indiana, greca e cristiana messo in atto dagli imperatori sassanidi fin dal 260. Di šĀpūr I (241-272) si narra che collezionasse libri su argomenti di filosofia della Natura, per lo più indiani. In realtà gli eventi fondamentali della sua politica culturale risultarono però le imprese belliche, e precisamente la vittoria sull'imperatore Valeriano e la conquista di Antiochia. Così in un colpo solo šĀpūr I entrò in possesso dell'intera eredità culturale presente in questa città, e decise di trasferirla altrove, più magnifica di prima, avvalendosi della moltitudine di prigionieri dell'esercito sconfitto di Valeriano, in cui abbondavano tecnici qualificati, medici, ingegneri, architetti e tutti gli studiosi che erano soliti accompagnare l'imperatore romano nelle sue campagne in Oriente. Nacque Gundīshāpūr, che significava appunto "quella di šĀpūr, più di Antiochia", e popolarla non fu difficile, dato il frequente ricorso, nell'Antichità, a deportazioni di coloni, artigiani, monaci.

Cosroe I (531-579) nel riprendere tale progetto, qualche secolo dopo, ottenne un insperato aiuto da parte della politica d'intolleranza religiosa di Bisanzio, che metteva al bando sia i professori di Atene, rei di diffondere filosofie pagane, sia i seguaci dei differenti credi di volta in volta colpiti dai concili: prima gli ariani, poi i nestoriani, infine gli stessi monofisiti. È sul filone di questa politica orientale che s'innesta l'azione dei califfi, che dopo l'invasione della Persia e della Mesopotamia, fa confluire nelle nuove capitali islamiche le protette comunità intellettuali; era chiaro però che, favorendo questo flusso migratorio, ogni nuova capitale poteva venire invasa da personaggi di rilievo scientifico il cui retroterra religioso non era musulmano. Già ai suoi tempi l'ambiente medico di Gundīshāpūr si presentava saldamente in mano a poche e potenti famiglie che monopolizzarono per un certo tempo la formazione di qualsiasi altro medico, anche arabo; queste famiglie erano per lo più cristiane nestoriane, come, per esempio, erano i Bakhtīšū῾, i Māsawaih, gli Ḥunayn. Se la tradizione familiare, anche per la trasmissione dell'arte medica, è un dato di fatto costante, è da rilevare che all'interno di essa era assai difficile che andasse smarrito il credo originario di appartenenza. Il progetto alla base della politica sanitaria di un potere centrale forte, quale quello che sembrava riproporre il Saladino, era di realizzare una struttura statale capace di convogliare tutte queste forze operose di diversa matrice religiosa e culturale in un'unica impresa comune, impedendo loro di coagularsi, come tradizionalmente era già avvenuto in ambiente bizantino ‒ precisamente, in Cappadocia e in Siria ‒ per comunità religiose autosufficienti, votate all'assistenza caritatevole.

Dunque, anche se inconsapevolmente, la fonte Ibn ǧumay῾ Hibat Allāh al-Isrā᾽īlī ci parla di una trasmigrazione culturale che, sfuggita di mano agli imperatori cristiani, i califfi potevano semmai soltanto favorire, convogliandola al proprio interno; per non rimanere spettatori passivi di fronte a questo fenomeno inarrestabile, essi dovevano proporsi come referente istituzionale, facendo della sanità un elemento integrato all'interno dei propri progetti espansionistici, come già era stato fatto in Persia e a Bisanzio. È chiaro che la fonte in questo modo rivela tre cose. La prima è che la cultura scientifica non era affatto morta durante l'intervallo tra età classica e avvento dell'Islam, ma si era strutturata in modo diverso, decisamente incontrollabile per il potere centrale, dal quale anzi si era ormai resa autonoma. In secondo luogo, appare evidente che non potevano essere i pochi professori di Atene a provocare questo ampio movimento così determinato, ma semmai le comunità cristiane perseguitate, a seconda delle alterne vicende dei concili; esse decisero di spostarsi prima verso il deserto, poi verso i confini dell'Impero, per oltrepassarli alla prima occasione in cerca di asilo e portando con sé tutti i testi di sapienza teologica e scientifica di cui abitualmente facevano uso. Intere biblioteche e centri di cultura, infatti, sparirono, si polverizzarono, per ricomparire tali e quali altrove, ricomposti dai confratelli in fuga oltre confine, dove riuscivano a riproporre la propria Chiesa, con i propri vescovi. In terzo luogo, la fonte egizia sembra sottolineare che tale movimento in Oriente, nel cuore del Medioevo, non ha affatto perso consistenza né autonomia, e neppure ha smarrito la sua connotazione cristiana, al punto di rappresentare ancora un problema in attesa di una risoluta soluzione politica.

Tra le fonti arabe vi è concordanza sul fatto che esistesse una sorta di monopolio dell'arte medica da parte dei cristiani e che questo risalisse a prima che s'instaurasse il potere dei califfi. Si narra che, quando la Scuola di Gundīshāpūr con l'ospedale annesso era ancora fiorente, il suo caposcuola Gūrgīs (Geōrgios) ibn Gibrīl (Gabriel) ibn Bakhtīšū῾ fu chiamato nel 765 in qualità di medico alla corte del califfo abbaside al-Manṣūr (754-775), per curarlo dopo l'insuccesso dei propri medici. L'episodio non rimase isolato. Dopo qualche anno Gibrīl se ne tornò a Gundīshāpūr per morirvi, ma suo nipote fu chiamato a sua volta a Baghdad da Harūn al-Rašīd (796-809) con il compito di approntare la fondazione di un primo ospedale nella capitale; la famiglia nestoriana dei Bakhtīšū῾ ormai si era stabilizzata a corte e a Baghdad. Nel frattempo, era giunto al-Māsawaih, ormai ritiratosi dall'attività, il quale era stato a suo tempo un medico farmacologo famoso, al punto da ricoprire per trent'anni il ruolo di direttore della farmacia nella scuola di Gundīshāpūr e diventare nella capitale medico del visir di Harūn al-Rašīd, Yaḥyā (Ioannes) ibn ḪĀlid. Gibrīl colse l'occasione di mettere a capo del nuovo ospedale il figlio di al-Māsawaih, Abū Zakarīyyā Yūḥannā, rinomato medico e insegnante con molto seguito. La persistenza dei nomi greco-cristiani in questo spaccato storico e l'intreccio di queste genealogie mediche con le più alte cariche del potere centrale ci danno l'idea del fenomeno e della sua rilevanza per la politica del califfato. Quindi, a parte le pratiche religiose, sono l'arte della medicina e l'abilità nella sua pratica a rendere visibili i cristiani all'interno dell'Islam; d'altronde, essi potevano disporre di tutto quel bagaglio di informazioni accumulate nei testi di anatomia e farmacologia antichi e tardo-antichi che si erano portati con sé nell'esilio. L'accesso a tale patrimonio scientifico era esclusivo, poiché i testi erano in lingua greca o aramaica e gli Arabi rinunciavano con difficoltà alla loro lingua. Premura dell'illuminato potere centrale fu quella di rendere accessibili quei testi scientifici attraverso traduzioni; ancora una volta furono messe all'opera genealogie familiari di traduttori cristiani, i già noti Māsawaih e gli Ḥunayn, all'interno della Casa della sapienza, istituzione creata a tale scopo dal califfo al-Ma᾽mūn (813-833).

Così, a dispetto dell'incerto inizio, è proprio l'arte della medicina a proporre il connubio tra scienza e religione cristiana quale connessione persistente nel passaggio dall'Antichità al Medioevo. La ragione di tutto potrebbe consistere nella politica congiunta dei Padri della Chiesa e dell'imperatore di Bisanzio. Da parte loro i Padri della Chiesa, infatti, pur nei feroci e sferzanti contrasti dottrinali, non smisero mai di dedicarsi all'assistenza e al soccorso degli adepti più bisognosi. Non passò molto tempo che, a differenza degli attacchi di Taziano contro la cultura medico-farmacologica considerata come materialistica (Adversus Graecos), Basilio sancisse la medicina e la cura del corpo come pratiche conformi alla pietà cristiana; infatti, era sua opinione che in occasione della somministrazione di cure mediche si veicolasse la grazia divina, senza la quale non si compiva guarigione alcuna né si poteva acquistare l'attitudine a guarire (Regulae fusius tractatae, LV). In generale, l'esercizio della medicina era concepito all'interno della più ampia prassi di carità; sembra che s'instaurasse una gara tra le varie correnti cristiane nel prendersi cura anche della sorte dei corpi dei propri fedeli. Da Basilio a Nestorio non v'era teologo o eretico che non passasse il suo tempo tra i derelitti oppure a finanziare tali imprese. Fin dalla loro comparsa in Antiochia come corrente estremista interna all'arianesimo, agli anomei fu chiaro come un programma di attività filantropiche fosse il più adatto a guadagnare o a tenere saldo il sostegno da parte della gente comune; il fondatore di questa setta, Ezio, che aveva studiato medicina ad Alessandria, fu subito chiamato da Leonzio, appena divenuto vescovo di Antiochia (344), a organizzare queste attività presso i poveri che erano ospitati nei diversi ostelli cristiani, fino a quando non venne edificato nei sobborghi della città, in una zona particolarmente salubre, uno xenṓn apposito per ammalati non abbienti. I primi oppositori agli anomei sono proprio Basilio ed Eustazio, ambedue con un trascorso medico, almeno nel periodo di studi giovanili, che seppero utilizzare in modo diverso. Eustazio, amico fraterno di Gregorio di Nissa, si specializzò nell'assistenza anche sanitaria nei vari monasteri che andava fondando o dei quali riformulava le regole interne; nominato vescovo di Sebaste (357), in Armenia, si dedicò a erigere un ptōchotropheĩon sul modello di quello di Antiochia. Tali istituzioni non si proponevano ancora come enti di esclusiva assistenza sanitaria né come centri di ricerca, sul modello di quello realizzato ad Alessandria e in competizione con esso; questi primi nosokomeĩa o xenodocheĩa erano concepiti secondo un'idea generica di assistenza cristiana rivolta tanto al forestiero, al povero, all'affamato quanto all'ammalato, e non vi è evidenza alcuna che personale medico fosse impiegato al loro interno.

Questo, invece, sembra aver fatto Basilio quando, in una lettera indirizzata a Elia, governatore di Cesarea, così difende il proprio operato:

vorrei che fosse chiesto, a chi si prende la briga di disturbare le vostre oneste orecchie, quale danno ha ricevuto lo Stato dalle nostre mani; o quanto del patrimonio pubblico, grande o piccola che sia l'entità, sia stato sperperato nella nostra amministrazione delle chiese; o, quantomeno, si dovrebbe dimostrare come possa rappresentare un'ingiuria per lo Stato il fatto che venga eretta in onore del nostro Dio una casa di preghiera anche se di magnifica bellezza e, presso di essa, una residenza, una parte della quale generosamente riservata al vescovo, e il resto costituito da quartieri per i ministri (therapeutaĩs) di Dio ordinatamente disposti; il cui accesso, d'altronde, rimane libero a voi, ai vostri magistrati e ai vostri attendenti. E cosa abbiamo fatto di sbagliato quando abbiamo costruito ospizi per stranieri, per quelli che ci vengono a far visita durante il loro viaggio, per quelli che hanno bisogno di cure per le loro malattie, e quando noi offriamo a quest'ultimi la necessaria assistenza, come personale infermieristico specializzato (nosokomoũntas), medici (iatreúontas), animali per il trasporto e servitori? (Epistulae, XCIV)

Il ptōcheĩon che Basilio ha costruito è dunque in grado di offrire, oltre all'ospitalità per i viandanti o per gli immigrati, un'assistenza ospedaliera specifica, anche grazie all'impiego di medici per coloro che giungessero afflitti da malattie, dato che costoro, in tale stato, non potevano contare sulle cure e sull'aiuto dei familiari. Pare di poter riconoscere dalla complessità della struttura la specificità delle funzioni espletate: il nucleo centrale è costituito dal monastero con relativa chiesa, a cui è annesso un edificio per i servizi ausiliari, poi vengono le due strutture atte alla ricezione, l'una dei viaggiatori, l'altra dei malati.

Anche a Costantinopoli il vescovo Giovanni Crisostomo fece erigere un nosokomeĩon, il cui compito era di ospitare viandanti in stato di disagio fisico, e pure in quel caso si parla della presenza di medici, sia pure guidati da religiosi; questo è segno del fatto che il prendersi cura del loro stato di salute doveva ormai rientrare nella prassi programmata di tale tipo di istituzioni (Dialogus de vita S. Joannis Chrysostomi, XXXII). T.S. Miller (1985) ci ha permesso con i suoi studi di gettare luce su tale fenomeno. Cercando antecedenti del Pantokrátōr xenṓn eretto a Costantinopoli nel 1136, egli ha saputo darci notizia di tutta una serie di ospedali che già nel V sec. caratterizzavano il panorama urbano delle maggiori città dell'Impero. Oltre agli ospedali più famosi della città di Costantino ‒ il Sampson xenṓn, l'Eúboulos, il Sant'Irene in Perama e il monastero di Cosma e Damiano, conosciuto come Kosmídion ‒ lo studioso ha rinvenuto la presenza di altri ospedali a Gerusalemme, ad Alessandria e, ancora, ad Antiochia, seguendo le loro tracce nei racconti dei Miracula Sancti Artemii, scritti dopo il 650, e la Vita Sampsonis. La nota dominante è che queste istituzioni si presentano improvvisamente già operative, con personale strutturato ora come medico, gli archíatroi, ora come paramedico, gli hypourgoí; la ragione di tutto ciò va rintracciata nelle sanzioni di Giustiniano che rilanciavano un programma di philanthrōpía statale. Se le sanzioni del 529 si erano abbattute sulle scuole filosofiche con conseguenze nefaste per i loro professori, fin dall'anno dopo si manifestò un diverso orientamento nei confronti di tutte quelle strutture che potessero svolgere una funzione di assistenza e di cura, facendo sperare ai medici, anche di estrazione pagana, che una diversa sorte fosse in serbo per loro. Questa si concretizzò tra il 544 e il 545, anni di promulgazione delle novellae 120 e 131 del Codex Iustinianus; esse sancivano il finanziamento statale per quelle istituzioni religiose che si fossero impegnate nella politica filantropica imperiale edificando xenõnes od organizzando qualsiasi altro sistema assistenziale di tal genere. Le disposizioni in questione si rivelarono strumento legislativo in grado di fare affluire in tali istituzioni il personale medico formatosi nelle scuole pagane dell'Antichità, offrendo la garanzia di non sospendere i sussidi imperiali per tutti quei medici che avessero deciso d'impegnarsi in questa impresa all'interno di simili istituzioni, la cui giurisdizione, inoltre, era affidata ai vescovi e alle autorità ecclesiastiche. Il progetto era duplice. Da una parte si faceva in modo che, con l'immissione degli archíatroi in tali istituzioni stabili, visibili e centralizzate nei servizi, fossero offerte, oltre alle altre forme di aiuto ai bisognosi, cure sistematiche ai sofferenti, risolvendo un annoso problema sociale di fronte al quale lo Stato da tempo risultava impotente e per il quale ora si offriva l'occasione d'impiegare più qualificate risorse umane; dall'altra parte, s'imponeva ai capi religiosi una presa di consapevolezza dell'importanza del proprio ruolo direttivo una volta resi responsabili della politica sanitaria rivolta ai propri fedeli.

Per quanto riguarda i medici, anche se spesso queste loro conversioni potevano sembrare sospette o di comodo, il loro apporto significò un nuovo impulso all'assistenza caritatevole; infatti, il convergere del loro lavoro in queste strutture connesse alle grandi città, in grado di concentrare in un solo luogo i viaggiatori malati, isolandoli temporaneamente dal contesto urbano, anche fuori delle mura civiche, dà l'idea che la preoccupazione diffusa fosse ormai quella di organizzare una sorta di piano sanitario generale in risposta alle pestilenze sempre più frequenti che colpivano le comunità delle grandi metropoli della Tarda Antichità, tra le quali, appunto, Alessandria, Antiochia e Costantinopoli.

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