LA RICERCA MUSICALE

XXI Secolo (2009)

La ricerca musicale

Giorgio Battistelli

Il problema

L’orizzonte della ricerca musicale appare oggi molto più indefinito che in passato. Non è nemmeno più ovvio distinguere tra una musica di ricerca e una pratica musicale generalizzata che sembra avverare una previsione formulata da Brian Eno (n. 1948) nei primi anni Ottanta, secondo cui gran parte della produzione musicale più avanzata sarebbe diventata opera di non musicisti, cioè di artisti privi di preparazione classica e spesso incapaci anche di leggere il pentagramma. Di certo, rispetto alle prime sperimentazioni elettroacustiche degli anni Cinquanta e Sessanta, lo sviluppo delle tecnologie ha provocato cambiamenti profondissimi. L’elaborazione elettronica del suono non è più appannaggio di pochi centri di ricerca istituzionali, ma è accessibile potenzialmente a tutti purché abbiano un buon computer, mentre il controllo esercitato sul materiale sonoro, considerato un tempo il discrimine fra le composizioni ingenue e quelle rigorose, è affidato alla competenza informatica piuttosto che al bagaglio della preparazione accademica.

Più ancora che con le possibilità e i limiti del mezzo informatico, però, occorre confrontarsi con un mutamento di paradigma che investe tutti i parametri della musica, dalla creazione all’esecuzione e all’ascolto. L’idea di una musica che evolve in modo progressivo, esplorando via via nuovi territori e lottando con l’eredità da cui proviene per oltrepassarla, esprime un modello di comprensione non più adeguato allo spazio sonoro in cui viviamo. Questo oggi è saturo di materia proveniente da ogni angolo della storia e della geografia. Abbiamo accesso a un repertorio immenso, possiamo ascoltare nello stesso giorno un canto siberiano, un mottetto fiammingo, un’aria d’opera di un minore settecentesco, una registrazione rara di Miles Davis (1926-1991), un pezzo rock e un movimento di una sinfonia di Anton Bruckner (1824-1896). Fino a cinquant’anni fa la musica si concepiva ancora secondo un asse diacronico: ogni compositore doveva misurarsi con l’opera delle generazioni precedenti e ricostruire la genealogia del proprio linguaggio. Oggi domina invece la verticalità dell’ascolto, c’è totale compresenza e pari legittimità delle epoche e degli stili, dalla musica medievale notata con neumi in campo aperto alla techno-music. In questo contesto il concetto di progresso musicale non ha più ragion d’essere e di conseguenza non ne ha più la nozione di avanguardia, la quale rinvia alla linearità di un processo storico che alcuni artisti sono in grado di precorrere anticipando i tempi, additando alla musica i suoi sviluppi a venire. Poiché tuttavia sperimentazione e ricerca musicale sono state, nel Novecento, simbioticamente legate ai movimenti d’avanguardia, sembra che con il tramonto di quest’ultima sia venuto meno anche il bisogno di una musica di ricerca tout-court.

Un nuovo paradigma richiede però che muti anche la prospettiva del giudizio. Un pensiero musicale che ci ha accompagnato a partire dal Romanticismo non è in grado di afferrare la situazione del presente. Il nostro orecchio e il nostro cervello sono sottoposti a continue trasformazioni del campo percettivo. Nuove tecnologie e nuovi media costringono a modificare il nostro atteggiamento nei confronti della musica. La rilevanza di questi fenomeni non è solo sociale, ma anche estetica e antropologica. Poiché il modello evolutivo, orizzontale, è stato sostituito da un modello globalizzato, verticale, è necessario chiedersi se la musica debba rimettersi soltanto a un laissez-faire governato dai principi del mercato oppure se vi sia ancora spazio per una ricerca qualitativamente diversa, che non emuli cioè tardivamente lo spirito e le dinamiche dei movimenti d’avanguardia.

La stessa vicenda novecentesca della musica d’avanguardia, d’altra parte, si mostra in una luce diversa se viene guardata in retrospettiva a partire dal potenziale critico offerto dal nuovo modello verticale. Separando gli intenti programmatici dai prodotti musicali concreti si scoprono elementi assai più fecondi di quanto non facciano ritenere atteggiamenti superficialmente liquidatori, tentativi di ricerca la cui traccia rimane viva ancora oggi. Non i gesti della trasgressione e dei limiti da oltrepassare, che non ci appaiono più come i marchi di garanzia di uno spirito di ricerca, bensì l’individuazione di nuovi campi proiettivi all’interno dei quali la musica incontra l’immaginario del presente e lo traduce in suoni, «crea un’immagine del mondo che non ha nulla a che fare con il mondo, un’arte di pensare che non ha nulla in comune col pensiero», come si potrebbe dire estendendo alla musica parole scritte da Henri Focillon (Vie des formes, 1934; trad. it. 1972, p. 9).

Musica e pensiero

È anzitutto nella vicinanza fra la pratica musicale e questa «arte di pensare» che si possono rintracciare non solo argomenti a favore di una musica di ricerca per l’attualità, ma anche segnali significativi che provengono dal panorama contemporaneo. In linea di principio la situazione non è diversa in musica rispetto a quello che avviene in altre forme d’arte: una constatazione, questa, che sottolinea come la musica non sia qualcosa di separato, un’isola rispetto al mondo dell’arte o della cultura in genere. Eppure è proprio una condizione di separatezza ciò che la musica sembra scontare rispetto agli altri ambiti delle pratiche artistiche. In un dialogo del 1983 con Pierre Boulez (n. 1925), Michel Foucault (1926-1984) notava il paradosso di un’arte, la musica, del tutto interna al contesto delle trasformazioni culturali ma percepita come un caso a sé, indipendente e per molti aspetti incomprensibile. «Come può essere», si chiedeva Foucault, «che noi sentiamo la musica come qualcosa di così lontano, di proiettato in una distanza quasi incolmabile, quando invece è così vicina e così consustanziale a tutta la nostra cultura?» (M. Foucault, P. Boulez, La musique contemporaine et le public, conversazione del 1983, in M. Foucault, Dits et écrits, 4° vol., 1994, p. 488). Gli esempi portati da Foucault hanno la forza dell’evidenza: con l’eccezione del cinema e della fotografia, la musica è stata più sensibile di ogni altra arte alle trasformazioni tecnologiche; il suo cammino nel Novecento presenta forti affinità con quello della pittura; infine «i problemi teorici che la musica ha posto a se stessa, il modo in cui ha riflettuto sul proprio linguaggio, sulle proprie strutture, sui propri materiali, sono il riflesso di un tipo di interrogazione che, mi pare, ha attraversato tutto il 20° secolo: un’interrogazione sulla ‘forma’ che è stata quella di Paul Cézanne o dei cubisti, di Arnold Schönberg e dei formalisti russi o della scuola di Praga», un’interrogazione sulla materia e sulla maniera di organizzarla che è stata la stessa delle altre arti e di molte scuole di pensiero nei campi del linguaggio, della filosofia, dell’estetica. Eppure, malgrado questa prossimità, i cambiamenti vissuti dalla musica non sono penetrati nell’immaginario collettivo. Essendo arte astratta per eccellenza, richiedendo la mediazione di interpreti ed esecutori, la musica tocca le nostre convenzioni culturali a un livello di profondità che spesso ostacola la sua ricezione anche da parte di chi, in altri ambiti della creazione artistica, sembra condividerne poetica e linee-guida: il caso di artisti sordi alla musica del loro tempo, o sorprendentemente disinteressati a una musica che non fosse pura classicità o intrattenimento, non è raro oggi e non lo è stato nel recente passato.

Questa condizione paradossale non può essere aggirata, ma deve essere assunta come una difficoltà in più per lo statuto della ricerca musicale: un problema di comunicazione che in molti casi, quasi per reazione, ha provocato atteggiamenti autoreferenziali di chiusura rispetto a ciò che avveniva altrove, nel mondo dell’arte e della cultura. Il rischio dell’omologazione e della rinuncia alla ricerca che oggi corre la musica si ripresenta anche negli altri campi delle pratiche artistiche. Nella musica, però, l’individuazione di un’esperienza rivelatrice, che abbia il valore di un punto d’incontro significativo per l’ascolto, appare attualmente un compito particolarmente arduo.

Un primo aspetto del problema riguarda le procedure di logoramento cui le esperienze artistiche vanno incontro, tanto più rapide quanto più un’arte è sensibile alle trasformazioni della tecnologia. La musica elettronica, per es., è stata consumata dallo sviluppo tecnologico più rapidamente di quanto non sia avvenuto per la tradizionale strumentazione acustica: un suono di violino può sorprenderci molto più di un suono elettronico, che possiede una codificazione più veloce e non ha la stessa durata emozionale. D’altra parte se pensiamo ai musicisti che hanno per primi esplorato lo spazio della musica concreta, autori come Pierre Schaeffer (1910-1995) o Pierre Henry (n. 1927), ancora oggi avvertiamo nella loro opera la freschezza e l’ingenuità della scoperta, sentiamo aprirsi paesaggi sonori nuovi, atmosfere percettive diverse e coinvolgenti più di quelle che sono state capaci di creare, in seguito, la stessa musica concreta e poi la ambient music. Malgrado il tempo trascorso, cogliamo in quella musica l’azione di un pensiero, l’individuazione di nuovi campi proiettivi, mentre nella ripetizione di quella formula o nelle sue applicazioni commerciali riconosciamo solo il ritorno del già noto, pronto per una confezione che lo appiattisce. Un secondo aspetto problematico deriva dall’effetto di dispersione seguito al venir meno del modello evolutivo, lineare, e di linguaggi artisticamente egemoni com’è stato a lungo quello dell’avanguardia. Oggi vi sono tante poetiche quanti compositori e occorre analizzare singolarmente i percorsi di ciascuno, cercando al limite di rintracciare quelle che Ludwig Wittgenstein chiamava «somiglianze di famiglia» ma rinunciando alle categorie di una visione d’insieme, come pure a qualcosa che possa essere definito una tendenza. Una difficoltà, questa, che si trasforma però in una nuova opportunità critica se la si applica anche ai musicisti delle generazioni passate: se si smette, cioè, di considerarli come rappresentanti di un’unica estetica e si pone attenzione ai passaggi del loro cammino artistico, alle loro coerenze e discontinuità.

La ricerca musicale si può vedere condensata allora nell’inquietudine di compositori che, ieri come oggi, non cristallizzano la loro opera in una formula ma tentano nuove vie mettendosi costantemente in discussione. Una musica all’altezza dell’attualità non può né riciclare il già noto, né insistere sulle formule standardizzate di uno stile, né ancora cedere a un atteggiamento di chiusura autoreferenziale, ma neppure limitarsi alla ricerca della novità per la novità o legittimarsi solo grazie all’uso di una tecnologia aggiornata. La ricerca musicale è piuttosto un processo di pensiero che, attraverso i suoni, individua nuovi campi proiettivi dell’immaginario e restituisce all’esperienza musicale quella dimensione d’incanto a torto trascurata dalle ideologie dell’avanguardia e dai rappresentanti del suo stile. Il compositore tedesco Karlheinz Stockhausen (1928-2007) ha parlato della bellezza in musica paragonandola a uno straniero che si presenta a noi parlando magari una lingua incomprensibile, ma chiedendo di essere accolto e ascoltato. Di qui discende, per un verso, l’idea che la musica di ricerca sia un incontro con una forma di estraneità radicale, inattesa; per un altro, quella che la musica sia essenzialmente un’esperienza, l’ascolto di un pensiero che trasforma sé stesso e chi vi si affida.

La musica di ricerca segue oggi strade diverse, molte delle quali dipendono ancora dalle istanze di sperimentazione avviate dai compositori del dopoguerra. È possibile, però, distinguere alcuni elementi che permettono di raggruppare percorsi individuali seguendo linee di demarcazione verticali, non riconducibili alla cronologia di un’evoluzione storica. Niente più che «somiglianze di famiglia», ma già un criterio utile all’osservazione. Per limitare il campo verranno presi qui in considerazione, con alcune significative eccezioni, solo compositori ancora in attività o scomparsi alle soglie del nuovo secolo. Nella loro opera si cercherà di rintracciare, sia pure in modo sommario, un cammino di ricerca e un pensiero musicale che abbiano prodotto innovazioni feconde. Andando al di là dei programmi e delle poetiche, verrà delineato un panorama certo non esaustivo, ma indicativo del fatto che la ricerca di nuovi campi proiettivi, quando è stata condotta in termini essenzialmente musicali, si misura costantemente con l’esperienza dell’incanto.

I maestri del cammino

Nominare la questione dell’incanto porta su un territorio ambiguo. L’incanto può essere inteso come una forma di rapimento estatico oppure come un gioco incantatorio, il trucco di un mago, l’opera di quello che gli studi di antropologia culturale identificano con la figura del trickster. C’è però un uso diverso della parola che va nella direzione dell’indugio, del rallentamento e della sospensione del tempo, persino della contemplazione. È quello a cui si riferisce Hans-Georg Gadamer quando, per descrivere l’incontro con l’opera d’arte, impiega il termine Verweilen, che in tedesco significa «lasciar essere», «sostare», «trattenersi presso» (cfr. H.-G. Gadamer, Wahrheit und Methode, 1960; trad. it. 1986). Quest’ultima accezione è ciò che la musica può opporre tanto al suo degrado quanto alla velocità del consumo e del logoramento cui va incontro quando si affida esclusivamente alle novità della tecnologia. In questo senso l’incanto, come la bellezza e l’organizzazione del materiale sonoro in una forma, costituisce uno dei caratteri determinanti dell’esperienza musicale in genere. Lo stile dei movimenti d’avanguardia si era talmente preoccupato della cancellazione del soggetto da rinunciare per partito preso all’incanto in favore di una composizione oggettiva, calcolata: una teoresi inevitabilmente votata al formalismo. Eppure anche nell’opera dei maggiori compositori del secondo dopoguerra non è difficile rintracciare la ricerca di una dimensione d’incanto raggiunta, a volte, al prezzo di cesure che hanno disorientato i loro stessi sostenitori, in qualche caso convertendoli in detrattori.

Un compositore come Stockhausen ha individuato, per es., un’area sensibile – musicale, non solo poetica e non solo mistica – fin dalle sue prime opere nelle quali, come in Gesang der Jünglinge (1955-56), la scoperta dell’elettronica e del lavoro sui nastri registrati, insieme a una condotta rigorosissima del contrappunto, creavano un effetto di fascinazione sonora andando oltre i processi formali già noti. Successivamente, dopo avere affinato la sua volontà di immergere l’ascoltatore nell’esperienza musicale tramite tecniche di spazializzazione delle fonti di emissione del suono, a partire soprattutto da Inori (1974) per due mimi-danzatori e orchestra, Stockhausen ha orientato la sua ricerca verso una funzione della musica completamente diversa, non più limitata a valori estetici ma di tipo magico-religioso. L’impresa del ciclo Licht (1981-2003), nella quale sette opere sono dedicate ciascuna a un giorno della settimana, portava a sintesi il lavoro sulla spazialità del suono e sulla sua vocazione religiosa, cerimoniale, ma al tempo stesso inventava una modalità d’ascolto e un clima musicale lontanissimi da quelli dei suoi inizi, oltre che una procedura compositiva basata sulla definizione di quella che egli volle chiamare Formula (già sperimentata in Mantra, 1970): una sorta di proliferazione della serie che stabilisce, in una frase iniziale, tutti i parametri del suono per poi lasciarli alla più ampia libertà di elaborazione. Contemporaneamente Stockhausen ha proseguito i suoi esperimenti sull’elettronica, per es. nel ciclo Klang, progetto avviato nel 2004 e dedicato alle 24 ore del giorno: dall’ascolto dell’ultimo pannello da lui composto, Cosmic pulses (2007), si avverte l’intensificazione dello studio sulla forma da lui già condensato in opere come Telemusik (1966), ma al tempo stesso emerge una sorta di disinteresse nei confronti della componente timbrica, lasciata talmente sullo sfondo da apparire sorprendentemente simile a quella delle sue prime composizioni elettroniche. Da questo punto di vista Stockhausen si è dimostrato indifferente alla novità tecnologica del suono e attento, invece, ai processi costruttivi in grado di produrre quell’effetto di immersione nell’evento musicale vissuto, appunto, come un’esperienza visionaria.

Anche nel cammino artistico di Luigi Nono (1924-1990) si può riconoscere l’esistenza di un ‘primo’ e di un ‘secondo stile’, con un punto di cesura individuabile intorno all’abbandono dei progetti più esplicitamente politici e alla composizione di Prometeo, tragedia dell’ascolto (1984). Di fatto, Prometeo rappresenta l’approdo estremo e per molti aspetti imprevedibile di un’interrogazione sul suono che Nono aveva iniziato già molto tempo prima e che aveva proceduto lungo una duplice linea direttrice, fisica e antropologica. Di fisica o, meglio, di microfisica del suono Nono si è occupato chiedendosi da dove esso nasca, come si propaghi e, soprattutto, come renderlo espressivo tramite la sua messa in forma. La diffusione del suono con le tecniche di spazializzazione permesse dal live electronics, problematizzata, per es., in Fragmente – Stille an Diotima (1980) e nella prima tappa di avvicinamento a Prometeo (Io, frammento dal Prometeo, 1981), lo ha condotto a una progressiva rarefazione dell’aspetto ritmico e a un’intensificazione della sperimentazione armonica, con sovrapposizioni di elementi che mettono in questione il rapporto tra le fonti d’emissione sonora e l’ascoltatore. Il confronto con le nuove tecnologie si è tradotto così nella scoperta di nuove sonorità capaci di restituire all’esperienza musicale il suo tempo d’indugio, il suo rallentamento di fronte al pericolo di consumazione intrinseco ai contenuti politici dei suoi primi lavori. L’impresa di Nono è paragonabile a quella di un architetto che avesse costruito un villaggio ma che, non appena questo avesse raggiunto le dimensioni di una città, fosse tornato indietro a ricostruirlo strada per strada, senza paura di ricominciare da capo. D’altra parte la sua indagine dentro e intorno al suono si è sviluppata in strettissimo rapporto con gli interpreti, la cui fisicità e i cui sentimenti sono stati da lui coinvolti nella genesi di composizioni nate non a tavolino, ma in un laboratorio collettivo, facendo leva su una sorta di antropologia dell’interpretazione. È questo il caso di Prometeo, ma lo era già stato di composizioni più lontane nel tempo come À floresta é jovem e cheja de vida (1966), al punto da poter essere considerata una metodologia di ricerca e di lavoro da lui proseguita in esperienze diverse fino a La lontananza nostalgica utopica futura. Madrigale per più ‘caminantes’ con Gidon Kremer (1988). Davvero, nel caso di Nono, il motto da lui scelto per tre delle sue ultime composizioni (1987-1989), completato titolo dopo titolo, è il simbolo di una vita vissuta nel segno della ricerca musicale e un’indicazione più generale su come questa debba essere intesa, in senso sia etico sia estetico: Caminantes, no hay caminos, hay que caminar… soñando.

La capacità di rimettere in discussione i principi del proprio lavoro seguendo un’esigenza sperimentale che non si è fermata ai singoli risultati smentisce l’impressione di una musica d’avanguardia ridotta a puro calcolo, a uno strutturalismo ingegneristico, un gioco con le perle di vetro equivalente a qualsiasi altra forma di manipolazione sonora, ma oltretutto così poco attenta ai valori dell’ascolto da essere diventata proverbialmente priva di capacità comunicative e, conseguentemente, di pubblico. Una massa di compositori si è adeguata a questo stile privo di immaginazione e di intuizione, tormentato dalla scomunica adorniana nei confronti del «godimento estetico». Soltanto gli autori più sensibili hanno saputo attraversare questo deserto trovando, all’altro capo del viaggio, motivazioni nuove e soluzioni in grado di negare l’equazione per cui la ricerca musicale è identica ai suoi contenuti ideologici e programmatici. Franco Donatoni (1927-2000), per es., è passato da uno stile autoreferenziale, pensosissimo, a una più libera autenticità espressiva anche tramite l’esperienza della malattia, da lui sublimata nell’opera Alfred Alfred (1995), il cui protagonista è lo stesso compositore che assiste in silenzio a una serie di eventi paradossali dal letto d’ospedale in cui giace ricoverato. Come se la sofferenza avesse strappato gli schermi di protezione di cui si era dotato, i sistemi combinatori che in lui tendevano per programma a trasformare l’alea in automatismo, e lo avesse lasciato per così dire a corpo nudo, costretto a fare affidamento sul proprio intuito, Donatoni ha trovato una dimensione musicale d’incanto carica di ironia. Prom (1999) per orchestra è, in questo senso, il lascito testamentario di un autore che ha saputo rivitalizzare, nella sua ultima fase creativa, la carica seduttiva di cui aveva dato dimostrazione in lavori più lontani come Puppenspiel I (1961) o Black & white (1964). Allo stesso modo Iannis Xenakis (1922-2001), pur non rinunciando ai calcoli e al razionalismo numerico del suo metodo di composizione stocastica, negli ultimi esperimenti compositivi è arrivato a occuparsi della musica come evento, Erlebnis, esperienza vissuta di tipo mitologico ed esistenziale. Da lui è venuto allora un invito all’ascolto del suono in profondità, con un ispessimento dei suoi valori fisici: la massa di impatto di composizioni come Keqrops (1986), per pianoforte e orchestra di 92 elementi, o Sea-change (1997), per orchestra di 88 elementi, mostra una magistrale capacità di costruire cattedrali sonore piene di materia e, se si pensa ai suoi lavori precedenti, paradossalmente poco interessate alla cura dei dettagli. A questo livello il suono della musica di Xenakis si esprime con una libertà di cui non era capace quando lo armava di strutture.

Una ricerca musicale incline a una continua trasformazione dei risultati raggiunti non è stata però appannaggio esclusivo dei compositori di area colta o accademica, ma è stata perseguita anche da artisti attivi in ambiti diversi, per i quali un principio di metamorfosi ha corrisposto all’inquietudine di un’interrogazione sul proprio universo espressivo. Nel caso della musica jazz questo tipo di atteggiamento è diffuso, specie in quelle esperienze che si allontanano dai suoni e dai gesti più fortemente connotati e stratificati in una pluralità di stili. È però nella strada percorsa da ciò che è stato chiamato Free jazz, e più ancora in quelle esperienze di composizione estemporanea legate, in Europa, soprattutto ai nomi di Misha Mengelberg (n. 1935) e Han Bennink (n. 1942), che si trovano punti di intersezione con la ricerca musicale condotta dai compositori di area colta. I connotati di riconoscimento della matrice jazzistica vengono infatti talmente riformulati da inoltrarsi in una terra di nessuno in cui non valgono più campi di appartenenza. Su un altro piano, appare guidato da uno spirito di ricerca originale il cammino di Frank Zappa (1940-1993), la cui via sperimentale rappresenta l’esempio più flagrante di contiguità fra il mondo del rock e quello della musica di estrazione accademica. Già nel suo modo di adoperare il virtuosismo c’è la volontà di dar vita a un’azione musicale che può essere avvicinata a quella di un compositore come Mauricio Kagel (1931-2008). Inoltre nel suo ultimo progetto portato a termine, The yellow shark (1992), Zappa ha mostrato di mirare consapevolmente a una fusione di orizzonti collaborando con un’orchestra da camera, l’Ensemble Modern, ma senza dar vita a una musica separata dalla sua esperienza nel rock. Il lavoro compiuto da Zappa con gli strumentisti dell’orchestra tedesca non è molto dissimile da quello realizzato da L. Nono con i solisti del Prometeo: Zappa ha infatti sollecitato l’inventiva degli interpreti, ha dato consistenza teatrale ai numeri virtuosistici, ha forzato la materia sonora in modo da produrre effetti nuovi anche nel caso dell’esecuzione di brani appartenenti al suo repertorio consolidato (come Uncle meat e Dog breath variations). La diffusione in sala di concerto con un impianto a sei canali separati, gli omaggi espliciti a Edgar Varèse, la capacità di gestire strutture musicalmente complesse come quelle di None of the above, uno dei brani composti per l’occasione, mostra come anche il rock non sia estraneo allo spirito che ha attraversato le più importanti esperienze dell’avanguardia e come, dunque, esso non sia condannato alla standardizzazione cui lo costringe la rinuncia a confrontarsi con gli altri territori della ricerca musicale.

Alla radice però dell’avventura in territori musicalmente inesplorati, con un impatto che è andato ben oltre l’ambito della composizione di matrice colta o accademica, e forse ben oltre il valore di molte singole realizzazioni, c’è il percorso di John Cage (1912-1992). Più di ogni altro Cage ha perseguito la dimensione dell’incanto aprendo crepe nelle certezze del formalismo d’avanguardia e ampliando lo spettro uditivo delle nostre esperienze musicali. Dopo Cage abbiamo imparato a rivalutare l’imperfezione della forma e del suono, anche attraverso la ‘preparazione’ di strumenti come il pianoforte, come pure abbiamo imparato ad ascoltare il silenzio spostando l’attenzione verso ciò che lo riempie, si tratti dei rumori di fondo di una sala da concerto oppure del suono flebilissimo dei nostri organi interni da lui ‘scoperti’ in una camera anecoica della Harvard university. Dopo Cage il serialismo integrale, teoretico, ha dovuto fare i conti con l’aleatorietà del fenomeno musicale e questo, a sua volta, è stato sottratto al piano sociale per esser consegnato a una visione idealistica che concepisce l’ascolto come un atto creativo. Per la musica del Novecento e per quella del nuovo secolo Cage rappresenta una sorta di figura messianica: il personaggio di cui si aveva bisogno e che ha prodotto un pensiero nuovo, schiudendo un nuovo spazio di sperimentazione e decostruendo le dialettiche del progresso. Un principio di trasformazione continuo è insito nella sua opera e non può essere ricondotto a fasi o a stili successivi, ma a una pratica compositiva ed esecutiva vissuta come un esempio di autonomia creativa.

I maestri del compimento

Non tutta la ricerca musicale degli ultimi decenni ha proceduto e procede trasformando il punto di vista dal quale ci si misura con la materia sonora. Un modo diverso di operare mira al perfezionamento della forma e alla costruzione di oggetti sonori nei quali anche l’apporto della tecnologia funziona come un fattore di consolidamento architettonico. Il compimento dell’opera è la preoccupazione fondamentale di autori che lavorano con una disciplina dal sapore classico, artigianale, ma che nel far questo si oppongono a ogni principio di standardizzazione. Si può pensare, per un paragone contrastante, ai procedimenti di giustapposizione con i quali lavora gran parte della cosiddetta sperimentazione che si rimette alle potenzialità della tecnologia informatica, per es. a quelli dei dee-jay più radicali. Materiali preesistenti vengono frantumati e segmentati fino ad atomizzarli e a riunirli poi intorno a centri di condensazione ben riconoscibili, nei quali precipita anche un’energia collettiva: ritmi ostinati, pulsanti, esposizioni e cambiamenti timbrici che ritroviamo anche al cinema o in televisione, ma resi più astratti. La loro è una tecnica di montaggio vicina a quella del materiale visivo che neutralizza, però, la forza e lo spessore storico di ciò che è propriamente musicale. I suoni diventano tutti omogenei: si può prendere una scheggia di canzone rock o di una Sinfonia di Mahler, come pure il rumore di un vetro che si rompe. È un esempio intensivo di globalizzazione a cui si oppone punto per punto la ricerca musicale rivolta al compimento di oggetti sonori architettonicamente perfetti. Nel gioco manipolatorio che si basa su standard tecnologici hanno largo spazio l’improvvisazione e la performance, spesso con esiti non troppo dissimili da quelli della composizione istantanea. L’abilità a volte strabiliante dei dee-jay si risolve, però, in un consumo non meno istantaneo: non c’è indugio in questo tipo di esperienze sonore e l’incanto, quando si produce, svanisce subito per logoramento, saturazione, o per l’avvento di una tecnologia ulteriore. Al contrario, le composizioni guidate dal criterio del perfezionamento della forma e da un trattamento non standardizzato del materiale sonoro richiedono di sostare: non potrebbero essere ascoltate senza cedere alla necessità dell’indugio. Il tempo di simili opere è quello della longue durée, la ricerca che vi si incarna ha i crismi dell’antichità, della musica intesa al tempo stesso come scienza e come lavoro manuale.

Una bellezza pura, classica, nel suo rigore a volte incline al formalismo, è quella delle composizioni di Pierre Boulez (n. 1925), il quale fa uso della tecnologia per rafforzare il controllo dell’effetto acustico. Di classico, nella musica di Boulez, c’è anzitutto il valore assegnato alla dimensione persino scultorea della forma: la sua musica è fatta di oggetti duri, ben modellati, nei quali alla materia sonora non è concessa alcuna sbavatura. La trasparenza delle strutture ottiene però, all’ascolto, risultati ipnotici, incantatori, ottenuti non con la novità dei suoni, ma con la percezione dell’ordine che li governa. C’è, da questo punto di vista, una coerenza ferrea tra le sue composizioni risalenti agli anni Cinquanta e Sessanta (Le marteau sans maître del 1953-1955 o Pli selon pli del 1957-1962) e quelle realizzate presso l’istituto di ricerche acustiche e musicali parigino dell’Ircam, di cui Boulez è stato promotore e presidente: l’uso del live electronics in opere come Dialogue de l’ombre double (1985), Répons (1981-1984) o …explosante-fixe… (versione del 1991-1995) mira a scavare dentro il suono degli strumenti coinvolti – clarinetto, flauti, ensemble orchestrale – senza fuoriuscire dallo spazio acustico, ma per rimodellarne l’effetto in modo da renderlo trasparente e icastico. In Sur incises (1996), per tre pianoforti, tre arpe e tre percussioni, l’ausilio del dispositivo elettronico scompare, lasciando spazio solo a un suono acustico trattato con nitidezza assoluta e capace, proprio per questo, di far discendere dalla percezione delle armonie e delle strutture un impatto persino seduttivo.

Sui valori del timbro si è concentrata la ricerca musicale di Gérard Grisey (1946-1998), la cui opera appare costantemente guidata dalla domanda sulle funzioni che i parametri del suono possono svolgere all’interno della composizione. Nei suoi ultimi lavori, per es. in L’icône paradoxale (Hommage à Piero della Francesca, 1994) per due voci femminili e grande or-chestra divisa in due gruppi, l’analisi spettroacustica del suono a cui i manuali di storia della musica legano il suo nome (la musique spectrale) e l’esplorazione del territorio di confine rappresentato dal rumore sfilano in secondo piano rispetto alla ricerca di una dimensione che privilegia l’impatto emotivo del timbro, annullando così ogni rischio di chiusura autoreferenziale. Un processo originale di condensazione delle grandi forme classiche nella miniatura musicale caratterizza invece l’opera di György Kurtág (n. 1926). Sintetizzando due eredità molto diverse fra loro, quelle di Béla Bartók da un lato e di Anton Webern dall’altro, Kurtág ha creato un tipo di incanto che dipende dalla continua elusione delle aspettative d’ascolto. Dal punto di vista formale con la nitida percezione di architetture monumentali concentrate nella durata di un aforisma musicale; dal punto di vista del suono con la scelta di organici strumentali per lo più di piccole dimensioni, e spesso inconsueti, che prosciugano il suono depurandolo da ogni intenzione retorica. Nei Messaggi della defunta signorina Trussova (Poslanija pokojnoj R.V. Trusovoj, 1980), per soprano e piccolo ensemble, o in Kafka-Fragmente (1985-86), per soprano e violino, la sobrietà dei colori e la densità della costruzione ottengono effetti espressivi inaspettati e di impatto immediato. In brani come Grabstein für Stefan (1989), per chitarra e piccolo ensemble, o Samuel Beckett: what is the word (1990-91) la dislocazione degli strumenti in luoghi differenti mette in luce una personale poetica dello spazio sonoro che tuttavia non si associa a una drammaturgia dell’ascolto, bensì contribuisce a rendere evidente il processo di condensazione formale della sua scrittura.

Un caso a parte, anche per l’eclettismo che ha contraddistinto la sua opera, è quello di Luciano Berio (1925-2003). Un musicista onnivoro, Berio, che ha messo in discussione e rinnovato alcuni dei problemi estetici di maggior peso della storia musicale, come il rapporto con l’eredità del passato e la relazione fra testo e suono, nodo centrale soprattutto del far musica con il teatro. Berio ha condotto la sua ricerca con mezzi prettamente musicali, facendo del testo appunto un materiale musicale, fosse o no indagato nelle sue componenti fonetiche, problematizzando la dimensione dell’ascolto anche attraverso una sorta di cammino in equilibrio fra elementi narrativi e antinarrativi. Si potrebbe pensare ai suoi primi lavori per il teatro, a Passaggio (1963) e a Laborintus II (1965), entrambi su testi di Edoardo Sanguineti, e confrontarli con Outis (1995, libretto di Dario Del Corno) o Cronaca del luogo (1999, su testo di Talia Pecker Berio), passando attraverso le due opere scritte in collaborazione con Italo Calvino (La vera storia del 1981 e Un re in ascolto del 1984), per avere chiara l’immagine di una ricerca musicale autonoma, ricca di espressività e capace di produrre incanto anche tramite la coordinazione dei gesti fisici e musicali degli interpreti: a una sorta di drammaturgia dell’ascolto, in fondo, possono essere ricondotte le 14 Sequenze per strumenti solisti (1958-2002). L’uso della tecnologia, nella musica di Berio, non è effettistico o decorativo, ma definisce e amplifica il lavoro di analisi sonora dei testi. L’inventiva formale ha permesso oltretutto a Berio di coniugare mondi musicali diversi, con una capacità pari forse soltanto a quella di Stravinskij nel costruire musica sulla musica. Berio ha messo in relazione dialettica il presente e il passato, come pure materiali che prima di lui erano semplicisticamente considerati ‘alti’ e ‘bassi’. Che si trattasse di melodie popolari, come nelle Folk songs (1964), oppure di opere preesistenti di autori come Luigi Boccherini (Quattro versioni originali della ritirata notturna di Madrid, 1975), Franz Schubert (Rendering, 1988) o Giacomo Puccini (nuovo finale per Turandot, 2002), Berio ha saputo trasformare la disciplina tradizionale del comporre nella risorsa fondamentale di una nuova forma di pensiero articolata in suoni.

L’obiettivo della perfezione costruttiva ha dato luogo anche a un tipo di ricerca musicale differente, basata sulla continua ricombinazione di elementi già acquisiti. Per usare un’immagine, è come se, dopo avere individuato un nuovo campo proiettivo, alcuni compositori abbiano voluto proseguirne l’esplorazione e disegnarne la mappa aggiungendo sempre nuovi dettagli. Il tipo di scrittura utilizzato da György Ligeti (1923-2006) è sintomatico, in questo senso, per la rinuncia alle classiche categorie dello sviluppo dei materiali musicali impiegati. Ligeti predilige un montaggio di inquadrature sonore che ha forti analogie con il linguaggio visivo, tanto che alcune sue composizioni sono state felicemente impiegate nel cinema, e una sorta di costruzione a pannelli rimasta pressoché intatta fin dalle partiture scritte negli anni Sessanta, da brani come Apparitions (1958-59), Atmosphères (1961), Requiem (1963-1965). I glissati degli archi, le micropulsazioni asimmetriche dei fiati, la simulazione di movimenti ritmici nel passaggio del materiale da una sezione dell’orchestra all’altra, sono modalità che permettono a Ligeti di produrre l’impressione di un falso movimento, di ottenere l’effetto di una stasi ipnotica il cui valore d’incanto, innegabile, si ripropone con le stesse caratteristiche in ogni composizione. Allo stesso principio costruttivo si rifà Helmut Lachenmann (n. 1935), il cui lavoro sul suono ha seguito le orme di L. Nono giungendo, però, a risultati diversi anche perché privi del contributo dell’elettronica. Lachenmann ha riabilitato l’elemento ornamentale in musica intendendolo come un esercizio del pensiero irriducibile a ogni tentativo di traduzione narrativa o rappresentativa. Le sue sonorità appaiono come sospese nel vuoto, pieghe e spirali che si presentano in combinazioni via via differenti, ma che rivelano anche una solida corporeità. La forma viene creata tramite la determinazione di elementi nucleari, materie prime che conservano ciascuna la propria individualità senza essere sottoposte a sviluppi, come avviene esemplarmente in Concertini (2005) per orchestra. In Das Mädchen mit den Schwefelhölzern (1996), musica con immagini destinata al teatro, e con gli strumenti dislocati nello spazio intorno al pubblico, la scrittura vocale non ha rapporto con il significato delle parole e non le tratta neppure come fonemi, ma isola il canto come una presenza strumentale che si sovrappone alle altre sorgenti sonore, quelle di una grande orchestra, mettendo in luce la fisicità dell’emissione. Una linea direttrice simile è riconoscibile nella musica di Salvatore Sciarrino (n.1947), il quale per un verso approfondisce l’analisi del suono condotta da Nono portandola verso un livello estremo di essenzialità e una dimensione ecologica dell’ascolto, per un altro lega le sue istanze di asciuttezza a un tipo di invenzione basata sulla diversa disposizione degli elementi e sulla concatenazione di frammenti. Sciarrino cerca di cogliere le radici del suono e del processo attraverso cui, organizzandosi, diviene musica. Sia che prosciughi l’organico strumentale a pochi elementi, come nell’opera in due atti per il teatro Luci mie traditrici (1998) o in Quaderno di strada (2003), per baritono solo ed ensemble strumentale, sia che lo ampli a dismisura, come negli Studi per l’intonazione del mare (2000), Sciarrino ottiene analoghi effetti di fascinazione che vogliono quasi riprodurre una ‘prima volta’ dell’ascolto messo in contatto con la natura, anche nascosta, della musica strumentale e del canto.

Una domanda sull’origine del suono muove anche il lavoro di Beat Furrer (n. 1954) verso l’esplorazione di un territorio individuato con chiarezza fin dalle prime composizioni, per es. in opere come Die Blinden (1989) e Narcissus (1994). Nel rapporto con i testi e nel trattamento della voce si avverte l’esigenza di retrocedere fino a espressioni non impostate, non educate, intese come ritorno alla natura primaria dell’emissione vocale, mentre sul piano strumentale Furrer procede passando dal pieno al vuoto per sottrazione progressiva di segni e di materia. L’elemento visivo sottolinea spesso il senso della sua ricerca facendo esplodere la musica in gesti di forte evidenza drammaturgica. In Fama (2005), da lui definita una forma di «teatro dell’ascolto», gli strumentisti abbandonano via via il palcoscenico e continuano a suonare dietro le quinte, o in altri punti della sala, mentre il direttore rimane sul podio e continua a guidare, in collegamento video, quella che agli occhi dello spettatore appare come un’orchestra assente, spettrale. Fama, a tutt’oggi l’opera più significativa di Furrer, rivela forti continuità con le composizioni precedenti soprattutto dal punto di vista della costruzione, un montaggio e una ricombinazione di elementi che tendono a variare la configurazione di uno stesso campo proiettivo cogliendone, però, sfumature imprevedibili.

Al di là della novità del suono

Se i fenomeni di reazione all’egemonia dell’avanguardia hanno abbattuto tabù che limitavano gli orizzonti della ricerca musicale e hanno permesso di scrivere diversamente la storia della musica del Novecento, il loro approccio alla composizione è stato spesso condizionato da un atteggiamento non meno programmatico, ideologico, di quello che veniva da loro stessi contestato. In Italia, in particolare, il gruppo dei compositori che negli anni Ottanta sono stati definiti Neoromantici, nel quale spiccano i nomi di Lorenzo Ferrero (n. 1951), Carlo Galante (n. 1959) e Marco Tutino (n. 1954), ha guardato al recupero della tradizione musicale che le avanguardie avevano negato, soprattutto nel campo dell’opera lirica, seguendo un criterio più di restaurazione che di ricerca. Analogamente, gli impulsi derivati, a partire dagli anni Sessanta, dal minimalismo americano si sono codificati in uno stile molto riconoscibile, standardizzato, privo dell’emozione sperimentale che ancora circonda brani pionieristici come In C (1964) di Terry Riley (n. 1935), o come Einstein on the beach (1976), opera che portò alla ribalta mondiale il nome di Philip Glass (n. 1937). Avere individuato un campo proiettivo molto potente, capace di produrre un incanto immediato nell’ascolto, come pure di prestarsi con grande versatilità a esiti narrativi o mistici, non ha prodotto nel tempo trasformazioni significative né ha dato vita all’esigenza di perfezionare la mappatura di un territorio. Il versante minimalista è stato ripetitivo non tanto per un’opzione estetica, quanto piuttosto a causa della sostanziale identità delle sue proposte. Poche eccezioni, in questo panorama, confermano indirettamente questo giudizio e mostrano quanto la ricerca musicale sia legata oggi a singole esperienze che si distaccano da uno sfondo omogeneo. Si possono citare i nomi di John Zorn (n. 1953), passato instancabilmente a generi e territori diversi fino all’approdo del progetto Masada, da lui avviato nel 1992; di Steve Reich (n. 1936), nella cui musica un uso molto soft della tecnologia introduce elementi di varietà all’interno di un ambito espressivo non riproposto tale e quale, ma messo di continuo alla prova; di John Adams (n. 1947), il più ‘classico’ tra i compositori minimalisti e il più attento sperimentatore di suoni acustici tanto nelle composizioni per orchestra o per ensemble, quanto in teatro, ambito al quale si è dedicato intensivamente e con modalità differenti da Nixon in China (1985-1987) a Doctor atomic (2005) e A flowering tree (2006).

Queste considerazioni sul minimalismo americano permettono di mettere a fuoco un problema cruciale. Da un lato, non è sufficiente individuare un campo proiettivo per disegnare un percorso di ricerca, tanto più se una simile intuizione si codifica nei principi di uno stile. Dall’altro, l’elemento tecnologico e l’invenzione di nuovi suoni non garantiscono nulla al livello dell’innovazione musicale in senso proprio. Il problema è semmai quello di creare forme e contesti tali per cui possano apparire nuovi anche suoni storicamente codificati come quelli degli strumenti acustici, dell’orchestra, i quali portano con sé secoli di cristallizzazione. Anche il trattamento traumatico degli strumenti musicali, con l’introduzione di protesi o corpi estranei, è ormai del resto storicizzato come lo sono le dissonanze o il serialismo integrale. Anche il clus­ter possiede una sedimentazione semantica e non ha senso, dunque, opporlo per principio a un accordo di do maggiore: entrambi possono avere un potenziale innovativo, come pure può averlo ancora l’antico sistema modale, ma per attualizzarlo occorre una forma capace di rispondere alla materia sonora sovrabbondante cui ci troviamo esposti. È l’uso, non la qualità del suono a essere discriminante: le esperienze di compositori dell’Europa dell’Est come Arvo Pärt (n. 1935) o Giya Kancheli (n. 1935) mostrano come, pur lavorando con tecniche di scrittura e materiali sonori tendenti all’arcaismo, sia possibile produrre effetti d’incanto nuovi e di larga presa, sia pure a rischio di una ripetizione che li fissa in una maniera.

Suoni nuovi provengono, oggi, anche dalla diffusione globale delle culture musicali extraeuropee, ma il loro uso risponde a standard nei quali non si intravede la ricerca di una forma, il tentativo di far suonare quegli strumenti in modo diverso per rispondere a una nuova idea di musica. Nella World music il fenomeno è evidente: suoni di strumenti che appartengono a una sorta di grande catalogo mondiale vengono giustapposti tramite un medium che li equalizza, per lo più elettronico, e livellati come se provenissero da un unico crogiuolo, un’unica cultura, depotenziandone la capacità di spaesamento. Gli strumenti delle tradizioni extraeuropee possiedono, d’altra parte, una sedimentazione storica fortissima, tale per cui appare difficile trovare la strada per un loro impiego che non sia semplicemente coloristico. In chiave sarcastica è quanto ha dimostrato M. Kagel in brani nei quali la critica, svolta in termini prettamente musicali, riesce persino a individuare una maniera del tutto innovativa di riferirsi alle tradizioni extraeuropee. In Exotica (1972) i musicisti di un ensemble classico sono costretti a cimentarsi con strumenti e impasti timbrici a loro estranei generando, anche tramite l’improvvisazione, l’impressione di una soluzione posticcia e piena di retorica. La stessa critica è ribadita da Kagel nella versione per Salonorchester dei brani che compongono il ciclo Die Stücke der Windrose (1988-1994), stavolta avendo di mira proprio il fenomeno della World music. Toru Takemitsu (1930-1996) aveva riflettuto sul suo rapporto con la tradizione giapponese, dalla quale proveniva, e con l’espressione della musica colta occidentale, nella quale si era formato, parlando della possibilità di ospitare una memoria nell’altra. Ospitare vuol dire però non solo accogliere, ma anche mettersi a disposizione di chi arriva e lasciarsi sorprendere, modificare dalla visita. È il contrario di una forma di omologazione che in realtà non ospita ma assimila, non accoglie ma incasella. Eppure creare le condizioni di un dialogo fra le diverse memorie, non di un monologo colorato di elettronica e cultura locale, è difficile e finora non ha prodotto risultati felici, anche se si tratta di un terreno sul quale la ricerca musicale sembra obbligata, oggi, a esercitarsi. In un concerto come The compass (2006), dell’australiana Liza Lim (n. 1966), oppure nell’opera di uno dei più significativi compositori cinesi del nostro tempo, Guo Wenjing (n. 1956), l’introduzione del didgeridoo, antico strumento a fiato degli australiani aborigeni, o dell’ehru, violino cinese a due corde, tenta di rompere il contesto del loro uso tradizionale e, al tempo stesso, di destrutturare la forma-concerto in vista di un’architettura nuova, costruita appunto sulle possibilità di quegli strumenti. Prevale, tuttavia, ancora un’impronta di esotismo che consuma rapidamente l’incanto di queste musiche, come avviene anche nei tentativi di autori interessanti quali la compositrice kuwaitiana di origine indonesiana Rashidah Ibrahim (n. 1954), che usa un flauto arabo in Music for ney and chamber orchestra (1995), oppure il giapponese Misato Mochizuki (n. 1969), autore fra l’altro di Silent circle (2006) per flauto, koto (strumento musicale cordofono appartenente alla famiglia della cetra) ed ensemble.

Il Novecento ha prodotto una storia, in termini di nuovi strumenti e nuove sonorità, che dovrebbe essere tenuta in considerazione per comprendere a quale rapido abbandono siano andate incontro invenzioni non supportate da una ricerca sull’organizzazione di quei suoni in una musica nuova. Al contrario, laddove si è cercato di intercettare forme e campi proiettivi di tipo diverso, anche le sonorità sono risultate innovative, sia quando ci si è avvalsi dello strumento tecnologico, come nei casi di Nono o di Grisey, sia quando ci si è misurati con l’orchestra tradizionale. L’invenzione musicale non si risolve nella scoperta di un suono, non è certezza di approdare, tramite il veicolo della sonorità, a territori espressivi nuovi. La ‘preparazione’ degli strumenti inaugurata da Henry Cowell (1897-1965) e da J. Cage non avrebbe lasciato traccia se non fosse stata sostanziata da un investimento immaginativo sul loro uso, così come non hanno lasciato traccia le stupefacenti macchine microtonali e le sculture sonore dei fratelli François e Bernard Baschet, usate con esiti deludenti da P. Henry. Perché risulti nuovo, non si logori in fretta e produca una necessità di indugio, il suono deve dipendere da un’idea compositiva che può far apparire diverso anche ciò che credevamo di conoscere. Proprio per questo il rapporto fra idea compositiva e novità del suono viene paradossalmente esaltato quando ci si confronta con gli strumenti acustici e gli organici della tradizione orchestrale: qui non è possibile inganno, non c’è trickster che agiti il fumo dell’innovazione tecnologica, il senso di una ricerca emerge quando viene intercettato un nuovo campo proiettivo o non emerge quando ci si affida a formule standard. Questo il motivo per cui tanta parte della ricerca musicale continua a impegnarsi, oggi, con assortimenti strumentali che altrimenti dovrebbero essere considerati archeologia.

Che una simile ricerca possa produrre risultati nuovi si può constatare guardando all’opera di Wolf­gang Rihm (n. 1952), il compositore che con maggiore acume è riuscito a passare oltre la lezione delle avanguardie senza rinnegarla, senza affidarsi completamente alla tecnologia, senza adagiarsi nella restaurazione del passato. Nella musica di Rihm vengono portati a sintesi i due atteggiamenti di ricerca fin qui distinti: molte composizioni simili fra loro indagano un identico perimetro espressivo, eppure le minime differenze che egli introduce danno anche al lavoro di mappatura il senso di un percorso che diviene evidente laddove appaiono diversità maggiori. Più che mettere in discussione i suoi risultati precedenti, il cammino di Rihm presenta aspetti di continuità particolarmente forti, agganciati a una visione etica del rapporto con la tradizione e a una forma di pensiero musicale nella quale occupa un posto importante il sodalizio con il filosofo Peter Sloterdijk (n. 1947). Rihm recupera moduli del passato ma li trasforma conferendogli l’aura dell’inedito. L’invenzione formale corrisponde anche a una ricerca sul timbro, sul suono, ma questa non è mai indipendente da quella: procedono insieme, e separare l’una dall’altra avrebbe tanto poco senso quanto voler staccare il recto e il verso di un unico foglio. Molto spazio, nella ricerca di Rihm, hanno il teatro musicale e l’opera. Die Hamletmaschine (1983-1986), su testo di Heiner Müller, ricorre ai canoni classici dell’opera, ma li rende imprevedibili attraverso un lavoro di decostruzione e ricostruzione che non ha paragoni con modelli del passato. In Séraphin (1994), da Antonin Artaud, la forma operistica viene trasformata e, senza testo, il coro viene piegato a suoni onomatopeici che gli conferiscono un’espressività inedita. In un lavoro precedente, Die Eroberung von Mexico (1987-1991), basato sempre su un testo di Artaud, la sperimentazione di Rihm si focalizza sul suono orchestrale e su un impasto singolare di coro registrato e dal vivo: il testo di Artaud viene potenziato musicalmente tramite l’uso di un organico strumentale che gli schemi classici considererebbero squilibrato, con pochi archi e un alto numero di ottoni e legni. Il più recente Das Gehege (2006), su testo di Botho Strauss, è una sorta di Lied per soprano e orchestra che vive, tuttavia, di un’interna drammaturgia sonora tale da renderlo intrinsecamente teatrale: il riferimento alla tradizione delle radici mitteleuropee è qui sensibilissimo, ma il trattamento dell’orchestra e l’organizzazione armonica mostrano la volontà di rinnovare quelle radici, di conferire loro un incanto nuovo. È possibile rintracciare lo stesso impegno di ricerca nelle sue composizioni per orchestra da camera, per es. in Nach-Schrift (1982-2004), nei Lieder su testi di Hölderlin, Celan, Nietzsche, come pure in opere sinfoniche come Jagden und Formen (1995-2001), nella quale l’invenzione ritmica e timbrica aggiunge ulteriore forza al tentativo di far suonare nuovo l’impianto tradizionale dell’orchestra. Le date delle composizioni di Rihm, spesso compiute lungo l’arco di diversi anni, sono un segno del suo concepire la musica come un work in progress: la ricerca infatti prosegue opera dopo opera e, a volte, anche nella creazione di un solo titolo, come se il cammino della sperimentazione fosse più importante dei singoli risultati raggiunti.

La musica e il suo doppio

Come si sarà potuto notare osservando gli esempi fin qui riportati, il rapporto con la scena e con il teatro costituisce tuttora un terreno di ricerca musicale particolarmente fertile. Superati i proclami avanguardistici dell’anti-opera, il rapporto fra la scrittura musicale e il mondo del teatro, in tutte le sue accezioni, ha riacquistato una legittimità che lo rende un luogo privilegiato di incontro per le esperienze musicali più lontane. Storicamente il teatro può essere considerato una sorta di ombra della musica, un Doppelgänger che ha funzionato come fattore di inquietudine e stimolo creativo. Non un binomio nato per associare due esperienze distinte eppure convergenti (il teatro e la musica) ma una dimensione che spinge la musica a uscire dai suoi confini e a esporsi al confronto con un registro altro. Di qui, in tempi anche recenti, le accuse di eclettismo rivolte ai compositori che continuavano a praticare il rapporto con la scena e l’idea che il teatro introducesse nella concezione compositiva impurità nocive alla distillazione formale della musica. Per un verso, però, l’eredità più significativa del postmoderno in musica sta proprio nell’aver tolto ogni patina di negatività all’eclettismo: oggi uno sguardo eclettico è indispensabile per misurarsi con la verticalità dei fenomeni musicali, con la loro intensificazione globale. Per un altro, l’impurità è una delle frontiere fondamentali dei campi proiettivi verso i quali la musica del presente può dirigersi: i tempi dell’indugio e le forme dell’incanto passano per una materia sonora costituzionalmente ibrida e non più capace di isolamento, pena il rischio dell’autoreferenzialità. La convivenza di elementi eterogenei, nel teatro musicale, costringe al confronto con qualcosa che non cade sotto il controllo del compositore. È il tipo di impurità con la quale si sono confrontati tutti gli autori che hanno corso il rischio di pensare una musica da mettere in scena, fossero Nono o Stockhausen, Berio o Ligeti, Sciarrino, Furrer o Rihm.

Nel campo del teatro musicale, però, la varietà di poetiche e di esperienze fin qui considerate tende addirittura a esplodere, a ramificarsi in una rete di proposte che si confrontano ciascuna con un diverso modo di intendere la drammaturgia, la scena, l’elemento visivo in genere. Se l’anti-opera dei movimenti avanguardistici poteva rivendicare una parentela con il lavoro del Living Theatre o dell’Odin Teatret di Eugenio Barba (n. 1936), ora non c’è episodio del teatro musicale che non possa essere posto in relazione con un’esperienza registica, scenografica o video-artistica diversa. Particolarmente difficile risulta quindi, in questo caso, orientarsi nella produzione contemporanea. Focalizzando tuttavia lo sguardo sulla musica, ovvero su quegli esperimenti che hanno posto al centro delle preoccupazioni creative l’invenzione di una nuova forma di musica scenica, e non soltanto l’associazione con un’esperienza rappresentativa, visiva e drammaturgica, è possibile riconoscere alcuni esempi rivelatori dai quali una ricerca musicale attualmente non può prescindere.

L’ampio catalogo operistico di Hans Werner Henze (n. 1926) si caratterizza per un rapporto inventivo con la tradizione del melodramma, ma quel che colpisce nei suoi lavori più recenti è come la sua tendenza all’essenzialità abbia toccato vertici assoluti di poesia, esempio riuscito del connubio quasi impossibile fra purezza e impurità della musica concepita per il teatro. In opere come Venus und Adonis (1997), L’upupa (2003) e Phaedra (2006-07), si trova qualcosa di molto vicino ai ‘numeri’ dell’opera ottocentesca: duetti, terzetti, arie solistiche, concertati. Queste forme, però, non valgono come riproposizione del passato, bensì come individuazione di uno spazio di proiezione immaginativo che la musica colma di un lirismo nuovo, senza mai rischi di superficialità. Henze ha costruito una musica evocativa e drammaturgica anche al di fuori dell’ambito teatrale. Le sue non sono forme chiuse in sé stesse e, nonostante l’estrema cura dei dettagli, non sono concepite nel senso della perfezione artigianale. A dar loro vita è una sostanza emotiva e relazionale proiettata verso contenuti extramusicali, verso un’alterità che si insinua nella composizione attraverso le forme dell’amicizia e della memoria. Presente fin dai suoi esordi, questo pathos per l’altro dalla musica è venuto progressivamente in primo piano nella produzione degli anni più recenti: per esempio, nella Sinfonia n.9 (1997) per coro e orchestra, nel Requiem (1992), «concerto spirituale» per pianoforte, tromba e orchestra ciascun movimento del quale si presenta come il ritratto di un amico scomparso, così come nell’oratorio Elogium musicum. Amatissimi amici nunc remuti per coro e orchestra (2008).

Anche la musica di Harrison Birtwistle (n. 1934) contiene una sorta di drammaturgia implicita che non si limita soltanto alle composizioni dedicate al teatro. Una tecnica di montaggio degli episodi musicali che non corrisponde alle forme classiche dello sviluppo, e che fa perno su un uso intensivo della variazione, è la via attraverso la quale Birtwistle procede nella maggior parte dei suoi lavori. In teatro, però, questa tecnica conduce a una pluralità dei punti di vista attraverso cui una vicenda viene narrata, una polifonia di prospettive che ha come centro di irradiazione non la scena, e neppure il libretto, ma appunto la scrittura musicale. In The Minotaur (2008) l’uso di un assortimento eccezionalmente vasto di strumenti a fiato e percussioni lascia emergere una dimensione onirica che infittisce la diversificazione dello sguardo e affida all’invenzione ritmica il compito di innervare un tipo di vocalità che appare del tutto anticonvenzionale. Matthias Pintscher (n. 1971) fa leva su mezzi squisitamente musicali per trasformare la relazione con la scena. Un effetto di incanto, nel suo caso, è perseguito consapevolmente attraverso il lavoro sui colori dell’orchestra, facendo della differenziazione timbrica una struttura architettonicamente portante. Un’opera come L’espace dernier (2002-03) ha la freschezza della scoperta anche se usa un organico strumentale classico, un coro trattato con ampia libertà di scrittura e un assortimento di voci soliste che rinvia in modo esplicito alla tradizione: due soprani di coloratura, uno dei quali drammatico, mezzosoprano di coloratura, basso buffo, tenore lirico spinto.

Il teatro musicale è stato anche il luogo della sperimentazione di una musica carica di ironia e di verve comica, se non addirittura spinta verso la dimensione dell’assurdo musicale. M. Kagel ha letteralmente trasformato gli schemi dell’Opéra comique settecentesca parodiando la tradizione e destabilizzando di continuo i parametri dell’ascolto con una graffiante espressività che ha spogliato l’esempio di J. Cage da ogni aura contemplativa. In Staatstheater (1970) tutti i personaggi sono strumenti oppure oggetti sonori, in Kantrimiusik (1975) la musica possiede una tale forza mimica e gestuale da elaborare in una chiave totalmente nuova il suo rapporto con la scena. Le composizioni di Kagel sono disinibite e prive di pregiudizi: di opera in opera egli non cerca di fissare formule su cui tornare, ma sperimenta invece soluzioni che hanno come primo effetto quello di produrre una differenza rispetto a quello che è già noto.

L’idea di «composizione come messa in scena» (cfr. W. Sandner, Komposition als Inszenierung, 2002) è al centro delle preoccupazioni di Heiner Goebbels (n. 1952), il quale nel suo lavoro si concentra su testi letterari dei quali scopre sonorità e venature musicali intrinseche, da lui evidenziate tramite sistemi ritmici di notevole inventiva e spettri timbrici cui l’uso della tecnologia fornisce evidenza immediata. Le composizioni di Goebbels sono caratterizzate da una commistione di elementi e di tradizioni – da quella accademica al jazz, al rock e al pop – allontanate, però, dai loro centri codificati e sottoposte a una metamorfosi che le elabora in percorsi inediti. Non è estraneo al suo modo di lavorare neppure il rapporto fra la simulazione teatrale e le possibilità artificiali della ripresa video: in Eraritjaritjaka. Musée des phrases (2004) per voce recitante e quartetto d’archi, con titolo in lingua maori e testi di Elias Canetti, gli interpreti vocali escono dal teatro e camminano per le strade della città proseguendo l’esecuzione che il pubblico può seguire tramite le immagini trasmesse in sala. Anche Michel van der Aa (n. 1970) ha esplorato la relazione fra immagine registrata, scena teatrale, esecuzione dal vivo ed elaborazione elettronica del suono in tempo reale in After life (2005-06), opera basata sul film omonimo del regista giapponese Hirokazu Kore-Eda (n. 1962). In una stazione di passaggio fra la vita terrena e quella celeste i personaggi devono isolare un momento saliente della loro esistenza, condizione indispensabile per accedere alla loro nuova dimora, e van der Aa sfrutta questo spunto per costruire un percorso della memoria musicale che è tipico del suo lavoro, ma che qui ottiene un effetto particolarissimo per il modo in cui viene messa in forma l’interazione fra i vari media impiegati. La musica assume allora una natura intermediale, si apre cioè «a diversi regimi della rappresentazione segnalandone le differenze di statuto e mettendole in dialogo» (P. Montani, Bioestetica. Senso comune, tecnica e arte nell’età della globalizzazione, 2007, p. 118).

Nel lavoro di Georges Aperghis (1945), la ricerca sulla relazione fra gli elementi vocali, strumentali, scenici e gestuali è come un’indagine continua sull’intermedialità messa alla prova tanto nel caso di opere destinate espressamente al teatro, quanto in quello di brani nati con destinazione concertistica. In entrambi gli ambiti la scrittura di Aperghis resta fondamentalmente drammaturgica, ricca cioè di aspetti espressivi e fisici che movimentano l’esecuzione introducendovi una dimensione rappresentativa a più facce organizzata dalla forma musicale. L’opera vera e propria, da lui affrontata per la prima volta con Jacques le fataliste (1974), è a tutti gli effetti una sintesi degli approdi cui giunge nelle varie fasi del suo percorso: Avis de tempête (2004) ne è una prova esemplare per il contrasto fra la limpidezza della scrittura e l’effetto denso, quasi organico del suono dovuto in primo luogo al trattamento originale cui sono sottoposte le voci.

La dimensione dell’incanto può essere raggiunta anche su una base emotiva, ma in una musica che continui a pensarsi come arte e come ricerca questo tipo di rapporto con l’ascolto non può essere ottenuto attraverso la scelta di un soggetto o di una messa in scena che ne assicurino l’impatto. Tentativi di questo genere hanno sempre facile corso e sono spesso viatico per soluzioni musicali del tutto tradizionali, destinate a essere offuscate dalla forza della materia visiva o narrativa a cui si associano. Occorre, invece, che l’effetto emotivo discenda da un’invenzione musicale in grado di articolare, oltre all’emozione, anche il pensiero che ne ha governato l’elaborazione. Effetti inelaborati, primari, il cui grado di organizzazione della materia sonora sta alla ricerca musicale come un video a bassa definizione ospitato su YouTube sta a un’installazione di un artista come Bill Viola, producono certo l’impressione di una presa diretta sulla vita e sui sentimenti, ma occultano il loro processo generativo, l’artificio che le ha prodotte, sono il trucco più potente non solo del trickster tecnologico, ma anche della standardizzazione dei processi di comunicazione. Helmut Oehring (1961), figlio di genitori sordomuti, ha scelto una soluzione diversa per un’opera da camera di forza impressionante, Dokumentation I (1993-1996), primo pannello del ciclo Irrenoffensive a cui appartiene anche Dokumentar­oper (1994-95). Accanto a una voce di controtenore tre attori sordomuti alternano la lingua dei segni, solo gestuale, all’emissione di suoni rochi, inarticolati, che Oehring organizza musicalmente in modo che diventino la controparte espressiva del discorso muto affidato alle mani. Tra suono e silenzio si muove anche un’orchestra di piccole dimensioni, con oboe, sax, tromba, trombone, due percussioni, arpa preparata, pianoforte e chitarra elettrica, archi ridotti a un ruolo armonico e limitati a violino e violoncello con elaborazione in live electronics. Una ricerca sull’origine del suono evidentemente diversa da quelle fin qui prese in considerazione ha portato Oehring a misurarsi con una forma di silenzio coatto, eccezionalmente espressivo, anche nell’opera di teatro-danza Bernarda Albas Haus (1999), tratto dal testo di Federico García Lorca. In questo caso l’ensemble strumentale è ancora più prosciugato (chitarra elettrica e contrabbasso), la coreografia è intesa come l’equivalente della lingua dei segni, la voce di un controtenore le presta un suono che appare disincarnato, straniante, mentre l’uso del live electronics lascia emergere dallo sfondo il mondo maschile escluso dalla casa.

Bibliografia

D. Toop, Ocean of sound, London 1995 (trad. it. Ancona 1999).

I. Stoianova, Entre détermination et aventure, Paris 2004.

L. Berio, Un ricordo al futuro. Lezioni americane, Torino 2006.

M. Bortolotto, Fase seconda, Milano 2008.

E. Salzman, T. Desi, The new music theatre, Oxford 2008.

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