La riforma Gentile

Croce e Gentile (2016)

La riforma Gentile

Giuseppe Tognon

La riforma degli ordinamenti scolastici e universitari, degli esami e dei programmi di insegnamento che va sotto il nome di riforma Gentile venne decisa nei venti mesi (31 ottobre 1922-1° luglio 1924) in cui il filosofo fu ministro della Pubblica Istruzione nel primo governo Mussolini, che il 3 dicembre 1922 aveva avuto pieni poteri per riformare lo Stato (tramite la l. nr. 1601, Delegazione di pieni poteri al Governo del Re per il riordinamento del sistema tributario e della pubblica amministrazione). Dopo la legge Casati del 1859-60, che aveva determinato l’assetto scolastico del nuovo Regno d’Italia, la complessa manovra legislativa e amministrativa messa in atto da Gentile è stata la più importante delle riforme scolastiche italiane del 20° sec., ed è diventata il banco di prova per misurare continuità e discontinuità nella storia del sistema formativo nazionale. Essa merita tuttavia di essere reinterpretata con maggiore distanza. Nei suoi confronti l’opinione pubblica e il ceto politico sono stati vittime di strabismo: la riforma è stata posta al centro di ogni dibattito, come se fosse sempre attuale, senza riuscire a collocarla nella giusta prospettiva di una valutazione comparativa che tenesse conto dei mutamenti radicali intervenuti nella scuola e nella società italiane.

Questa attualità è peraltro tanto più sorprendente se si considera che la riforma Gentile venne a suo tempo vissuta da ampi settori della cultura come profondamente inattuale, datata, fuori tempo massimo, o sbagliata. L’inversione intercorsa tra una inattualità immediatamente percepita e un’attualità poi sempre supposta, conferma un dato fondamentale per lo studio della storia della scuola e dell’educazione, vale a dire l’impossibilità di ricondurre la politica scolastica allo schema dello scontro tra borghesia e popolo o a un’analisi di tipo soltanto sociologico, con la necessità di tener conto della radicalità dei processi di alfabetizzazione e di trasmissione del sapere che nella società contemporanea hanno rivelato le profonde contraddizioni della modernità. Una seria riforma della scuola è sempre molto più impegnativa di qualsiasi altra riforma delle politiche pubbliche, e ciò spiega la riluttanza degli Stati, anche nell’Unione europea, a cedere parte della loro sovranità: essa si pone sempre alla frontiera tra i principi identitari e le ragioni di sistema e, anche per la rilevanza economica dei suoi fattori, richiede un alto livello di chiarezza e di condivisione sulle finalità e i valori di cui il mondo della scuola è insieme depositario e fucina.

Il contesto della crisi

Quando Gentile accettò di ripetere l’esperienza di Croce, ministro della Pubblica Istruzione nell’ultimo governo Giolitti (1920-21), l’intero mondo occidentale era pervaso dal bisogno di rilegittimare, attraverso grandi riforme popolari, il principio di statualità che gli eventi bellici avevano rimesso in discussione, modificando confini materiali, ma soprattutto la geografia politica e sociale delle comunità nazionali. In Italia la riforma giunse allo scadere del tempo massimo concesso al sistema liberale e parlamentare per adattarsi al nuovo assetto economico e civile del primo dopoguerra, e rappresentò per il nascente fascismo mussoliniano l’occasione di legittimarsi agli occhi della borghesia italiana, cercando di marcare una continuità pedagogica con la pedagogia liberale e una discontinuità con la crisi dello Stato giolittiano. Si trattò della prima manovra organica di ripristino della centralità dello Stato dopo il tormentoso periodo postbellico, e funzionò da ponte tra la crisi politica del liberalismo storico e l’affermazione del fascismo statolatra. L’appello gentiliano all’«obbedienza allo Stato e ai suoi legittimi organi» con cui il neoministro inaugurava la sua azione (La disciplina nelle scuole, Circolare ministeriale alle autorità scolastiche, 22 nov. 1922, nr. 68), non apparve un’operazione politicamente ‘audace’, ma venne accolto e interpretato dalla maggioranza degli addetti ai lavori, compreso Croce, come un necessario punto di ripartenza.

A partire dai primi anni del Novecento il problema pedagogico aveva assunto uno straordinario rilievo politico e istituzionale. Nell’immediato dopoguerra la pressione delle necessità economiche e il peso delle responsabilità assunte durante il conflitto avevano posto in particolare evidenza la questione degli insegnanti, i quali andavano quindi coinvolti più intimamente nella nuova missione dello Stato. L’idea di una riforma democratica della scuola, aperta alle istanze popolari, si era arenata davanti alla mancanza di risorse e alla litigiosità delle forze politiche. Per una complessa serie di fattori era fallita anche l’inedita alleanza tra la minoranza idealista e liberale e la nutrita componente cattolica riunita nel Partito popolare di Luigi Sturzo: il rifiuto parlamentare e di piazza contro la riforma degli esami di Stato proposta da Croce rappresentò il punto di non ritorno per le illusioni di una riforma condivisa.

Malgrado ciò, scarsi furono gli elementi costitutivi del nuovo ordinamento scolastico che non fossero già stati presentati e discussi negli anni che precedettero il primo governo Mussolini. Parlando al Senato post operam, il 5 febbraio 1925, Gentile poteva impostare la difesa del proprio operato proprio sulla constatazione «di non aver nulla inventato» (Discorso pronunciato al Senato il 5 febbraio 1925, in La riforma della scuola in Italia, 1927, 3a ed. riv. e accresciuta a cura di H.A. Cavallera, 1989, p. 240) e anzi di aver ripreso il meglio di quanto era già stato proposto al Paese fin dai tempi della Destra storica; continuava il filosofo:

Le idee rimasero nei libri e vi sarebbero rimaste sempre senza il Fascismo: il quale ha dato allo Stato italiano anche questa energia, che da tanti anni si invocava: voglio dire la fede e la forza necessaria a tradurre in atto tutte quelle idee di tante Commissioni, che si potevano e dovevano attuare (p. 241).

I capisaldi della riforma

Tra i principi ispiratori della riforma Gentile troviamo la definizione della libertà di insegnamento come diritto e dovere di realizzare, attraverso l’educazione pubblica, un principio statuale autoevidente e assoluto: nell’attualismo gentiliano il farsi dello Spirito non può essere distinto dal fare lo Spirito. La pedagogia gentiliana rifuggiva da ogni pluralismo fattuale e da ogni possibile discontinuità nel rapporto tra maestro e allievo e tra Stato e società. Una seconda caratteristica, a livello di principi, fu l’innalzamento della scuola governativa a luogo di autentica formazione e selezione della classe dirigente, con la conseguente trasformazione di alcune scuole secondarie, l’eliminazione di altre e l’introduzione di nuove di tipo diverso. Sul piano degli obiettivi troviamo la soppressione delle classi aggiunte nelle scuole secondarie superiori – che pone fine alla disorganica proliferazione di singole classi e di impieghi non programmati di insegnanti precari – una semplificazione virtuosa delle discipline attraverso l’abbinamento delle materie affini; un sistema di esami, per passare da un grado scolastico all’altro, affidati a insegnanti diversi da quelli della classe di provenienza; la fissazione degli obiettivi pedagogici attraverso precisi programmi di esame invece che attraverso il controllo diretto dei singoli professori e dei loro metodi di insegnamento; la semplificazione dei corsi di studio e la riorganizzazione della struttura tecnica di supporto e di ispezione; un’articolazione nuova dell’istruzione universitaria, basata sulla gerarchizzazione delle sedi e sull’accentramento del governo delle stesse.

In generale, l’intero sistema mirava a riscattare la sua evidente destinazione – il perpetuarsi della borghesia come classe – impegnandosi in un’intensa opera di alfabetizzazione popolare e nella realizzazione di un modello innovativo di scuola elementare. Pur in una situazione di ristrettezze di bilancio, Gentile aumentò gli investimenti per la scuola elementare, anche se il meccanismo con cui impiegava le risorse lo condusse di fatto a privilegiare le scuole urbane su quelle rurali, dove maggiore era il problema dell’analfabetismo. La questione della continuità classista tra questa riforma e la legge Casati non è dunque pacifica, perché vale anche in questo caso l’avvertenza sopra esposta riguardo al pregiudizio con cui si vuole interpretare la storia della scuola italiana: la scuola di Gentile e degli idealisti era borghese in un senso molto diverso da quello cavouriano e della Destra storica, e poneva la classe docente al centro del protagonismo di uno Stato che Gentile avrebbe in seguito definito «supremo moderatore ed organizzatore della vita nazionale» (Il riordinamento della scuola, intervista al «Corriere italiano», 17 gennaio 1924, poi in Il fascismo al governo della scuola: novembre ’22-aprile ’24: discorsi e interviste raccolti e ordinati da Ferruccio E. Boffi, 1924, p. 252).

La scuola secondaria veniva ad assumere quel carattere marcatamente classicista che trovava compimento nell’esaltazione storica dell’italianità e nel rigore di studi universitari finalizzati alla formazione di una nuova classe dirigente. Ciò non si tradusse tuttavia in una rinnovata formazione professionale degli insegnanti dei licei, che venivano reclutati per concorso sulla base di prove altamente teoriche dove grande peso era dato alla prova orale e alla capacità retorica di tenere una bella lezione. Anche se non fu d’accordo nell’equiparare gli istituti magistrali ai licei classici – come era stato invece nelle intenzioni di Ernesto Codignola –, Gentile riuscì a far prevalere l’impostazione pedagogica idealista secondo la quale anche la formazione dei maestri elementari era più una questione di cultura e di personale maturazione spirituale che di didattica e di tirocinio.

Alla religione cattolica venne garantito ampio, ma circoscritto, spazio nella scuola elementare come momento propedeutico e indispensabile alla maturazione del fanciullo. Il 6 maggio 1923 (con il decreto nr. 1054, Ordinamento della istruzione media e dei convitti nazionali) l’insegnamento religioso in tutte le scuole secondarie fu trasformato in materia facoltativa, da impartirsi direttamente dalle autorità ecclesiastiche attraverso loro incaricati, sebbene a certe condizioni e su esplicita richiesta delle famiglie. Una volta superato lo scoglio del tradizionale laicismo o di una ideologizzazione della laicità sul modello francese, divenne più facile superare anche quello della libertà scolastica senza venir meno al presupposto della centralità dello Stato. Gentile risolse il problema del rapporto tra società civile e Stato con la radicale accentuazione del carattere etico di quest’ultimo, in modo peraltro da non rendere incompatibile nemmeno una collaborazione fra istituzioni statali e istituzioni non statali. Di questo seppe giovarsi l’Università cattolica del Sacro Cuore di Milano (voluta da padre Agostino Gemelli e inaugurata nel 1921), che ottenne il riconoscimento giuridico dei propri titoli di studio il 2 ottobre 1924.

Questo era dunque il quadro tecnico e culturale d’insieme della riforma, e gli uomini che in essa collaborarono con il ministro filosofo – in particolare Codignola e Giuseppe Lombardo-Radice – erano gli stessi che avevano combattuto da posizioni di minoranza le contraddizioni del riformismo giolittiano. Furono così in realtà parecchie riforme quelle che coabitarono nella riforma Gentile, e non soltanto le due di cui teorizzò sul «Corriere della sera» Augusto Monti, distinguendo quella – crociana e liberale – degli esami da quella – antidemocratica – degli ordinamenti e dei programmi.

La centralizzazione

La riforma Gentile prese il via con la riorganizzazione degli uffici centrali e provinciali, sancita nelle sue linee generali dai decreti 31 dic. 1922 nr. 1679 (Nuove tabelle organiche dell’amministrazione centrale e regionale del ministero della Pubblica Istruzione e del personale ispettivo e didattico delle scuole elementari) e 16 luglio 1923 nr. 1753 (Ordinamento e attribuzioni del ministero della Pubblica Istruzione e dei suoi corpi consultivi). Le direzioni generali del ministero ritornarono a essere le quattro già fissate dalla legge Casati, i ruoli dirigenziali vennero ridotti da 37 a 21, furono soppressi gli ispettorati regionali per le scuole medie e quelli provinciali per le scuole elementari. Gli ispettori centrali divennero soltanto tre.

Gentile rinunciò a quel decentramento già sostenuto dal Fascio di educazione nazionale e in parte anche da Croce, nonché più volte richiesto in Parlamento. Nella convinzione di dover supplire a una congenita mancanza di autocontrollo da parte del corpo sociale, egli ripristinò un saldo centralismo burocratico. Abolì i consigli scolastici provinciali e istituì 19 provveditorati regionali, da cui dipendevano presidi e direttori didattici: i provveditori, di nomina centrale, non sottostavano a nessun organo di controllo e diventavano di fatto non i rappresentanti di un sistema scolastico locale ma alti funzionari dello Stato, in analogia con il più rigido dei modelli prefettizi. Gentile introdusse nella scuola secondaria il numero chiuso, regolato secondo il criterio dell’esame di ammissione. Il numero delle scuole governative – ridotto di un terzo – e la loro distribuzione sul territorio vennero disciplinati per legge; nessuna nuova scuola secondaria poteva essere istituita se non per decretazione specifica. La normalizzazione gentiliana tenne, peraltro, conto anche di ragioni ideologiche e politiche ben circostanziate, come quando il ministro trovò opportuno non opporsi all’intenzione fascista di procedere al più presto lungo la strada dell’unificazione legislativa e giuridico-economica delle province liberate di Trento e Trieste, che avevano conservato una certa autonomia di ordinamenti e di metodo anche nell’ambito scolastico.

Evidentemente le vicende dell’amministrazione scolastica non potevano essere svincolate dal quadro riformatore più ampio praticato dal fascismo: si proclamava la validità di un accresciuto intervento pubblico in economia, si progettava una generale integrazione delle masse nello Stato fascista, si insisteva sulle degenerazioni e sulle aporie del sistema parlamentare, si praticava costantemente il culto dell’ordine, rivolgendosi fatalmente al suo paradigma poliziesco. Con la riforma Gentile il ministro si trovava saldamente installato al vertice di una piramide costruita con criteri di cooptazione e, imputabile di ogni atto amministrativo, diventava in tal modo l’unico responsabile politico della scuola italiana.

Venne soppressa ogni componente elettiva negli organi collegiali del ministero. Il Consiglio superiore della Pubblica Istruzione e le varie giunte ritornavano a essere interamente di nomina regia, con compiti solamente consultivi. I rettori delle università, prima eletti dal Senato accademico, venivano ora nominati dal ministro e a lui dovevano rispondere; nei consigli di amministrazione, oltre al rettore, erano di nomina governativa due dei cinque membri. La tanto declamata autonomia didattica delle facoltà era di fatto regolata da uno statuto che doveva essere approvato con decreto reale e pertanto valeva soltanto nel rapporto tra le diverse università, ma non nei riguardi del potere centrale. Per quanto concerneva le scuole secondarie, anche qui furono rafforzati i poteri decisionali e ispettivi del preside, di nomina ministeriale, che doveva essere scelto tra i professori ordinari con almeno quattro anni di anzianità e con esclusione delle donne. Agli istituti privati veniva concessa la libertà di iniziativa nel quadro delle condizioni già stabilite dalla legge Casati, con il diritto di controllo e ispezione da parte dell’autorità pubblica in merito alla moralità, alla competenza degli insegnanti e all’igiene della scuola. Gli studenti delle scuole private avrebbero continuato a sostenere gli esami di Stato presso le scuole pubbliche e di fronte a commissioni esterne.

I decreti

È significativo il fatto che, in ordine di tempo, il riordinamento della scuola secondaria precedette quello dell’istruzione superiore e quello della scuola elementare e costituì la parte predominante dell’intera azione legislativa: alla riforma della scuola secondaria si applicò il citato decreto 6 maggio 1923 nr. 1054, seguito da altri due, sull’istruzione universitaria (30 sett. 1923 nr. 2102, Disposizioni sull’ordinamento della istruzione superiore) e sulla riorganizzazione dell’insegnamento elementare (1° ott. 1923 nr. 2185, Ordinamento dei gradi scolastici e dei programmi didattici dell’istruzione elementare).

La nuova istruzione secondaria era impartita al livello più basso e popolare nelle scuole complementari; quindi negli istituti tecnici e negli istituti industriali, dopo aver soppresso le sezioni di agronomia (doppioni delle scuole agrarie medie) e quelle fisico-matematiche (che consentivano l’accesso ad alcune facoltà universitarie); nei licei ginnasi (abolendo il ginnasio magistrale); nei licei scientifici; negli istituti magistrali (che ricomprendevano le scuole complementari-normali e i ginnasi magistrali) e infine in alcuni licei femminili dalla durata triennale e senza ulteriori sbocchi. Tranne questi ultimi, tutti gli istituti erano promiscui. Ogni istituto non poteva avere più di un certo numero di corsi completi, e mai classi separate e fluttuanti o più di 35 alunni per classe.

In confronto all’ordinamento precedente i cambiamenti erano numerosi e radicali: soprattutto le scuole complementari erano fini a se stesse e potevano essere aperte liberamente e facilmente là dove ve ne fosse stato bisogno per avviare al lavoro i giovani; nel 1928 saranno trasformate nelle scuole di avviamento professionale. Proprio la loro singolarità e modernità di impostazione le rese di fatto poco appetibili, perché erano state subito viste dalla piccola borghesia come un ripiego e un percorso deviato destinato alle classi lavoratrici. Il nuovo liceo scientifico dalla durata quadriennale riassorbiva tutte le sezioni cosiddette moderne o fisico-matematiche istituite nei vecchi licei o negli istituti tecnici, ma rimase comunque sprovvisto di un corso preparatorio proprio; vennero inoltre soppressi quasi tutti i corsi magistrali annessi ai ginnasi isolati (ridotti a soli 95) e tutte le scuole di preparazione alla scuola normale (i cosiddetti corsi complementari; ne furono soppressi 44). Infine, le scuole normali (ridotte da 153 a 87) vennero trasformate in istituto magistrale inferiore e superiore della durata complessiva di sette anni e dalla dignità pari a quella degli altri istituti superiori.

Eccettuate le scuole complementari, tutte le scuole secondarie contemplavano l’insegnamento del latino. Ai programmi annuali di insegnamento per classe vennero inoltre sostituiti i programmi di esame per ogni periodo di corso, e all’insegnamento manualistico venne preferito lo studio diretto degli autori, da inquadrarsi criticamente nel loro periodo storico. Nel generale malumore degli insegnanti, chiamati a un maggiore carico di lavoro, la riforma impose l’abbinamento delle cattedre di italiano e latino, di italiano e storia, di latino e storia, di storia e filosofia, di matematica e fisica, di filosofia e pedagogia, di scienze, chimica e geografia. Sul piano dello stato giuridico, il cambiamento più significativo riguardò invece il criterio e la politica dei trasferimenti, non più meccanicamente regolati per anzianità ma soggetti alla valutazione dei meriti e delle esigenze personali, di fatto ricondotta nelle mani degli organi dirigenti centrali.

Un nodo decisivo fu quello degli esami. L’accesso a ogni ordine e grado della scuola secondaria era finalmente regolato da quell’articolato sistema di esami di ammissione (non più di licenza) che, fondato su programmi diversi da quelli di insegnamento, affidato a commissioni esterne e di nomina ministeriale – con prevalenza di membri provenienti dal grado scolastico superiore al quale l’esaminando aspirava –, era stato l’oggetto del desiderio e la pietra dello scandalo della scuola italiana per almeno vent’anni. Di fatto, con la riforma Gentile del 1923 (ma le cose non durarono oltre il fascismo) nella scuola secondaria si entrava e si progrediva secondo la formula ‘esamina la scuola che riceve, non la scuola che invia’. C’era l’esame di ammissione alla prima classe della scuola secondaria inferiore, alla quarta classe ginnasiale, alla prima del corso superiore dell’istituto tecnico o magistrale, alla prima del liceo scientifico o classico. L’anomalia era invece rappresentata dall’esame di maturità (classica, scientifica, artistica). Alla fine della scuola secondaria la ‘scala degli esami’ viveva una discontinuità, perché la selezione non era fatta dalle università o dalle amministrazioni, ma da commissioni di Stato. Inoltre, la riforma Gentile manteneva agli esami di maturità e a quelli di abilitazione tecnica o magistrale (diretti alla professione di ragioniere, geometra o maestro) un carattere di cultura generale che superava il semplice livello abilitante. Stabiliva inoltre che l’esame finale avvenisse in sole quaranta sedi in tutta Italia.

Non va dimenticata nemmeno la riforma dell’istruzione artistica e le varie riforme dell’amministrazione del patrimonio archeologico, artistico e librario, la tutela del quale era di competenza di una specifica Direzione generale e di un sottosegretariato, istituito nel 1919. Nel tentativo di risolvere i conflitti interni a un’amministrazione sorta disordinatamente, soggetta ad appetiti e campanilismi vari e soprattutto mal motivata e poco formata, il decreto 31 dic. 1923 nr. 3164 (Nuovo ordinamento delle soprintendenze alle opere di antichità e d’arte) aveva risolto i conflitti gerarchici tra il soprintendente e i vari direttori e funzionari tecnici, riconoscendo solo al primo la dignità di un grado amministrativo dirigente. D’altra parte il numero delle soprintendenze era stato ridotto da 48 a 25, e la loro suddivisione era effettuata non più per criteri territoriali ma per ragioni di materia. Meritoria apparve subito l’abolizione delle vecchie accademie e degli istituti di belle arti, trasformati in scuole di perfezionamento e di tirocinio per gli studenti licenziati nei nuovi licei artistici o usciti dalle parallele scuole d’arte, a loro volta istituite per l’avviamento al lavoro nelle officine specializzate e nei laboratori artigiani.

In materia di insegnamento superiore e di reclutamento dei professori universitari vennero adottate le misure su cui da tempo era stato raggiunto, almeno a livello di specialisti, un ampio consenso: il conseguimento della libera docenza divenne oggetto di esami nazionali e il titolo poteva essere esercitato in qualsiasi università. L’attribuzione degli insegnamenti sarebbe passata in prima istanza sotto il controllo delle singole facoltà, che designavano la terna di liberi docenti entro la quale una commissione ministeriale avrebbe scelto il titolare. Il decreto 13 marzo 1923 nr. 736 (Riordinamento degli istituti superiori di Magistero) aveva già sciolto l’annoso problema del perfezionamento dei maestri e dell’abilitazione ad alcuni insegnamenti umanistici nelle scuole secondarie inferiori: i preesistenti istituti femminili di magistero si aprirono alla popolazione maschile e furono sostituiti da istituti superiori di carattere universitario, con sedi a Roma, Firenze e Messina. A essi spettava anche di completare la formazione dei licenziati dagli istituti magistrali e di abilitare gli insegnanti delle scuole elementari pubbliche all’ufficio di direttore didattico e di ispettore. Anche se venne concessa agli studenti la facoltà di costruirsi un personale piano di studi e venne abolita la distinzione tra insegnamenti fondamentali e complementari, di fatto l’università italiana continuò a patire della schizofrenia di essere ufficialmente pensata come una fucina di scienziati e di professionisti puri e di ridursi invece per lo più a essere dispensatrice di diplomi e di titoli per insegnare e per impiegarsi nello Stato.

Il decreto di riforma dell’istruzione superiore sanciva per la prima volta la legittimità delle università private all’interno di una tripartizione istituzionale i cui effetti durano tutt’oggi: vi erano le università pubbliche totalmente a carico dello Stato (Bologna, Cagliari, Genova, Napoli, Palermo, Padova, Pavia, Pisa, Roma, Torino, più sei scuole di ingegneria e una scuola di architettura a Roma); le università al cui funzionamento lo Stato contribuiva parzialmente e che vivevano in quanto realtà consortili con il coinvolgimento degli enti locali (Catania, Macerata, Messina, Modena, Parma, Siena e Sassari, successivamente Firenze con la trasformazione dell’Istituto di studi superiori, l’Università di Milano in luogo dell’Accademia scientifico-letteraria e finalmente, fondata ex novo, quell’Università di Bari la cui istituzione era stata richiesta a gran voce anche da Gaetano Salvemini e dai popolari); infine erano contemplate le università cosiddette libere, assolutamente private – a quelle allora esistenti di Ferrara, Perugia, Milano (Bocconi), Camerino e Urbino si sarebbe aggiunta la già citata Università cattolica di Milano. Tutte le università, sia statali sia non statali, potevano conferire lauree e gradi accademici, anche se la certificazione del valore professionale di alcune lauree era riservata a un nuovo esame di Stato, superiore a ogni autonomia universitaria, che si attuava in maniera quasi analoga a quella applicata per i concorsi pubblici banditi dallo Stato.

La riforma dell’istruzione elementare fu quella che si completò ben oltre il periodo del ministero Gentile, in particolare con la legge sul libro unico di testo (l. 7 genn. 1929 nr. 5, Norme per la compilazione e l’adozione del testo unico di Stato per le singole classi elementari) e, due anni dopo, con i provvedimenti sulla finanza locale (decreto 13 sett. 1931 nr. 1175, Testo unico sulla finanza locale), per effetto dei quali si completò l’avocazione allo Stato di tutte le scuole elementari comunali. Com’è noto, molto va attribuito allo sforzo e all’intelligenza di Lombardo-Radice, che si assunse il compito di preparare tale riforma e di attuarla guidando la corrispondente direzione generale del ministero. In generale veniva per la prima volta chiaramente riconosciuta l’impossibilità a che lo Stato si facesse carico di tutte le forme di alfabetizzazione, ma si decideva che nel caso di intervento pubblico esso doveva raggiungere un livello più elevato di efficienza e di decoro: da un lato si apriva così la via a una maggiore collaborazione tra pubblico e privato, riconoscendo tra l’altro i meriti di una lunga tradizione di interventi e di iniziative umanitarie e sociali, e dall’altro si pretendeva dall’ente pubblico, in primo luogo dai comuni, un rispetto e un impegno maggiore nell’essere degne controparti del governo centrale.

Nel citato decreto nr. 2185 (1° ott. 1923) l’istruzione obbligatoria veniva elevata fino al quattordicesimo anno di età (e per la prima volta anche ai ciechi e ai sordomuti) e si stabiliva che fosse impartita nella scuola elementare, portata da quattro a cinque anni e divisa in due cicli di tre e di due anni e in un corso integrativo di tre anni che aveva il carattere di un avviamento professionale e che riprendeva la formula del corso popolare istituito dalla legge Orlando (8 luglio 1904 nr. 407, Provvedimenti per la scuola e per i maestri elementari). Ma era a livello di programmi che l’ideale pedagogico della libertà spirituale del fanciullo emergeva in tutta la sua forza: contrario alla determinazione astratta delle forme e dei metodi dell’educazione, Lombardo-Radice si batté, più di quanto avrebbe forse fatto Gentile da solo, affinché fossero favorite la spontaneità e l’autonomia del fanciullo in un processo di valorizzazione del contesto culturale e sociale in cui era inserito. Grande attenzione fu quindi dedicata all’analisi e alla preparazione dei libri di testo, dei quali fu più volte ufficialmente denunciata la retoricità e l’inconsistenza pedagogica. In tal senso si può dire che il lato migliore e più duraturo della riforma Gentile vada ricercato proprio nell’attenzione dimostrata per i bisogni di una categoria inedita per la stessa cultura liberale italiana, quella dell’infanzia, più ancora che nelle soluzioni adottate per la scuola secondaria, in gran parte eredi della discussione preesistente.

Gentile lascia il comando

Gentile si dimise dal governo il 14 giugno 1924 (anche se le dimissioni furono ratificate il 1° luglio), in occasione della crisi politica che si aprì in seguito alle elezioni legislative del 6 aprile e al rapimento di Giacomo Matteotti del 10 giugno. Benito Mussolini dovette concedere spazi maggiori alle forze fasciste, e non poteva più permettersi il lusso di sostenere un riformatore troppo indipendente. A Gentile succedette il liberale Alessandro Casati, e la riforma parve quindi passare in mani capaci di consolidarla, ma la crisi politica in atto si concluse con la svolta autoritaria annunciata da Mussolini con il discorso alla Camera del 3 gennaio 1925; quindi Casati, sollecitato vigorosamente anche da Croce, il 5 gennaio dette le dimissioni, chiudendo così la parentesi della collaborazione liberale al governo fascista. Gentile si adoperò allora per avere subito al ministero il fedele Balbino Giuliano, ma le esitazioni del personaggio e in genere tutte le argomentazioni impacciate del circolo attualista spazientirono Mussolini, che delegò il governo della scuola allo storico Pietro Fedele, uno dei maggiori esponenti, con Luigi Credaro e Orso Mario Corbino, del fronte che aveva contestato la riforma Gentile.

In sostanza non si ricrearono mai più le condizioni politiche perché Gentile potesse tornare a gestire di persona la sua riforma: per il bene della causa e del fascismo (prese la tessera del partito nel 1923) egli giunse ad accettare di fare il vicepresidente del Consiglio superiore, sotto ministri che non lo stimavano, almeno fino al 1929, quando non approvò la condotta di Mussolini nella vicenda dei Patti lateranensi e si batté contro la confessionalizzazione dello Stato. Di fatto, la sua presenza come nume tutelare di una nuova scuola e di una nuova cultura non venne mai meno. Socio di varie accademie e fondazioni culturali, Gentile intensificò la propria militanza culturale e nel 1925, poco tempo dopo la consumazione pubblica della rottura con Croce e con il liberalismo, assunse la presidenza del neonato Istituto nazionale fascista di cultura e la direzione dell’Istituto Treccani, dove gettò le basi della grande Enciclopedia Italiana, che divenne il vero monumento della collaborazione intellettuale della borghesia illuminata italiana a una rifondazione su base ‘transpolitica’ della nazione. Nel 1928 diventò commissario della Scuola Normale di Pisa, e nel 1932 suo direttore, fino al 1943.

Il dopo della riforma

Alla storia della riforma Gentile appartiene a pieno titolo anche la vicenda delle opposizioni da essa incontrate, che ha in sostanza dimostrato quanto difficile fosse disgiungere dalle motivazioni politiche generali le valutazioni tecniche speciali, e per converso quanto rappresentativa di un diffuso sentire e di un originale bisogno di iniziativa pedagogica sia stata una riforma che sopravvisse a tutte le condanne di tipo esclusivamente politico. A maggior ragione essa risultò inizialmente incomprensibile allo stesso movimento fascista e a Mussolini, che di fatto ne scoprirono solo tardivamente la dirompenza civile e il retaggio culturale ‘europeo’. Nel corso del ventennio, il fascismo mostrò più volte di non riuscire ad appagarsene, e cercò in varia misura di liberarsi del modello di un umanesimo liberale colto che non apparteneva alla rappresentazione elementare di un Paese forte che il movimento voleva veicolare. L’intero impianto riformatore gentiliano correva anche il rischio di esasperare lo squilibrio tra modello istituzionale e realtà materiale e umana della scuola. Fin dal 1924 si procedette pertanto a uno sforzo di revisione – la cosiddetta politica dei ritocchi – che, venuta meno la supervisione dello stesso Gentile, una volta intervenuto il Concordato con la Santa Sede del 1929, mise a tacere tutte le opposizioni e, superate alcune gravi crisi economiche, sfocerà nella Carta della scuola del 1939.

In realtà, ciò che dell’opera di Gentile disturbò le correnti più ideologizzate del movimento fascista era il fatto che le sue premesse culturali erano sostanzialmente estranee, perché più lontane e più alte, al tentativo di mobilitare le masse attraverso la manipolazione del ceto medio. Per converso, agli occhi delle opposizioni democratiche e liberali proprio l’evidente disparità di dignità ideale e di forza morale esistente tra il fascismo e la pedagogia attualista che si era messa al suo servizio non poteva che confermare, talvolta troppo sbrigativamente – magari come alibi per nascondere responsabilità più antiche – l’idea di un volgare tradimento e di una resa tragica di pochi a danno di molti. In tal senso, secondo i liberaldemocratici vicini a Piero Gobetti, ma anche secondo i comunisti, anche se la riforma appariva corretta in molte sue parti, il quadro politico in cui essa si realizzava e la filosofia a cui si rifaceva concorreva a esaltarne anche i limiti: il rifiuto fascista di quanto di veramente nuovo stava emergendo nella società italiana avrebbe fatto piazza pulita dell’illusione di poter gestire il capitalismo in modo paternalistico e la società di massa per via filosofica.

Tra le numerose opposizioni alla riforma Gentile meritano un cenno particolare quelle di parte cattolica. Conformemente alla tradizione politica dei cattolici italiani, sempre complessa, anche i consensi e le riserve sulla riforma Gentile si ripartirono secondo la classica tripartizione sul modo di intendere, costruire e usare la loro autonomia e la loro partecipazione alla vita sociale. Vi erano coloro che, intransigenti sul piano dei principi e fieri oppositori dello Stato liberale, erano però attenti a sfruttare pragmaticamente tutti gli spazi di libertà concessi dal nuovo ordinamento – la posizione dei circoli vaticani, della «Civiltà cattolica» e di «Vita e pensiero» – coloro che colsero invece l’occasione delle aperture gentiliane ai principi dell’educazione religiosa e alla libertà scolastica per giustificare una loro precedente adesione al fascismo e all’antiparlamentarismo; infine coloro che – riuniti per lo più nel Partito popolare e in alcune associazioni cattoliche e già critici nei riguardi della filosofia della riforma – temevano il tentativo di Mussolini di far leva sul consenso di alcuni autorevoli ambienti religiosi per accreditarsi presso i vertici vaticani e indossare i panni moderati di un fedele alleato della Chiesa, come avvenne.

L’inattualità della riforma Gentile era quindi il segno della sua pretesa di essere vera e non soltanto efficace. Fu in sostanza una riforma da molti invocata, ma di fatto subita, da nessuno veramente voluta fino in fondo. Mentre Gentile si rese presto conto della necessità di abbracciare e nobilitare l’attivismo fascista – e pagherà con la vita la sua decisione –, parte del suo gruppo ritenne di poter sempre ricorrere a piacimento alla distinzione tra ‘fatto’ e ‘spirito’ della riforma stessa, come se il modo e il contesto in cui essa si andava affermando non potesse prevalere sul suo significato metastorico. Alla luce del fallimento del riformismo precedente, gli spazi di critica politica entro cui muoversi erano in verità diventati esigui, e l’élite scolastica e universitaria italiana, per difendere almeno il principio della continuità con un passato glorioso di battaglie, fu costretta, tranne poche eccezioni, a rimanere in gran parte prigioniera dell’illusione di una riforma valida comunque e per sé, una ‘riforma assoluta’.

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