La politica estera di Riyadh tra vecchie tensioni e nuove sfide

Atlante Geopolitico 2016 (2016)

Armando Sanguini

Il defatigante negoziato che ha portato alla firma dell’accordo sul nucleare iraniano ha consentito all’Arabia Saudita di misurarne progressivamente portata e possibili contro-misure. Se Riyadh ne ha sempre contestato i limiti in termini di sicurezza e di rischio di induzione alla proliferazione, con il suo progredire ne ha stigmatizzato soprattutto le potenziali ricadute destabilizzanti a livello regionale, in particolare per le ingenti risorse che grazie alla revoca delle sanzioni e al suo ritorno al libero mercato Teheran vorrà mettere al servizio della sua ambizione egemonica regionale, necessariamente destabilizzante. Complice il crescente disimpegno Usa maturato nella prospettiva di una regione multipolare, da sorvegliare forse ma non da gestire, nella e per la quale puntare sul ruolo costruttivo di Teheran, così come annunciato dal presidente Rouhani al momento della sua elezione.

Un approccio sbagliato e fuorviante secondo Riyadh perché privo di qualsivoglia garanzia – i dossier regionali sono stati esclusi dal negoziato – e smentita dalla condotta conflittuale del regime iraniano portata avanti anche da Rouhani. Un approccio che nella sequenza di oscillazioni ed opacità imputate alla politica americana in Medio Oriente e in Iraq e Siria in particolare, proprio là dove i sauditi speravano di poter incidere sull’influenza iraniana, è risultato a Riyadh suscettibile di mettere in discussione l’equilibrio delle mutue garanzie costitutivo della storica alleanza tra i due paesi. Un approccio che in definitiva suonava come un campanello d’allarme per le ambizioni egemoniche – speculari e dunque incompatibili con quelle iraniane – e per la stessa immagine di primus inter pares nel mondo islamico, non solo sunnita, da sempre nutrite da Riyadh.

Allarme tanto meno accettabile in considerazione dei dividendi, che Riyadh poteva considerare di essere riuscita a staccare grazie alla continuità della sua strategia di influenza nel mondo islamico e, da ultimo, alla (disinvolta) politica condotta sullo scacchiere delle rivolte arabe, col concorso altrettanto disinvolto ma alla fine convergente, delle altre monarchie del Golfo, compreso l’irrequieto ma ammansito Qatar. Ha pure contribuito l’umbratile incrocio tra la crepa politico-ideologico-religiosa tra sunniti e sciiti e l’inquietante espansione dello Stato islamico accompagnata dalla pur sempre temibile minaccia di al-Qaida dallo Yemen alla Libia.

Su questo sfondo l’Arabia Saudita non si è certo limitata alle già menzionate recriminazioni e condanne per porre in rilievo l’inaffidabilità, per non dire di peggio, del regime di Teheran. Ha voluto anche mostrare il suo volto dialogante senza ricevere una risposta degna di questo nome. E’ arrivata a riconoscere il possibile contributo dell’Accordo sul nucleare alla stabilità della regione nella misura in cui sia effettivamente veicolo di stabilità, richiamando Rouhani al suo già citato impegno “costruttivo”. Ha ripreso le relazioni diplomatiche con Baghdad. Nello stesso tempo ha chiamato il Consiglio per la cooperazione del Golfo (Gcc) a un rinnovato sforzo di coesione e ha fatto passare un’opzione di difesa comune. Ha promosso un’intensa (e costosa) azione mirante a fare del mondo arabo-sunnita un’interfaccia convergente se non proprio un fronte comune nei riguardi delle ambizioni del potentato sciita iraniano.

Da sottolineare che in questa direzione da Riyadh sono venuti anche innovativi segnali di stemperamento dell’avversità nei riguardi della Fratellanza musulmana. È stato il nuovo re Salman, con la sua Corte ringiovanita, a muovere decisamente in tal senso e portare avanti in tal modo un riavvicinamento alla Turchia, utile in questa stagione di fluidità di equilibri.

Pur con le riserve di cui sopra, Riyadh ha continuato poi a richiamare l’attenzione di Washington sui rischi incombenti e a richiedere il rafforzamento del suo arsenale militare.

Ha tenuto ad evidenziare il rilancio dei suoi rapporti con Mosca che ha ringraziato e in ossequio alla sua strategia di riposizionamento in Medio Oriente ha restituito la cortesia, lasciando passare una risoluzione Un a suo favore, nel momento in cui Riyadh ha deciso di portare la guerra in Yemen, contro gli Houthi, accusati di aver rovesciato manu militari il legittimo presidente Hadi.

È stata una dichiarata guerra per procura con Teheran, un duro segnale di determinazione e di forza visto che Riyadh vi chiama a concorso un’impressionante schieramento di paesi arabi, parecchi combattenti, altri sostenitori, altri, come l’Oman, impegnati a mediare un auspicabile negoziato. Vi ha ottenuto l’appoggio logistico e forse qualcosa in più da Washington, intenzionata a porre almeno un rammendo allo strappo dell’accordo sul nucleare militare. E in quell’ottica ha invitato a Camp David le monarchie del Golfo, dove però il re saudita Salman si è fatto rappresentare. Ha voluto far pesare sia la specialità della sua posizione nel Gcc e nella penisola sia quella della sua alleanza con Washington. E ha voluto assicurazioni convincenti sul ruolo dell’alleanza nella dinamica regionale.

La storia ci dirà se l’avrà spuntata. Tutto lascia pensare che i due si siano compresi. E se alla fine dell’incontro re Salman si è dichiarato soddisfatto, confermando il suo giudizio condizionatamente positivo sull’Accordo nucleare, c’è da pensare che in effetti Obama gli abbia offerto le più ampie assicurazioni.

Ma su questo scenario sono precipitate due variabili che rischiano di alterare i termini della dinamica mediorientale: l’imprevisto intervento armato di Mosca in Siria e il riaccendersi del conflitto israelo-palestinese con la cosiddetta intifada dei coltelli. Una sfida che impegnerà severamente la politica regionale saudita.

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