La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. La medicina

Storia della Scienza (2002)

La Rivoluzione scientifica: i domini della conoscenza. La medicina

Andrew R. Cunningham

La medicina

Introduzione

Per inquadrare la trattazione della medicina del XVII sec. all'interno di quella che viene convenzionalmente chiamata Rivoluzione scientifica, dovranno essere prese in considerazione le innovazioni sia di carattere teorico sia pratico in questo settore, nonché le ricerche condotte da medici e da altri studiosi al fine di approfondire la conoscenza medica. I criteri di innovazione e di progresso possono essere identificati nella sperimentazione, nel fatto che si privilegi la conoscenza diretta della Natura rispetto alle autorità classiche, le cui conoscenze sono sottoposte a critica e a verifica, e infine nell'uso del ragionamento e dei metodi razionali. Potremmo anche sperare di rinvenire un qualche tipo di utilizzo della matematica, per esempio statistico, nello studio delle malattie. Vedremo che tutto questo si è effettivamente verificato, perché nell'Europa del Seicento gli uomini di medicina erano particolarmente attivi nello studio delle scienze naturali. Occorre tuttavia sottolineare che queste ricerche non erano solitamente coordinate tra loro e che quindi contribuirono assai poco a migliorare la pratica medica, la salute della popolazione e le condizioni del malato. Infatti le nuove ricerche mediche non erano quasi mai finalizzate a portare avanti un progetto prestabilito o una grande teoria ‒ anche se alcuni elaboravano ampie teorizzazioni ‒ ma erano solitamente condotte in ambiti locali, a prescindere da un desiderio più largamente condiviso di approfondire il pensiero medico.

Prima di esaminare gli elementi innovativi della medicina del XVII sec., è necessario tuttavia sottolineare che tali innovazioni sono state in realtà relativamente rare, anche se hanno lasciato tracce significative nei libri stampati e nei manoscritti. Innanzitutto è certo che nella società europea di quel periodo era rara la presenza di personale medico qualificato, che si trattasse di medici, di chirurghi o di speziali. Se invece consideriamo la pratica medica nella sua accezione più ampia, che comprende qualsiasi attività finalizzata al mantenimento della salute e alla cura delle malattie, allora troviamo che essa era svolta da incolti, ignoranti e illetterati che operavano in una cerchia ristretta di parenti e vicini di casa oppure si spostavano da un paese all'altro in cerca di pazienti cui vendere la propria abilità, che fosse reale o presunta.

Questo genere di pratica medica era prerogativa pressoché esclusiva delle donne: una donna del posto poteva assistere le partorienti in qualità di 'levatrice', nonché preparare le salme per i riti funerari; un'altra poteva aver appreso dalla propria madre i segreti di una qualche pozione erbacea o come preparare rimedi a base di piante locali; anche la manipolazione delle ossa fratturate era spesso praticata da una donna, detentrice di un sapere trasmesso di generazione in generazione. A volte queste donne appartenevano a uno status sociale relativamente elevato. Così le necessità mediche di intere comunità, specialmente nelle campagne, erano soddisfatte in questo modo strettamente locale, integrato dalle frequenti visite di 'esperti' ambulanti quali 'conciaossi', oculisti (molti dei quali rimuovevano la cataratta), litotomisti (specializzati nell'asportazione dei calcoli urinari) e cavatori di denti. Una parte di questa medicina 'folcloristica' era efficace o quantomeno non dannosa (di solito la gente sopravviveva alle cure), ma per lo più si trattava soltanto di una forma di superstizione, di magia e di astrologia. Dal punto di vista dell'uomo istruito, questo sapere era di infimo rango, poiché non si basava su alcun tipo di comprensione del funzionamento del corpo umano e non si fondava su alcuna conoscenza sistematica delle 'virtù' (ovvero le qualità benefiche e curative) delle piante o delle loro proprietà chimiche.

Alcuni scienziati, come Robert Boyle in Inghilterra, ritenevano che il sapere tradizionale degli illetterati andasse studiato, allo scopo di scoprire se contenesse elementi validi e di più ampia portata. Tuttavia, viste le carenze palesi di questo tipo di conoscenza, essa era normalmente condannata come 'empirica', ossia basata soltanto su un'esperienza personale molto limitata, e non sulla verifica ripetuta né sulla riflessione razionale. È da notare però che nel corso del Seicento, nell'ambito della medicina, il termine 'empirico' acquisì un significato nuovo, poiché alcuni aspetti della sperimentazione richiedevano l'uso dell'esperienza sensoriale diretta, e quindi gli sperimentatori colti si accorsero di agire in maniera empirica.

La tipica visita di un medico, di un chirurgo o di un farmacista esperto e preparato era sempre finalizzata a un unico caso. Il medico poteva annotare informazioni sui casi clinici esaminati, ma di solito una visita non lasciava dietro di sé alcun dato che potesse essere confrontato con altri o sottoposto ad analisi statistica. Il medico non era tanto interessato a scoprire cosa accadesse nei diversi casi di una stessa malattia, quanto a casi eccezionali, quali una guarigione inattesa, un nuovo rimedio o una malattia insolita. Il medico o il chirurgo istruito lavoravano di fatto in un contesto culturale in cui ciascun caso era considerato unico. Ovviamente il medico sapeva che esistevano alcune malattie 'generali' e ricorrenti, come per esempio il vaiolo, cui tutti erano soggetti, ma ogni caso era comunque valutato singolarmente, perché la manifestazione, il decorso e la sua cura più appropriata dipendevano dalle caratteristiche specifiche di ciascun paziente.

È bene inoltre ricordare che anche il più progredito dei medici del XVII sec. era convinto, sia pure in maggiore o minore misura, dell'importanza degli influssi astrali sulle malattie. La maggior parte credeva anche alla possibilità che in determinate circostanze le malattie fossero causate dalle streghe o dal demonio. Per esempio, il celebre medico e scrittore Sir Thomas Browne ‒ vissuto a Norwich, in Inghilterra, e spesso esaltato dagli storici odierni come fulgido esempio di razionalità per il suo atteggiamento verso la religione, quale risulta dal suo trattato Religio medici del 1642 ‒ quando nel 1664 fu chiamato a deporre in qualità di esperto al processo intentato contro due donne accusate di stregare i bambini, argomentò a favore dell'accusa e sostenne che si trattava dell'opera del demonio. Egli affermò che le crisi convulsive dei bambini erano naturali e che quello che avevano di fronte era un esempio di isteria, ma in quel caso "acutizzata ed esasperata a dismisura dall'astuzia del demonio, cui collabora la malizia di quelle che chiamiamo streghe" (A tryal of witches, p. 16). Il maligno, per il tramite delle streghe sue allieve, si avvaleva di mezzi naturali per perseguire astutamente i suoi fini perversi e diabolici. Le donne furono giudicate colpevoli e condannate a morte.

Nell'opera del 1605 The two books of the proficiency and advancement of learning, Francis Bacon espose il suo pensiero su come la totalità del sapere, delle cose divine e umane, dovesse progredire. Alcuni storici hanno visto in questo trattato una prima manifestazione della cosiddetta Rivoluzione scientifica. In esso Bacon criticava la medicina tradizionale e indicava la direzione da seguire per farle conseguire i necessari progressi. Benché non sia ancora chiaro se ci siano stati individui o gruppi che abbiano fatto proprio questo grande progetto e tentato di applicarlo sistematicamente, possiamo utilizzare alcune di queste osservazioni sullo stato dell'arte della medicina all'inizio del XVII sec.: "La medicina [...] è una scienza che è stata più professata che coltivava, e coltivata più che fatta progredire, ché nel coltivarla, a mio parere, ci s'è proceduto in circolo piuttosto che in avanti. Trovo infatti molte ripetizioni, ma poche acquisizioni nuove" (Scritti filosofici, p. 246).

La diatriba tra medicina galenica e medicina chimica

Una controversia di importanza basilare all'interno della medicina era quella, sorta nel XVI sec., tra la tradizionale medicina galenica e la nuova medicina paracelsiana. Nelle università si insegnava la medicina basata sulla teoria galenica dei quattro umori (il sangue, la bile nera, la bile gialla e il flemma), che, in condizioni di salute, si trovavano nel loro giusto equilibrio. Tale equilibrio era differente nelle diverse persone, perché l'età, lo stile di vita, la storia medica personale e il sesso del paziente contribuivano a rendere ciascuna situazione unica. Uno squilibrio poteva verificarsi a causa del cattivo funzionamento di alcuni organi oppure in seguito a un'ostruzione dei vasi. Il principale metodo di cura consisteva nel salasso e il medico doveva essere molto abile nel calcolarne la quantità necessaria, la frequenza, la durata, la direzione e così via. Questo spostamento artificiale del sangue poteva avere l'effetto di ridurne l'eccesso, di allontanarlo da un'infiammazione o di liberare i vasi da un'ostruzione. Oltre ai salassi, il medico galenico si serviva di preparazioni a base di piante per purgare, provocare il vomito, rimettere in forze e dare ristoro. L'uso dei vari metodi era finalizzato a promuovere il riequilibrio rappresentato dalla salute: le malattie 'calde' venivano combattute con i rimedi 'freddi' e viceversa. Questa teoria, pur sottoposta a non poche sfide dal punto di vista sia fisiologico sia farmacologico, seguitò a essere insegnata nelle facoltà di medicina delle università per tutto il XVIII secolo.

Benché Galeno non fosse cristiano, ma pagano, la sua teoria medica non era in alcun modo in contrasto con la dottrina del cristianesimo. D'altro canto, intorno alla metà del XVI sec., era sorto un nuovo tipo di medicina, deliberatamente cristiana nell'ispirazione e nell'espressione, predicata e praticata da Paracelso (Philipp Theophrast Bombast von Hohenheim). Basandosi su un'interpretazione 'spiritualistica' ‒ nettamente protestante ‒ del cristianesimo, l'approccio paracelsiano disdegnava la lettura dei testi, specialmente se scritti da autori non cristiani, e si affidava invece all'ispirazione proveniente dallo Spirito Santo. Paracelso credeva che soltanto le persone che avevano un'esperienza interiore diretta dello Spirito Santo potessero avere un'esperienza interiore diretta di Dio, e che soltanto chi aveva un'esperienza interiore diretta di tutte le cose del creato potesse averne una vera conoscenza. Il medico paracelsiano apprendeva le proprietà delle cose che gli servivano per curare tramite l'ispirazione interiore dello spirito che lo istruiva.

Paracelso, a questo proposito, scrisse: "È la natura stessa che insegna tutte le cose, e ciò che essa non può insegnare lo riceve dallo Spirito Santo che la istruisce. Perché lo Spirito Santo e la natura sono una cosa sola, ovvero: ogni giorno la natura rifulge come una luce che proviene dallo Spirito Santo, e da questo apprende, e in tal modo questa luce raggiunge l'uomo, come in un sogno. Tutto ciò che proviene dalla luce della natura deve essere appreso dalla luce della natura" (Selected writings, pp. 255-256).

Bacon nell'Advancement of learning affermò che "di recente […] la scuola di Paracelso […] ha preteso di ritrovare la verità di tutta la filosofia naturale nelle Scritture, condannando e travisando ogni altra filosofia come pagana o profana. Ma non è tale ostilità tra le parole di Dio e le sue opere" (Scritti filosofici, p. 356). Ciononostante, l'approccio medico di Paracelso affascinò molti, specialmente quando, a partire dalla fine del Cinquecento, furono stampate molte edizioni delle sue opere. I suoi adepti erano soprattutto i cristiani mistici o spiritualisti (specialmente calvinisti), i poveri e coloro che si sentivano ispirati; solitamente era poco gradito ai cattolici. La sua teoria nacque e fu inizialmente praticata soltanto al di fuori delle università, ma nel corso del tempo alcuni suoi elementi finirono per essere recepiti dalle persone istruite e insegnati in alcune università; il suo valore rimase comunque controverso, sia perché si basava su una logica differente da quella della medicina galenica (non era razionalista e non riconosceva alcun ruolo all'anatomia), sia perché le diagnosi di Paracelso risultavano del tutto diverse da quelle della tradizione classica (si basavano sulle forze spirituali attive nel mondo e nel paziente), sia perché la preparazione delle medicine paracelsiane si avvaleva di una procedura empirica particolare, quale l'utilizzo di una fornace per purificare i medicamenti, specialmente se a base di minerali. Gli storici hanno ravvisato nelle preparazioni paracelsiane un punto di svolta nella storia della chimica, sorvolando tuttavia sull'interpretazione eminentemente spiritualistica che Paracelso e i suoi seguaci davano delle operazioni alchemiche che eseguivano.

Per un medico paracelsiano, il vero medicamento per una determinata malattia era un arcanum, termine che significa letteralmente 'segreto', 'mistero'. Compito del medico era quello di estrarre la parte spiritualmente attiva delle cose dal suo involucro materiale, per mezzo della chimica o dell'alchimia (i due termini erano intercambiabili). Eseguendo con l'alchimia le separazioni dello spirituale dal materiale, il medico paracelsiano assisteva Dio stesso nel divino lavoro di perfezionare e purificare le cose in vista della loro meta spirituale. Il grande vantaggio delle medicine chimiche, secondo i paracelsiani, stava nella maggiore potenza ed efficacia della loro azione: infatti esse si basavano interamente su ingredienti attivi che, anziché ripristinare l'equilibrio degli umori, andavano direttamente a influire sulla causa della malattia.

Una delle figure più importanti tra i paracelsiani dell'inizio del XVII sec. fu il fiammingo Jan Baptista van Helmont (1579-1644), i cui scritti furono raccolti e pubblicati in latino dal figlio, ad Amsterdam nel 1648, con il titolo di Ortus medicinae, a indicare appunto che la vera medicina era appena incominciata. Van Helmont sosteneva di aver percorso l'intero iter formativo medico tradizionale, ma di avervi trovato soltanto falsità e inganni:

Dopo dieci anni di viaggi e di studi, dopo la mia laurea in medicina, presa a Lovanio, alla fine, nell'anno 1609, essendo ormai sposato, mi ritirai dalla gente comune, a Vilvord [vicino Bruxelles], dove, essendo il posto meno trafficato, potevo procedere diligentemente a osservare i regni delle piante, degli animali e dei minerali con una curiosa analisi e dischiudendo, aprendo corpi e separando tutte le cose, e andai avanti a cercare per sette anni interi. Cercai nei libri di Paracelso, zeppi ovunque di una beffarda oscurità e difficoltà, e ammirai quell'uomo, e lo onorai troppo: finché finalmente mi fu concesso di comprenderne le opere, e gli errori. [...] E finalmente, avendo appreso perfettamente che le proprietà o i poteri corporei erano legati ai loro principî o inizi, e che questi non possono degnamente essere conosciuti se non dopo averne aperte le serrature, rivolsi un inno al mio Dio, [...] essendo ricompensato con la dolcezza della conoscenza dell'adepto. (p. 12)

Al di là della sua attendibilità, questo racconto del viaggio di van Helmont alla ricerca della verità contiene tutti gli elementi tipici di un'iniziazione agli alti misteri. Comincia con il sopravvenire di una chiara consapevolezza del fatto che il vecchio sistema non è altro che inganno e follia, prosegue con un allontanamento di sette anni dal mondo delle conoscenze comunemente condivise, per finire con il raggiungimento di una nuova consapevolezza, grazie all'esperienza personale, realizzata attraverso lo studio di piante, animali e minerali. La comprensione degli oscuri concetti di Paracelso non è acquisita mediante uno sforzo umano, ma è concessa da Dio e van Helmont riconosce infine che soltanto ricercandone "i principî o gli inizi" avrà la possibilità di cogliere appieno i poteri delle cose della Natura. Egli è divenuto un 'adepto', termine questo con cui gli alchimisti stessi si riferivano a quelli tra loro che erano giunti a conoscere il grande segreto. Van Helmont e i suoi seguaci cercavano la vera conoscenza anche nei sogni e nelle visioni. La strada che conduce alla verità non è quella della ragione, poiché soltanto la luce dell'ispirazione illumina la verità di Dio.

Come dovrebbero essere formati i giovani medici secondo van Helmont?

Lasciate che vengano verso lo studio della Natura, che imparino a conoscere e a separare i principî primi dei corpi. Io dico di aver conosciuto, lavorando, sia la loro costanza, volatilità o rapidità sia la loro separazione, la loro vita, la loro morte, la loro intercambiabilità [...]. Lasciate anche che gli vengano insegnati i principî dei semi, dei fermenti, degli spiriti e delle tinture. [...] E tutte queste cose, non mediante la nuda descrizione di un discorso, ma grazie alla dimostrazione [...] pratica del fuoco. L'artificiere, modificando le operazioni della natura, ne ottiene le proprietà e la conoscenza. Perché, per quanto naturale possa essere l'ingegno del filosofo e per quanto acuto il suo giudizio, egli non viene in nessun caso ammesso alle radici o alla conoscenza radicale delle cose naturali, senza il fuoco. (ibidem, p. 50)

Diversi storici affermano che a van Helmont si deve la concezione ontologica della malattia, un valido contributo allo spirito della Rivoluzione scientifica. Occorre chiedersi se egli riconducesse davvero la malattia o, più precisamente, la causa della malattia, a una qualche entità materiale, piuttosto che a un disturbo dell'equilibrio degli umori interni, come avrebbero fatto i galenici, e se questa entità materiale fosse effettivamente ritenuta viva e proveniente dall'esterno del corpo, precorrendo così la moderna nozione di malattia contagiosa e la teoria dei germi. Di sicuro van Helmont definiva la malattia "un ospite sconosciuto" e scriveva che "ogni malattia è per la vita nient'altro che una spada, che la ferisce o la stronca del tutto" e che "una malattia è un'entità realmente autonoma". Analogamente scriveva che "le malattie derivano da una causa seminale efficace, concreta, vera e reale, caratterizzata da un seme, un genere, una specie e un ordine", ritenendo che molte malattie fossero contagiose; infine egli sosteneva che rimuovendo la causa si eliminava la malattia. Tuttavia sarebbe inappropriato considerare van Helmont un uomo moderno che precorreva i suoi tempi o paragonare le sue teorie sulla natura delle malattie alle nostre.

Secondo la teoria di van Helmont, il corpo sano funziona grazie a una serie di operazioni chimiche o alchemiche. Nella digestione il cibo è trasformato da una serie di fermenti, secondo un processo digestivo a sei stadi. Il primo e più importante fermento si trova nello stomaco, il secondo nella milza. Non si tratta di un mero processo chimico, perché ciascun fermento è controllato e regolato da quello che van Helmont chiama l'archeus, un termine di derivazione greca, che significa 'inizio'; gli archei sono i 'principî' o gli 'inizi' che il bravo medico cristiano deve conoscere, quantomeno nel loro funzionamento, per poter comprendere e curare il corpo. Si tratta di una sorta di spiriti guida, che lavorano per conto dell'anima sensibile e che uno storico moderno ha definito come "i principî dinamici della materia" (Pagel 1972, p. 439). Gli archei dello stomaco e della milza governano efficacemente il corpo come in un duunvirato. Poiché da essi dipendono una digestione e un'assimilazione sana, van Helmont concludeva che la malattia o il disturbo deriverebbero da un cattivo funzionamento degli stadi della digestione, e in particolare di quello che ha luogo nello stomaco. Ne consegue che è il relativo archeus a necessitare dell'attenzione del medico helmontiano.

In ultima analisi, questa teoria considera la malattia un''idea' posseduta da un 'fermento alieno' che la impone all'archeus, i cui processi seguono infine le istruzioni indicate dall'idea del fermento. Quello per cui un qualcosa di materiale può possedere un'idea e imporla all'archeus vivo, è un concetto che van Helmont riteneva di derivare da Platone. Secondo questa teoria esistono molte, differenti e specifiche idee, o semi delle malattie, ciascuna in grado di fuorviare un particolare archeus del corpo umano o di quello animale e di provocare in tal modo uno specifico disturbo. Per essere esatti, ciascuna malattia possiede una sua identità specifica ‒ il vaiolo è sempre vaiolo, a prescindere da chi ne sia infettato ‒ perché ciò che è esperito come malattia è l'archeus fuorviato, e di conseguenza gli stessi processi corporei sono alterati, secondo le modalità proprie di quella specifica idea e di quello specifico archeus. Naturalmente questi semi delle malattie sono invisibili e van Helmont non sentiva l'esigenza di verificare empiricamente o sperimentalmente la loro esistenza.

Una tale concezione delle cause delle malattie era indubbiamente nuova o addirittura rivoluzionaria e per questa sua originalità, nel corso del Seicento, fu tanto difesa quanto attaccata. Tuttavia, sarebbe fuori luogo assimilare queste 'idee seminali' ai nostri batteri e virus patologici, tanto più che non esiste alcun nesso storico tra le due categorie concettuali; gli ideatori della teoria dei germi, del XIX sec., non guardarono a van Helmont e ai suoi seguaci né partirono da ciò che essi avevano scritto. Nel XVII sec. il suo influsso durò soltanto un paio di generazioni e non sembrò influenzare significativamente nemmeno la medicina dominante, ossia galenica.

Inoltre, poiché il pensiero medico di van Helmont aveva un'impostazione religiosa, fu accolto e recepito in primo luogo in un contesto profondamente, anzi ossessivamente, cristiano. Egli inscriveva il funzionamento del corpo nell'ambito del funzionamento dell'Universo nel suo complesso e sosteneva che se non si comprendono le meteore, non si comprendono neanche le malattie. Quel che serviva era una filosofia naturale completamente nuova.

Agli inizi del Seicento, faceva ancora scalpore una specifica cura, derivata da Paracelso e adattata da van Helmont e da altri medici, che continuò a destare interesse anche dopo il 1660. Essa rappresentò per un periodo il centro del conflitto tra i galenici e i paracelsiani. Si trattava del trattamento con il cosiddetto 'unguento armario', che serviva a curare le ferite da taglio e poteva essere praticato anche a grandi distanze. I principali ingredienti dell'unguento erano ossa umane, grasso, sangue e muschio, cresciuto su un vecchio teschio (la ricetta esatta poteva riportare piccole variazioni); esso doveva essere spalmato sull'arma e non sulla ferita, affinché questa col tempo si potesse rimarginare, anche nel caso in cui fosse molto lontana dall'arma. Secondo van Helmont il trattamento funzionava oltre che sugli uomini, anche sui cavalli. Il grande interesse destato da questa cura era dovuto non soltanto alla notevole frequenza di ferite da armi da taglio riportate in duello o nella lotta, ma anche alle questioni filosofiche, cosmologiche e religiose implicate.

Da un'ottica moderna, l'aspetto più sorprendente di questa diatriba era che nessuno sembrava negare l'efficacia della cura e il contendere riguardava esclusivamente in che modo essa potesse funzionare. Goclenius (Rudolph Göckel), un medico che nel 1608 a Marburgo pubblicò uno scritto sull'unguento armario, riteneva che agisse mediante relazioni simpatetiche. Goclenius era un calvinista, nonché un filosofo occultista, che credeva nell'azione nel mondo dello spirito astrale e di quello divino; la cura si sarebbe dunque basata sull'azione di una sostanza spirituale, il vector spiritus, che recava alla ferita le virtù curative dell'unguento. Van Helmont lesse questo lavoro criticandone la confusione tra simpatia e magnetismo. Era infatti a quest'ultimo che doveva essere ascritto il potere attivo, come sostenne in una risposta pubblicata nel 1621 e intitolata De magnetica vulnerum […] curatione. Da lontano, attivamente, l'unguento aspirava via, magneticamente, le proprietà nocive dai lembi della ferita. Il "balsamo naturale" del sangue che si era seccato sulla spada aveva una simpatia naturale con il sangue che era rimasto nella persona ferita e comunicava questa simpatia naturale per mezzo del "grande spirito" presente nell'intero Universo, che promuoveva e comunicava occulte virtù e azioni. Era il grande spirito a rendere possibili il magnetismo e l'attrazione a distanza. Dunque, la cura dell'unguento armario era un caso di magia naturale.

Altri studiosi si occuparono della questione: Robert Fludd, membro del London College of Physicians e mistico neoplatonico, nel 1623 sostenne che il sangue era imprescindibile per la cura, poiché gli spiriti vitali presenti nel sangue rimasto sulla spada rispondevano simpateticamente a quello che si trovava ancora nel corpo della persona ferita; Daniel Sennert (1572-1637), professore di medicina all'Università luterana di Wittenberg, molto interessato ai farmaci chimici, pur essendo contrario alle teorie di Paracelso, riteneva invece che per la cura fosse sufficiente tenere pulita la ferita e affidarsi alla Natura.

Van Helmont non fu il solo a criticare il libro di Goclenius. Nel 1616 un gesuita, Jean Roberti, sferrò una controffensiva, accusando Goclenius di idolatria (in quanto difendeva l'utilizzo di amuleti e di sigilli magici), di necromanzia (perché sosteneva di manipolare gli spiriti) e di blasfemia (in quanto attribuiva virtù magiche alla Grazia divina). Roberti affermò inoltre che l'unguento armario provocava i suoi effetti direttamente attraverso il diavolo. Tra le questioni dibattute vi era quella della Provvidenza divina: mentre Goclenius asseriva che i processi naturali erano sotto il dominio diretto di Dio, e che quindi l'unguento armario agiva mediante gli spiriti creati, Roberti sosteneva la posizione cattolica, secondo la quale non esisteva alcuna spiegazione naturale adeguata degli effetti della cura e dunque, in base alla dottrina della Provvidenza, ciò che non era naturale era un miracolo oppure opera del demonio. Peraltro, nel 1651, i gesuiti condannarono formalmente la proposizione secondo la quale era possibile un'azione a distanza mediata da proprietà naturali, negando così la possibilità di trattamenti a distanza, quali la supposta cura dell'unguento armario.

Nell'Ortus medicinae, van Helmont aveva affermato che "è evidente che le proprietà magnetiche dell'unguento provengono da Dio, in maniera naturale, e non da Satana" (p. 76), ma nemmeno questo fu sufficiente a evitare che egli venisse processato dalla Chiesa cattolica per eresia e per adesione alle mostruose superstizioni di Paracelso. La Chiesa attaccò van Helmont per quasi vent'anni ed egli fu costretto a fare ammenda dei propri errori e a rimanere per molti anni agli arresti domiciliari.

Per dimostrare che il diavolo non era chiamato in causa, i sostenitori della legittimità della cura dell'unguento armario fecero anche alcuni esperimenti. Walter Charleton, un chimico che viveva e scriveva a Londra negli anni Quaranta del XVII sec., affermò di aver convinto un dottore in teologia mediante il seguente esperimento: al teologo fu consegnata la polvere magnetica, insieme a un pezzo di stoffa macchiato con il sangue di un uomo che era stato recentemente ferito e che non era presente: gli fu quindi chiesto di spargere la polvere sul pezzo di stoffa, negando solennemente di invocare un qualsiasi aiuto da parte di Satana. Il signore ferito, del tutto ignaro dei mezzi utilizzati, guarì rapidamente e il teologo si convertì alla dottrina del magnetismo, perché era finalmente certo che essa non implicava alcun patto col diavolo.

Francis Bacon, nella Sylva sylvarum or a natural history, del 1627, inserì la cura dell'unguento armario tra i molti esperimenti sulla trasmissione e sugli influssi delle proprietà immateriali, affermando di non essere del tutto incline a credervi, senza dichiarare di averla sottoposta a verifica.

Una causa era occulta quando non era accessibile ai sensi. Il principale modello utilizzato era quello del magnete, la cui capacità di attrarre il ferro era un fatto ben visibile, senza che la causa fosse perspicua. Un altro esempio proposto da van Helmont e da altri era quello delle persone che reagivano fisicamente (ovvero allergicamente) alla presenza di un gatto, anche quando essa non era evidente, per esempio perché l'animale era chiuso in un armadio. L'intera teoria degli influssi e delle proprietà occulte era basata su un ristretto numero di questi fenomeni, difficili da spiegare, sebbene familiari.

I filosofi ermetici come van Helmont e i suoi seguaci avevano una vera passione per i poteri occulti ed erano sempre alla ricerca di casi di cura o malattia che non implicassero alcun contatto diretto. La medicina galenica, fondata com'era sulla fisica aristotelica, asseriva che non poteva esservi azione senza contatto e di conseguenza che non poteva esistere nessuna cura a distanza, senza contatto tra corpo e medicamento. Per gli ermetici, invece, il dato di fatto delle cure a distanza, e naturalmente delle malattie a distanza (quali gli effetti del morso di un cane rabbioso), serviva a legittimare la loro concezione di un Universo pieno di forze attive occulte. Questo spiegava la profonda fiducia che costoro nutrivano in quelle che a noi sembrano storie altamente improbabili. Fludd, per esempio, quale prova evidente di come l'Universo agisse simpateticamente, raccontò la storia di un nobiluomo italiano che aveva perso il naso in un duello. Il nobiluomo era stato esortato dal medico a farsi fare un naso nuovo con la carne di uno dei suoi servi. Si trattava di un'operazione che era stata perfezionata, sul finire del XVI sec., a Bologna, da Gaspare Tagliacozzi. Si praticava un'incisione sulla pelle del braccio e il lato tagliato del lembo era applicato nella sede del naso mutilato. Quando, dopo qualche tempo, il trapianto aveva attecchito, poteva essere reciso anche l'altro lato del lembo, che veniva così staccato dal braccio. Nel corso dell'intervento, che richiedeva diverse settimane, il braccio del donatore era tenuto immobilizzato vicino al viso del paziente. Nell'episodio narrato da Fludd, il servo fu liberato e se ne andò a Napoli, ma in seguito morì. Quando il suo corpo iniziò a decomporsi, il nuovo naso del nobiluomo subì lo stesso processo, benché si trovasse a molte miglia di distanza. Infatti, secondo Fludd, la carne e il sangue dello schiavo erano in completa simpatia: quando una parte morì, morì anche l'altra, nonostante fossero separate da miglia e miglia. Una volta adeguatamente 'ritoccato', il nobiluomo ebbe un naso nuovo fatto con la pelle del suo stesso braccio, secondo la procedura che era poi la più usuale. Era impossibile spiegare un simile evento in base ai principî aristotelici o galenici. D'altra parte, si trattava del tipo di storie cui i galenici non davano comunque molto credito.

Le cause occulte, per esempio degli avvelenamenti e delle malattie contagiose, furono riconosciute e anche approfonditamente studiate dai medici galenici e in particolare, verso la metà del XVI sec., da Jean-François Fernel e, intorno alla metà del XVII sec., da Francis Glisson. Poiché le cause erano occulte (ossia nascoste), l'indagine non poteva che essere puramente mentale. Nella filosofia aristotelica le cause occulte erano considerate la 'forma' ovvero la 'sostanza' del veleno o dell'aria corrotta.

Nel De chymicorum cum Aristotelicis et Galenicis consensu et dissensu liber (1619), Sennert tentò di stabilire se veramente esistessero differenze tra la posizione dei chimici e quella dei galenici. Benché affermasse di voler riconciliare le due parti, Sennert, che non nutriva simpatia per i chimici, li accusò di rendere oscure le cose chiare, di dare nomi nuovi e poco comprensibili alle cose vecchie, di teorizzare una filosofia naturale incoerente e illogica, di essere impostori, di proporre versioni della Creazione delle cose e delle loro proprietà, in contrasto con le Scritture, di ammiccare alla magia satanica (non a quella naturale), di essere incoerenti e assurdi. Per Sennert, l'aspetto valido dell'approccio chimico era costituito dai farmaci più puri e attivi, ma anche in questo ambito egli riteneva che l'antimonio e il mercurio dei chimici non fossero altrettanto efficaci delle preparazioni galeniche tradizionali, a base di cassia, tamarindo, senna, rabarbaro e simili.

Nel Seicento i testi di chimica pratica, che spiegavano al lettore come preparare i medicamenti chimici e come utilizzarli, conobbero una notevole diffusione. Uno dei più popolari era la Basilica chymica di Oswald Croll, pubblicata per la prima volta nel 1609, che ebbe numerose ristampe e traduzioni fino agli anni Ottanta. Inoltre, in alcune università si diffuse l'insegnamento delle preparazioni medicinali di tipo chimico, come a Marburgo nel periodo calvinista. Vi fu anche un progetto speciale, volto ad assicurare che le conoscenze sulle medicine chimiche, benché non esclusivamente quelle paracelsiane, fossero trasmesse alle nuove generazioni di medici; a questo scopo fu fondato a Parigi nel 1635 il Jardin du Roi, grazie agli sforzi del farmacista Guy de la Brosse (m. 1641), simpatizzante delle dottrine paracelsiane. Nell'ambito di questo progetto, chiunque volesse imparare poteva assistere gratuitamente alle lezioni di medicina; il corpo dei professori accoglieva anche un docente di chimica ed era prevista inoltre una scuola di chirurgia.

Il progetto fu realizzato nonostante l'opposizione della Facoltà di medicina di Parigi, che rimaneva fortemente contraria alle medicine chimiche. Jean Riolan jr (1577-1657), che subentrò al padre nella carica di decano della facoltà, si dimostrò, come e più di lui, un acceso sostenitore della medicina galenica; anche Gui Patin (1601-1672) era in contrasto con i chimici. Negli anni Cinquanta la facoltà si divise a proposito dell'efficacia dell'antimonio, una delle principali medicine chimiche, ritenuto un veleno dai galenici e una sostanza utile alla cura di numerose malattie dai chimici. Nel 1666 la facoltà si sottopose a una votazione che, con novantadue voti a favore contro dieci, dichiarò l'antimonio un farmaco legale da inserire nella lista delle purghe. Nel corso del secolo, la Facoltà di medicina di Parigi dovette inoltre difendere costantemente la sua tradizione galenica dagli attacchi dei medici che si erano formati a Montpellier, la cui università offriva agli studenti protestanti, che erano generalmente a favore dei rimedi chimici, la possibilità di seguire i corsi gratuitamente.

Naturalmente i medici paracelsiani, helmontiani o ermetici non erano gli unici a impiegare i rimedi chimici ottenuti dai minerali, e l'utilizzo del fuoco per la preparazione dei medicinali apparteneva da tempo a una tradizione prima greca e poi araba. La distillazione e le altre tecniche chimiche impiegate per produrre gli oli, le essenze, le acque e i sali erano in grado di separare l'essenza dei medicamenti dal resto e costituivano metodi utili per rendere maggiormente puri i medicamenti in generale. Proprio a causa di questa antica tradizione, nei secc. XVI e XVII, non esisteva la moderna distinzione terminologica tra 'alchimia' (mistica e superstiziosa) e 'chimica' (razionale e sperimentale). I due vocaboli erano considerati sinonimi anche in latino da coloro che erano coinvolti nelle frequenti dispute e discussioni. La prima distinzione tra alchimia e chimica risale, come hanno dimostrato recentemente William Newman e Laurence Principe (Newman 1998), all'ultimo quarto del XVII sec. e anche allora vi si giunse soltanto grazie a un fraintendimento del significato di un termine arabo. Inoltre, è presumibilmente un errore tentare di operare, in riferimento a quei secoli, una netta distinzione tra una tradizione paracelsiana e una non paracelsiana, al fine di collocare inequivocabilmente ciascun medico da una parte o dall'altra. Sarebbe forse più appropriato considerare l'intera situazione come un continuum di credenze e di pratiche, ai cui estremi, all'inizio del Seicento, si potrebbero porre, da una parte, Jean Riolan padre (m. 1606) ‒ medico galenico tra i più conservatori e ostile alla medicina chimica ‒ e dall'altra van Helmont, il più convinto dei paracelsiani. Tra i due schieramenti, i medici presero posizioni diverse, dovute principalmente al credo religioso, ma a volte anche alle predisposizioni pratiche, professionali o accademiche. È comunque evidente che ciascuno era immediatamente portato a considerare le posizioni diverse dalla propria, come pericolose e indesiderabili. Una delle ragioni di questa situazione era che l'opposizione galenico-chimica nel campo della medicina corrispondeva a quella cattolico-protestante nell'ambito della religione. Era molto più probabile che le teorie mediche e le preparazioni impiegate dai cattolici devoti fossero galeniche e che i calvinisti e i protestanti mistici di vario genere fossero tendenzialmente paracelsiani. A partire dal 1600, i luterani, che avevano guidato la Riforma, si ritrovarono ad avere in ambito religioso una posizione più o meno intermedia, analoga a quella occupata in medicina: essi erano perlopiù a favore dei rimedi chimici, ma ugualmente ostili, da un lato, a quelli che reputavano gli eccessi e le assurdità mistiche di Paracelso e, dall'altro, alla medicina non riformata dei galenici. Poteva dunque accadere che qualcuno come Andreas Libau (Libavius, 1546 ca.-1616), luterano convinto, medico e rettore del Ginnasio luterano di Coburg, dedicasse molti e voluminosi trattati all'alchimia, nei quali erano magnificati i vantaggi delle medicine alchemiche. Poiché alla sua adesione alla Riforma di Lutero era associata una posizione luterana in merito alle medicine chimiche, egli si trovò in contrasto sia con i medici calvinisti, come il paracelsiano di Ginevra Joseph Du Chesne (Quercetanus, 1544 ca.-1609), sia con quelli cattolici, come il galenico Jean Riolan padre, con i quali portava avanti dispute feroci. Dal punto di vista dei nemici dei due opposti schieramenti, e per la confusione di molti contemporanei e in seguito degli storici, Libau poteva sembrare tanto un paracelsiano quanto un antiparacelsiano.

Naturalmente non sempre vi era una precisa corrispondenza tra la confessione religiosa di un medico e le sue opinioni in merito al ruolo della chimica. Occorre però ricordare che l'alchimia e la medicina paracelsiane non potevano prescindere da considerazioni relative a quanto fosse profondo e quali percorsi seguisse il diretto intervento di Dio nei fenomeni naturali; la questione riguardante la vera natura della chimica e la sua connessione con la medicina era sia di carattere religioso sia medico. Questa era la situazione all'inizio del Seicento e tale sarebbe rimasta per la maggior parte del secolo. In Inghilterra, il grande interesse verso le medicine chimiche nel periodo del Commonwealth (1649-1660), finalizzato specialmente a migliorare le condizioni di vita dei poveri, è attribuibile a un movimento religioso puritano, di fatto calvinista, che stava preparandosi attivamente agli 'ultimi giorni' e alla 'seconda venuta' di Cristo (Webster 1975).

Le concezioni della malattia e la loro classificazione

La prima critica mossa da Bacon nell'Advancement of learning nei confronti della medicina riguarda "il fatto che si sia persa l'antica e seria diligenza di Ippocrate, che soleva dare una descrizione dei casi speciali fra i suoi pazienti, con il loro decorso e l'esito di guarigione o morte […] Mi pare che questa continuità manchi nella storia della medicina" (Scritti filosofici, p. 246). Questo è un utile punto di vista da cui partire per prendere in esame le concezioni della malattia, la loro classificazione e gli sviluppi della patologia.

Come abbiamo visto, per il medico galenico la malattia consisteva essenzialmente in uno squilibrio degli umori attivi all'interno del corpo. Essa era necessariamente dipendente da tale squilibrio, benché questo potesse essere stato inizialmente causato da un veleno, come nel caso delle epidemie. Invece secondo i paracelsiani la malattia era portata nel corpo da una sorta di seme e per van Helmont era da ricondurre a un disturbo dell'archeus.

La teoria di Thomas Sydenham (1624-1689) sulla natura delle malattie sembra essere, tra tutti, il contributo più innovativo. Questo studioso, dalle caratteristiche del tutto atipiche, esercitò un grande influsso sulla medicina europea, guadagnandosi l'epiteto di 'Ippocrate inglese', vale a dire di colui che riportò in auge la medicina al capezzale del paziente (la clinica). In particolare, considerava le malattie, soprattutto se epidemiche, entità distinte e dalle caratteristiche costanti, quanto le specie delle piante studiate dal botanico. In altri termini, gli effetti di una malattia erano sempre di un certo tipo, a prescindere dalle specificità fisiologiche individuali. Dopo la sua morte, Sydenham fu considerato il primo 'nosologo', intendendo per nosologia quella branca della medicina che si occupa della classificazione sistematica delle malattie e che conobbe entusiastici sviluppi nel corso di buona parte del XVIII e del XIX secolo. Sydenham guadagnò questa reputazione grazie agli scritti di Giorgio Baglivi, specialmente al De praxi medica del 1696, di Boissier de Sauvages, di William Cullen, di Linneo e di altri scienziati e medici del Settecento. Nel 1731 apparve il primo lavoro nosologico di Sauvages, Nouvelles classes de maladies, le cui edizioni ampliate, edite negli anni Sessanta, esercitarono una notevole influenza, come per esempio la Nosologia methodica, sistens morborum classes, juxta Sydenhami mentem et botanicorum ordinem, del 1768.

Sydenham sosteneva con fermezza che ciascuna malattia dovesse essere considerata una species, ossia dovesse possedere caratteristiche ricorrenti, regolari e peculiari, identificabili a partire dall'invariabilità dei sintomi e della loro evoluzione e in base a ciò egli riteneva possibile trovare un metodo costante di cura. Nella prefazione alla terza edizione delle Observationes medicae del 1676 si legge:

Perché sebbene dobbiamo dare per certo che esista una varietà da parte del temperamento degli individui e della gestione della cura, ciononostante l'ordine della Natura è così eguale nel produrre le malattie che gli stessi sintomi delle stesse malattie sono molto frequentemente riscontrabili in diversi corpi; e quelli che furono osservati in Socrate, nella sua infermità, sono generalmente gli stessi in tutti gli altri uomini che soffrono della stessa malattia; così come i caratteri universali delle piante sono gli stessi in tutti gli individui di ciascun tipo: colui, per esempio, che ha accuratamente descritto una violetta, nel suo colore, sapore, odore, forma e via discorrendo, percepirà che tale descrizione corrisponde in maniera pressoché esatta a quella di tutte le violette di tutto il mondo. E, a dire il vero, io credo che la ragione principale per cui noi andiamo ancora cercando un'esatta storia delle malattie sta nel fatto che perlopiù supponiamo che essi [i sintomi] siano soltanto gli effetti confusi e disordinati di una Natura che si difende malamente; e che sia privo di senso il lavoro di chi si impegna per dare di essi una giusta narrazione. (ed. 1696, p. A4v.)

È tuttavia opinabile che Sydenham intendesse effettivamente classificare le malattie in classi, generi e specie, come avrebbero fatto in seguito Sauvages e gli altri studiosi che si ispiravano alla botanica. Sydenham era interessato all'unicità di ogni malattia, a prescindere da chi ne fosse affetto, perché voleva scoprirne la cura: non dava molto peso ai raggruppamenti teorici e alle famiglie di malattie.

Dovendo individuare un medico del XVII sec., che ponesse alla base della sua attività non la teoria, ma i metodi empirici e sperimentali, la scelta cadrebbe su Sydenham. La sua pratica medica seguiva un approccio profondamente originale, come dimostra la decisione di agire in tutti i casi direttamente contro i comuni metodi allora in voga tra i medici più eminenti. Secondo Sydenham, il suo amico Robert Boyle lo incoraggiava a studiare il decorso delle epidemie diffuse a Londra e ogni tanto lo accompagnava persino a visitare i pazienti. Sembra che Sydenham praticasse il suo mestiere specialmente tra i poveri, fatto, questo, piuttosto insolito, dal momento che per guadagnarsi da vivere i medici si occupavano generalmente dei benestanti. Egli studiava la diffusione delle epidemie tra la popolazione urbana indigente, con l'obiettivo di trovare nuovi metodi di cura, esplorando un campo di ricerca unico, con la determinazione di evitare i sistemi della pratica corrente. Occupandosi di malattie che colpivano molti individui contemporaneamente, era in grado di osservare e prendere seriamente in considerazione un dato che non si attagliava alla teoria medica tradizionale: le epidemie seguivano uno schema atto a distinguere una malattia dall'altra. Questo schema includeva l'esordio della malattia, i sintomi manifestati dal paziente, il suo comportamento durante la malattia, ossia il modo in cui questa si evolveva, la svolta decisiva della malattia (la 'crisi'), le sue caratteristiche temporali, qualitative e quantitative e le modalità di guarigione. Per Sydenham l'andamento di una malattia non includeva alcuna speculazione su quel che stesse accadendo all'interno del corpo della persona sofferente. Dopo aver studiato per qualche tempo le epidemie, egli fu in grado di enucleare tali schemi; giunse così ad affermare che ciascuna malattia epidemica aveva la propria identità, differiva dalle altre per caratteristiche che un medico poteva imparare a riconoscere. Arrivò quindi alla conclusione che in Natura esistono malattie diverse fra loro, e che ciascuna di esse possiede una propria esistenza distinta (concezione 'ontologica'). Con il tempo, egli applicò questa intuizione ad altre malattie non epidemiche, arrivando a formulare quelle che oggi sono considerate le 'descrizioni classiche' di diverse malattie, tra cui la gotta, il vaiolo, la malaria, la scarlattina, l'isteria e la corea. In tutti questi casi, ciò che Sydenham forniva era un resoconto generale della malattia e della sua evoluzione, vale a dire una storia di come essa esordiva e di come si sviluppava. Questa storia non si occupava delle cause, ma riferiva semplicemente le caratteristiche osservabili della malattia e del suo decorso.

Dopo aver compreso che ogni malattia possedeva un'identità stabile tale che, in assenza di interferenze da parte dei medici, essa faceva il suo corso in un certo modo, e una volta scoperto che la maggior parte dei pazienti poveri, che non erano in grado di pagare un medico, guariva dalle malattie epidemiche, anziché morirne, Sydenham tentò di migliorare i metodi di cura. I suoi dubbi riguardavano il fatto che i medici non osservavano il decorso naturale della malattia, così che i loro tentativi di curare non facevano che peggiorare la situazione e, al limite, rendere fatali malattie che non lo sarebbero state. Così introdusse l'uso degli esperimenti, allo scopo di guidare la malattia nella direzione che avrebbe facilitato il suo decorso naturale. Se per esempio il decorso naturale di una certa malattia epidemica prevedeva che si verificasse un'abbondante sudorazione in corrispondenza del terzo e del quinto giorno dall'esordio, allora era proprio questo che anche il medico doveva cercare di ottenere; se una crisi si verificava naturalmente il settimo giorno, allora il medico doveva tentare di indurne una il settimo giorno, e così via. In tal modo Sydenham in pratica variava la rotta dei suoi trattamenti a seconda dell'ultimo successo o insuccesso riguardo a un caso analogo, fino a quando riusciva a perfezionare la cura. Seguendo questo metodo introdusse nelle terapie alcune novità, quali l'uso della corteccia di china e dell'oppio contro le febbri intermittenti, nonché dello spirito di vetriolo e del laudano liquido contro il vaiolo.

L'adozione di un metodo apparentemente così disordinato, e che non tributava alcun rispetto a centinaia di anni di tradizione medica, suscitava naturalmente ostilità nei colleghi. Sydenham rispondeva apertamente alle critiche pubbliche e così i suoi metodi rimasero controversi finché fu in vita e la sua buona reputazione si stabilì solo dopo la morte. Egli aveva previsto ciò e aveva scritto: "io non curerò i ricchi, fin quando essere nella tomba farà di me un'autorità" (Dewhurst 1966, p. 170). Il carattere difficile non favoriva di certo la diffusione dei suoi insegnamenti innovativi tra coloro che lo conoscevano. Inoltre, la reputazione politica della sua famiglia nel periodo del Commonwealth ‒ cui Sydenham si riferiva come al 'suo scandalo' ‒ comportava che ai suoi libri di medicina fosse attribuito anche un significato politico oltre che scientifico. Le sue opere avevano maggiori probabilità di convincere un pubblico che non lo conosceva personalmente; esse ebbero infatti un notevole impatto in Francia e soprattutto in Olanda, dove il grande professore di medicina Herman Boerhaave considerava lo studioso come un modello da seguire. Gli scritti più importanti di Sydenham furono la Methodus curandi febres del 1666 e le Observationes medicae, che rappresentano in parte una revisione della Methodus; entrambi furono redatti inizialmente in inglese e tradotti in latino dagli amici dell'autore.

Le interpretazioni dell'approccio di Sydenham alla medicina e alla malattia generalmente sono state piuttosto semplicistiche. Gli storici hanno ritenuto che egli fosse un baconiano che intuì l'importanza dell'empirismo e in grado di osservare il paziente senza alcun pregiudizio e di giungere in tal modo a conclusioni genuinamente empiriche. A favore di questa tesi è stata spesso citata una sua affermazione sul valore della formazione medica tradizionale: "Tutto ciò è molto pregevole, ma non basta ‒ l'anatomia, la botanica. Assurdità, Signore! Conosco una vecchia, a Covent Garden [un mercato di Londra], che di botanica ne sa molto di più, e per quanto riguarda l'anatomia, il mio macellaio è altrettanto bravo a dissezionare un'articolazione. No, ragazzo mio, queste sono sciocchezze: devi andare al capezzale del paziente, perché soltanto lì potrai imparare davvero che cos'è una malattia" (Dewhurst 1966, p. 48). Il rifiuto della medicina dotta di quel tempo è stato portato dagli storici a dimostrazione della sua posizione di empirista ingenuo, ma naturalmente le idee di Sydenham avevano profonde fondamenta teoriche nelle sue conoscenze mediche, molte delle quali erano tradizionali. Egli riteneva, per esempio, che le malattie epidemiche derivassero tutte da un qualche mutamento dell'aria, che chiamava "costituzione epidemica" e credeva che questa, a sua volta, fosse riconducibile a un qualche influsso astrale. Del tutto convenzionalmente, infine, egli pensava che all'interno del corpo fossero fisiologicamente attivi gli umori.

L'agnosticismo epistemologico, ovvero la negazione della rilevanza della ricerca delle cause, adottato da Sydenham, sul quale sembrava fondarsi il suo approccio, era il frutto di una scelta ragionata e non soltanto una "esibizione estremistica di originalità e di opposizione" contro le altre correnti epistemologiche. Sydenham riconosceva che i suoi studi erano stati stimolati da Bacon, ma la sua posizione in merito era dovuta all'amicizia con Robert Boyle e con John Locke, nonché alle esperienze di idealismo politico effettuate nel periodo del Commonwealth. In ogni caso occorre sottolineare che, pur essendo possibile il debito di Sydenham nei confronti di Boyle riguardo alla necessità di considerare soltanto i fenomeni della Natura e non le loro cause, non è tuttavia semplice stabilire se questo eventuale influsso fosse di Boyle su Sydenham o viceversa.

Lo studio della patologia

Mentre Sydenham non attribuiva grande valore alle conoscenze anatomiche, altri studiosi ritenevano che si potesse apprendere molto sul decorso e forse sulle cause della malattia, esaminando il corpo del paziente dopo la morte, e ciò favorì un certo interesse per lo sviluppo della patologia. Nei corsi di medicina galenica tenuti nelle università, agli studenti si insegnava soltanto la teoria della patologia. Per i paracelsiani e per gli helmontiani, la malattia e le sue cause erano, a tutti gli effetti, al di là di qualsiasi ricerca empirica o sperimentale. Dunque, per sua stessa natura, la patologia basata sulla tradizione greca dell'esame anatomico rappresentava un approccio superato, anche quando produceva risultati nuovi (benché, nel corso del tempo, tale approccio sia sopravvissuto più a lungo di quello paracelsiano).

A proposito dello sviluppo della patologia, nell'Advancement of learning Bacon aveva scritto:

Molte manchevolezze trovo nella ricerca anatomica: ché si studiano le parti, e le loro sostanze, figure e posizioni, ma non le diversità delle parti, gli anfratti dei passaggi dall'una all'altra, le sedi o i recessi degli umori, né molto le impronte o segni delle malattie [...] Quanto ai segni lasciati dalle malattie e alle devastazioni da esse operate nelle parti interne, postumi, ulcere, interruzioni, cancrene, consunzioni, contrazioni, estensioni, convulsioni, dislocazioni, ostruzioni, gonfiori, assieme a tutte le sostanze preternaturali come pietre, carnosità, escrescenze, vermi e simili, sarebbe stato bene studiarli esattamente attraverso molte anatomie e col contributo dell'esperienza di persone diverse, e annotarli con cura tanto da un punto di vista storico, secondo le manifestazioni, tanto da un punto di vista metodico, riferendoli alle malattie e ai sintomi che ne risultano, nel caso che si tratti dell'anatomia di un paziente defunto; mentre oggi, quando si sezionano i corpi, tutto ciò è considerato alla leggera e passato sotto silenzio. (Scritti filosofici, pp. 246-247)

Nonostante le esortazioni di Bacon, nel XVII sec. non esisteva una patologia sistematica. Un progetto di questo genere avrebbe richiesto un'ampia disponibilità di denaro e di cadaveri, nonché la consapevolezza del nesso di causa ed effetto, e cioè del fatto che le modificazioni che gli organi subivano durante la vita erano direttamente collegate al tipo di malattia intervenuta. Generalmente un medico aveva poche opportunità di eseguire l'autopsia di un paziente deceduto e di prendere in quell'occasione appunti per sé stesso e per gli altri. Invece il medico William Harvey, lavorando all'ospedale St. Bartholomew di Londra, dal 1609 al 1648, e avendo accesso a una maggiore quantità di cadaveri, fu in grado di approntare quella che chiamò una 'anatomia medica'. Paragonando il proprio progetto a quello di Jean Riolan jr, Harvey, nella Exercitatio anatomica de circulatione sanguinis (1649), scrisse che esso sarebbe stato realizzato "non con il suo stesso intento, di mostrare cioè le regioni corporee proprie delle malattie nei cadaveri di uomini morti in condizioni di buona salute, ed elencare i diversi tipi di malattie pertinenti a quelle regioni, secondo le opinioni degli uomini", bensì utilizzando i corpi di persone morte di malattia, per poter mettere in relazione "con quale risultato e come le diverse parti interne vengono modificate, rispetto alla loro forma e apparenza naturale, nella loro posizione, grandezza, condizione, forma, consistenza e altre caratteristiche sensibili" (ed. Franklin, p. 121). Tuttavia i risultati di tali sforzi non furono registrati e non è noto per quanto tempo Harvey abbia portato avanti questo progetto.

La dissezione sistematica dei cadaveri dei malati costituiva uno dei possibili metodi per sviluppare le conoscenze in merito alla patologia, mentre un'alternativa possibile era quella di raccogliere quanto i medici avevano scritto sui casi da loro stessi affrontati. Fu questa la strada intrapresa da Théophile Bonet, un medico svizzero che dedicò circa dodici anni alla pubblicazione del materiale raccolto, che confluì in un'opera edita a Ginevra nel 1679, con il titolo Sepulchretum sive anatomia practica. In questa pubblicazione, che per la quasi totalità raccoglieva brani di scritti di altri medici, le caratteristiche di ciascuna malattia erano esaminate nei minimi dettagli (a capite ad calcem del paziente, secondo una procedura tradizionale) ed erano affiancate dalla descrizione di uno o più casi clinici, nonché dei metodi terapeutici utilizzati e dei risultati ottenuti. In pratica l'obiettivo di Bonet era che un medico potesse confrontare il caso di cui si stava occupando con quelli descritti nel suo libro. Benché l'autore considerasse questo suo lavoro un esempio della nuova filosofia naturale "secondo la quale nulla può essere ritenuto vero se non può essere percepito mediante i sensi o dimostrato sperimentalmente", ai nostri occhi sembra piuttosto un esercizio di copiatura delle opinioni altrui. Tuttavia, nonostante le sue numerose manchevolezze, nel 1701 il Sepulchretum stimolò Giambattista Morgagni, allora appena diciottenne, a riprendere il lavoro. Sessant'anni più tardi, dopo aver lavorato come anatomista a tempo pieno a Bologna e a Padova, egli portò a termine e pubblicò De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis (1761). Questo importante trattato di patologia sistematica era stato ispirato anche dagli studi di anatomia di Marcello Malpighi (1628-1694) e dai lavori di patologia del suo allievo Antonio Maria Valsalva (1666-1723). Tuttavia, nemmeno questo monumentale studio della patologia ‒ basato sull'esperienza personale di Morgagni, che aveva dissezionato più di settecento cadaveri ‒ rappresenta la base della patologia moderna, che nacque negli ospedali di Parigi soltanto alla fine del Settecento.

Un primo interesse per il calcolo su vasta scala dell'incidenza delle malattie fu manifestato, nella Londra della metà del secolo, da John Graunt, un commerciante che, grazie alle sue ricerche, fu nominato membro della Royal Society e nel 1672 pubblicò un'opera intitolata Natural and political observations […] made upon the bills of mortality […] with reference to the government, religion, trade, growth, ayre, diseases, and the several changes of the said city. Per queste sue ricerche, egli viene generalmente ritenuto l'inventore sia della statistica (ossia della stima numerica delle condizioni dello Stato) sia della demografia. A Londra i bollettini di mortalità erano stati tenuti sporadicamente a partire dalla pestilenza del 1592 e regolarmente dopo quella del 1603. Si ritiene che la loro compilazione avesse avuto inizio per informare la corte reale e i residenti londinesi ricchi, quando la peste o altre epidemie raggiungevano una diffusione tale da rendere necessario l'abbandono della città. Tali bollettini tenevano il conto dei morti ed elencavano le cause di decesso in tutte le parrocchie di Londra. In realtà le informazioni non erano raccolte da un medico, ma da due donne anziane in ogni parrocchia, ed erano sistemate e stampate non dal College of Physicians, ma dalla compagnia dei funzionari parrocchiali laici. Graunt si rese conto del fatto che questo materiale grezzo poteva essere utilizzato non soltanto per tenere il conto dei decessi e delle loro cause, ma anche per studiare i cambiamenti della popolazione, le condizioni di salute della città, il ricorrere delle malattie epidemiche in generale e la comparsa di malattie nuove (come il rachitismo nel 1634 e il 'blocco dello stomaco' nel 1636). A quel tempo erano elencate, tra le possibili cause di morte, categorie quali malinconia, spavento, sangue dall'intestino, febbri, dispiacere, caduta della mandibola, scrofola, letargia, fegato ingrossato, emorroidi, pianeta, porpora, mal di gola, vomito dagli intestini, eccessi e vermi.

Le tecniche terapeutiche e chirurgiche

Nel campo delle tecniche terapeutiche e chirurgiche, il XVII sec. non fu molto ricco di innovazioni, se si esclude naturalmente la notevole diffusione di medicamenti chimici. Le principali novità nell'ambito della chirurgia erano state introdotte nel XVI sec., in particolare da Ambroise Paré (1510-1590), chirurgo della Corona di Francia, che aveva abbandonato l'uso della cauterizzazione mediante olio bollente, nei casi di ferite da arma da fuoco, per sostituirlo con medicazioni meno invasive, come gli unguenti, che favorivano una guarigione più veloce e meno dolorosa. Stando a quanto risulta dai manuali, questa e altre novità divennero parte della normale pratica chirurgica e furono adottate specialmente dai numerosi medici dell'esercito e della marina. Soltanto nel XVIII sec. i chirurghi tornarono a essere ancora innovativi.

Nel Seicento, due grandi scoperte segnarono il cammino delle pratiche relative al parto. Era discutibile il fatto stesso che un parto, di per sé, dovesse essere considerato di pertinenza del medico; esso sarebbe stato 'acquisito' e medicalizzato dai chirurghi soltanto nel XVIII e nel XIX secolo. Fino al XVII sec. il parto era di pertinenza delle 'levatrici', le cui competenze erano più sociali che mediche, poiché non avevano una istruzione formale per l'assistenza al parto e non erano molto abili nelle manipolazioni necessarie nei casi difficili. Quando i parti non presentavano problemi, nessuno disapprovava il fatto che a occuparsene fossero le levatrici, ma nei casi più complicati, oppure quando il travaglio della madre si era protratto per molti giorni senza esito, le levatrici chiamavano il medico, il cui ruolo era quello di salvare la vita della partoriente. La madre poteva sopravvivere se il medico estraeva il bambino (che di solito, a questo punto, era morto) inserendogli un uncino nella testa. In ogni caso, l'arrivo di un uomo al capezzale di una partoriente era considerato foriero di morte per il bambino, per la madre o per entrambi.

Nel corso del Seicento, le due importanti modifiche apportate a queste pratiche riguardavano l'intervento manuale del chirurgo, e in tal senso esse erano empiriche o sperimentali. Una innovazione derivò dall'invenzione del forcipe, da parte della famiglia londinese dei Chamberlen, intorno al 1620, che permise al chirurgo di far nascere vivi i bambini che, in un parto difficile, si presentavano di testa. Il metodo rimase tuttavia un segreto di famiglia fino agli anni Trenta del Settecento. Certamente non fu trattato in modo aperto e pubblico, e in questo senso non si può considerare come tipico della cosiddetta Rivoluzione scientifica. L'altra innovazione fu l'introduzione della tecnica manuale di 'rivoltare' il bambino in caso di presentazione anomala. Il medico inseriva la mano nel canale del parto per poter spostare indietro le mani o i piedi del nascituro, girarlo ed estrarlo infine per i piedi. Questa manovra, oggi nota come rivolgimento podalico, era allora chiamata 'rivoltamento della parte dei piedi' e consentiva di salvare la vita del bambino. L'utilizzo di tale metodo, che sembra fosse stato inizialmente ideato dalle levatrici, fu perorato dal medico inglese Percival Willughby.

Si può infine menzionare il ritorno in auge dell'abitudine, da parte dell'aristocrazia e delle famiglie facoltose, di 'prendere le acque' presso le stazioni termali e le sorgenti naturali. A partire dal tardo Cinquecento, almeno per quanto riguarda la Francia, a promuovere l'impiego medico di terme e sorgenti furono i medici paracelsiani. L'acqua era bevuta allo scopo di favorire la sudorazione e l'evacuazione oppure era utilizzata per i bagni o, infine, per respirarne i vapori. Tali acque non erano sottoposte ad alcuna significativa analisi chimica e per spiegarne i poteri curativi si invocavano le proprietà occulte.

Iatrofisica e iatrochimica

Abbiamo visto che, nell'ambito della medicina della prima metà del Seicento, le spiegazioni di ordine chimico avevano introdotto un nuovo modo di considerare il funzionamento del corpo e dell'Universo intero, definito da van Helmont come la 'nuova filosofia'; ma la cosiddetta iatrochimica fu a sua volta sorpassata da teorie basate su nuovi approcci alla fisica. Verso la fine del secolo, infatti, le operazioni chimiche sarebbero state comprese e spiegate in termini fisici, in quanto conseguenze del moto delle particelle di cui era composta la materia. Di fatto la chimica fu ben presto inglobata dalla fisica e in tal modo ebbe termine l'era dei paracelsiani e degli helmontiani.

Le prime teorie iatrofisiche di una certa rilevanza furono formulate dopo che, a partire dagli anni Trenta del XVII sec., era stata resa pubblica la nuova fisica di René Descartes. L'Universo cartesiano era composto esclusivamente da materia in movimento e, più specificamente, da particelle non visibili di varie dimensioni che, raggruppate insieme a formare le varie strutture, si impartivano il moto l'un l'altra. Nel Discours de la méthode, del 1637, e nel postumo L'homme, Descartes congetturava che tutte le operazioni fisiologiche del corpo potessero consistere in una serie di meccanismi passivi basati sul modello del 'setaccio': il sangue era costituito dal cibo ingerito, che assumeva la forma di un insieme di particelle; quando arrivava alle ghiandole doveva passare attraverso particolari setacci, che permettevano il passaggio soltanto alle particelle con una certa forma e una certa grandezza. Una volta attraversato questo setaccio, le particelle assumevano la forma di un fluido dotato di nuove proprietà e nuove qualità secondarie. Dunque, per Descartes, i differenti fluidi fisiologicamente attivi, quali la saliva, il sudore e il seme, erano stati tutti filtrati a partire dal sangue. Anche i chimici successivi tentarono di offrire una spiegazione corpuscolare e fisica dei fenomeni chimici. Per esempio, Nicolas Lemery, che insegnava chimica a Montpellier, nel Cours de chymie del 1675, sostenne che la differenza tra acidi e basi era dovuta al fatto che i primi erano costituiti da corpuscoli appuntiti e le seconde da corpuscoli porosi. L'effervescenza osservabile quando un liquido acido era versato su uno alcalino derivava dal fatto che le punte acuminate dei corpuscoli acidi cercavano di entrare a forza nei pori di quelli alcalini. I tempi erano cambiati al punto che Lemery poté dedicare il suo libro alla Facoltà di medicina di Parigi, tradizionalmente avversa alla medicina chimica. Analogamente, in Inghilterra, Thomas Willis, che era professore di filosofia naturale a Oxford e studiava le febbri, rifiutò la teoria di van Helmont secondo cui un fermento cercava di imprimere la propria 'idea' su una determinata materia. Così si legge nel De fermentatione, del 1656:

La fermentazione è un moto intestino di particelle, o principî di ogni corpo, che tende o alla perfezione di uno stesso corpo oppure alla sua trasformazione in un altro. Perché le particelle elementari vengono stimolate a muoversi, dal loro stesso accordo o natura, oppure per caso, e muovono sé stesse meravigliosamente e vengono mosse. La fermentazione è un'azione o un moto puramente naturale, e quelle che la eseguono sono soltanto le particelle naturalmente impiantate nel concreto [materiale]. (The remaining medical works, pp. 9-10)

La preferenza accordata alle spiegazioni iatrofisiche rispetto a quelle iatrochimiche, tanto dei fenomeni fisiologici quanto del meccanismo di azione delle medicine, era ancora più evidente nel caso della fisica newtoniana. Negli ultimi anni del secolo alcuni newtoniani, molti dei quali erano medici, partendo da indicazioni contenute negli scritti di Newton, cominciarono a proporre una serie di spiegazioni fisiche dei fenomeni chimici. Vi fu in particolare lo scozzese Archibald Pictairne (1652-1713), professore di medicina a Leida, che provocò un acceso dibattito proponendo una fisiologia newtoniana che considerava la circolazione del sangue come un processo idraulico dipendente dalla pressione del cuore. L'azione di medicine e pratiche mediche, quali la purga o la sudorazione, sarebbe stata compresa grazie a una serie di calcoli matematici. Nei primi anni del Settecento questo approccio fu sviluppato da altri ricercatori e filosofi inclini alla matematica.

Conclusioni

Non è facile collocare la medicina del XVII sec. nel contesto di quella che viene universalmente chiamata Rivoluzione scientifica, benché molti medici fossero attivamente impegnati nello sviluppo e nella diffusione delle differenti versioni della 'nuova filosofia'. Appare evidente che trattare come un gruppo uniforme i diversi medici e gli altri personaggi interessati alla sperimentazione e critici nei confronti delle autorità mediche del loro tempo, significherebbe mettere insieme elementi eterogenei, che spesso non avevano assolutamente nulla in comune e che entravano facilmente e drasticamente in conflitto tra loro persino sulla definizione del concetto di 'esperimento'. Di fatto, per quanto bene possano funzionare, se applicati ai campi dello scibile per i quali l'espressione Rivoluzione scientifica è stata originariamente coniata (l'astronomia, la fisica e la matematica), i criteri che sono generalmente utilizzati si rivelano semplicemente inadatti nel caso della medicina. Di certo il Seicento fu un periodo attivo e innovativo per la medicina; ma un filo conduttore, se pure vi fu, non è stato ancora trovato dagli storici. I progressi che Francis Bacon auspicava per la medicina non trovarono mai una realizzazione sistematica; e quando questo accadde la motivazione era in grandissima parte dovuta a preoccupazioni di ordine religioso, proprie di un mondo in cui si fronteggiavano interpretazioni contrastanti del cristianesimo. Persino Sydenham, le cui ricerche sulle malattie epidemiche sarebbero potute sembrare libere da implicazioni religiose, era in realtà motivato dal desiderio di rendere il mondo migliore in vista della 'seconda venuta' di Cristo. Non sembra dunque possibile applicare alla medicina il criterio della secolarizzazione delle concezioni del mondo, che è sempre stato considerato distintivo della Rivoluzione scientifica.

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