La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Astronomia, computo e astrologia

Storia della Scienza (2001)

La scienza bizantina e latina prima dell'influsso della scienza araba. Astronomia, computo e astrologia

Bruce S. Eastwood

Astronomia, computo e astrologia

L'astronomia

Quando Prudenzio (348-403 ca.) compose il Liber cathemerinon che si apriva e si chiudeva con inni dedicati ai moti solari visti come metafore della venuta di Cristo sulla Terra ‒ l'ultimo inno descrive anche l'inadeguatezza del Sole a rappresentarne la gloria sulla Terra ‒ l'autore mostrava soltanto quella generica familiarità con l'astronomia propria dei letterati dell'Impero romano all'inizio del V sec., fossero essi cristiani o pagani. Quasi nello stesso periodo Agostino (354-430) scriveva nel De Genesi ad litteram quanto fosse doloroso constatare che alcuni cristiani ostentavano ignoranza di fronte ai dotti pagani, che erano invece ben informati sul mondo naturale, disonorando in questo modo le Scritture e tutti gli autori cristiani; tra gli argomenti scelti da Agostino in proposito vi erano sia il movimento e la rivoluzione che le dimensioni e gli intervalli delle costellazioni, le eclissi del Sole e della Luna, e i cicli degli anni e delle stagioni. Agli inizi del V sec. questo tipo di conoscenza astronomica era comunemente diffusa tra le persone colte pagane e cristiane, ma quali fossero l'estensione e l'utilizzazione di tale conoscenza non è molto chiaro.

Ai nostri occhi il carattere dell'astronomia tardo-antica appare con chiarezza facendo riferimento alla Syntaxis o (come fu conosciuta successivamente) Almagesto di Tolomeo; modelli matematici, tabelle e calcolo esatto della posizione delle stelle e dei pianeti ne costituivano certamente la sostanza. L'utilizzazione dell'astronomia tolemaica passava comunemente attraverso un commento di Teone di Alessandria (seconda metà del IV sec.) alle Tavole manuali di Tolomeo, testo utilizzato soprattutto dagli astrologi, che avevano la necessità di calcoli esatti ma non si preoccupavano della teoria o della correttezza delle tavole; tuttavia, le conoscenze astronomiche delle persone colte e il significato dell'astronomia nella cultura del V sec. e dei secoli successivi si discostavano alquanto dagli interessi matematici degli esperti. Per un proprietario terriero, particolarmente attento ai mutamenti della Terra e del cielo, in quanto determinanti per le sorti dell'agricoltura e dell'allevamento del bestiame, le stelle e le loro correlazioni con i mutamenti stagionali e con il tempo atmosferico rappresentavano una parte importante della sua visione del mondo; inoltre, chiunque viaggiasse attraverso l'Impero romano doveva sapere, almeno a grandi linee, perché e come le meridiane differivano a seconda dei cambiamenti di latitudine. Questa stessa conoscenza, di tipo qualitativo, fu sviluppata in un'astronomia e una cosmologia più articolate, ma ancora non tecniche, per opera di quei magistri e studiosi che avevano un orientamento platonico o pitagorico.

Con le migrazioni barbariche e i disordini politici del V sec., diminuirono molti dei presunti sostegni all'istruzione astronomica e a qualsiasi tipo di istruzione pubblica. Nell'ultimo quarto del secolo dalla Gallia scomparvero le scuole pubbliche, con l'eccezione di una scuola di Lione che continuò la sua attività fino agli inizi del VI sec.; fu così che un corso classico di studi finì per dipendere da maestri pagati privatamente dai maggiori proprietari terrieri. In Italia, invece, vi furono scuole sostenute da sovvenzioni pubbliche fino alla metà del VI secolo. La stessa educazione classica variava però enormemente da un luogo a un altro e da studioso a studioso. Mentre il calcolo numerico di solito faceva parte dell'istruzione elementare di base, l'astronomia poteva esserne esclusa o poteva essere considerata parte della filosofia; oppure, incontrata nelle opere di Virgilio o negli Aratea di Cicerone o di Germanico, poteva essere presa in considerazione come poesia nell'ambito delle attività del grammaticus, preposto all'insegnamento della letteratura latina. Agostino non era l'unico a interrogarsi sulla natura e sul ruolo dell'astronomia all'interno del curriculum di studi, poiché di fatto nella Tarda Antichità non vi era un accordo largamente diffuso sui programmi di studio. La grammatica, disciplina estremamente flessibile, era considerata l'unica realmente indispensabile e, nel suo ambito, solamente alcuni autori, come Virgilio, erano insegnati ovunque; d'altra parte, l'esistenza nelle maggiori città, quali Roma e Antiochia, di scuole specifiche per insegnare agli artigiani e ai notai soltanto i rudimenti e le applicazioni pratiche della letteratura potrebbe smentire anche questa generalizzazione.

Il concetto delle sette arti liberali emerse soltanto alla fine dell'età antica, e comprendeva la grammatica, la retorica e la dialettica (il trivio), e la geometria, l'aritmetica, l'astronomia e la musica (il quadrivio). Queste discipline erano già state elencate da Vitruvio nel I sec. d.C., il quale però vi includeva anche il diritto, l'architettura e la medicina. Mentre gli autori che si ispiravano a Platone ‒ per esempio Boezio (480 ca.-524/525), cui si deve la denominazione 'quadrivio' ‒ davano rilievo alle quattro arti matematiche, altri non seguirono questo modello; Isidoro di Siviglia (560-636 ca.), per esempio, presentò nelle sue Etimologie queste sette arti, ma immediatamente dopo vi aggiunse la medicina, che egli chiamava "seconda filosofia", e il diritto, come ulteriori discipline equivalenti alle altre. Anche Marziano Capella (prima metà del V sec.), le cui opere sulle sette arti includevano i testi di astronomia che esercitarono la maggiore influenza sul Medioevo latino fino al XII sec., accennava al fatto che la medicina e l'architettura potessero essere aggiunte all'elenco delle arti liberali. In conclusione, fino alla fine del V sec. l'astronomia fu comunemente conosciuta dall'aristocrazia e dall'élite intellettuale in termini qualitativi grazie ad alcune opere letterarie che comprendevano ciò che una persona colta era tenuta a sapere. In quanto conoscenza generale di un'élite, essa era di ampio respiro, ma non era né tecnica né destinata a un uso tecnico; era sufficiente per essere in grado di sostenere le discussioni sul tempo, sui viaggi, sui cicli dell'agricoltura e sull'ordine dei cieli descritto nelle opere letterarie più note. La conoscenza degli argomenti astronomici contenuti negli Aratea faceva parte di questo programma di studi dell'élite intellettuale, ma il calcolo astronomico ne era escluso. In ogni caso, col finire del VI sec. questo tipo di apprendimento divenne meno comune.

Segnali di un cambiamento nel modo d'intendere l'astronomia tra i letterati e le persone colte si colgono nelle Institutiones divinarum et humanarum litterarum (562 ca.) di Cassiodoro, opera che, scritta per i monaci, descriveva brevemente le sette arti liberali e ne indicava lo scopo nell'aprire la mente a una saggezza più elevata, considerandole quindi non in grado di fornire, da sole, una conoscenza completa. Cassiodoro (490 ca.-580 ca.) concepiva la natura delle arti matematiche come un piano di astrazione dalle cose del mondo e quindi come preparazione appropriata per una saggezza superiore. Egli descrisse anche lo studio dei numeri come un approssimarsi alla saggezza, poiché Dio ‒ scriveva ‒ ha creato tutte le cose buone secondo una quantità stabilita in peso, numero e misura, mentre le opere malvagie del diavolo non possono esibire un ordine simile. In questo contesto, nella metà del VI sec., si fece strada, dunque, una nuova motivazione per lo studio di discipline che nei secoli precedenti erano considerate segni di riconoscimento di una condizione aristocratica e che Cassiodoro descriveva, invece, anche come la conoscenza propria di Abramo e di Mosè. Egli citava non solamente Virgilio ma anche Gargilio Marziale e Columella (altre fonti di riferimento classiche della conoscenza astronomica), insieme a molti altri, come meritevoli di essere letti nella diligente ricerca della saggezza.

Mentre Agostino, che possedeva una vasta conoscenza scientifica, metteva in guardia i cristiani contro il pericolo di un'eccessiva indulgenza verso la cultura secolare, Cassiodoro, senz'altro meno competente del vescovo di Ippona, li esortava invece a cercare le opere degli autori pagani e a farne tesoro in quanto parte di un corpo unitario di sapienza, formato da opere classiche e opere specificamente cristiane. A proposito dell'astronomia, Cassiodoro scriveva che essa, essendo la disciplina più vicina al cielo, favoriva negli allievi la contemplazione del divino, e fra le opere astronomiche non trascurava di raccomandare quella di Tolomeo, benché lamentasse di non averne una conoscenza approfondita. Egli proponeva lo studio di un insieme di regole per usare le tavole astronomiche, riferendosi con molta probabilità al Praeceptum canonis Ptolemei, un'opera molto diffusa in Italia in quel periodo, che poteva essere compresa, però, soltanto da coloro che conoscevano il greco e il latino; includeva inoltre l'opera di Marziano Capella tra quelle potenzialmente utili, ma affermava di non averla mai vista e di non potersela procurare. Elencando i contenuti dell'astronomia, considerata una branca della filosofia teoretica (matematica) piuttosto che della filosofia naturale, Cassiodoro stabilì la struttura della posizione e del moto sferico, e aggiunse quindici termini specifici dei quali successivamente diede una breve definizione; discusse anche alcune applicazioni pratiche (come quelle citate) che si presumeva fossero conosciute da tutte le persone colte. Pur riferendosi a un ampio corpo di conoscenze astronomiche, egli ridusse tuttavia il contenuto effettivo della disciplina a un nucleo molto semplice e ne sottolineò un obiettivo specificamente religioso, analogo ma non equivalente agli obiettivi filosofici dei platonici e dei pitagorici.

Ancor più di Cassiodoro, un punto di riferimento per i primi autori medievali che scrissero riguardo alle sette arti e in particolare sull'astronomia fu Isidoro di Siviglia, che nelle Etimologie (630 ca.) dedicò a quest'ultima quasi il doppio dello spazio riservato a ciascuna delle altre discipline del quadrivio nella descrizione sinottica (Libro III). Tuttavia, pur presentando una trattazione più ampia e definizioni più particolareggiate, il suo modo di affrontare l'argomento era manifestamente letterario; la sua dottrina astronomica derivava infatti più dalle opere letterarie di cui poteva disporre che da scritti prettamente astronomici o cosmologici. Egli, per esempio, non forniva una distinzione chiara e univoca tra stellae e sidera, e solamente un lettore già al corrente della differenza tra pianeti e stelle era in grado di seguirlo, poiché Isidoro si rifaceva alla tradizione non uniforme dei suoi predecessori classici e patristici. Soltanto riguardo al Sole e alla Luna, tra i sette pianeti classicamente definiti, egli offriva un corpo d'insegnamento relativamente esteso e affidabile. Isidoro, dunque, produsse una raccolta di materiale astronomico più letteraria e meno pratica di quanto avesse fatto Cassiodoro o qualsiasi scrittore precedente sulle varie discipline e sulla collocazione dell'astronomia tra di esse.

Il VII sec. vide il declino delle sette arti liberali classiche e la loro sostituzione con un nuovo insieme di discipline, in concomitanza con la nuova situazione linguistica, in cui il latino divenne una lingua secondaria o acquisita, e anche con il tramonto degli antichi valori nell'ambito dei quali lo status politico e sociale era stato frequentemente espresso per mezzo di riferimenti letterari classici. Gli elenchi delle arti liberali che ci sono pervenuti dalla metà del VII alla fine dell'VIII sec. testimoniano un riconoscimento della tradizione precedente, ma le vere materie di studio erano la grammatica, il computo e il canto. Alla base di questa trasformazione non vi erano solamente i mutamenti ora ricordati, ma anche uno sviluppo molto più graduale, l'emergere, a partire dal V sec., di un programma di studi specificamente cristiano. La grammatica fu circoscritta e più chiaramente definita in alcuni manuali che ne descrivevano i rudimenti in quanto tali senza ricorrere agli esempi tratti da testi classici quali l'Eneide di Virgilio e gli Aratea, utilizzati abitualmente nelle scuole dell'età dell'Impero. È molto probabile, invece, che allorché il maestro forniva degli esempi questi fossero presi per lo più dalle vite dei santi o dalle storie ecclesiastiche. Il computo (computus) comprendeva le questioni matematiche più elementari, in passato impartite nel corso dell'istruzione elementare, nonché varie utili applicazioni aritmetiche; tra queste, una speciale importanza aveva l'insieme delle definizioni e delle procedure necessarie per determinare un calendario e in particolare per calcolare la data della Pasqua e delle cosiddette 'feste mobili' dell'anno cristiano, cioè il 'calcolo calendaristico', che nella storia dell'astronomia è passato a noi come 'computo' per antonomasia. Il canto includeva solamente problemi pratici di musica ecclesiastica piuttosto che l'aspetto teorico dell'armonia, che caratterizzava, invece, l'insegnamento della musica all'interno delle sette arti liberali; naturalmente, è nel computo che si trovava la parte astronomica di questo programma di studi (v. par. 2).

Alla prima metà del VII sec. risalgono due testi, la lettera dell'irlandese Cummiano riguardante la controversia sulla Pasqua (632 ca.), e un opuscolo anonimo, anch'esso di provenienza irlandese, contenente le regole per redigere un calendario in base al Sole e alla Luna. Essi mostrano l'attenzione dedicata in quel periodo dagli scrittori computistici alle questioni aritmetiche correnti; sono trattati che non mirano a diffondere una conoscenza astronomica generale, né come informazioni di base né come concetti applicativi, e nell'opuscolo anonimo si esprime chiaramente questo intento quando si afferma che nella Chiesa di Dio solamente quattro cose sono necessarie: le Scritture, la storia, l'aritmetica e la grammatica. Il computo era considerato parte dell'aritmetica e, almeno all'interno della Chiesa, non vi fu un posto specifico per l'astronomia ‒ così come noi la intendiamo ‒ fino a un periodo successivo.

Con Beda (672 ca.-735) ci fu in Inghilterra una rinnovata attenzione per i problemi astronomici; sembra che egli abbia utilizzato anche un lungo gnomone e un grande cerchio orizzontale per determinare con esattezza gli equinozi. Prima del suo lavoro sul computo del tempo, Beda scrisse un'opera cosmologica, De natura rerum (701 ca.), in cui descriveva per i suoi allievi monaci le regioni del fuoco, dell'aria, dell'acqua e della terra, passando dal cielo fino al centro del Cosmo. Egli presentava la 'regione infuocata', o 'regione celeste', che conteneva le stelle e i pianeti, nel corso di diciannove brevi capitoli nei quali si riportavano brani e informazioni tratti prevalentemente da Plinio il Vecchio e da Isidoro di Siviglia (il quale a sua volta aveva attinto le informazioni astronomiche in primo luogo dai testi di Igino). L'ordine planetario, le velocità, gli apsidi (gli estremi ‒ il perielio e l'afelio ‒ dell'asse maggiore dell'orbita di un pianeta) e le latitudini, erano descritti brevemente e con precisione sulla base di Plinio; le traiettorie e i vari fenomeni del Sole e della Luna erano trattati invece in modo più completo, e poiché i loro movimenti medi erano essenziali per il computo calendaristico, essi erano definiti aritmeticamente come movimenti diretti e regolari.

Nel De natura rerum si descriveva la sfera celeste con i suoi poli, i suoi cinque circoli paralleli e la traiettoria del Sole nel corso dell'anno da un Tropico all'altro e ritorno; nell'opera però non compariva alcuna indicazione chiara sul collegamento tra i moti planetari e quelli del Sole e della Luna.

Le differenze tra l'opera di Beda e quella di Isidoro di Siviglia ‒ relativa ai medesimi temi e recante lo stesso titolo, De natura rerum (613 ca.) ‒ erano enormi; laddove Isidoro, occupandosi del cielo, incentrava l'attenzione principalmente sui nomi e sui significati allegorici cristiani, Beda nella sua descrizione del mondo creato da Dio si soffermava sul piano fisico e letterale. Isidoro sottolineava l'importanza dei numeri nell'ordine della Creazione e la illustrava per mezzo di argomenti quali la durata degli intervalli nel rilevamento generale del tempo e in alcuni cicli calendaristici. Egli si spingeva fino a menzionare le retrogradazioni dei pianeti, ma le caratterizzava semplicemente come sottrazioni numeriche dalle progressioni planetarie, senza fornire alcun lume in proposito. Beda, dal canto suo, si occupava dello stesso argomento ma parlandone molto meno e omettendo perfino l'accenno a valori quantitativi. Sia Isidoro sia Beda assumevano l'ipotesi che i raggi solari ritardassero e spingessero avanti i pianeti nelle loro anomalie; questa ipotesi era loro nota dalle opere di Lucano e di Plinio il Vecchio. Beda tuttavia andava ancora oltre, sostenendo e spiegando l'apparente cambiamento delle velocità orbitali con il moto dei pianeti che si muovevano intorno alla Terra sulla base di orbite eccentriche, producendo l'apogeo e il perigeo; appare degno di nota il fatto che egli nel suo De natura rerum non accennasse agli epicicli e si occupasse in più occasioni della retrogradazione e delle velocità variabili basate sugli eccentrici.

Nel passo del De temporum ratione (725) in cui istruiva i suoi allievi sui dettagli del calendario ecclesiastico, Beda incluse almeno un ulteriore elemento importante di astronomia; invece di correlare il moto della Luna unicamente a quello del Sole, pratica comune nelle opere computistiche, lo mise in relazione anche con i segni dello Zodiaco e sostenne l'uso dei periodi siderali prima di quelli sinodici nella misurazione del tempo. Con Beda, che rappresenta al meglio la conoscenza astronomica nel primo quarto dell'VIII sec., si ebbe dunque un ritorno a livelli non lontani da quelli degli studiosi più raffinati della prima parte del VI sec.; i suoi interessi fondamentali per le questioni calendaristiche, cioè per il computo, lo indussero tuttavia a concentrare la sua attenzione sul Sole e sulla Luna, e a non sviluppare argomentazioni spaziali o geometriche nell'ambito dell'astronomia.

Un altro aspetto dell'attenzione ecclesiastica per il rilevamento del tempo era legato alla necessità, da parte delle comunità monastiche, di essere consapevoli del trascorrere delle ore durante il giorno e la notte per svolgere le varie funzioni nelle ore giuste. È curioso notare che nel Medioevo, mentre l'interesse per la precisione del calendario annuale fece sì che fossero prodotti centinaia di manoscritti sull'argomento, l'interesse per il calcolo giornaliero delle ore non ne produsse quasi nessuno. Questa apparente contraddizione risultava dalla necessità di produrre tabelle e regole dettagliate per i calcoli che erano alla base dei calendari, poiché sull'esattezza e la correttezza delle norme da seguire vi era un grande disaccordo. Per quanto concerneva le preghiere dei monaci, invece, le regole erano più semplici, erano trasmesse oralmente e, sembra, non erano messe in discussione. Infine, dal punto di vista astronomico, le procedure per stabilire le ore durante la notte erano basate su semplici ma attente osservazioni del sorgere delle stelle, un metodo sicuramente antecedente a Gregorio di Tours, ma che egli fu il primo a codificare, qualche tempo dopo il 573, nel De cursu stellarum ratio. Egli presentava una successione di costellazioni che si levavano a intervalli regolari durante la notte e indicava il momento in cui ogni costellazione era abbastanza alta rispetto all'orizzonte da segnare la fine di un'ora, nonché quale costellazione che si levava avrebbe segnato l'inizio dell'ora successiva; poiché l'ordine rimaneva lo stesso per tutto l'anno, questa informazione poteva essere imparata a memoria e trasmessa oralmente. Occasionali riferimenti scritti a questa procedura per mantenere un orario regolare per le preghiere, elemento essenziale e costante della vita monastica, proseguirono poi fino al XIII sec.; ciò rappresenta un esempio di come, sul piano pratico e osservativo, un piccolo segmento di astronomia fosse utile alla vita della Chiesa e fosse dunque conservato.

Intorno alla metà dell'VIII sec., con la fine della dinastia merovingia nel regno dei Franchi e l'ascesa al trono di quella carolingia, tanto la vita politica quanto quella intellettuale delle regioni corrispondenti alle attuali Francia e Germania sudoccidentale si rivolsero di nuovo, almeno in parte, agli ideali romani. Questo cambiamento si verificò nell'arco di diversi decenni e fu incentrato tanto sulla Roma cristiana e sulla Chiesa romana quanto sulla cultura romana classica sviluppatasi al di fuori di un contesto cristiano. Nel passaggio dal periodo merovingio a quello carolingio si verificò una certa continuità nell'alfabetizzazione in seno all'aristocrazia laica, ma il fenomeno deve aver riguardato soltanto poche persone; per quanto concerne il clero, tanto il basso livello di alfabetizzazione quanto la diversità di posizioni divennero oggetto di attenzione e motivo di preoccupazione da parte della monarchia. Carlo Magno, incoronato imperatore romano nell'800 (ma re dei Franchi fin dal 768), si fece carico non soltanto di sottomettere e convertire i Sassoni e altri popoli, ma anche di indirizzare gli ecclesiastici più importanti a sovrintendere a una riforma del clero nel regno franco. L'obiettivo dell'uniformità nelle preghiere orali e nella pratica rituale era stato il motivo principale della rivitalizzazione e dell'ampliamento delle basi del programma d'istruzione in vigore nei due secoli precedenti nella Chiesa occidentale. Mentre, inizialmente, esso era nato come un movimento ampio e aperto socialmente, che incoraggiava ogni genere di studenti a istruirsi sia nelle scuole monastiche sia in quelle cattedrali, successivamente nei Concili di Aquisgrana dell'816 e dell'817 furono date istruzioni alle scuole per limitare il numero delle iscrizioni. Le scuole monastiche furono riservate solamente agli oblati e in quelle cattedrali l'istruzione dei canonici fu separata dalla preparazione fornita ai parroci; da allora in poi solamente le scuole ecclesiastiche furono destinate all'insegnamento delle arti liberali.

La grammatica, il computo e il canto avevano necessità di un fondamentale rafforzamento disciplinare e di uno sviluppo verso uno standard comune. Alla fine del regno di Carlo Magno, l'ampliamento del contenuto della grammatica e il rinnovato interesse per la retorica riportarono all'attenzione degli studiosi molte opere della letteratura latina classica e cristiana. Questo sviluppo richiese un'intera generazione perché fosse possibile raccoglierne i risultati e i rari elenchi di libri dell'VIII e del IX sec. giunti fino a noi, presenti soprattutto nelle biblioteche dei monasteri e di corte, dimostrano che le raccolte erano in graduale e continua crescita. Mentre i salteri, i libri dei Vangeli e altre opere cristiane in queste raccolte sono di gran lunga i testi più numerosi, si nota anche la comparsa di opere quali le Historiae di Lucano e Sallustio, la Naturalis historia di Plinio il Vecchio e diversi scritti di Cicerone, sia di carattere filosofico sia oratorio. In queste biblioteche dell'era carolingia non soltanto l'opera di Plinio era specificamente collegata all'astronomia ma anche le versioni latine dei Fenomeni di Arato e di Igino, il commento di Calcidio al Timeo di Platone, i Commentarii in Somnium Scipionis di Macrobio e l'opera di Marziano Capella De nuptiis Philologiae et Mercurii (in particolare il Libro VIII sull'astronomia), insieme ai testi di computo più diffusi. L'estendersi della conoscenza, sia elementare sia superiore, determinò nuove tendenze nella filosofia e nella teologia. Nell'astronomia i nuovi concetti e il nuovo lessico aprirono la strada a una descrizione del cielo più completa e dinamica.

Fondamentale per la ripresa dell'astronomia nel IX sec. fu il rinnovato interesse per l'intera gamma delle sette arti liberali piuttosto che per la sola triade della grammatica, del computo e del canto. Questo rinnovamento non si verificò improvvisamente; esso iniziò con la presentazione, da parte di Alcuino, delle sette arti come doni dello Spirito Santo e come strumenti necessari per la comprensione della sapienza cristiana, un programma di studi e un'argomentazione noti a Cassiodoro e che avevano le loro radici nel De doctrina christiana di Agostino. All'inizio del IX sec. il calcolo calendaristico costituiva il nucleo attorno al quale si svolgevano gli studi astronomici; con il passare dei decenni però si sviluppò una nuova concezione della disciplina astronomica e dei suoi contenuti. Nella seconda metà del secolo si ebbe un interesse maggiore per la cosmologia fisica, una considerazione del computo soltanto come l'inizio di un serio studio astronomico, un più ampio interessamento per la rappresentazione delle stelle in cielo e per i loro raggruppamenti in costellazioni, e un'attenzione senza precedenti per i modelli geometrici; questa era l'astronomia delle scuole cattedrali della fine del IX secolo.

Le opere recuperate o poste nuovamente al centro dell'attenzione ‒ quella di Plinio, per esempio, era già conosciuta ma poco utilizzata da Beda ‒ fornirono basi cosmologiche molto più solide ed esaurienti di quanto non fosse possibile trovare nei De natura rerum di Isidoro e di Beda. Né in Plinio, ma neppure in Calcidio e in Macrobio si trovava alcun riferimento all'esegesi cristiana utilizzata da Isidoro e da Beda. Quegli antichi scrittori, invece, nell'esporre le proprie rappresentazioni del mondo fisico invitavano, implicitamente o esplicitamente, a prendere in considerazione le dottrine filosofiche in esse contenute. Plinio aveva sviluppato una cosmologia di corpi celesti interagenti fisicamente e un'immagine incompleta dei moti dei pianeti lungo orbite eccentriche; Calcidio e Macrobio avevano proposto descrizioni del cielo, e in particolare dei moti planetari, di orientamento platonico. La traduzione e il commento al Timeo fatti da Calcidio offrivano una versione qualitativa dell'astronomia geometrica tardo-ellenistica relativa ai pianeti; il commento al Somnium Scipionis di Cicerone fatto da Macrobio tralasciava molti particolari, dando rilievo alla circolarità e alla regolarità dei moti celesti, ed evidenziando con forza l'importanza dei numeri razionali nel disegno cosmico. Nel loro insieme, le opere di questi tre autori racchiudevano le basi di un completo rinnovamento dell'astronomia carolingia e della cosmologia che questa presupponeva.

Due esempi possono spiegare come queste fonti classiche di riferimento fossero utilizzate per sviluppare una cosmologia e una concezione delle proprietà dei moti planetari che andavano molto al di là di ciò che si poteva trovare in Beda e nei computisti. Il primo è chiaramente esterno alle scuole, rientra nella prima fase del rinnovamento carolingio e testimonia l'uso del commento di Macrobio al Somnium Scipionis di Cicerone. Nell'811 Carlo Magno, informato da un vescovo di Costantinopoli del fatto che nell'anno precedente si erano verificate due eclissi solari, chiese al dotto monaco irlandese Dungal, che si trovava allora nel monastero di Saint-Denis a Parigi, se ciò fosse possibile e come potesse essere spiegato. La risposta di Dungal fu, in gran parte, tratta dall'opera di Macrobio. Citando con abilità, riordinando e persino cambiando alcune parti del testo di Macrobio, Dungal redasse, infatti, un'introduzione generale allo studio delle eclissi. Egli trattò l'ordine planetario e i moti e le velocità dei pianeti, i moti retrogradi e quelli latitudinali, derivando questi ultimi dalla Naturalis historia di Plinio. Descrivendo in generale i moti latitudinali Dungal sostenne che, perché si verificasse un'eclissi di Sole, la Luna doveva trovarsi sull'eclittica all'inizio del mese lunare; avendo sostenuto la regolarità dei movimenti planetari, egli introdusse la possibilità di prevedere le loro posizioni, anche in un futuro lontano, poiché si conosceva (grazie a Macrobio) il grande ciclo, o 'grande anno', di tutti i pianeti, che ritornano alle loro posizioni iniziali dopo un intervallo di 15.000 anni. Nell'utilizzare il testo di Macrobio, Dungal mostrò sia abilità retorica sia indipendenza intellettuale; riguardo alle due eclissi, sostenne semplicemente che era logico il verificarsi di un'eclissi solare sei mesi dopo la prima, rilevando soltanto che le date fornite indicavano l'inizio o la fine di un ciclo lunare e, potenzialmente, periodi di congiunzione del Sole con la Luna. Egli si giustificò per non aver fornito una spiegazione più completa, intendendo apparentemente con questo una descrizione esatta delle posizioni e dei tempi delle eclissi; disse semplicemente che non aveva a disposizione né l'opera di Plinio né altre che sapeva utili allo scopo. La sua lettera è conosciuta in almeno quattro copie ‒ unite a brani di altre parti del commento di Macrobio, di Isidoro e di Beda ‒ e ciò fa pensare a un uso scolastico.

Il secondo esempio è rappresentato da un tipo di testo molto diverso, compilato con la chiara intenzione di fornire un manuale astronomico avanzato e molto al di là delle necessità dell'insegnamento; si tratta di un manoscritto del secondo quarto del IX sec. proveniente da uno dei maggiori scriptoria carolingi, forse Fulda. Questo manoscritto presenta in sequenza: (1) un testo completo e ricco di glosse del libro astronomico (Libro VIII) del De nuptiis Philologiae et Mercurii di Marziano Capella; (2) un elenco delle costellazioni, noto con il titolo Brani dall'astronomia di Arato; (3) un insieme accuratamente organizzato di brani tratti dalle opere di Plinio, di Macrobio e di Calcidio, riguardanti fenomeni diversi, compresa la geometria degli epicicli e degli eccentrici per spiegare la variabilità del moto planetario (un esempio semplice è il resoconto delle diverse durate delle stagioni sulla base di un'orbita solare eccentrica). Le glosse di questo manoscritto sono opera di tre differenti autori del IX sec., e sembra che il testo sia stato utilizzato per l'insegnamento dell'astronomia almeno fino all'XI sec.; abbiamo in questo caso una prova di come fossero concepiti e insegnati i fondamenti dell'astronomia geometrica ellenistica nella metà del IX secolo.

Una delle opere astronomiche latine più diffuse nelle scuole era il De nuptiis di Marziano Capella, usato soprattutto dai maestri irlandesi chiamati a insegnare nelle scuole carolingie; a molti di loro, tra i quali spicca Giovanni Scoto Eriugena, si devono alcuni commenti a questo testo. Largamente impiegato fino dal momento della sua composizione, nell'ultimo quarto del IX sec., fu quello di Remigio di Auxerre, che risente dell'influenza di Scoto Eriugena. Uno degli argomenti più controversi, di cui resta traccia nei commenti, era la relazione tra le orbite di Mercurio e di Venere e il Sole. Marziano Capella poneva esplicitamente al centro delle traiettorie di questi due pianeti il Sole anziché la Terra; il lettore medievale, poi, leggeva, per un errore della tradizione manoscritta, che l'orbita di Venere attorno al Sole era, rispetto a quella di Mercurio, castior (in luogo di vastior, come presumibilmente recitava l'originale), termine certamente oscuro in un simile contesto. L'ambiguità del testo diede luogo nelle glosse a due diverse interpretazioni (spesso espresse anche attraverso raffigurazioni), secondo le quali Mercurio e Venere ruotavano attorno al Sole, in un caso in orbite concentriche e nell'altro in orbite intersecantisi; la difficoltà fisica delle orbite intersecantisi, tuttavia, non era mai né posta né discussa. Ciò si può spiegare semplicemente ricordando che l'autore delle glosse era chiamato a spiegare il testo, non a giustificarlo o a razionalizzarlo; in ogni caso, la ripetizione acritica di questa presunta teoria di Capella sulle orbite di Mercurio e di Venere intersecantisi intorno al Sole, può essere vista anche come un tratto tipico dell'astronomia dei computisti, essenzialmente basata sul calcolo, in contrapposizione a quella concepita spazialmente. Di cultura formata esclusivamente sui libri, i maestri di computo sembrano non aver dato ai loro allievi il senso della realtà fisica dei moti continui solari e lunari, né Capella avrebbe potuto prevedere la situazione del IX secolo.

Da molte fonti di riferimento, ma in particolare da quattro scrittori latini ‒ Plinio, Calcidio, Macrobio e Marziano Capella ‒ i dotti carolingi appresero nuovi dati sui pianeti e sulle stelle (specialmente da Plinio e Marziano Capella) e i concetti geometrici basilari per la comprensione dei moti stellari e planetari nei termini astronomici ellenistici (specialmente da Macrobio e Calcidio). Il fatto che questa conoscenza fondamentalmente nuova non condusse immediatamente a una riforma dell'astronomia è dovuto a molti fattori. In primo luogo, l'astronomia come arte liberale poteva essere praticata a molti livelli, e il livello comune era quello degli studenti ordinari, che non avevano alcuna intenzione di sviluppare l'argomento al di là delle necessità scolastiche. In secondo luogo, gli interessi scolastici erano fortemente incentrati sul computo ‒ è necessario ricordare che si trattava di scuole ecclesiastiche ‒ e progredivano soltanto nella misura in cui lo consentivano il tempo, gli interessi del maestro e le capacità degli allievi. In terzo luogo, uno studio più ampio dei concetti astronomici, mancando una base istituzionale certa, tendeva a non allontanarsi dai testi classici sui quali era basato. Nel IX sec. questo tipo di studio non andava oltre la lettura e la glossa di questi testi, insieme al confronto tra i 'nuovi' concetti tratti dagli scrittori latini con quelli degli scrittori cristiani 'tradizionali' come Beda. Infine, vi erano motivi di cautela nel raccomandare questi scrittori latini, poiché essi pretendevano non soltanto di fornire una spiegazione pienamente razionale dei fenomeni celesti, ma anche un mezzo per prevedere le configurazioni celesti e le posizioni delle stelle e dei pianeti in un futuro lontano; e nell'Europa carolingia l'astrologia (v. oltre) rimaneva una fonte di inquietudine.

Le testimonianze di osservazioni astronomiche nel mondo carolingio sono scarse e sporadiche; a fronte di numerose annotazioni e commenti sulle comete e sui vari fenomeni atmosferici, indice di attenzione e interesse, la quantità di osservazioni registrate delle posizioni stellari e planetarie è limitata. I pianeti furono osservati, dal regno di Carlo Magno in poi, sia singolarmente sia in gruppi; nei calendari degli anni 770 e 807 si rilevavano le posizioni planetarie nelle date esatte soltanto per due pianeti, in un caso di congiunzione di Giove e Saturno nel Cancro. Furono riprodotte le configurazioni di tutti i pianeti dello Zodiaco, che per mezzo della combinazione delle loro posizioni indicavano le date; in un famoso manoscritto del regno di Ludovico il Pio una configurazione planetaria altamente decorativa indica la data del 18 marzo 816. Anche l'opera di Rabano Mauro sul computo elenca le posizioni relative al 9 luglio 820 dei pianeti (eccettuati Venere e Mercurio), della Luna e del Sole attraverso il segno zodiacale. Esiste una piccola possibilità che una versione greco-latina del VI sec. del commento di Teone alle Tavole manuali sia stata utilizzata da Rabano Mauro, però le prove in favore di questa ipotesi sono deboli; le posizioni planetarie furono da lui ricavate attraverso l'osservazione, e l'esatta collocazione del Sole e della Luna sarebbe il risultato di calcoli descritti nel suo computo insieme ad altri ottenuti da una tavola computistica.

Un importante strumento di osservazione, il notturnale o notturlabio, fu inventato (nella sua forma primitiva) da Pacifico (m. 844) nella cattedrale di Verona. Lo strumento era formato da un tubo di osservazione con intorno un disco graduato ed era attaccato a un sostegno verticale; l'osservatore doveva centrare il tubo sulla stella polare e seguire il movimento di una stella circumpolare per mezzo del disco inscritto, il che consentiva di determinare le ore notturne (questo strumento si rivelò particolarmente utile per il rilevamento del tempo nei monasteri).

Alla fine dell'era carolingia, è importante sottolineare tanto l'importanza quanto i limiti delle scuole; i limiti concettuali sono già stati indicati e variavano con i singoli maestri; sul piano quantitativo, invece, va ricordato che le scuole riguardavano una porzione molto piccola della popolazione. Fra la fine dell'VIII sec. e la fine del IX, conosciamo l'esistenza di settantasette scuole, e per quanto riguarda il X sec. se ne conoscono un centinaio; di queste, non tutte funzionavano continuativamente né avevano un gran numero di studenti. Studiare dunque l'istruzione astronomica carolingia e le sue conquiste significa sostanzialmente osservare gli sforzi di un esiguo numero di persone variamente istruite, il cui risultato fu un miglioramento graduale e individuale. L'inizio di questa nuova fase della conoscenza astronomica fu completato dalle generazioni successive.

Nonostante i disordini che caratterizzarono gran parte del X sec., le scuole rimasero in funzione; a Reims e a Liegi, per esempio, eminenti maestri continuarono a lavorare e a insegnare. Inoltre, in alcuni casi troviamo menzionato, a proposito di queste scuole, lo studio del computo, dell'astrologia (astronomia) e di autori quali Plinio, Macrobio e Calcidio. Il rappresentante più illustre di queste scuole fu, nell'ultimo scorcio del X sec., Gerberto di Aurillac (940/950-1003), il quale, nel suo insegnamento a Reims, utilizzava alcuni modelli della sfera celeste, uno dei quali configurava le costellazioni maggiori, mentre un altro riproduceva all'interno di una sfera armillare gli apogei planetari e le altitudini trovate nell'astronomia di Marziano Capella. Oltre ai suoi contributi alla matematica gli è spesso attribuito un lavoro sull'astrolabio, ma sappiamo soltanto che egli cercò di ottenere informazioni sullo strumento senza comporre alcuna opera in proposito. Nell'Europa occidentale (eccettuata la Spagna) sarà la generazione successiva a quella di Gerberto ad avere per prima la possibilità di accedere sia allo strumento sia ai precedenti trattati latini su di esso.

La storia europea dell'astrolabio nell'XI sec. è istruttiva per la storia dell'astronomia in generale. Precedentemente, i computisti erano interessati a distinguere il tempo in 'tempo quotidiano' (ore) e 'tempo annuale' (mesi e anni), e proprio queste sembrano essere state le prime funzioni dell'astrolabio appena comparso, in quanto per il suo tramite tali operazioni potevano essere svolte più facilmente e accuratamente che non con i metodi computistici fino ad allora utilizzati. Le potenzialità dello strumento rispetto alla geometria sferica sembra che non siano state sviluppate fino al secolo successivo; esso era considerato uno strumento di semplice uso sulla base di facili regole operative da memorizzare. D'altra parte, la geometria piana, che è alla base dell'astronomia planetaria, conobbe un notevole sviluppo soltanto alla fine del X sec. e durante l'XI. Il motivo di questo ritardo è da cercare nell'ampia diffusione del commento al Timeo di Calcidio. La geometria qualitativa dello Zodiaco, compresi il Sole e gli altri pianeti, era sicuramente conosciuta, tanto è vero che il testo e le figure di Calcidio furono migliorati e corretti da alcuni lettori. Può sembrare curioso il fatto che uno strumento preciso come l'astrolabio sia stato compreso in modo inadeguato per molta parte del secolo, mentre le spiegazioni esclusivamente qualitative dei moti celesti presenti nell'opera di Calcidio erano conosciute ampiamente; tuttavia, la spiegazione di ciò sembrerebbe risiedere nella scarsa preparazione dell'Europa latina. Col lento progredire degli studi di astronomia furono assorbiti anche i concetti del moto planetario. Tra le migliorie apportate in taluni manoscritti al testo di Calcidio, di particolare interesse è il fatto che esse, indipendentemente dalla loro correttezza, fossero frutto di osservazioni astronomiche e non di semplici interventi testuali.

La geometria ben più complessa presupposta dall'astrolabio rimase, però, al di là delle possibilità di comprensione ancora per molti decenni; una descrizione sufficientemente chiara e completa dello strumento non si ebbe prima dell'opera di Ermanno di Reichenau (1013-1054) Sulla costruzione dell'astrolabio (1045 ca.) e non si fece un uso veramente nuovo di questo strumento fino a Walcher di Malvern; questi utilizzò l'astrolabio per fare osservazioni molto accurate sull'eclissi lunare del 18 ottobre 1092, e sulla base di queste osservazioni elaborò una tabella delle posizioni lunari migliore di quelle prodotte dalla tradizione computistica, scoprendo, in particolare, che le durate dei mesi lunari variavano, contrariamente agli assunti aritmetici dei computisti, i quali si occupavano soltanto dei periodi lunari, ossia del tempo medio. Dopo la morte di Walcher di Malvern, avvenuta nel 1135, per la storia dell'astrolabio fu determinante la diffusione dell'astronomia greco-araba (vedi La scienza greco-romana, cap. XXII, par. 4).

L'ultima fase dell'astronomia latina prima dell'influsso arabo ebbe luogo nell'XI sec.; nel secolo successivo per i sostenitori della nuova astronomia divenne abituale criticare l'astronomia macrobiana. Questa era, del resto, nient'altro che l'astronomia delle scuole, un complesso di concetti e immagini elementari che proponeva la descrizione generale di un ordine spaziale nel cielo, la rappresentazione di un Cosmo razionale per non astronomi (lo stesso Macrobio aveva infatti presentato la sua opera come nulla di più di un testo di studio per principianti). Dopo un inizio assai modesto nel IX sec., l'astronomia basata su Calcidio era andata via via ben al di là di quella di Macrobio, spiegando i moti variabili dei pianeti attraverso le tecniche degli eccentrici e degli epicicli. Dal IX sec. in poi persino i commentatori degli Aratea non soltanto avevano descritto attentamente le posizioni delle costellazioni sulla sfera celeste, ma avevano anche modificato gli assunti computistici; per esempio, uno scolio agli Aratea dei primi anni del IX sec. individuava l'inizio di ogni segno nel quindicesimo giorno dalle calende di ogni mese (tranne che in febbraio) attraverso un circolo zodiacale diviso in 365 parti. Questo cambiamento segnò un allontanamento dalle date liturgiche alessandrine e romane dell'equinozio primaverile e delle altre quadrature (situazioni che si hanno quando le longitudini geocentriche di due astri differiscono di 90°), collocando chiaramente gli equinozi e i solstizi sulla base di questi calcoli piuttosto che nel ventunesimo o nel venticinquesimo giorno dei rispettivi mesi (l'equinozio primaverile cadeva il 18 marzo e così via).

Dalla fine dell'XI sec. il calcolo tradizionale fu considerato inadeguato per lo svolgimento di calcoli astronomici precisi. La geometria concettuale dei moti planetari e della loro variabilità era stata presentata dall'opera di Calcidio; la costruzione dell'astrolabio suggeriva una geometria quantitativa, esatta, che non era disponibile nelle fonti di riferimento latine; sia per l'astronomia planetaria sia per quella stellare gli occidentali erano ormai pronti a ricercare gli strumenti matematici per i calcoli esatti nell'astronomia piana e sferica; i testi e gli strumenti prodotti e utilizzati fra il IX e l'XI sec. li avevano preparati a questo.

Il computo

Si è soliti dividere la storia del computo calendaristico nell'Alto Medioevo in quattro periodi, vale a dire: una lunga fase iniziale, dal Tardo Impero romano fino al VII sec., caratterizzata dalle violente dispute tra ecclesiastici irlandesi e romani sulle differenze tra i vari calendari; l'epoca che coincide con le conquiste computistiche di Beda, le quali determinarono un modello ampiamente accettato; il periodo carolingio, testimone del massimo sviluppo delle enciclopedie computistiche; infine, nell'XI sec., una profonda riforma e il sorgere sugli schemi computistici di seri interrogativi scientifici tradizionali, basati sulla determinazione strumentale della lunghezza del periodo lunare effettivo. Questi quattro periodi costituirono ciò che potremmo chiamare l'età 'classica' del computo, nel corso della quale la costituzione di un calendario rappresentò più una questione di autorità che di scienza naturale, producendo un gran numero di opere di alto livello.

La definizione del calendario ecclesiastico, problema centrale nell'educazione degli ecclesiastici all'inizio del Medioevo, implicava l'accettazione di valori aritmetici medi per i periodi lunari e solari, e quindi la manipolazione di questi valori per adattarli alle esigenze rituali. L'interesse per la valutazione delle divergenze tra i calendari ecclesiastici che ne derivavano e l'anno astronomico effettivo era molto limitato; l'obiettivo principale era quello di stabilire un ciclo regolare di festività cristiane, non un ciclo di periodi astronomici, e trovare il modo di ottenere un consenso universale su un ciclo liturgico stabilito. È davvero curioso il fatto che all'inizio del Medioevo il computo non fosse una scienza associata all'astronomia, ma che lo sia divenuto soltanto piuttosto tardi, nel IX sec., e che sia stato infine assorbito dall'astronomia alla fine del Medioevo.

La storia del calendario cristiano fu dominata, per tutto il primo periodo, da rivendicazioni di autorità in competizione tra loro; questa competizione si sviluppò intorno a tre intervalli di tempo fondamentali, anche se oggetto delle dispute non furono definizioni naturali. Questi intervalli erano: (1) il 'periodo solare', cioè la durata di un anno solare tropico medio, equivalente a 365,2422 giorni solari medi; (2) il 'periodo lunare', cioè la durata di un mese sinodico medio, equivalente a 29,53059 giorni solari medi; (3) il 'periodo settimanale', di sette giorni. Il mese sinodico e l'anno tropico erano le due costanti astronomiche dalle quali dipendevano i sistemi computistici. Il fatto che queste due costanti fossero incommensurabili (il loro rapporto vale circa 12,36826...) significava che il dibattito sul calendario ‒ incentrato sui cicli diversi che producevano numeri interi di mesi all'interno di numeri interi di anni ‒ non teneva conto della variabilità del moto del Sole e della Luna e perciò non considerava i loro moti effettivi.

Il primo calendario adottato dalla Chiesa cristiana fu quello ebraico, formato essenzialmente da dodici mesi lunari ai quali era però aggiunto arbitrariamente un mese in più quando si notava che la stagione era arretrata e il primo mese dell'anno, Nisan, sarebbe, così, caduto troppo presto. La decisione d'includere questo tredicesimo mese era presa durante l'anno in questione ed era possibile venirne a conoscenza soltanto aspettandone l'annuncio dal Sinedrio di Gerusalemme. La Pasqua ebraica doveva essere celebrata nella notte del 14 di Nisan (di Luna piena), e le prime comunità cristiane utilizzarono questa festività per determinare il periodo pasquale. Nel II sec., allorché la Chiesa introdusse nel calendario alcuni giorni festivi fissi, iniziarono le divergenze sulla data della Pasqua; intorno al III sec. i vescovi di Alessandria d'Egitto fecero in modo che si diffondesse in tutti gli altri centri cristiani la data della Pasqua di Alessandria d'Egitto che, essendo una capitale intellettuale ampiamente riconosciuta, poteva assumere il ruolo di città-guida. Gli Alessandrini avevano infatti chiarito quando fosse appropriato iniziare Nisan senza aspettarne l'annuncio da parte degli Ebrei e avevano anche deciso quale fosse il giorno giusto per celebrare la Pasqua nell'ambito di questo Nisan cristianizzato.

Tra i cicli calendaristici sperimentati nei primi secoli ve ne era uno di otto anni, l'octaeteride dell'antico calendario attico (vedi La scienza greco-romana, cap. XXI, Tav. I), e nel III sec. ne comparve una versione raddoppiata della durata di sedici anni. Anche se l'octaeteride non funzionava perfettamente, esso suggeriva più chiaramente l'utilità e la semplicità di costruire un calendario ecclesiastico sulla base delle relazioni tra il periodo della Luna di Pasqua e i giorni della settimana. Un altro calendario del III sec., il laterculus, di un autore sconosciuto chiamato Augustalis, stabiliva un ciclo di 84 anni giuliani, equivalente a 1039 mesi sinodici, e la differenza tra i due periodi era solamente di 1,3 giorni su 84 anni. Nel ciclo di Augustalis era particolarmente importante il riconoscimento del fatto che determinare l'epatta ‒ cioè l'eccedenza di giorni del calendario solare rispetto a quello lunare alla data del primo gennaio ‒ permetteva d'individuare rapidamente la prima Luna nuova dell'anno; poiché l'epatta aumentava di undici giorni ogni anno, ciò consentiva di calcolare quali anni avrebbero contenuto un mese lunare completo in più. Dopo un ciclo completo di 84 anni vi sarebbero stati 30 anni intercalari (o embolimi), composti di 13 mesi; in ogni caso, però, alla fine rimaneva una Luna vecchia di 24 giorni, perché i 30 mesi lunari aggiunti in questo modo non colmavano del tutto la differenza tra gli 84 anni solari e quelli lunari. Per completare il ciclo lunare erano necessari sei giorni in più, e questi sei giorni furono semplicemente aggiunti singolarmente a intervalli regolari di 14 anni nell'arco del ciclo di 84. Nel calendario questo giorno in più era designato saltus Lunae ed era spiegato come un aumento nell'età della Luna mediante l'aggiunta di un giorno il primo gennaio. Il laterculus perciò introdusse due elementi fondamentali, l'epatta e il saltus Lunae, che sarebbero rimasti nei calendari cristiani e nella scienza computistica per tutto il Medioevo. Lo stesso ciclo di 84 anni fu impiegato a Roma fino alla metà del V sec., mentre ad Alessandria d'Egitto fin dagli inizi del IV sec. si utilizzava un ciclo più pratico.

Dopo il I Concilio di Nicea (325), il modello alessandrino fu dichiarato corretto e autorevole; gli Alessandrini si differenziavano chiaramente e polemicamente dai Romani perché ponevano l'equinozio primaverile il 21 marzo invece che il 25. Il ciclo era basato sul lavoro di Anatolio, vescovo di Laodicea dal 268 al 282, e impiegava un intervallo di 19 anni giuliani, equivalenti a 235 mesi sinodici (ciò produceva il risultato notevolmente soddisfacente di 6939,75 giorni nell'arco dei 19 anni e di 6939,69 giorni nell'arco dei 235 mesi). Sembra che ad Alessandria d'Egitto questo ciclo di 19 anni sia rimasto in uso fino al tardo III sec., forse fino al 277; dopo il Concilio di Nicea, tra Roma e Alessandria d'Egitto vi fu un periodo di accordo sulla datazione della Pasqua, ma alla fine del IV sec. si verificò una netta spaccatura.

Intorno alla metà del V sec. i disaccordi tra i metodi greci e quelli latini per la determinazione della Pasqua portarono in Occidente a un nuovo sforzo per risolvere il problema. Nel 457 l'arcidiacono romano Ilario chiese a Vittore di Aquitania di studiare e risolvere la controversia. Vittore replicò con un'analisi approfondita e con un insieme di raccomandazioni che però non furono accolte; egli accettò il ciclo di 19 anni e la data alessandrina per l'equinozio primaverile, ma ipotizzò che Dio avesse compiuto la Creazione domenica 25 marzo e mantenne i riferimenti lunari romani per la Pasqua; nello stesso tempo, però, per i suoi calcoli utilizzò anche i riferimenti lunari alessandrini in proposito. Seguì inoltre i computisti ecclesiastici che collocavano la Resurrezione nell'anno 5229; a partire dalla morte di Cristo ‒ datata il 26 marzo (14 di Nisan) del quarto anno di un ciclo di 19 anni ‒ Vittore calcolò prima la sua epoca e poi quella futura, e scoprì ‒ sembra in modo puramente accidentale ‒ che dopo 532 anni la data della Pasqua si ripeteva esattamente. Il suo metodo divenne ampiamente noto e nel sinodo di Orléans del 541 furono date istruzioni alla Chiesa dei Franchi di seguire le sue tabelle.

All'inizio del VI sec. i Latini cercarono ancora una volta una soluzione ai loro problemi calendaristici; durante il papato di Giovanni I (523-526) si ricorse all'aiuto di un esperto ecclesiastico, Dionigi il Piccolo, che spiegò in dettaglio il funzionamento del ciclo di 19 anni e il fondamento storico necessario per stabilirne limiti e definizioni; introdusse anche "l'anno dell'Incarnazione", che partiva dall'equinozio di primavera (nove mesi prima della Natività di Gesù Cristo), come inizio della datazione annuale. Apparentemente per caso, basandosi sulla fine di un ciclo di 19 anni in uso correntemente, egli iniziò i propri calcoli con l'anno 532, che divenne il basilare anno domini e il punto di riferimento per un nuovo ciclo. Dionigi produsse tabelle per la datazione della Pasqua e regole per usarle; non riconobbe mai l'esistenza di un ciclo di 532 anni e ne impiegò invece uno di 95 (equivalente a 5 cicli di 19 anni). Incidentalmente, ricordiamo che a Dionigi è dovuta anche l'identificazione dell'anno della nascita di Gesù ‒ anno primo dell'era cristiana ‒ con l'anno 753 ab Urbe condita.

Intorno al VII sec. furono proposti molti sistemi diversi, di cui alcuni si diffusero più di altri, e il genere del computo si era ormai affermato. Cassiodoro compilò una breve guida al calcolo calendaristico; nel De natura rerum Isidoro di Siviglia espose alcuni elementi di base per l'ordinamento numerico del tempo e nelle Etimologie fornì ulteriori elementi di discussione in proposito. Nella prima metà del VII sec. gli Irlandesi utilizzavano il ciclo di 84 anni e intorno al 631 fissarono la Pasqua con un mese di differenza rispetto alla datazione romana. L'anno seguente Cummiano scrisse a Iona sollecitando gli abitanti del Nord ad adottare il ciclo di Vittore come quelli del Sud e, facendo riferimento a dieci cicli diversi dei quali era a conoscenza, presentò la sua analisi esortando alcuni vescovi irlandesi del Sud all'osservanza del rito romano corrente. Le continue discordie sfociarono in una richiesta di arbitrato da parte di Roma, che portò all'adozione del ciclo di Vittore di Aquitania; tuttavia, data la difficoltà degli argomenti di Vittore, non è sorprendente che il dissenso irlandese sia continuato. Un'opera anonima Sul metodo per computare tramite il Sole e la Luna, un manuale di computo per uso scolastico, introdusse gli ecclesiastici all'impiego di cicli diversi, finendo col favorire, di fatto, il ciclo alessandrino di Dionigi il Piccolo; le spiegazioni in esso contenute chiarirono le difficoltà delle regole di Vittore e posero la premessa necessaria per l'opera di Beda all'inizio del secolo successivo. Questa premessa consisteva, tra gli Irlandesi del secondo quarto del VII sec. e oltre, sia nel raccogliere e studiare molte tavole e opuscoli, sia nel comporne di nuovi utilizzando sempre il ciclo alessandrino. Una raccolta di tali materiali di provenienza irlandese, compilata nel 658, suppose il computo impiegato da Beda prima che egli scrivesse la sua opera sulla misurazione del tempo.

La Historia ecclesiastica gentis Anglorum di Beda (672 ca.-735) stabilì un esempio ampiamente seguito di datazione dell'era cristiana negli scritti storici, e fornì anche una relazione critica sulle differenze anglo-irlandesi riguardanti la corretta datazione della Pasqua emerse nel sinodo di Whitby del 664. In quell'occasione, definendo causticamente come immorale, stupida e ostinata l'adesione del vescovo irlandese Colman all'intervallo precedente del 14-20 di Nisan per i limiti della celebrazione della Pasqua, il prete Wilfrid affermò che l'osservanza romana dell'intervallo del 15-21 di Nisan aveva un supporto ecclesiastico universale in quanto pratica corretta. Il sinodo si concluse con l'affermazione delle pratiche romane, energicamente sostenute dal giudizio del re Oswy (612 ca.-670). L'aperta adesione di Beda a questa posizione coincise con la sua decisione di fornire definizioni e istruzioni chiare ed esaurienti per la costituzione di un calendario.

Il De temporibus (703), scritto da Beda per i suoi allievi presso il monastero di Jarrow, costituì il primo tentativo in proposito, ma le sollecitazioni degli stessi allievi e forse anche altre ragioni indussero Beda ad ampliare i sedici succinti capitoli di quest'opera trasformandoli nei dettagliati 65 capitoli del suo De temporum ratione (725). In quest'opera tarda egli affermò l'utilità di una discussione ulteriore, ma al tempo stesso dichiarò che questa doveva essere orale piuttosto che scritta; al lettore non era detto se tali aggiunte orali dovessero riguardare anche questioni controverse, non adatte a un impegno scritto, ma è chiaro che esse sarebbero emerse durante la lectio. In ogni caso, si fornivano tutti gli elementi necessari per capire non soltanto il calcolo della Pasqua in un qualsiasi anno, ma anche la storia della terminologia e degli schemi di calcolo sviluppatisi nei cinque secoli precedenti.

Beda spiegava nella maniera più chiara il significato e gli usi di tutti i termini del computo, così come i modi per determinare l'età e la posizione della Luna nello Zodiaco e il suo posto nel calendario in ogni determinato punto del ciclo lunare durante l'anno. Egli assicurò così per il futuro l'uso del ciclo di 532 (=19×28) anni, nel quale si ripetevano realmente e completamente tutti gli elementi del calendario. Sebbene per il periodo precedente la fine dell'VIII sec. restino soltanto frammenti di manoscritti della maggiore opera di Beda sul computo, questi testimoniano di per sé l'ampio uso della sua opera nel continente a partire dall'ultima parte del secolo in poi; il gran numero di copie prodotte in seguito da scriptoria diversi indica la grande influenza che il trattato ha esercitato. La storia del computo come stile di pensiero sul rilevamento del tempo e come tradizione testuale, tuttavia, si è sviluppata ben oltre il De temporum ratione di Beda, anche se egli ha gettato le basi anche di questo sviluppo.

Nel regno dei Franchi e nell'Impero carolingio apparve nel IX sec. un nuovo tipo di compilazione computistica. Già nell'Admonitio generalis del 789 Carlo Magno aveva chiesto che gli ecclesiastici imparassero il computo adeguatamente, ma ancora nell'809, in un sinodo ad Aquisgrana, vi era confusione tra i presunti esperti riuniti per discutere gli elementi di base del calcolo calendaristico. Poco dopo apparve, sembra con l'incoraggiamento reale, una compilazione monumentale che non trattava soltanto i problemi del calendario, ma anche una serie di argomenti astronomici e meteorologici, di pesi e di misure, e di cosmologia. Ne abbiamo una versione incompleta tramandata solamente da due manoscritti, mentre ci sono pervenuti cinque manoscritti di una versione ultimata nel IX sec., generalmente chiamati Sette libri del computo, che testimonia molto bene lo sviluppo del computo come disciplina enciclopedica, un orientamento che proseguì fino all'XI secolo. Dei sette libri, i primi quattro contengono 74 capitoli, strettamente computistici, derivati dal De temporum ratione di Beda e da altre fonti. I Libri dal V al VII del 'computo dell'809', come l'opera è stata chiamata, introducono tre generi di informazioni essenziali per la comprensione del computo nel suo senso più ampio intorno ai primi anni del IX sec.; il Libro V presenta una conoscenza precisa di alcuni fenomeni stellari, solari, lunari, planetari e meteorologici; del Libro VI fanno parte i numerali, varie misure relative a monete e attività produttive, e le misurazioni del Sole, della Luna e della Terra; il Libro VII è nient'altro che il De natura rerum di Beda, presentato come un manuale di cosmologia. Tra il materiale più significativo vi sono quattro capitoli del Libro V in cui sono riportati alcuni brani dalla Naturalis historia di Plinio, corredati non soltanto di dati numerici e geometrici, ma anche di diagrammi che non erano presenti in Plinio né erano da lui suggeriti; simili innovazioni pedagogiche mostrano come i magistri carolingi ‒ che inventarono e utilizzarono questi diagrammi ‒ considerassero importante la componente visiva nell'insegnamento, e rivelano anche un processo di ripensamento e di revisione dell'uso di questi diagrammi a scopo educativo da parte di taluni di essi.

In questi diagrammi sono rappresentati: (1) la sequenza di pianeti tra la Terra e la sfera delle stelle fisse; (2) le misure delle distanze tra pianeti, date in numeri interi derivati essenzialmente dalle tradizioni pitagoriche ellenistiche; (3) le posizioni zodiacali degli apsidi planetari (apogei e perigei, i punti delle orbite planetarie rispettivamente più distanti e più vicini alla Terra); (4) le latitudini, o inclinazioni rispetto all'eclittica, dei pianeti. Mentre le cifre derivavano da Plinio, la semplicità e la chiarezza del nucleo centrale era completamente nuova, e le informazioni erano presentate in maniera così semplice e lineare che i primi due tipi di diagrammi si svilupparono da modelli geometrici in prospetti verbali. Il terzo diagramma, che presentava gli apsidi, apparve inizialmente come una combinazione di orbite eccentriche, una per ogni pianeta, all'interno del circolo dello Zodiaco; la posizione dell'apogeo, o punto più distante dal centro (la Terra), era sotto il corrispondente segno dello Zodiaco; tuttavia, poiché la distribuzione di apsidi e apogeo intorno allo Zodiaco non cadeva in modo regolare, il diagramma fu modificato spostando i segni dei cinque apsidi planetari, affinché si trovassero distribuiti in modo più uniforme sull'orbita circostante; gli altri sette segni furono semplicemente omessi. Ciò produsse un diagramma che uno studente poteva interpretare rapidamente e in maniera corretta, poiché la collocazione di cinque orbite planetarie eccentriche sotto cinque segni zodiacali ben distanziati lo rendeva estremamente chiaro. Gli insegnanti ovviamente vi aggiungevano un commento orale per assicurarsi che su questo diagramma apsidale riveduto non si generasse confusione a causa delle nuove posizioni dei segni zodiacali.

Il quarto diagramma di questa serie richiedeva più cura nell'esposizione e inizialmente creava maggiori problemi agli studenti. Al fine di presentare le latitudini dei sette pianeti ‒ includendo in essi, secondo i dati di Plinio, anche il Sole e la Luna ‒ il primo ideatore dispose lo sfondo dei dodici gradi della fascia zodiacale nella forma di tredici orbite concentriche; contro questa struttura collocò, quindi, cinque orbite eccentriche che rappresentavano tutti i pianeti eccetto il Sole e Saturno, i quali costituivano un caso particolare da trattare separatamente. Queste cinque orbite planetarie erano più o meno eccentriche nella misura in cui avevano una maggiore o minore latitudine; più precisamente, le latitudini planetarie erano descritte come circoli orbitali visti stereograficamente da un asse del polo sud dell'eclittica. Ogni orbita eccentrica era contrassegnata dal suo pianeta. La difficoltà di questo diagramma era del tutto pratica; cinque orbite eccentriche sovrapposte su uno sfondo di tredici orbite concentriche, più una traiettoria a serpentina che attraversava lo Zodiaco a metà sia per il Sole sia per Saturno, non formavano certo un'immagine facilmente interpretabile. Il problema più grande era semplicemente quello di contare il numero di orbite concentriche, o gradi dello Zodiaco, per determinare l'entità dell'inclinazione di ciascun pianeta; inoltre, piuttosto rapidamente divenne evidente anche il fatto che i copisti avevano difficoltà a preservare fedelmente tutti i dettagli di questo schema.

Per semplificare lo sforzo di copiare e di leggere il diagramma delle latitudini fu dunque sviluppata una forma radicalmente nuova, nella quale una griglia rettangolare sostituì le orbite concentriche, con tredici linee orizzontali parallele per rappresentare lo Zodiaco. Sulla base di questa struttura ciascuna latitudine planetaria divenne una curva regolare da sinistra a destra, creando ciò che oggi potremmo chiamare un diagramma; della curva aveva però importanza solamente la componente verticale, o 'altitudine', la cui altezza corrispondeva al numero di gradi d'inclinazione del pianeta che la curva rappresentava. La componente orizzontale della curva, o 'ampiezza', era direttamente proporzionale all'altitudine; essa, cioè, non aveva un valore indipendente, ed era fissata soltanto per far sì che il diagramma fosse interpretato ‒ e copiato ‒ con facilità e in modo scorrevole.

Il diagramma di latitudine planetaria dimostra sia l'ingegnosità dei progettisti sia la loro prontezza a migliorare costantemente i diagrammi educativi; esso prova inoltre che agli inizi del IX sec. esisteva già una qualche forma di conoscenza della proiezione stereografica, benché non siamo in possesso di alcun testo latino di questo periodo che ci indichi l'origine di tale sapere. D'altra parte, è anche comprensibile che questo tipo di diagramma sia andato incontro a un fallimento quasi immediato sia nell'insegnamento sia nello scriptorium. Il diagramma rettangolare che lo sostituì, invece, fu largamente copiato e spesso riportato in altri tipi di testi destinati alla scuola; nei secoli seguenti esso vide un numero di innovazioni minori, sia tecniche sia decorative, ed ebbe un grande successo.

I brani di Plinio contenuti nei Sette libri del computo furono utilizzati in forme diverse; spesso, ma non sempre, comparvero con i loro diagrammi come parti di varie raccolte computistiche, ma erano presenti anche all'interno di testi cosmologici, non finalizzati all'insegnamento del computo. A volte furono uniti ad altri testi o brani astrologici al fine di fornire un'istruzione elementare di astronomia, separata dai problemi calendaristici e, proprio come i brani di Plinio che presentavano informazioni astronomiche ritenute utili per il computo, non rimasero legati unicamente alle raccolte computistiche; così avvenne anche per altro materiale astronomico introdotto nelle raccolte computistiche nei secc. IX e X. Da un certo punto di vista questo sviluppo appare come un ampliamento e un'evoluzione della nozione di computo; da un altro punto di vista, però, denuncia un'inadeguatezza della vecchia concezione del computo, alla quale si ovviava aggiungendo materiale tratto da fonti astronomiche o di altro tipo, più vicino al mondo naturale e a quello della misurazione concreta. Da entrambi i punti di vista risulta chiaro che il computo giunse a essere visto sempre più strettamente dipendente tanto dall'astronomia quanto dalla lettura delle tavole calendaristiche e dal calcolo di fenomeni periodici con valori medi aritmetici, normalmente espressi in numeri interi.

Lo sviluppo del computo, sia nella pratica sia nei testi, da disciplina basata sull'elaborazione dei cicli lunari in termini di date mensili, giorni della settimana e anni a disciplina che prendeva in considerazione le posizioni lunari e solari lungo l'eclittica e s'incentrava sulle eclissi e sulla loro previsione, avvenne molto lentamente. Questo processo ebbe inizio principalmente con Beda, fece un passo in avanti nell'epoca carolingia e raggiunse un punto critico nell'XI sec., quando qualcosa che potremmo chiamare computo 'naturale' divenne chiaramente una branca dell'astronomia, mentre il computo 'ufficiale' si limitò maggiormente alle regole tradizionali che permettevano di elaborare in modo autorevole numeri periodici definiti e di applicare le tavole computistiche alle epatte, ai paralleli e ad altri termini tradizionali. Lo stimolo iniziale per questo lungo processo derivò dal richiamo di Beda e di altri autori a fonti latine classiche, quali la Naturalis historia di Plinio, dove le posizioni solari e lunari dipendevano da posizioni discrete che erano derivate, almeno in linea di principio, da osservazioni.

La rinascita dell'arte liberale dell'astronomia nell'epoca carolingia, largamente debitrice a testi astronomici latini, comportò un maggiore interesse per gli elementi 'naturali' del computo e una loro comprensione più approfondita, provocando non soltanto un ampliamento della disciplina ma anche una nuova vitalità al suo interno. Vi furono computisti carolingi, come Rabano Mauro a Fulda ed Erico di Auxerre (intorno alla metà del IX sec.), che scrissero testi sul modello di Beda escludendo di fatto tutto il materiale astronomico aggiuntivo del genere presente nei Sette libri del computo; tuttavia, persino questi maestri-studiosi inclusero nelle loro opere particolari interessanti sulle osservazioni astronomiche. Rabano Mauro calcolò le posizioni dei pianeti in una certa data; Erico descrisse minuziosamente il modo di tracciare lungo una successione di giorni la traiettoria dei raggi solari, proiettati attraverso un minuscolo foro praticato in uno schermo opaco nel periodo degli equinozi e dei solstizi, al fine di conoscere le date esatte di questi quattro punti di transizione astronomica. Abbone di Fleury, alla fine del X sec., tentò di rinvigorire l'uso delle tavole calendaristiche e il ricorso a testi autorevoli. D'altra parte, nell'XI sec., Walcher di Malvern e Gerlando nelle loro opere computistiche cercarono di determinare le reali posizioni del Sole e della Luna attraverso l'osservazione delle eclissi, piuttosto che con l'uso di formule o tavole.

Abbone di Fleury (945 ca.-1004) fra le varie scienze fu interessato particolarmente all'aritmetica e nei suoi scritti è spesso sottolineata l'importanza del numero nella creazione e nella struttura del mondo, con una particolare enfasi sull'unità in base ad argomentazioni platoniche. Egli insegnò a Fleury (St.-Benoît-sur-Loire) e per un breve periodo (dal 985 al 987) a Ramsey, in Inghilterra, da dove il suo insegnamento e i libri che egli aveva portato con sé influenzarono la computistica e l'astronomia inglese. Una caratteristica generale della pedagogia di Abbone fu l'uso attento e creativo delle immagini; nella sua compilazione astronomico-computistica incluse infatti molti diagrammi tratti dal commento al Timeo fatto da Calcidio e diagrammi di Plinio tratti dai Sette libri del computo; inoltre, modificò alcuni di questi diagrammi per adattarli al suo insegnamento e per evidenziare regolarità ed equilibrio sia nel cielo sia nei cicli calendaristici di calcolo. Abbone concentrò il suo computo su tabelle che poi collegò tra loro in modo molto più preciso di quanto non fosse stato fatto fino a quel momento; una parte delle informazioni che ne derivarono lo indusse a un uso elaborato di lettere chiave, che erano spiegate nel testo. Egli inventò anche varie tavole ‒ come il suo calendario perpetuo, le Effemeridi ‒ nelle quali sia la disposizione sia i colori dei caratteri erano impiegati e diversificati per ottenere un effetto pedagogico e simbolico, cosa che però finiva col complicare il suo calcolo invece di semplificarlo. I modelli e l'ordine rimanevano tuttavia il suo scopo; per Abbone il computo era infatti la chiave e il simbolo di un mondo ordinato in modo divino e di un tempo ordinato all'interno del mondo.

Con l'approssimarsi dell'anno Mille si moltiplicarono le speculazioni e le preoccupazioni riguardanti il significato di questo anno e si pose l'interrogativo se questa data potesse essere un segnale della fine del mondo. Questi problemi erano sorti nei secoli precedenti e alle soglie del millennio non c'era un accordo generale sulla possibilità che si verificasse un secondo avvento. Autori importanti, quali Agostino e Beda, avevano sostenuto che predire tale evento fosse inopportuno e impossibile, ma nonostante ciò le predizioni si diffusero; Ademaro di Chabannes (988-1034) espresse aspettative apocalittiche per gli anni 1028 e 1033, e anche altri sostennero simili credenze riguardo agli anni 1003 e 1010. Tra i computisti dell'epoca, Abbone di Fleury sostenne fermamente che tali previsioni fossero false e dannose; egli stesso produsse un'estensione del ciclo di Dionigi il Piccolo, che era di 532 anni, dal 1064 fino al 1595 ‒ data del compimento del terzo ciclo ‒ affermando, tuttavia, di non essere certo che il mondo sarebbe durato fino alla fine del terzo ciclo, ma di essere sicuro che sarebbe durato almeno fino ai suoi inizi, tre generazioni dopo il millennio.

Nell'XI sec. vi fu un vivace dibattito sull'anno dell'Incarnazione, tenendo conto del fatto che, per tradizione, il primo anno del primo ciclo di Dionigi era quello della nascita di Cristo; insieme a Mariano Scoto, Sigeberto di Gembloux e altri, il computista Gerlando propose però un cambiamento di questa datazione, secondo il quale ‒ preservando il dato biblico secondo cui Gesù visse fino all'età di 33 anni ‒ l'era di Dionigi e l'Incarnazione dovevano slittare di sei anni rispetto a quelli presunti tradizionalmente. Gerlando faceva parte dell'avanguardia computistica che determinava le posizioni lunari e solari per mezzo di osservazioni dirette e precise invece di derivarle da tabelle e da calcoli. Ciò era parte di una profonda trasformazione a seguito della quale, a partire dal XII sec., il computo cessò di essere una scienza particolare e profondamente rispettata; il suo uso delle osservazioni fu considerato come astronomia, dipendente da tecniche strumentali, e i suoi calcoli divennero soltanto aritmetici. La posizione elevata del computo tra le discipline coltivate nelle scuole monastiche crollò nella misura in cui i più generali presupposti liturgici e filosofici che precedentemente gli erano attribuiti si dissolsero nella cultura scolastica del XII sec., e i calendari furono prodotti semplicemente per mezzo di procedure calcolate secondo tabelle e formulari con finalità esclusivamente pratiche. Mentre per un sostanziale miglioramento del calendario ‒ quello 'giuliano', introdotto da Giulio Cesare nel 46 a.C. ‒ si dovette aspettare fino alla riforma gregoriana del XVI sec., il computo ecclesiastico come disciplina fu semplificato e degradato, e nelle università medievali non gli fu riconosciuto lo status di disciplina autonoma.

L'astrologia

L'astrologia, come oggi generalmente la intendiamo, non era praticata né era conosciuta in Europa agli inizi del Medioevo. Nel mondo ellenistico, così come nel Basso Medioevo, gli astrologi avevano a disposizione tavole e manuali matematici che però fra il VII e l'XI sec. non furono in circolazione nell'Occidente latino. Tuttavia, l'idea di predire gli eventi, sia desiderabili sia indesiderabili, ha una storia molto più lunga dell'astrologia matematica ed erano praticate varie arti divinatorie ‒ quale, per esempio, la scapulimanzia, basata sull'osservazione delle scapole di animale ‒ nelle quali non v'erano forme di predizione fondate sulla matematica. Agli inizi del Medioevo la predizione sulla base di stelle, pianeti e altri fenomeni celesti era riconosciuta e a volte chiamata 'astrologia', benché questa parola avesse un significato ambiguo; parlando quindi dell'astrologia latina di questo periodo, si fa riferimento principalmente alla predizione di eventi in relazione al cielo e non a tecniche matematiche. Poteva essere limitata agli effetti su un governante o su una piccola regione o su un regno, e potrebbe dunque essere chiamata anche 'letteratura divinatoria'; oppure, in modo analogo all'astrologia genetliaca, poteva essere applicata a qualsiasi individuo senza tuttavia impiegare né la tecnica né il vocabolario degli astrologi classici, quali Manilio, Tolomeo e altri.

Durante l'Impero romano l'astrologia costituì un problema per i teologi cristiani e un evidente pericolo per lo Stato. Calcolare l'oroscopo dell'imperatore poteva essere considerato tradimento, e attribuire alle predizioni astrologiche sul futuro di un individuo il carattere della necessità piuttosto che della possibilità rendeva difficile a un cristiano accettare il libero arbitrio e la responsabilità delle proprie colpe. Tra le varie fonti cristiane riguardanti l'astrologia, particolarmente note erano le cosiddette Recognitiones, scritte agli inizi del III sec. e attribuite erroneamente a Clemente di Roma. In questa vasta opera erano discusse alcune predizioni astrologiche, giungendo, in taluni casi, a descrivere nei particolari le posizioni zodiacali di tutti i pianeti e i conseguenti destini degli individui. L'autore, in conclusione, accordava all'astrologia la possibilità di predire le inclinazioni personali ma negava che essa potesse prevedere se la persona avrebbe agito sulla base delle sue inclinazioni. Il testo delle Recognitiones, utilizzato da Isidoro, da Beda e da molti scrittori sia carolingi sia di epoche successive, ci è pervenuto in più di cento manoscritti.

Agostino nel De doctrina christiana, opera a cui pose mano subito dopo essere diventato vescovo di Ippona, considerò quali parti dell'enciclopedia pagana tornassero utili per la concezione cristiana e, rivedendo ciò che aveva affermato dieci anni prima nel De ordine, sostenne molto di più lo studio della storia e delle forme dell'argomentazione che la matematica e l'astronomia. In effetti, se lo studio dei numeri poteva essere tollerato, quello delle stelle doveva essere più condannato che raccomandato (ciò non valeva, però, per lo studio della Luna, in quanto Agostino aveva presente la determinazione dell'anniversario della Passione di Cristo attraverso la determinazione delle posizioni lunari). Egli riconosceva che lo studio del sorgere e del tramontare delle stelle non era di per sé contrario alla religione, ma rimarcava sia la grande quantità di tempo necessaria per acquisire una certa competenza in questa disciplina, sia la scarsità di riferimenti scritturali alle stelle, sia, infine, lo stretto legame dello studio astronomico con quelle che egli chiamava le perniciose superstizioni degli astrologi (genethliaci e mathematici). Agostino dunque, nel tardo Impero romano, a coloro che ricercavano una sapienza cristiana consigliava di evitare lo studio dell'astronomia a favore di altre discipline.

Dietro la diffidenza di Agostino per l'astronomia e la sua forte avversione nei riguardi dell'astrologia vi era l'adesione alle classiche credenze nei demoni, spiriti dell'aria che avevano poteri limitati ma reali in grado di causare effetti materiali. Secondo Agostino i demoni erano spesso agenti diabolici che potevano ingannare gli esseri umani inducendoli a credere nella veridicità delle predizioni astrologiche facendo sì che queste si realizzassero, conducendo in questo modo le persone al fatalismo e alla perdita della speranza cristiana. Agostino concentrò le sue argomentazioni più stringenti contro l'astrologia sull'incapacità dell'astrologo di distinguere realmente tra gli oroscopi di due gemelli nati quasi nello stesso momento. Egli ammetteva che il cielo potesse influenzare questi gemelli, ma gli astrologi non potevano indicare le differenze nel cielo per spiegare le influenze particolari che avrebbero determinato vite molto diverse per due individui nati insieme. Gli astrologi erano considerati, in questo senso, semplicemente come gli strumenti di demoni malvagi dotati di poteri reali; Agostino si opponeva loro non sulla base dell'incredulità in una reale potenza delle stelle ‒ come si potrebbe supporre in un'ottica moderna ‒ ma piuttosto per il timore che la credenza in tali poteri potesse defraudare i cristiani della speranza e della fede.

Il VI e il VII sec. testimoniarono diverse reazioni da parte dei cristiani alle varie minacce astrologiche; una delle risposte più importanti, benché indirette, fu l'enfasi crescente sui miracoli; tale fenomeno si espresse, per esempio, nelle Institutiones divinarum et humanarum litterarum di Cassiodoro, opera nella quale un chiaro sostegno allo studio astronomico era collegato a un ammonimento contro la pratica astrologica. L'astrologia non era considerata soltanto dannosa nel suo intento ma anche inattendibile nell'effetto, poiché la regolarità dei moti celesti poteva essere sospesa dalla volontà divina in qualsiasi momento. Questa insistenza sulla possibilità o anche sulla probabilità dei miracoli era un elemento frequente negli scritti di papa Gregorio I (detto Magno, 590-604) e del suo contemporaneo Gregorio vescovo di Tours; si credeva che i poteri dei demoni fossero stati ridotti dai miracoli operati da santi quali Martino di Tours e Benedetto Biscop, che rappresentavano l'autorità divina contro la diabolica fonte dei poteri demoniaci.

In Spagna il sinodo di Braga svoltosi tra il 560 e il 565 condannò le credenze astrologiche note come priscillianesimo, dal nome di Priscilliano (m. 385), che aveva sintetizzato proprio quelle convinzioni che più preoccupavano Agostino, ossia la radicata credenza nei poteri demoniaci e nel determinismo astrologico. Nel II Concilio di Braga, che si tenne circa dieci anni più tardi, le pratiche astrologiche furono nuovamente condannate. Isidoro di Siviglia nelle sue Etimologie ribadì gli stessi ammonimenti contro l'attribuzione ai dodici segni zodiacali del controllo sulle diverse parti del corpo e dell'anima, nonostante il fatto che altrove egli avesse mostrato di condividere il punto di vista classico secondo cui le stelle erano entità viventi e potevano avere un qualche tipo di influenza sul microcosmo. Nel 633, quando Isidoro presiedette il IV Concilio di Toledo in qualità di vescovo, vi fu la condanna degli ecclesiastici che consultavano maghi e astrologi; nella Francia merovingia Eligio, vescovo di Noyon (588-659/660), in un sermone si schierò apertamente contro coloro che difendevano la credenza in una vita predeterminata basata sulla 'genesi' che si poteva ricavare dalla configurazione celeste al momento della nascita. A un livello più generale, vi è la prova del persistere nel VII sec. della credenza popolare nell'influenza dei sette pianeti associati ai giorni della settimana; si credeva che questi pianeti governassero il risultato di qualsiasi iniziativa intrapresa nei rispettivi giorni. Dalla metà del VII sec., se non prima, sembra scomparso qualsiasi riferimento ai manuali pratici di astrologia nella forma classica; nel VII e nell'VIII sec. le pratiche astrologiche erano qualitative, e non dipendevano da oroscopi precisi ma da calcoli molto meno esatti.

Isidoro di Siviglia distinse con forza tra astrologia e astronomia e, anche se questa distinzione non era nuova, si spinse oltre criticando l'interesse di certi mathematici per l'influsso delle stelle. Contro costoro, dediti all'astrologia superstitiosa (Isidoro parla anche di un'astrologia naturalis) ‒ che assegna le costellazioni celesti alle parti del corpo e dell'anima e usa gli oroscopi per definire il carattere umano ‒ il vescovo di Siviglia portò il suo attacco; tuttavia, né Isidoro né qualsiasi altro scrittore latino del suo tempo (o del secolo successivo) sapeva dire come questi astrologi giungessero alle loro predizioni e quali libri utilizzassero.

Nell'intervallo di tempo che va dal VI-VII sec. al periodo carolingio, l'astrologia come credenza nelle influenze del macrocosmo celeste sul microcosmo fu separata dalla convinzione della manipolazione demoniaca dell'astrologia come modo di fuorviare i cristiani. Un esempio di poteri del macrocosmo non più ritenuti legati all'intervento dei demoni era senz'altro l'influenza della Luna su molti fenomeni terrestri, fra i quali le maree, un argomento studiato approfonditamente da Beda e da lui inserito nella sua più grande opera computistica, De temporum ratione. Una volta avvenuta la separazione fra il demoniaco e l'astrologico, con il tempo divenne possibile una nuova interpretazione dell'astrologia, che ne permise la reintroduzione nella vita cristiana.

La rinascita carolingia favorì la diffusione di alcuni scritti contenenti elementi di astrologia, che contribuirono a suscitare un nuovo interesse per la disciplina; la Naturalis historia di Plinio, per esempio, non trattava solamente di temi astronomici ma anche di argomenti specificamente astrologici, quali l'importanza dei pianeti e il significato dei loro colori. Macrobio, nel commento al Somnium Scipionis, presentava in un diagramma i modelli zodiacali per il calcolo delle case diurne e notturne dei pianeti, e discuteva inoltre del 'grande anno', un ciclo cosmico che egli stimò della durata di 15.000 anni. Ciò indusse il monaco Dungal, che nell'811 scriveva a Carlo Magno, a entusiasmarsi per l'abilità degli antichi filosofi della Natura che sapevano come predire le eclissi e altri eventi celesti in un futuro anche lontano. Gli Aratea furono pubblicati e riprodotti ampiamente in differenti versioni, generalmente con illustrazioni che resero più chiare e familiari ai Carolingi e ai lettori successivi le classiche rappresentazioni delle costellazioni.

Testi medici contenenti pronostici e persino suggerimenti di astrologia medica precedettero l'epoca carolingia e alimentarono, durante il IX sec., il crescente interesse per questo argomento. Alla fine del quarto libro delle Etimologie, Isidoro accennava al fatto che alcuni medici, studiando l'astronomia e i cambiamenti stagionali, avessero scoperto che i corpi umani erano mutati dalle proprietà dei corpi celesti. Il De temporum ratione di Beda, in mezzo a paragrafi sul corso della Luna, includeva brani tratti dalle opere di Ambrogio e Basilio riguardanti gli effetti della Luna sugli umori e alcune conseguenze mediche. Un capitolo del De natura rerum di Isidoro esponeva, sia nel testo sia in forma di diagramma, la più generale dottrina della corrispondenza tra i quattro elementi, le quattro stagioni e i quattro umori, collegando in un'interrelazione ciclica la composizione del Cosmo, il trascorrere dell'anno e i fluidi vitali del corpo umano. Dal IX sec. in poi ci sono pervenuti diversi calendari medici mensili che prescrivevano diete, purghe, salassi e altri elementi per un regime appropriato in ogni mese dell'anno; in alcuni manoscritti sul computo comparivano predizioni per ogni giorno del mese lunare, che costituivano una vasta gamma di pronostici e presumevano l'azione causale della Luna. Nel IX sec. l'approfondimento e l'elaborazione ulteriore di testi medici di questo tipo crearono un clima molto favorevole per il rinnovamento della conoscenza astrologica, attingendo a un passato notevolmente vario; in alcuni manoscritti delle Etimologie, per esempio, si trova anche un'antica interpolazione premusulmana che reca disegni delle relazioni astrologiche di congiunzione, sestile, trigono, quadratura e opposizione.

L'atteggiamento della Chiesa nei confronti di questi testi è indicato, almeno in parte, dal semplice fatto che sia i copisti sia coloro che ne citavano i brani, nonché i maestri, erano ecclesiastici; al di là di questo, comunque, l'opinione sugli astrologi cambiò a partire dalla metà del IX secolo. Nella Tarda Antichità i commentatori del vangelo di Matteo avevano opinioni diverse sui magi che seguirono la stella fino al luogo di nascita di Gesù; erano tutti concordi sul fatto che questi magi fossero astrologi, ma sulle caratteristiche degli uomini e della loro scienza non vi era accordo. Mentre Girolamo, per esempio, li considerava uomini saggi e rispettati provenienti dalla Persia, Agostino scrisse delle loro pratiche peccaminose e del loro carico di colpe prima della conversione provocata dall'aver trovato Gesù; egli non era il solo a darne questa valutazione (Tertulliano aveva detto cose analoghe) ed è quindi degno di nota il fatto che Rabano Mauro, commentando Matteo, rappresentasse i magi come rispettabili filosofi la cui conoscenza delle stelle chiariva il loro corso naturale, in accordo con la branca non superstiziosa dell'astrologia descritta da Isidoro di Siviglia. Le opinioni di Rabano Mauro imponevano rispetto e inducevano a una nuova apertura verso un'astrologia liberatasi ormai dalla credenza nei demoni e raffinata dal riconoscimento di un'efficacia soltanto fisica e non spirituale. Se l'astrologia non era ancora pienamente accettata dalle autorità cristiane, tuttavia le era dato ascolto e la possibilità di essere messa alla prova.

Durante i secc. X e XI la storia dell'astrologia diventò molto più complicata. Da una parte, proseguì la produzione di pronostici medici, inclusi quelli presenti nei testi computistici, come un corpo di affermazioni non tecniche e a volte incoerenti sugli effetti previsti del mondo esterno sul corpo umano; dall'altra parte, nel X sec. comparvero nuovi scritti che presentavano e a volte utilizzavano effettivamente nuovi strumenti, più tecnici e spesso numerologici, per predire il futuro. Uno dei primi testi di questo genere fu la Lettera di Petosiris, che insegnava la divinazione numerologica basata sulle case lunari e sul nome della persona designata; altre due brevi opere numerologiche, note con i nomi di La sfera di Pitagora e La sfera di Apuleio e che generalmente includevano un'illustrazione descrittiva, diffondevano procedure per predire vita e morte, fortuna e sfortuna. Verso la fine del X sec. si diffusero il Libro di Alhandreus ‒ presunto scritto di Alessandro Magno ‒, che presentava alcuni brevi testi di astrologia giudiziaria, e il trattato Ut testatur Ergaphalau, che era concettualmente più sofisticato ma non apportava alcun contributo tecnico e proponeva un nuovo collegamento tra le discipline scientifiche: l'aritmetica, la geometria e l'armonia erano propedeutiche alla physica, che a sua volta era una combinazione di medicina e astronodia (una disciplina della quale facevano parte astronomia e astrologia, che insegnava a praticare un'astrologia sia contemplativa sia attiva, manipolativa). Il trattato riconosceva dunque uno status elevato all'astrologia, che produceva predizioni basate sulla matematica.

A partire dall'inizio del XII sec. gli Occidentali riscoprirono la tradizione greco-araba, e già durante l'XI sec. l'uso dell'astrolabio era stato gradualmente appreso attraverso testi tradotti in modo incompleto e glossati in Occidente. Nel XII sec. si diede un nuovo rilievo alle tavole astronomiche, e nel 1120 Walcher di Malvern produsse un insieme di tabelle per calcolare le posizioni del Sole, della Luna e dei nodi lunari, e anche degli altri pianeti (utilizzando a questo fine una fonte araba) e, inoltre, presentò le relative posizioni in gradi, minuti e secondi invece che in forma di frazioni romane. La prima metà del XII sec. vide un grande fiorire di traduzioni dall'arabo, dall'ebraico e dal greco; uno dei primi traduttori latini, Adelardo di Bath, era interessato tanto all'astrologia e alla magia quanto all'astronomia, e tra le sue traduzioni vi fu quella di parte del Centiloquium di Tolomeo. Durante questo primo periodo d'intensa traduzione dall'arabo, principalmente nella Spagna musulmana vi fu maggiore interesse per i testi astrologici piuttosto che per quelli astronomici, e tra i libri tradotti vi furono importanti opere astrologiche di Abū Ma῾šar, Māšā᾽Allāh, al-Kindī e Tolomeo. Queste opere, insieme a una molteplicità di tavole astronomiche, costituirono in modo nuovo gli strumenti per lo sviluppo dell'astrologia matematica, una disciplina considerata nelle università medievali parte essenziale della preparazione dei medici; ciò che i teologi cristiani della Tarda Antichità avevano fortemente osteggiato e condannato si era dunque trasformato e si ripresentava come lo studio legittimo degli effetti della Natura sul corpo umano.

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