La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Le istituzioni culturali e la trasmissione del sapere

Storia della Scienza (2001)

La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Le istituzioni culturali e la trasmissione del sapere

Wesley M. Stevens

Le istituzioni culturali e la trasmissione del sapere

Istituzioni religiose e sviluppo del sapere

Nelle province occidentali dell'Impero romano tutte le strutture sociali consolidate pagarono le conseguenze della grave crisi istituzionale che si verificò durante il III sec. e tra il IV e il V secolo. I rovesci politici culminati con la caduta dell'Impero romano d'Occidente coinvolsero ogni genere di attività culturale. Anche se la mancanza generalizzata di documentazione impedisce di stabilire quali fossero le reali condizioni in cui versavano i centri culturali latini all'epoca di quella crisi, si sa però che la graduale scomparsa delle autorità provinciali e municipali mise a rischio la sopravvivenza di terme, scuole, corti e servizi pubblici di ogni genere. Le istituzioni di cultura superiore necessitavano di un'assistenza e di una protezione organizzate e continuative, e l'Impero romano aveva risposto in modo soddisfacente a tali requisiti attraverso una serie di misure, ossia garantendo l'amministrazione della giustizia, organizzando la riscossione delle tasse e la circolazione del denaro, curando l'allestimento degli accampamenti militari e dei centri ricreativi che erano destinati allo svago degli ufficiali e delle loro famiglie, nonché tramite i mercati, le miniere e le zecche. Le civitates ‒ dotate di acquedotti, reti fognarie, fori, templi, teatri, ginnasi, arene, scuole pubbliche e ogni altro genere di attività culturali ‒ decaddero di pari passo con il regredire degli scambi commerciali, delle entrate fiscali, dell'attività legale e del numero di personale qualificato richiesto. Tuttavia, in un simile contesto sfavorevole, nonostante il fatto che solo in certe province le autorità politiche provvedessero effettivamente alle istituzioni scolastiche, in molte città disseminate nei vasti territori dell'Impero romano continuarono a fiorire alcune scuole. D'altro canto, proprio questa generalizzata indifferenza culturale e questa incoerenza politica resero possibile lo sviluppo di scuole religiose; ciò probabilmente favorì gli studi a carattere scientifico.

Gli insegnanti che operavano a nord delle Alpi lamentavano il fatto che senatores, magistri e curiales locali di molte civitates non provvedessero al mantenimento delle scuole, e rivolgevano richieste di aiuto a nobilissimi, illustres, spectabiles, clarissimi, perfectissimi viri, e perfino a divinissimi imperatores; talvolta queste richieste erano accolte, si trattava tuttavia sempre di un sostegno occasionale e poco affidabile. Ciononostante, durante il Tardo Impero romano e l'Alto Medioevo alcuni insegnanti trovarono comunque il modo di proseguire i propri studi, cercando anche il sostegno dei governanti; per esempio, il filosofo neoplatonico Simplicio, dopo la perdita della sua sinecura ad Atene sotto Giustiniano, cercò asilo presso la corte persiana, e poco dopo trovò un ambiente più favorevole ai suoi studi nella cristiana Alessandria d'Egitto.

Nel complesso, però, diminuirono le fonti di mecenatismo culturale. Le famiglie facoltose ‒ italiane e gallo-romane ‒ poste di fronte alla recessione economica e considerando gli insediamenti di nuovi gruppi germanici e asiatici nelle province occidentali come una vera e propria invasione, fortificarono le loro città e si ritirarono dai mercati, lasciando che fossero i piccoli mercanti, i bottegai, i contadini e i piccoli agricoltori ad affrontare in prima persona i problemi causati dal caos economico. Normalmente i nuovi arrivati erano stati invitati, pochi alla volta, a stabilirsi in Occidente in virtù delle loro capacità tecniche, di cui poteva giovarsi l'organizzazione militare romana, ma le loro idee sul modo di educare i figli erano diverse ed essi nutrivano il timore che gli studi letterari li potessero rendere meno virili. È probabile quindi che ciò abbia provocato una rottura della continuità culturale e l'indebolimento delle istituzioni scolastiche. L'azione dello Stato era per lo più irrilevante o contraddittoria e circoscritta a situazioni locali, e i figli degli aristocratici occidentali continuarono a essere affidati a un precettore perché li istruisse in casa. La letteratura pervenutaci dimostra che alcuni aristocratici divennero i mecenati di piccoli cenacoli di studenti, mentre alcuni vescovi si preoccupavano della formazione dei preti nelle loro diocesi facendo sì che essi avessero quanto meno un'istruzione di base: la capacità di leggere, scrivere e fare di conto.

In numerosi centri si svolgevano intense attività di natura amministrativa e commerciale, che rendevano necessario il possesso di un buon livello di alfabetizzazione e di cognizioni sufficienti per occuparsi di tasse, diritti doganali, documenti per la vendita di terreni e transazioni di vario genere. La maggior parte di queste attività si svolgeva in uffici notarili e in tribunali forniti di un archivio, e vi provvedevano chierici e notai che erano dotati di un livello di alfabetizzazione atto a soddisfare almeno le esigenze relative al commercio, alle transazioni, alla giustizia civile e penale. Fra i pochissimi documenti pubblici relativi all'attività giudiziaria e amministrativa del tempo sono pervenuti i codici giuridici di Teodosio II (408-450) e quelli di Giustiniano (527-565); purtroppo molte altre fonti latine sono andate perdute, e una parziale spiegazione di questo fenomeno va individuata nella penetrazione dei Vandali nell'Africa romana a partire dal 431, dei Visigoti in Andalusia dalla metà del V sec. e degli Ostrogoti in Italia a partire dal 454 ca., alla quale Giustiniano rispose con venti anni di guerra e massicce distruzioni di città (tra il 535 e il 555 ca.). Le devastazioni verificatesi in Occidente non cancellarono, comunque, del tutto l'alfabetizzazione, grazie alla nascita e alla diffusione di istituzioni di natura essenzialmente religiosa le quali promuovevano l'istruzione; le civitates episcopali e le diocesi, ma anche le nuove comunità monastiche fondate sulla preghiera, sul lavoro e sullo studio, provvedevano infatti ‒ seppur mettendo in atto modalità del tutto indipendenti ‒ al mantenimento di un livello di istruzione analogo a quello delle epoche precedenti.

Così, un nuovo vigore culturale si diffuse grazie alla religione. Nell'Impero romano molti movimenti religiosi orientali erano presenti in maniera rilevante ma, a quanto sembra, la maggior parte di essi non aveva organizzato scuole. Alcune religioni ebbero vita effimera nelle province occidentali; quando, nel IV e V sec., l'esercito romano progressivamente si ritirò e i centri amministrativi locali furono abbandonati, i capi dei manichei, per esempio, sia laici sia chierici, persero ogni sostegno e diventarono sempre meno importanti, fino a scomparire completamente dalla cultura latina.

D'altro canto, il giudaismo e il cristianesimo si erano invece diffusi inosservati, senza un piano prestabilito, fra quanti commerciavano nei più importanti porti del Mediterraneo e negli altri mercati sorti sulle reti fluviali dell'entroterra. Ebrei e cristiani provvedevano da soli alla propria educazione; dalla Storia ecclesiastica di Eusebio, vescovo di Cesarea dal 314 ca. al 340, si apprende che esistevano scuole ebraiche e cristiane a Nisibi, Costantinopoli, Edessa, Alessandria d'Egitto, Pergamo, Rodi, Atene, Cartagine, Ravenna, Lione e Bordeaux. Nel IV sec. a coloro i quali professavano le nuove religioni fu concesso di avere proprietà e di difendere i propri diritti nei tribunali romani, condizioni, queste, assolutamente indispensabili per la sopravvivenza e la continuità della vita culturale con le sue istituzioni. In quello che ci è pervenuto della produzione normativa di Costantino il Grande (284-337) non viene fatta allusione né a scuole né a biblioteche; apparentemente, all'epoca della cosiddetta 'pace di Costantino', la nascita di nuove scuole o biblioteche era tollerata, la loro affermazione tuttavia e il loro sviluppo non avvenivano con il sostegno dello Stato.

I primi cristiani non erano rigidamente organizzati; una comunità accettava come proprio capo il discepolo di un apostolo (Alessandria d'Egitto) e un'altra eleggeva un presidente (Roma), mentre altre ancora riconoscevano l'autorità del capo di una famiglia locale nella cui casa si riunivano per celebrare il culto. Rabbini e pastori, alle prese con le malattie, la fame e le superstizioni diffuse nelle loro comunità, solitamente impartivano un'istruzione di livello inferiore che comprendeva il saper leggere e scrivere, e l'aritmetica elementare. Inizialmente, il termine epískopos era stato sinonimo di presbýteros o ministro di una chiesa cittadina, e soltanto nel III sec. giunse gradualmente ad assumere il significato di responsabile di diverse parrocchie in una città o in una regione. Una siffatta suddivisione territoriale ecclesiastica amministrata da un vescovo era detta civitas, termine che in seguito fu abbandonato per dioíkēsis, il distretto di un magistrato, allorché un gran numero di vescovi si distinse per la capacità dimostrata nel dirimere le controversie con imparzialità. Tuttavia, per molto tempo ancora i vescovi non ebbero una sede fissa, come per esempio Nicola nel IV sec., Acilberto di Gallia e Wessex nel VII, o Pirmino nell'VIII. Tanto sul versante organizzativo quanto su quello liturgico non vi era dunque uniformità tra le varie comunità e molti aspetti della cultura medievale non possono essere compresi appieno prescindendo da questo dato.

Ci sono pervenute numerose testimonianze concernenti le esigenze fondamentali di una diocesi e, in particolare, un gran numero di documenti che riguardano l'organizzazione dell'amministrazione della civitas romana nell'Italia centrale. I diaconi erano ripartiti in sette zone per quanto concerneva la distribuzione del cibo ai poveri, in seguito però essi diventarono una corporazione che si occupava dell'amministrazione delle diocesi più grandi, con un arcidiacono che sembra fosse il responsabile di tutti gli appartenenti alla comunità ecclesiastica, compresi i presbiteri. Subordinatamente ai diaconi vi erano poi i notarii, i tabelliones e i defensores, i quali provvedevano alla gestione della schola per la diocesi; il loro lavoro veniva svolto secondo il modello della più articolata organizzazione civica della giurisdizione imperiale, e in seguito essi giunsero a occuparsi di tutte le attività pubbliche della civitas.

I vescovi avevano il compito di custodire i libri che contenevano gli insegnamenti apostolici, istruire i presbiteri a celebrare le funzioni, insegnare loro la dottrina cristiana e appianare le controversie; proprio componendo queste ultime e preservando gli insegnamenti degli apostoli, essi acquisirono una certa preminenza rispetto ai diaconi. Va ricordato però che non abbiamo alcuna prova del fatto che in questi primi secoli il comando della civitas romana fosse attribuito a una singola persona o a una carica specifica. A partire dall'VIII sec., la notevole quantità di documenti prodotti, sia di tipo letterario sia relativa al calcolo, fu conservata nell'armarium, un armadio o un qualche tipo di cassa sorvegliata dall'armarius; alcune cattedrali possedevano inoltre una stanza per il bibliothecus del Capitolo e per il bibliothecarius che se ne occupava. Per quanto riguarda i monasteri ‒ tutti fondati, dal punto di vista economico, o sull'agricoltura o sul commercio ‒ in Italia si affermarono due indirizzi che influenzarono gradualmente l'organizzazione del monachesimo nell'Europa occidentale: la 'Regola del Signore' e la 'Regola di San Benedetto'. Esse provvedevano a regolarizzare le preghiere quotidiane, a mantenere un'alternanza tra le pratiche legate al culto e il lavoro e ad appianare gli eventuali contrasti all'interno delle comunità. In un simile contesto, fondato su un'alternanza di preghiera e di lavoro, la capacità di leggere e scrivere era considerata necessaria, e probabilmente proprio le Sacre Scritture e l'elaborazione delle preghiere private in consuetudini liturgiche, oltre alla presenza nei monasteri di biblioteche e di scuole, fecero sì che queste istituzioni religiose fossero, per molti secoli, fra i centri culturali più stabili dell'Europa.

Fra coloro che avevano raggiunto un certo riconoscimento nella gestione del governo o erano stati incaricati di un ruolo importante nell'ambito della Chiesa, vi erano inoltre i nuovi coloni. Sono giunti in nostro possesso alcuni documenti relativi a Franchi, a Burgundi o a persone appartenenti ad altre stirpi germaniche, i quali avevano ricevuto lo stesso tipo di istruzione impartita ai Romani e avevano raggiunto posizioni di potere che consentivano loro di agire per il mantenimento di una certa continuità nella tradizione letteraria del tardo periodo romano. Si tratta di un fenomeno riscontrabile in tutte le province; durante il primo secolo e mezzo di dominazione franca sotto la dinastia merovingia ‒ a partire da Clodione fino a giungere agli anni Settanta del VII sec. ‒ si richiedeva che il ceto amministrativo fosse in grado di leggere e scrivere. Ne sono un esempio Eligio, il quale nacque nella regione di Limoges, imparò il mestiere di orafo e, successivamente, divenne il vescovo di Noyon; Desiderio di Cahors; Audouin di Rouen; Paul di Verdun; Sulpicius di Bourges; Arnolfo di Metz.

Nella società franca i giovani destinati a ricoprire alti incarichi erano inviati, in un primo momento, presso le corti di Neustria e Austrasia, per poi essere dislocati presso altre sedi più appropriate, dove avrebbero potuto approfondire le proprie conoscenze letterarie e completare la formazione esercitandosi anche nell'equitazione e nel combattimento, nella musica e nella danza. L'educazione delle loro sorelle si svolgeva secondo modalità piuttosto simili e si concludeva con matrimoni prestigiosi, funzionali alle alleanze familiari; è il caso, per esempio, di una donna franca di nome Berta che nel 560 divenne la moglie del sassone Etelberto, re di Kent, in Inghilterra. Molti giovani s'incontravano a corte e, una volta mandati a ricoprire incarichi di governo nelle diverse località, si scrivevano, usando formule eleganti e adeguate alla situazione, per conservare e approfondire queste amicizie. Quando Ebroino, che ricopriva la carica di maggiordomo (657-667) in Neustria, fu spodestato, combatté per riconquistare la sua posizione e ne seguirono aspre lotte per il potere, sia in Neustria che in Austrasia.

Sorsero molte fazioni diverse e le politiche di corte non furono più monopolizzate dai sovrani merovingi. Per i giovani studiosi che provenivano dalle province era sempre più difficile avere contatti influenti e alti incarichi a corte; tanto le relazioni di amicizia quanto lo scambio di corrispondenza andarono diminuendo. Questa situazione si protrasse nel periodo di ascesa della famiglia degli Arnolfingi di Pipino II di Héristal (640-714) e Carlo Martello (689-741); Carlomanno (714-754) e Pipino III il Breve (714-768) tentarono tuttavia di dare nuovo impulso alla corte, intesa come centro nel quale potessero convergere le aspirazioni sociali dei membri delle famiglie nobili. In questo modo, la corte carolingia divenne tanto un centro di diffusione quanto di conservazione del sapere in Francia e da lì esercitò uno stimolante influsso anche su altri centri.

Mentre nell'Impero romano le pratiche ascetiche erano tenute in grande considerazione, tra i cristiani le gesta eroiche non coinvolsero mai un gran numero di persone. In contrasto con il dualismo romano fra pietas e permissivismo morale, nella religiosità degli ebrei e dei cristiani era insito infatti un aspetto pratico che riguardava l'onestà negli affari e il rispetto nell'ambito del nucleo familiare. Sebbene alcuni, come gli eremiti, si ritirassero dal mondo per dedicarsi alla preghiera e al fine di raggiungere un puro contatto spirituale con Dio, si diffuse tuttavia allo stesso tempo una forma di vita comunitaria; gli Atti degli Apostoli testimoniano infatti preghiere e pasti in comune fra i primi cristiani, sia ricchi che poveri. La diffusione del cristianesimo comportò conseguentemente la nascita di nuove strutture sociali: chiese, cappelle e santuari, e specialmente monasteri, nei quali ci si poteva ritirare abbandonando le consuete occupazioni per dedicarsi alla preghiera.

Questi sviluppi favorirono la nascita di una comunità di letterati con un forte senso civico, dedita alla studio di artes e scientiae; regole di vita per comunità cenobitiche furono elaborate da Antonio, Basilio, Agostino, Cassiano, Macario, Pacomio, Colombano e Benedetto da Norcia. Se in alcuni ordini religiosi furono enfatizzate le lodi a Dio (è questo il caso delle regole minuziose della laus perennis che diventarono popolari a nord delle Alpi per opera di Maurizio di Agaunum), la più moderata 'Regola di San Benedetto' si basava invece tanto sulle preghiere quanto sul lavoro quotidiano (ora et labora) e dava spazio anche alla lettura; in questo modo, i libri che erano raccolti ‒ in particolare quelli copiati e diffusi dalla comunità di Cassiodoro a Vivarium ‒ ispirarono modelli da seguire.

Gradualmente Benedetto e Cassiodoro indussero i monasteri cristiani a una religiosità moderata e a un generale grado di alfabetizzazione, e favorirono un livello di istruzione superiore alle esigenze del culto e del lavoro. Fra le comunità cristiane occidentali si diffusero le scuole organizzate e sostenute da vescovi e abati, molte delle quali erano munite di biblioteche, ed era anche grande la richiesta di scriptoria per rispondere alla crescente domanda di libri. Queste scuole hanno prodotto copie di quasi tutti i manoscritti latini pervenuti fino ai nostri giorni, incluso ‒ com'è noto ‒ un gran numero di scritti di matematica e scienze, sia antichi che recenti. Così, nel Tardo Impero romano l'istruzione dei laici andò via via diminuendo a causa delle circostanze politiche ed economiche, ma non sparì del tutto; vescovi e abati si adoperarono per garantire alle nuove comunità un'istruzione di base letteraria e matematica, e le chiese cristiane mantennero viva la tradizione delle artes et scientiae vel disciplinae.

Le condizioni della vita culturale in Italia iniziarono a migliorare grazie anche all'influenza esercitata da personaggi come Simmaco (appartenente a una delle più importanti famiglie senatorie romane), Boezio (della famiglia degli Anici) e Cassiodoro sull'ostrogoto Teodorico e sui suoi discendenti. I Visigoti, che si erano stabiliti nella Penisola Iberica, cercarono di conservare o di dare nuovo impulso ai mercati e alle scuole, come dimostrano le carriere di Leandro e di Isidoro di Siviglia, i quali godettero dell'appoggio di Sisebuto e di altri signori di Toledo. La distruzione di città, scuole, villae e mercati nell'Africa romana, nelle pianure costiere della Spagna e per tutta l'Italia, cui fecero seguito pestilenze e carestie negli anni di guerra tra Giustiniano e i regni romano-barbarici, bloccò però quei tentativi di risveglio culturale. Nell'VIII sec. la Penisola Iberica fu ulteriormente smembrata a causa delle invasioni islamiche guidate dai Berberi provenienti dal Nord Africa; le continue lotte che sconvolsero la nobiltà franca all'epoca dei Merovingi provocarono profonde spaccature sociali e crisi economiche anche in alcune aree a nord delle Alpi.

La vita culturale non si esaurì del tutto tra le famiglie gallo-romane di Provenza e di Aquitania, come pure non scomparve tra i Franchi. Le testimonianze pervenuteci rivelano l'esistenza di opinioni assai discordanti riguardo l'istruzione scolastica. Sull'esempio di Gregorio Magno, di Cassiodoro e di Isidoro, alcuni chierici e monaci rimasero fedeli ai modelli classici nei loro poemi, negli epistolari e perfino nelle vite dei santi; tutto ciò però costituiva un problema, in quanto questi autori frequentemente proponevano il culto del corpo (celebrato soprattutto nelle terme romane) e una retorica finalizzata esclusivamente a ottenere incarichi di prestigio da parte dell'aristocrazia. Tali valori elitari romani erano criticati tanto dai 'classicisti' quanto dai 'rigoristi', i quali avvertivano la necessità di una cultura cristiana basata sulla disciplina personale e sociale, che potesse contare su nuovi centri di studi sacri.

Le scuole monastiche erano più egualitarie di quanto non lo fossero state le scuole greche e romane, e le regole mutavano in base ai diversi contesti e alle difficoltà dell'epoca; comuni erano però l'obiettivo di comprendere la Bibbia e di celebrare il culto di Dio, nonché un nuovo interesse per il calendario. I cristiani nelle proprie scuole affiancavano dunque gli studi matematici e scientifici a quelli letterari e religiosi, anche per l'esigenza di ricordare le loro origini e di celebrare alcuni eventi del passato che ne legittimassero il modo di vivere e di lavorare in comune; così, essi elaborarono, studiarono e usarono un calendario annuale, e ricostruirono una lunga successione di anni che andava dalla Creazione all'Incarnazione fino al presente; in questo modo le loro scuole favorirono lo sviluppo di un non comune senso del tempo, frutto di conoscenze di carattere matematico e astronomico. Lo studio del calendario presupponeva infatti l'apprendimento dell'aritmetica e dei fondamenti dell'astronomia, almeno per quanto riguardava i cicli lunare e solare; i monaci più avidi di sapere erano indotti allo studio della geometria e dell'astronomia planetaria. In questo modo, lo studio del calendario e la risoluzione dei problemi connessi, che nel complesso erano compresi nel termine 'computo' (computus) ‒ sottinteso 'del tempo del calendario', o 'computo calendaristico' (v. cap. VII, par. 2) ‒, ebbero un ruolo di primo piano per fondare lo stile di vita delle comunità, in quanto erano fissati i criteri per determinare la data della Pasqua e delle cosiddette feste mobili religiose a essa collegate; di conseguenza, nelle scuole cristiane lo stesso sviluppo delle scienze trovò nuove direzioni.

Nell'ambito del grande cambiamento culturale avvenuto in Europa nella seconda metà dell'VIII sec., con la sostituzione del dominio dei Carolingi a quello dei Merovingi, in Francia il numero delle scuole aumentò grazie alla stabilità garantita ai monasteri e alle diocesi dalla protezione di Pipino III e dei suoi due figli, Carlomanno e Carlo Magno. Specialmente dal 768 all'814 Carlo Magno esercitò una considerevole influenza su gran parte dell'Europa centrale e occidentale, ben oltre il confine dei territori franchi, accreditando diplomatici provenienti da Istanbul, dal Cairo e da Saragozza, e concedendo terre per la realizzazione di scuole e biblioteche; i suoi funzionari, fideles, seguirono poi il suo esempio, sostenendo finanziariamente le scuole e le biblioteche dei monasteri. Alla sua corte giunsero studiosi provenienti dall'Inghilterra, dall'Irlanda, dalla Spagna, dall'Italia e dall'Austria. Anche nel corso del IX sec. i figli e i nipoti di Carlo Magno continuarono ad aiutare le scuole e le biblioteche e a crearne di nuove, sostenendole con privilegi e donazioni.

Basata sulle Sacre Scritture, l'istruzione cristiana dei Carolingi non era estranea a interessi di tipo matematico e scientifico, e tanto i libri di testo quanto quelli scritti dai monaci contenevano argomenti di letteratura, di matematica, di teologia e studi di fenomeni naturali. Anche se né i classicisti né i rigoristi avevano un interesse particolare per le questioni sottili relative alla lingua latina, tuttavia la grammatica ebbe un notevole sviluppo, fu trascurata invece l'antica disciplina della retorica. L'evoluzione delle liturgie e il canto sistematico dei 150 Salmi biblici da parte dei monaci crearono un contesto sociale favorevole ai cantica e spinsero all'analisi dell'armonia e alla creazione di notazioni musicali sia nella forma di neumi sia nella forma di segni numerici. L'interesse per le Categoriae di Aristotele e l'Isagoge di Porfirio, così come nei confronti di diverse opere di Boezio, attesta che la logica, o dialettica, fu sicuramente e attivamente seguita; inoltre, nelle scuole carolinge fra le materie da studiare c'erano tanto l'astronomia quanto l'aritmetica e la geometria, mentre la nuova materia del computus comprendeva tutte le discipline matematiche. Carlo Magno e l'abate Alcuino esigevano che queste materie fossero oggetto di studio.

Un esempio dello sviluppo culturale dell'età carolingia è costituito dalla Scuola cattedrale di Laon, che fiorì per un secolo e mezzo, ossia dal 760/780 ca. fin oltre il 900. La sua biblioteca, che serviva all'attività legale dei vescovi e del personale diocesano ‒ partecipante attivamente alla politica dei Franchi, sia secolare sia ecclesiastica ‒, disponeva anche di una vasta gamma di autori, di una grammatica greco-latina, di un dizionario greco-latino e di due raccolte di trattati scientifici: il ms. Philipps 1832 di Berlino e il ms. 1000 di Treviri. Con nuove cattedrali e nuovi monasteri, il mondo cristiano divenne, nel corso dell'VIII e del IX sec., sufficientemente stabile da incoraggiare scuole e biblioteche, cosa che aveva anche forti motivazioni pratiche; ai vescovi premeva, infatti, formare studenti che diventassero preti e servissero nelle parrocchie. L'istruzione scolastica destinata ai monaci più giovani e alla formazione dei preti fiorì generalmente nei centri urbani quali Milano, Roma, Strasburgo, Basilea e Colonia; in tal modo, molti monaci e alcuni preti appartenenti a nazionalità diverse impararono a leggere e a scrivere in latino, studiarono Virgilio e Cicerone, i vangeli e le Lettere di s. Paolo, e in seguito svilupparono gradualmente nuovi centri di apprendimento con proprie scuole, scriptoria, nonché biblioteche.

I centri di cultura e le rotte della diffusione delle conoscenze

All'inizio del Medioevo, alle scuole sopravvissute in alcune città delle antiche province del Tardo Impero romano ‒ come, per esempio, Clermont e Lione ‒ si affiancarono molti nuovi centri culturali che divennero sedi di scuole. Tali centri furono molto più numerosi di quanto si sia creduto in passato; essi contavano, infatti, le antiche città romane, le città episcopali già esistenti o di nuova fondazione e i nuovi insediamenti monastici. La vita sociale ed economica fioriva inoltre tanto nelle corti dei Gallo-Romani e dei condottieri delle popolazioni recentemente immigrate, quanto in quelle dei discendenti e dei fideles con le loro famiglie, il loro seguito e il personale domestico. In questi luoghi coloro che si dedicavano a un'attività sociale ed economica costituivano, con le relative famiglie, un ceto stabile e nello stesso tempo intraprendente, in grado di apprezzare i piaceri intellettuali e i vantaggi pratici della formazione normalmente impartita nelle scuole, soprattutto la capacità di leggere, scrivere e far di conto. Considerando dunque le corti, i monasteri, i mercati, le miniere, le zecche e i porti, colpisce, in un'epoca così piena di difficoltà, il numero di comunità che potevano ancora disporre di scuole.

I centri culturali individuati da Pierre Riché in Gallia e in Gran Bretagna sembra contassero nell'VIII e nel IX sec. circa 77 scuole, che diventarono all'incirca 99 fra il X sec. e la prima metà dell'XI (Riché 1962); le mappe pubblicate da Friedrich Prinz nel 1965 relativamente alle stesse aree geografiche, indicano tuttavia molti più centri per le stesse regioni e ne aggiungono un numero considerevole per Baviera, Assia e Turingia. Fra i maggiori centri culturali identificati nelle carte di entrambi gli autori, accanto ai nomi delle città e dei mercati principali compaiono quelli di vari monasteri; è utile ricordare che un monastero in espansione non soltanto diventava esso stesso una piccola città, ma generava anche un'attività economica tale da creare uno o più mercati e centri di approvvigionamento nel circondario, aumentando in tal modo le probabilità che nascessero scuole importanti non solamente nelle terre del monastero stesso ma anche nella nuova città. Nell'antico centro amministrativo romano di Tours, per esempio, i cristiani eressero una cattedrale e l'attività pastorale di Martino di Tours (315 ca.-397) esercitò una profonda influenza sui centri monastici che sorgevano all'interno e nei dintorni della città.

Gli investimenti carolingi a Tours nell'VIII e nel IX sec., patrocinati da Alcuino e da Fredegiso, favorirono una intensa attività culturale, testimoniata anche dal sorgere di nuove comunità e dalle loro costruzioni. Oltre alla scuola cattedrale, fu costruito nel centro di Tours un nuovo monastero dedicato alla Beata Vergine Maria, mentre nelle immediate vicinanze della città in espansione si trovavano i monasteri di Marmoutier, Maillé, Saint-Julien, Saint-Martin, Saint-Pierre e Corbion. Analogamente, si trovavano centri culturali di vario genere ‒ ciascuno dei quali patrocinava più di una scuola, e una biblioteca con scriptorium ‒ a Napoli, Roma, Ravenna, Cividale, Brescia, Milano, Arles, Vienne, Luxeuil, Bordeaux, Siviglia, Toledo, Agaunum, Reichenau, Salisburgo, Magonza, Colonia, Reims, Rouen, Canterbury, Wearmouth, Jarrow e in molte altre località ancora. Tra di essi vi erano mercati regionali e città che dominavano un'intera regione; miniere e zecche attorno a cui sorgevano insediamenti stabili di lavoratori, di amministratori, di corpi militari e di famiglie; porti di mare e porti fluviali nell'entroterra; i castelli delle grandi famiglie nobiliari; le sedi vescovili, dove abitavano anche diaconi, preti e canonici, spesso sposati e con prole; i luoghi di riunione dei sinodi, che garantivano servizi e personale ospitante.

In questi centri fervevano attività sociali, politiche e culturali, e spesso la popolazione era sufficientemente numerosa da potersi permettere scuole, biblioteche e forme di vita associata che presupponevano lavori professionali. Parallelamente all'insegnamento privato, di solito impartito ai figli delle famiglie aristocratiche, era presente anche un gran numero di scuole pubbliche e notevolmente diffuso il pluralismo linguistico. I grandi porti della costa illirica erano molto attivi, specialmente Salona, Epidauro d'Illiria, Spalato e Ragusa; inoltre, entrambe le coste del Mare Adriatico, la parte meridionale della penisola italiana e la Sicilia ospitavano numerose popolazioni di lingua greca. Nelle scuole, insegnanti e studenti erano bilingui (latino e greco) e ciò consentiva loro di prendere parte alle attività di governo e giudiziarie, sia che la sede imperiale fosse a Milano, sia che fosse a Sirmio o a Costantinopoli; è probabile, poi, che molti conoscessero anche altre lingue o dialetti per scopi pratici.

Uomini e idee circolavano lungo le vie terrestri, i valichi di montagna e le rotte marine, vie di comunicazione usate di solito per il commercio e in misura minore per gli spostamenti militari, il trasporto dei rifornimenti e l'attività pastorizia. Un modo per ricostruire gli influssi culturali è quello di seguire ancora Martino di Tours, che diventò noto per le spedizioni missionarie nella valle della Loira, a ovest di Tours e in tutta la Turenna, ma la cui attività pastorale si estendeva in un territorio molto più vasto: Bordeaux, Blaye, Nieul-les-Saintes, Poitiers, Chinon, Candes, Clion, Levroux, Artonne, Vienne sul fiume Rodano, Chartres, Parigi, Sens, Andelhanna, e perfino Treviri e Worms. Anche i suoi più fedeli discepoli erano conosciuti un po' ovunque: Savino di Lavedan, Sulpicio Severo di Premuliacum, Heros vescovo di Arles, Romano di Blaye, Martino di Brive, Martino abate di Saujon, Massimo abate dell'Île-Barbe, Massimo abate di Chinon, Chiaro e Brizio vescovi di Tours, probabilmente Maurilio vescovo, Fiorenzo e Vittricio vescovo di Rouen. Inoltre, a Martino di Tours furono dedicate 2 chiese nel V sec., 28 nel VI e 42 fra il VII e l'inizio dell'VIII, nonché innumerevoli altari e piccole cappelle; gli furono consacrati più di 70 monasteri fra il V e il VII sec. in un'area che va da Premuliacum a Reims, da Braga a Canterbury, da Bingen a Vivarium e da Utrecht a Roma. La sua influenza aumentò nell'arco di quattro secoli e favorì i contatti tra i luoghi che aveva conosciuto, tra i suoi discepoli e quelli che cominciavano a conoscere la sua vita e la sua opera. La sua fama si diffuse attraverso le regioni tramite i rapporti personali e i contatti occasionali, tanto che le prime chiese e i primi conventi che presero il suo nome si trovavano sulle reti fluviali della Vienne e della Loira; in seguito i monasteri si diffusero rapidamente nella catena del Giura e vicino al lago di Ginevra. Nell'VIII sec. c'erano luoghi che veneravano Martino sulla Senna, sulla Mosa e lungo il medio corso dei fiumi Reno e Meno e dei loro affluenti.

Per la storia della scienza sono estremamente significative le vie di comunicazione che la diffusione dell'influenza di Martino rende evidenti, così come quelle percorse da altri noti viaggiatori dei primi secoli: Colombano di Bangor, Vilfredo, Benedetto Biscop, Alcuino di York, Rabano Mauro, Gotescalco di Orbais, Servato Lupo di Ferrières, Strabone (Valafrido di Reichenau), Erico (Hairic) di Auxerre, Gerberto di Aurillac e molti altri ancora. Per esempio, Colombano, monaco irlandese vissuto tra il VI e l'inizio del VII sec., era conosciuto alle corti dei Franchi e dei Burgundi. Missionario irlandese sul continente, egli fondò monasteri ad Annegray e a Luxeuil in Austrasia, e a Bobbio nell'Italia settentrionale. Un viaggio lo portò da Luxeuil ad Autun e Nevers, seguendo la Loira fino a Fleury e al porto peschereccio di Nantes sull'Atlantico, dirigendosi quindi a nord-est verso Parigi e successivamente a Coblenza sul fiume Reno. Alla fine raggiunse Basilea e attraverso le Alpi arrivò fino a Bobbio. Dall'abbazia di Luxeuil la sua fama influenzò altri monasteri: quelli di Gand, Elnon, Nivelles, Corbie, Stavelot, Echternach, Chelles, Jouarre, Faremoutiers, Remiremont, Nevers, Charenton e Montier-Grandval. I monaci e gli studenti provenienti da Luxeuil si riversarono nelle sedi episcopali di Maastricht, Laon, Noyon, Rouen e Basilea. Dall'epistolario di Colombano si apprende che egli riteneva importante la celebrazione della Pasqua ogni anno nel giorno esatto, e che era a conoscenza di più di un sistema per stabilire tale data. Il fatto che nelle scuole dei suoi monasteri si insegnasse il computus risulta testimoniato dai manoscritti pervenutici dai medesimi, i quali contengono non soltanto studi sul calendario ma anche altri testi di aritmetica; alcuni, in particolare, riguardano la geometria piana di Euclide e osservazioni di astronomia.

Nel VI e nel VII sec. le comunicazioni erano dunque relativamente buone in tutta l'Europa latina e per le medesime vie e rotte, nelle stesse aree, contemporaneamente e spesso grazie agli stessi viaggiatori, si diffondeva anche il sapere scientifico. Un'indagine sui contatti tra l'Europa e la Terra Santa prima del 785 ha individuato solamente 15 viaggiatori, ma nel corso dei 15 anni successivi si trovano altre 75 indicazioni, anche anonime, di pellegrini, mercanti, schiavi e altri viaggiatori (perfino alcune spoglie umane). Nel IX sec. si ha notizia di oltre 400 viaggiatori, alcuni dei quali portarono dalla Terra Santa la manna. Già il III e il IV sec. videro l'avanzata dei Vandali, degli Svevi e degli Alani nella Penisola Iberica, e poi, dal 406 ca., dei Visigoti, nonostante i Pirenei, un'impervia catena montuosa che si estende da est a ovest come una barriera che separa la Penisola Iberica dall'Europa. Oltre ai viaggi lungo la costa del Mediterraneo via Elne e Ampurias alla base dei Pirenei fino a Barcellona e Tarragona, molti altri percorsi attraversavano quell'impervia catena montuosa: (1) da Narbona attraverso il valico di Perthus, via Gerona fino a Saragozza e poi a sud fino a Tortosa; (2) da Tolosa fino ad Ariège, al valico di Puymorens attraverso la Cerdagna, passando per Llivia e Vic fino a Barcellona; (3) il valico occidentale di Ténarèze dopo il Massiccio delle Ardenne, attraverso Eauze fino a Bigorre, su per la valle dell'Aure fino a Bielsa e poi giù fino a Barbastro. Il commercio da Bordeaux poteva poi dirigersi (4) via Oloron e la vallata di Aspe, fino al valico di Somport per raggiungere Huesca, continuando a sud o per Lérida o per Saragozza, o (5) da Dax, superando o Lapurdum (Bayonne) o Carasa (Garris) per raggiungere Saint-Jean-le-Vieux, Ibañeta (Roncisvalle), Lepaèder e poi Pamplona, portando le rotte occidentali oltre León o Palencia e Astorga.

Al di là di quei valichi sorgevano le fortezze romane, come Vulturaria (Ultrera) e Cauco Illiberis (Collioure), le quali erano presidiate soltanto di quando in quando e non costituivano un ostacolo; in seguito servirono da rifugio per i viaggiatori. Molte grandi famiglie avevano possedimenti su entrambi i versanti dei Pirenei, e i monaci, gli abati, i vescovi e le comitive nuziali li attraversavano indisturbati. Sebbene le vie verso l'Occidente si trovassero ad alta quota e fossero più pericolose, e nonostante la notevole distanza che intercorreva fra i mercati urbani, da Bordeaux a Calahorra si estendeva la stessa civiltà latina e cristiana, ed evidentemente le montagne non ostacolavano le comunicazioni. All'estrema difficoltà di attraversamento del valico di San Bernardino si contrapponevano ‒ fra la Gallia Cisalpina e l'Austria, la Baviera e l'Alemagna ‒ molti valichi relativamente a bassa quota che talvolta erano anche presidiati; non esistevano quindi barriere al commercio o agli scambi culturali. Quando i Berberi del Nord Africa guidati dagli Omayyadi invasero la Spagna meridionale e centrale fra il 711 e il 718, si verificarono notevoli distruzioni ma, sorprendentemente, molti centri sociali ed economici sopravvissero in tutta l'Iberia e la Catalogna senza gravi problemi. Il commercio tra i porti dell'Italia, della Catalogna e dell'Iberia con quelli dell'Africa e della Mauritania fu fiorente in questo periodo e in espansione nel corso dei secoli.

La vita culturale continuò dunque a esistere e a rafforzarsi per tutto il periodo e nell'intera Europa, anche se in modi diversi; alcuni centri economici e sociali nel tempo scomparvero, così come alcuni monasteri. Non era inusuale il fatto che nell'arco di un secolo una sede episcopale trovasse una nuova collocazione ma, nell'insieme, si mantenne una notevole continuità. La superficie delle miniere aumentò e le industrie dei metalli portarono alla fondazione di nuove città; crebbe il numero sia delle diocesi sia dei monasteri, così come le loro terre e i loro diritti riconosciuti; inoltre, le scuole piccole spesso s'ingrandirono. Secondo una stima approssimativa, circa 400 centri continuarono a svilupparsi dal primo al secondo periodo, e a questi se ne aggiunsero altri di nuova formazione; nell'Europa occidentale del IX sec. almeno 760 centri culturali erano così fiorenti da promuovere e sostenere scuole con un rilevante numero d'insegnanti e di studenti, e almeno la metà di essi disponeva di biblioteche; il numero degli scriptoria era invece minore. Gli oggetti di studio variavano da luogo a luogo, così come il livello degli studi; nel complesso, tuttavia, vi era un significativo grado di istruzione di base e in qualche caso era riconoscibile una cultura di livello superiore.

Il latino come veicolo di comunicazione

Alla fine del V sec. esisteva ancora un latino antico, ma le lingue protoromanze si erano già sviluppate nelle varietà regionali dell'Italia settentrionale, della Svizzera, della Provenza, della Gallia, della Catalogna e della Spagna. I nuovi libri erano prodotti sul modello di quelli salvati e portati via dalle biblioteche del tempo della Repubblica romana e dell'Impero; gli antichi manoscritti latini si presentavano in scripto continuato e presupponevano che il lettore avesse padronanza orale e scritta della sintassi e del vocabolario. I nuovi autori spesso avevano una conoscenza del latino quale lingua scritta, ma per conservare il latino antico sarebbe stato necessario un continuo e coerente processo d'istruzione e di esercitazione all'uso, tutti fattori che tra il V e l'VIII sec. andarono progressivamente riducendosi. In alcuni casi ci si poteva avvalere di insegnanti missionari provenienti da aree nelle quali si parlava latino, ma frequentemente gli studenti non erano in possesso di una guida affidabile e per la lettura si dovevano basare sulle istruzioni contenute nei libri di Donato e Asperius (Asper), Prisciano e Isidoro sull'ortografia, la sintassi e la grammatica.

Per ottenere una maggiore chiarezza e rendere il messaggio contenuto nel testo più facilmente comprensibile, i copisti del tempo avevano introdotto nuove convenzioni grafiche e nuove utilizzazioni delle vecchie notae communes (convenzioni stenografiche), quali la spaziatura fra una parola e l'altra, la littera notabilior (la prima lettera delle parole poste all'inizio di una frase aveva dimensioni maggiori), le distinctiones (la punteggiatura costituita da punti, parentesi uncinate e virgole), l'hedera (la foglia di edera) alla fine di ciascuna frase. I copisti dell'Europa continentale usavano poi fare segni a margine ‒ senza inchiostro né piombo ‒ per segnalare gli errori di ortografia oppure la necessità di aggiustamenti sintattici, e a tale scopo svilupparono segni specifici o sistemi di notae, in particolare per individuare l'omissione di brevi passi e il loro ripristino. Isidoro e Alcuino produssero una guida all'uso di queste notae, e molti manoscritti mostrano con quanta precisione siano stati corretti i loro testi. Gli studenti imparavano l'uso dei segni di correzione dai maestri negli scriptoria, ma ogni singolo copista poteva elaborare i suoi personali sistemi e introdurre nuove notae, come hanno fatto, per esempio, Strabone, Servato Lupo di Ferrières, Giovanni Scoto Eriugena.

I Romani e i Greci non usavano distinguere tra i passi tratti dalle fonti e incorporati all'interno di un testo e quello che era creazione dell'autore. Questa distinzione fu introdotta in due modi diversi nei primi testi latini medievali. Quando Beda scriveva un commento a un libro della Bibbia e voleva citare qualche interpretazione interessante di un autore precedente, poneva a margine, all'inizio e alla fine di ogni citazione, lettere onciali, per esempio A…M, A…G, G…G, oppure H…R per indicare i passi tratti dalle opere di Ambrogio (AM), Agostino (AG), Gregorio (GG), oppure Hieronymus (HR). Sistemi simili compaiono anche negli scritti di Rabano Mauro e di altri autori dell'Europa continentale. Una seconda convenzione che rispondeva a questa stessa esigenza era rappresentata dalla diplḕ greca (a forma di Y oppure di V, orizzontale e volta a sinistra o a destra), una delle antiche notae sententiarum spiegate da Isidoro. I copisti irlandesi si servivano della diplḕ per segnalare i passi tratti dalle Sacre Scritture; i copisti anglosassoni e dell'Europa continentale la usavano invece per segnalare l'inizio di qualsiasi citazione. Nel complesso, il sistema delle lettere onciali e la diplḕ anticipavano i simboli impiegati modernamente per distinguere le citazioni ed evitare l'accusa di plagio.

Gli studiosi del tempo sapevano leggere due o più lingue e scrivere almeno in una lingua dotta (il latino, il greco e successivamente l'arabo); il termine litteratus designava proprio chi possedeva una comprovata conoscenza di una delle lingue dotte, ma soprattutto del latino. Questa formazione culturale prevedeva anche la capacità di redigere un testo letterario; ci è pervenuta una ricca documentazione di lettere e prefazioni scritte che manifestano una ricercata abilità nella composizione del testo, e che tuttavia contengono dichiarazioni di umiltà e scuse per il fatto di essere privi di tali capacità. L'illitteratus sapeva leggere e scrivere, ma il litteratus aveva sviluppato anche una notevole abilità nel redigere un testo. Entrambi potevano servirsi di copisti e chierici che esercitavano con competenza professionale le loro doti in campo letterario, incluse la lettura ad alta voce con dizione chiara e voce sonora, e una bella scrittura, in grado di produrre una gerarchia di tipologie di caratteri adatti alle diverse circostanze: capitalis per i testi importanti ‒ specialmente per quelli destinati a essere offerti in dono ‒, uncialis per i testi migliori di una biblioteca e cursivus per il normale scambio di messaggi.

Una decisiva evoluzione nell'alfabetizzazione e nelle competenze scientifiche si verificò quando, nel regno franco, Pipino III il Breve (741-768) introdusse diverse riforme del sistema di istruzione, che in seguito furono sviluppate da Carlo Magno (768-814) per poi essere consolidate da suo figlio Ludovico il Pio (814-840) e dai suoi nipoti. In particolare, sono state di grande sostegno alle scuole due leggi di Carlo Magno, la Admonitio generalis (794-796) e la Epistola de litteris colendis (786-800), entrambe volte a cambiare le caratteristiche dell'istruzione sulla base di un corretto impiego del latino. Carlo chiese infatti a ogni monastero e a ogni diocesi di non trascurare di insegnare psalmos, notas, cantus, computum, grammaticum. In seguito all'influenza esercitata da Alcuino di York tra il 782 e l'804, queste iniziative si tradussero anche nello studio di particolari aspetti linguistici relativi alla sintassi, all'ortografia e alla pronuncia, esposti, per esempio, nel De orthographia di Beda, nell'Ars grammatica di Bonifacio, e nel De orthographia dello stesso Alcuino. Inoltre, la lettura dei testi ad alta voce implicava la reintroduzione del latino antico, e in questo modo la coerenza riformatrice delle scuole carolingie fornì le basi concrete per la formazione di una lingua riformata, ossia del nuovo 'latino medievale'. Naturalmente, il latino carolingio era parlato seguendo la normale pronuncia volgare, che variava a seconda delle diverse regioni; la tecnica di leggere un testo latino a voce alta, facendo corrispondere un suono a ciascuna lettera scritta, e permettendo l'eliminazione di alcuni elementi del parlato comune, era chiamata litterae. Proprio questa lingua riformata prevalse nelle scuole della Catalogna e della Francia tra l'800 e l'840; essa si affermò attraverso la corretta lettura di testi biblici, il canto dei salmi e il perfezionamento delle funzioni liturgiche, ed esercitò un certo influsso anche sulla stesura dei giuramenti legali, sugli statuti, sulle sequenze musicali.

Nel corso del IX e X sec., la pratica delle litterae penetrò dunque anche nel latino parlato insieme ai suoni dialettali. Coloro che si servivano del latino in Irlanda e nell'area germanica ‒ Anglosassoni compresi ‒ parlavano e scrivevano una lingua del tutto straniera, e in questo ambito le litterae acquisirono una certa preponderanza. Queste consuetudini successivamente si stabilizzarono nelle regioni germaniche e celtiche, oltre che in Spagna. L'uso stabile di un latino colto è testimoniato a partire dal 1000 ca. in Catalogna, nella parte meridionale della lingua d'oc e nella zona settentrionale dell'area di diffusione della lingua d'oïl, dove nella lingua parlata erano ammesse sia la pronuncia dialettale sia quella secondo le litterae, mentre nella lettura ad alta voce era ritenuta accettabile soltanto quella secondo le litterae. Un'analoga situazione linguistica si verificò successivamente tra il 1080 e il 1200 nelle scuole spagnole, con una mescolanza di forme volgari e di pronuncia secondo le litterae. Alla fine del XII sec. il latino, inteso come successione di suoni, non era più, in alcun modo, la prima lingua parlata; semmai era una successione di lettere, parole e frasi imparate per essere poi riutilizzate e valorizzate dall'analisi e dalla scrittura. Le forme scritte del latino erano pronunciate in modo differente nelle diverse aree linguistiche, ma nelle situazioni ufficiali continuavano a essere lette ad alta voce seguendo il sistema delle litterae.

Laici e chierici europei, sia uomini che donne, erano istruiti in misura sempre maggiore a leggere testi latini di qualsiasi genere, letterari e matematici, e a scrivere testi, in prosa e in versi, in un latino che potesse risultare comprensibile per persone del loro stesso rango. I compiti di contabili, esattori, amministratori, ufficiali addetti ai rifornimenti, funzionari, diplomatici, avvocati, giudici, preti, vescovi, monaci, priori, abati, allievi e maestri esigevano un vocabolario piuttosto ampio, una sintassi complessa e una grande precisione nell'uso dei numeri.

La terminologia del sapere scientifico

Nel campo dell'ethica, della logica e della physica, nell'Alto Medioevo esisteva una forte tradizione stoica che comprendeva tutte le disciplinae philosophorum e che fu promossa da Isidoro e da Aldelmo (639 ca.-709), il quale insegnava ai suoi studenti sassoni e celtici che le sette physicae artes erano aritmetica, geometria, musica, astronomia, astrologia, meccanica e medicina. Nei primi trattati latini s'incontrava talvolta l'espressione artes liberales, che era impiegata dai diversi autori con significati differenti; si parlava spesso ‒ per esempio nell'opera di Agostino (354-430) ‒ di otto o nove artes o disciplinae, le quali erano però raggruppate in modi differenti. Uno schema comprendente soltanto sette artes fu menzionato da Isidoro, ma anche Marziano Capella e Cassiodoro propendevano per questa classificazione, mentre Rabano Mauro parlava di artes et disciplinae mathematicae (v. cap. III). Gli umanisti dell'epoca successiva preferirono approfondire le tre artes che riguardavano il linguaggio (retorica, grammatica e dialettica) e ignorare le artes et disciplinae fondate sui calcoli numerici; questa decisione d'ignorare le questioni matematiche, tuttavia, era in contrasto con la tradizione creata dai maestri medievali, ricca di scritti di carattere matematico, di sistemi di calcolo, di diagrammi e di tavole numeriche.

Le principali fonti disponibili per lo studio dei fenomeni riguardanti quelle che oggi chiamiamo scienze matematiche, fisiche e naturali erano, oltre ai trattati di Vitruvio e di Vegezio che avevano per argomento de natura rerum, le ampie panoramiche del sapere del tempo ‒ utili anche se non approfondivano particolari argomenti o pratiche ‒ prodotte da Varrone nel I sec. a.C., da Plinio il Vecchio nel I sec. d.C., da Macrobio e da Marziano nel V sec., da Cassiodoro nel VI, da Isidoro nel VII e da Rabano Mauro nel IX. Tuttavia, Macrobio e Marziano sono rimasti poco conosciuti fino alla metà del IX secolo. A quell'epoca erano disponibili soltanto i Libri II-VII di Plinio e frammenti del XVIII; se si eccettuano le citazioni che ne hanno tratto Isidoro e Beda, anche quelle parti dell'opera di Plinio che erano consultabili di fatto furono utilizzate soltanto da pochi altri studiosi fino all'XI secolo. Anche se alcune parti dei primi quattro libri degli Elementi di Euclide furono tradotte in latino verso il 500 d.C., quest'opera cominciò a diffondersi soltanto all'inizio del IX sec.; e anche il Timeo di Platone, tradotto da Calcidio nel IV sec., rimase quasi sconosciuto fino alla metà dell'XI sec. (v. cap. VI, par. 3). Il patrimonio utilizzato da coloro che erano interessati allo studio dei vari aspetti dei fenomeni naturali relativi al cielo e alla Terra era dunque costituito dai manuali che avevano per argomento de natura rerum, scritti da Isidoro nel VII sec. e da Beda all'inizio dell'VIII, e dalle successive raccolte di computistica et astronomia delle prime scuole carolingie. Si trattava di fonti che, sebbene piuttosto scarse, contenevano la maggior parte delle nozioni ellenistiche fondamentali concernenti la scienza e la cosmologia.

Nei trattati romani e medievali, ma soprattutto nei libri destinati alle scuole e nei manuali più approfonditi, erano illustrati alcuni termini astronomici e gran parte dei termini riguardanti le operazioni aritmetiche o geometriche. I termini latini per le operazioni aritmetiche erano addere, subtrahere, multiplicare (oppure producere), dividere (oppure partire), quadrare (elevare al quadrato) e mediare (dimezzare); summare equivaleva a facere (cioè calcolare) e i risultati erano detti habere. I numerali si distinguevano in base al loro uso: cardinales (la forma principale), ordinales (indicavano la sequenza), dispertivi (distributivi), adverbiales (con funzione avverbiale) e ponderales (con valore di misura); così, per esempio, per il numero 2 si aveva duo, secundus, bini, bis, duplum. Qualsiasi combinazione di numerali poteva essere denominata numerus; in pratica, però, una quantità compresa tra 1 e 9 era indicata con il termine digitus (dito), e qualsiasi multiplo di 10 con articulus (l'articolazione del dito); un numero intermedio come undici o ventisette era detto compositus. Questa terminologia derivava dall'indigitazione, cioè dall'uso delle dita della mano per indicare numeri, i cui vari sistemi, sviluppati inizialmente dagli Egizi (vedi La scienza egizia, cap. VI, Tav. I) e perfezionati dagli Assiro-Babilonesi (vedi Il Vicino Oriente antico, cap. XI, Tav. IV), si erano trasferiti nel mondo greco-romano; nei manuali latini destinati alle scuole erano utilizzati quattro sistemi diversi di indigitazione per esprimere i numerali da uno fino a un milione, che talvolta erano applicati all'arithmetica e al computus. Nel cap. I del De temporum ratione, per esempio, Beda dimostrò come uno di questi sistemi potesse essere utilizzato nell'astronomia (I, 63-65; LV, 1-44) e osservò anche che tenendo a mente una correlazione tra i numerali e le lettere dell'alfabeto sarebbe stato possibile comunicare di nascosto (I, 85).

Per i problemi di geometria erano usati i termini punctum o punctus, linea e recta linea, planum, perpendicula, figura plana o superficia, circumferentia, angulus (acutus, obtusus), arcus, circulus, triangulus, quadratus, cubus, parallelae, polyedron, e così via. Questa terminologia era tratta dai primi quattro libri degli Elementi di Euclide, gran parte dei quali fu tradotta dal greco in latino, come si è detto, entro il VI sec., e si diffuse poi ampiamente tra il IX e il XII sec.; la traduzione latina completa del primo libro e di alcune parti del quinto fu eseguita nel IX sec., periodo in cui la geometria piana euclidea era insegnata in almeno sei scuole carolingie. I testi di Euclide erano organizzati in definitiones, petitiones (postulati), communes animi conceptiones (costrutti mentali, assiomi) e propositiones (problemi), con l'ausilio di figura e pictura (disegni); i manoscritti tradotti dal greco in latino, tuttavia, presentano di rado esercizi eseguiti nelle scuole per la dimostrazione di teoremi.

Come mostrano le glosse ai testi euclidei e a quelli degli agrimensores romani, la geometria piana era insegnata nelle scuole in funzione di successive applicazioni pratiche. I mensores (gli ingegneri civili, i periti), per poter eseguire un'adeguata jugeratio (agrimensura: da jugerum, un'unità di misura per la superficie dei terreni), dovevano infatti tracciare i fascati, ossia quod in planitie recti positi sunt limites (quando i confini sono tracciati con linee rette su una superficie piana). La maggior parte della terminologia presente nei testi gromatici (oggi diremmo topografici) spiega quindi i concetti di termini o limites o epidonici (delimitazioni) e di extremitates (confini). Talvolta però i confini non seguivano una linea retta, così come le superfici da edificare (o qualsiasi altro oggetto del rilievo topografico) non sempre erano assolutamente piane; di conseguenza, le competenze corrispondenti a questa terminologia dovevano essere applicate in circostanze diverse. Per esempio, i mensores iniziavano con una forma o figura o pictura (disegno), oppure dovevano elaborare la forma recta (un preciso schema planimetrico) che avrebbe avuto valore legale per eventuali rivendicazio-ni di possesso, per le tasse e per le successive vendite. Essi trattavano con i possessores (proprietari) e i comportionales (comproprietari) del locus (terreno, tenuta), e preferivano individuare o stabilire i confini inter duo signa (tra due segni) o inter partes limitum (tra due confini), procedendo nell'osservazione in modum lineae rectae (per mezzo di una riga, tracciando una linea retta). Per fare queste operazioni si servivano di finitimae lineae (linee adiacenti), lineae coniunctae (linee intersecantisi), lateres anguli (lati di un angolo), portio o pars circuli (settori circolari), particulas (porzioni). Quando però il terreno poteva essere soggetto a modifiche nel corso del tempo ‒ per esempio a causa di fattori quali la corrente di un fiume o il livello dell'acqua di un lago ‒, i mensores lavoravano in modum flexuosum (secondo il principio delle variazioni irregolari) e tracciavano lineae declinationis (curve di livello). Dunque la geometria piana rispondeva tanto alle esigenze pratiche di misurazione dei campi quanto alle necessità degli studenti nelle classi, ed essa acquistò uno spazio sempre maggiore nelle scuole nel corso del IX sec., quando la Institutio humanarum litterarum di Cassiodoro fu ampliata con l'aggiunta delle definizioni, dei postulati e degli assiomi del Libro I degli Elementi di Euclide, della seconda definizione del Libro II e delle diciotto definizioni del Libro V (v. cap. VI).

L'astronomia si occupava di tutti i sidera (astri) e del loro moto nel cielo, e per questa scienza i termini latini astronomia e astrologia erano equivalenti, come già in greco. La distinzione tra astronomia e astrologia, e successivamente tra 'buona' e 'cattiva' astrologia, fu introdotta da Agostino nel De civitate Dei (V, 1-5), ed entrambe queste distinzioni furono accuratamente mantenute da tutti gli scrittori cristiani. Per esempio, Isidoro di Siviglia (Etymologiae, III, 27) definiva l'astronomia come lo studio del moto regolare e della posizione dei sidera (astri) fissi, dei signa (costellazioni) e della loro posizione; concepiva invece l'astrologia come l'osservazione dei sette corpi celesti erranti, i planeta (Sole, Luna, Mercurio, Venere, Marte, Giove, Saturno, considerati nella sequenza dello zodiacus); naturalmente, anch'egli metteva in guardia contro gli inganni degli astrologi che allettavano i superstiziosi.

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