La parrocchia

Cristiani d'Italia (2011)

La parrocchia

Sergio Tanzarella

La parrocchia assente

Scriveva Mario Rosa nel 1976 riprendendo il testo di un suo contributo al XIV Congresso internazionale di scienze storiche tenutosi l’anno prima a San Francisco:

«Recente è l’interesse per la parrocchia in Italia nell’età moderna e contemporanea, interesse – va subito detto – limitato a qualche indagine settoriale, a qualche campionatura regionale e ad alcune indicazioni di ordine troppo generale perché sia possibile, oggi, delineare un profilo complessivo delle istituzioni parrocchiali italiane nel contesto della storia preunitaria e postunitaria»1.

A quelle parole, che segnalavano dunque un grave ritardo, seguiva all’inizio dell’autunno del 1979 il noto incontro seminariale di Maratea dedicato a studi e ricerche sulla storia della parrocchia nell’età contemporanea2. Un convegno destinato a divenire pietra miliare delle ricerche nel settore e con il quale si sarebbe dovuta inaugurare una intensa stagione di studi. Tuttavia quasi vent’anni dopo Pietro Borzomati osservava come:

«La storiografia ha solo parzialmente prestato attenzione al passato prossimo della parrocchia; antropologi e sociologi hanno scoperto solo da qualche anno il valore delle fonti ecclesiastiche e in particolare di quelle parrocchiali; purtroppo si stenta a valorizzare quelle affascinanti ipotesi metodologiche che suggeriscono analisi attente della vita religiosa del popolo e delle istituzioni ecclesiali»3.

Questa attenzione parziale ha mantenuto fino ad oggi la sua attualità sebbene ormai da decenni le visite pastorali – fonti fondamentali per la storia delle parrocchie4 – sono state oggetto di recupero, catalogazione e studio, e in questi ultimi anni, anche grazie alla pubblicazione nel 1997 – da parte della Pontificia commissione per i beni culturali della Chiesa – del documento La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici5, sono state promosse azioni di tutela e sono state prodotte molte ricerche monografiche dedicate al recupero e alla catalogazione dei materiali presenti negli archivi parrocchiali: materiali di straordinaria ricchezza che vanno dallo status animarum, ai registri parrocchiali (battesimi, cresime, matrimoni, sepolture)6, ai diari del parroco7. Nonostante questo impegno – ispirato alla convinzione che «la conservazione è un’esigenza di giustizia che noi, oggi, dobbiamo a coloro di cui siamo gli eredi. Il disinteresse è un’offesa ai nostri antenati e alla loro memoria»8 – la maggioranza degli archivi parrocchiali italiani resta ancora in stato di abbandono, di mancata tutela e di impossibile fruizione.

Ciononostante non mancano esempi di utilizzazione di alcuni archivi per ricerche demografiche9 o per la storia di singole parrocchie o di gruppi di parrocchie, ricerche queste ultime di grande valore e interesse10. Tuttavia si tratta di eccezioni che confermano non solo il generale ritardo degli studi storico religiosi in Italia come denunciava già a fine Ottocento un inascoltato precursore di quegli studi comeBaldassarre Labanca11, ma anche ciò che fu provocato dalle disposizioni dell’articolo 30 comma 1 del Concordato del 1929 tra lo Stato italiano e la Chiesa cattolica che sottraeva tutti i beni ecclesiastici, compresi quindi gli archivi, a qualsiasi intervento da parte dello Stato riconoscendo alla sola autorità ecclesiastica vigilanza e controllo su quei beni. Soltanto con l’articolo 12 comma 2 del nuovo Concordato del 1984 si prospettava una collaborazione tra Santa Sede e Repubblica italiana per la tutela del patrimonio storico e artistico, tra cui gli archivi storici di enti e istituzioni ecclesiastiche, attraverso opportune intese. Tuttavia, nonostante quegli impegni e i primi significativi risultati, una storia delle parrocchie italiane è ancora da scrivere e gli archivi parrocchiali sono lontani dall’essere realmente accessibili quando non si trovano in condizioni di precarietà o dispersione mantenendo non poche incertezze anche per l’archiviazione dei materiali relativi al presente12. Anche per questi motivi mancano quasi del tutto studi di sintesi sulla parrocchia italiana mentre si assiste ad una inondazione di lavori di storia locale, di pura erudizione o celebrativi, che risentono di tutti i limiti segnalati a suo tempo da Clizio Violante

«Numerose sono state le pubblicazioni di eruditi e di storici locali sulle pievi e sulle parrocchie. Privi dell’orientamento che viene da una grande storiografia, essi si sono accaniti in falsi problemi di remote origini (riconducendole volentieri fino all’antichità cristiana) e di continuità tra pieve e pago, tra parrocchia e vico; e si sono perduti tra le minuzie e le curiosità»13.

In particolare la storia della parrocchia in Italia in età contemporanea – relativamente a quest’ultimo secolo e mezzo – resta particolarmente trascurata, al contrario di quanto già è stato prodotto per altre epoche14. Questa disattenzione appare evidente se si considera la manualistica teologica o i dizionari teologici che si interessano di ecclesiologia e di pastorale15, dove il riferimento storico alla parrocchia – quando c’è – di norma si arresta alla riforma tridentina e alle sue conseguenze sintetizzando i secoli successivi e soprattutto gli ultimi due con poche generiche parole. Un discorso a parte meritano gli studi sulla storia della Chiesa italiana, che conobbero a partire dagli anni Sessanta una felice stagione di ricerche promosse daGabriele De Rosa e dai gruppi a lui collegati a Salerno, Potenza, Vicenza e Padova. Essi furono tra i primi ad avviare uno studio sistematico sulla parrocchia ispirandosi alla ricerca del ‘vissuto religioso’ e ottenendo rilevanti risultati16. Ma quelle linee di ricerca non hanno ottenuto attenzione e prosecuzione allargandosi a tutta Italia, soprattutto riguardo alla decisiva presenza della parrocchia negli ultimi centocinquant’anni17, una disattenzione che non coinvolge soltanto la storia della Chiesa ma riguarda gli studi dedicati alla storia italiana dall’Unità ad oggi per i quali la parrocchia sembra non esistere al di là di stereotipi e banalizzazioni. Al contrario occorre ripartire da quanto acutamente osservava con speranza lo stesso Gabriele De Rosa:

«Vi sono infatti paesi, borghi, villaggi, che per lunghi secoli conoscono solo la parrocchia come polo di attrazione, come struttura di integrazione. Se noi potessimo avere una tavola con tutte le infinite storie parrocchiali, ricostruite con unità di metodo, avremmo veramente una grande storia del vissuto religioso nel nostro paese: un obiettivo suggestivo, che spiegherebbe tante cose della nostra mentalità e dei nostri comportamenti sociali»18.

È un’omissione grave della storiografia italiana quella sulla parrocchia, che si conferma proprio quando, finalmente, negli ultimi decenni si sono cominciate a realizzare opere scientifiche dedicate alla storia di singole diocesi italiane19, alle diocesi presenti in una regione20 e opere complessive che comprendono tutte le diocesi d’Italia21. Vuoto tanto più grave se si considerano la centralità della parrocchia nella vita non solo religiosa, ma civile e la sua permanenza che attraversa tutta la storia d’Italia preunitaria e postunitaria i cui archivi sono una miniera di dati altrimenti introvabili22. Infatti, nonostante il codice napoleonico del 1° aprile 1806 avesse stabilito che i municipi tenessero i registri di nascita, di matrimonio e di morte, quei registri in parte sono andati dispersi e in parte sono incompleti, successivamente solo nel 1866 (e nei municipi del Veneto e a Roma dopo il 1871) lo Stato unitario stabilì che i comuni tenessero i registri dello stato civile, ma anche questi in non rari casi erano discontinui, dispersi e non sempre ordinati, in una condizione quindi peggiore di quelli delle parrocchie, le quali continuarono a mantenere dovunque l’attività di registrazione e già ad inizio del secolo XX si segnalavano come unica fonte anagrafica disponibile23. Proprio questa capillare diffusione – dai grandi centri urbani fino alle più remote e isolate comunità rurali delle Alpi e degli Appennini – spiega il ruolo che la parrocchia ha avuto in quanto prima e spesso unica istituzione locale anteriore alle scuole e alla presenza dello stesso Stato. Si tratta quindi di un soggetto privilegiato per la ricerca storico-religiosa e questo spiega come:

«la parrocchia sia l’elemento istituzionale più adatto ad una ricerca storiografica sulla concreta vita religiosa di una comunità di fedeli. Essa si pone, infatti, come punto d’incontro e di mediazione tra le istanze del vertice diocesano e le spinte dal basso della massa del popolo, senza contare che essa è il punto di riferimento anche per una serie di istituzioni laicali come le confraternite, gli oratorii, i circoli, i monti frumentari o di pietà, più tardi per le casse di credito rurale e per altri organismi simili. Pertanto, la parrocchia, trovandosi al punto d’intersezione tra forze così diverse e variegate, non poteva non diventare il luogo ideale per una rigorosa indagine di microstoria socioreligiosa, attenta a cogliere la vita effettiva delle istituzioni nel loro concreto dipanarsi storico»24.

Un ruolo che non può essere però compreso attraverso generalizzazioni sia per la grande quantità delle parrocchie italiane, sia per le profonde differenze esistenti già in esse nei vari stati preunitari, sia per la forte dipendenza delle parrocchie non solo dalla linea pastorale del vescovo ma dalla figura fondamentale del parroco, colui cioè che era in grado di determinare non solo la linea pastorale (catechesi, liturgia, sacramenti) ma gli impegni sociali, assistenziali, formativi della parrocchia all’interno della comunità civile locale. Tale dipendenza ha cominciato ad attenuarsi soltanto dopo il concilio Vaticano II e grazie alle prime timide presenze autonome di laici all’interno della parrocchia, presenze che provocarono però non poche crisi e fratture e allontanamenti dalla parrocchia stessa25.

Che sono le parrocchie se non l’Italia vivente?

Esattamente a quarant’anni dall’Unità veniva pubblicato un dizionario dedicato alle 20.173 parrocchie italiane. L’autore si chiedeva non senza retorica e desiderio promozionale dell’opera compiuta:

«Può il Governo, possono tutti gli uffici dello Stato fare a meno di un Dizionario che enumera tutte le parrocchie e dà l’organizzazione e la forza della gerarchia cattolica? […]. Chi ha mai indagato il numero delle parrocchie, la loro distribuzione, la loro ubicazione e la loro popolazione? Chi ha mai posto mente a questo congegno della gerarchia ecclesiastica? Che sono le parrocchie, se non l’Italia vivente?»26.

Incrociando i dati raccolti con quelli pubblicati qualche anno prima – e con non poche differenze – da Bertolotti27 e dalla Direzione generale del fondo per il culto28 emergevano e si confermavano non poche disparità tra Nord e Sud quanto a numero di parrocchie presenti nelle 320 diocesi rispetto all’estensione territoriale e alla popolazione29. Complessivamente nel Settentrione la rete parrocchiale era più fitta e inserita in un numero di diocesi nettamente inferiore rispetto al Meridione, dove però in alcune aree come la Puglia le parrocchie erano in numero esiguo ma con una notevole estensione. I raffronti di queste tabelle permettono di fare emergere l’estrema eterogeneità della distribuzione delle parrocchie; si pensi a diocesi che avevano tutte poco meno di mezzo milione di abitanti ma numeri distanti di parrocchie: Brescia 382, Bologna 396, Firenze 479, Padova 325, contro le 47 di Palermo e le 85 di Napoli con circa 700.000 abitanti.

Dunque se le parrocchie costituivano davvero – secondo l’autore del dizionario – l’Italia vivente, questa presenza all’interno degli 8.000 comuni non era omogenea ma conosceva vistose sproporzioni, non solo però nell’ordine dei numeri e delle percentuali, ma anche per le ricchezze sovrabbondanti di alcune e la miseria totale di molte altre. Così – all’indomani della unificazione nazionale – profondamente differenziata era la situazione delle parrocchie presenti nelle varie zone geografiche d’Italia. Vi erano poi identità ormai secolari che prevedevano per le parrocchie ruoli, compiti e relazioni con il potere politico e con la stessa realtà diocesana molto distanti tra loro. E anche se molte parrocchie avevano conosciuto nella prima parte del secolo XIX – nel periodo napoleonico e successivamente nella Restaurazione – profonde modificazioni, le differenze restavano particolarmente rilevanti. Qui non si può dar conto di tutta la realtà italiana ma si prendono in considerazione due esempi significativi delle differenze, uno per il Settentrione e uno per il Meridione.

Il Veneto rappresenta un caso particolare per la storia della parrocchia, infatti nonostante i vescovi si ispirassero a promuovere per essa il modello tridentino, questo modello trovò per lungo tempo le resistenze del giuspadronato che continuò ad esercitare un diretto controllo sulla Chiesa: dalla nomina dei vescovi alla gestione amministrativa delle stesse parrocchie. La svolta del periodo napoleonico ebbe il merito di far superare, seppur parzialmente, questa dipendenza, ma con la Restaurazione la parrocchia conobbe nuove trasformazioni con il tentativo governativo di adeguarla a ciò che prevedeva il diritto ecclesiastico austriaco per il quale «la parrocchia era anzitutto un patrimonio di rendite, amministrato dallo Stato. L’ufficio veniva dopo il beneficio. […]. La parrocchia era garantita e gestita dagli organi statali, in nome della sovranità imperiale. […]. Vienna garantiva una rendita reale sufficiente al ministro del culto, estendeva le sue funzioni nella scuola e nella pubblica amministrazione ma iscriveva l’intera realtà parrocchiale nella burocrazia dello Stato»30. I vescovi cercarono con ogni mezzo di contrastare l’idea di una religione funzionale al dominio politico imperiale e la pretesa che questo dominio potesse essere esercitato sulla formazione del clero e sulla teologia. L’opposizione si estese anche alla statalizzazione della parrocchia intesa come ente di sostegno dell’ortodossia imperiale fino ad ottenere con il Concordato del 1855 la cessazione del controllo diretto austriaco e col concilio provinciale veneto del 1859 un completo adeguamento alla parrocchia tridentina facendola diventare un elemento fondamentale di centralizzazione diocesana. La parrocchia veneta – che aveva comunque ereditato le qualità di efficienza amministrativa dei decenni precedenti – da lì in poi acquisterà sempre di più una relazione stretta con il vescovo e una dimensione pastorale che la rese punto di riferimento – spesso unico – delle emergenze sociali vissute dalle singole comunità31. Complessivamente l’eredità austriaca nella dimensione organizzativa della parrocchia e nella serietà della formazione dei futuri parroci lascerà un segno e una caratterizzazione originale che continuerà per lungo tempo all’interno del nuovo Stato unitario, nel quale la parrocchia veneta aumenterà ancor di più la propria incidenza non solo religiosa ma sociale32, attraverso sia i parroci sia un laicato combattivo e intransigente33.

Nel Meridione la struttura ecclesiale non era costituita dalle sole parrocchie, ma poggiava prevalentemente sulla capillare presenza di conventi, monasteri e chiese ricettizie. Queste ultime, presenti in gran numero nel regno borbonico, erano istituti di fondazione laicale (Università o famiglie possidenti), caratterizzate da accentuata autonomia corporativa, con un possesso patrimoniale di beni, definiti massa comune, di provenienza e di possesso non ecclesiastico. Questo patrimonio era amministrato dal clero ‘partecipante’ che ne godeva anche i benefici. Non tutte le ricettizie erano parrocchie – e non tutte le parrocchie erano ricettizie – ed esse erano distribuite – all’inizio del secolo XIX – secondo una linea appenninico-adriatica meridionale34 in modo non uniforme rappresentando circa un terzo di tutte le Chiese del regno con uguale percentuale di clero, ma con ben superiore quota di reddito35. Tuttavia il loro grande numero costituì – in alcune aree – un notevole freno alla diffusione delle parrocchie non ricettizie in non poche diocesi delle province napoletane a causa dell’opposizione del clero ricettizio. Questo spiega, per esempio, il ridotto numero di parrocchie nelle diocesi pugliesi e in altre aree dove le chiese ricettizie rappresentavano addirittura la maggioranza36.

La struttura reticolare richiamata in precedenza – densa di una varietà di istituzioni religiose – della Chiesa meridionale conobbe un primo tentativo di modifica con la politica napoleonica di inizio secolo XIX e con la conseguente soppressione degli ordini religiosi. Successivamente il Concordato di Terracina37 del 16 febbraio 1818, sottoscritto da Ferdinando I di Borbone e Pio VII, inaugura di fatto il processo di Restaurazione che pone vescovi e clero – in cambio di protezione, di significativi benefici di ordine amministrativo ed economico – al totale servizio del potere borbonico di cui divengono stretti collaboratori, dall’organizzazione del consenso popolare fino al controllo dell’ordine pubblico e degli interventi sanitari. Si avviava, inoltre, un significativo riassetto territoriale attraverso una riduzione di diocesi e una rinnovata coincidenza di obiettivi tra il trono e l’altare.

Si può allora ben comprendere come venne subita l’unificazione italiana dalla maggior parte dei vescovi meridionali definiti comunemente ‘borbonici’ e ‘reazionari’ e che furono protagonisti della lunga guerra dei Te Deum, liturgia cui il nuovo potere politico mostrò di tenere molto, consapevole che «nella società contadina del Mezzogiorno, in cui il valore morale non aveva spazio se non predicato dal pulpito, l’avallo religioso ai momenti più significativi della vita del nuovo stato diventava fondamentale per la credibilità dello stato stesso»38. Per questo motivo si realizzò il paradosso che il nuovo Stato unitario – nonostante la dichiarata ispirazione al pensiero liberale, la successiva approvazione delle leggi eversive dell’asse ecclesiastico e una politica complessivamente anticlericale e non confessionale – mostrò in tutta Italia un vivo interesse per controllare e ottenere riconoscimenti pubblici da parte di quella realtà fondamentale – capillare e periferica – della Chiesa cattolica che erano le parrocchie alle quali fu riconosciuto un regime di privilegi fiscali39. Manifestando in ciò una linea di continuità con la politica religiosa dei vari governanti dei decenni precedenti40. Di questo interesse per la parrocchia è prova la quantità di testi, soprattutto di carattere giuridico, che cercano di definire la parrocchia stessa tentando di dare unità alle disparate legislazioni degli stati preunitari in materia, alla dottrina e alle sentenze delle varie corti. Un processo di unificazione assai lento e ancora oggetto di dibattito alla fine del secolo XX con un ventaglio di problemi ancora aperti riguardo alla stessa parola parrocchia la quale era «adoperata negli scritti del diritto ecclesiastico e del diritto comune, non che nelle fonti del diritto particolare dei diversi stati, nella loro giurisprudenza e nella loro letteratura, con una grande promiscuità di significati»41. Seguivano poi altre incertezze in ordine alla sua personalità giuridica, ai beni ad essa assegnati e al conseguente beneficio, a chi avesse titolo giuridico per rappresentare la parrocchia in giudizio, chi avesse titolo di proprietà della chiesa42 e come si dovessero affrontare diversi dei citati problemi nei confronti delle ex chiese ricettizie trasformate in parrocchie43.

Ma anche sul versante ecclesiastico la parrocchia necessitava di ridefinizione, come dimostra l’intervento ad essa dedicato dal codice di diritto canonico del 1917. Il codice in realtà ribadì alcuni principi del concilio di Trento che avevano avuto solo parziale attuazione rivedendoli però alla luce delle emergenze e delle necessità di quel tempo presente, stabilendo quindi i doveri del parroco, i rapporti tra parroco e vescovo e il superamento delle parrocchie personali.

«Come si fa ad abolire ora i Parrochi?»

Nella totale contrapposizione Stato-Chiesa di quegli anni i benefici fiscali concessi alle parrocchie apparvero elementi del tutto insignificanti. Il clima provocato dal Sillabo, il regio decreto del 7 luglio 1866 che sopprimeva gli ordini e le congregazioni religiose togliendo loro il riconoscimento statale, la legge del 15 agosto 1867 che sopprimeva gli enti ecclesiastici secolari (ad eccezione delle fabbricerie) e liquidava l’asse ecclesiastico (sebbene con articolate distinzioni)44 stabilendo l’incameramento dei beni da parte dello Stato e infine l’annessione di Roma all’Italia segnarono un punto di non ritorno della questione romana dando sempre nuova forza alla linea intransigente45. Così, nel volgere del primo decennio dall’Unità sorsero organizzazioni laicali come l’Associazione cattolica italiana, la Società della gioventù cattolica fino all’Opera dei congressi. Quest’ultima organizzazione divenne la rappresentante di un intransigentismo laico che articolava il proprio programma su più impegni (dalla promozione della dottrina e della stampa cattoliche alla raccolta dell’Obolo di s. Pietro)46 e che si diede nel congresso di Firenze del 1875 una struttura basata su gruppi parrocchiali ma non sottomessi alla direzione del parroco, con un’accentuata autonomia giurisdizionale rispetto a vescovi e parroci pur svolgendo la propria azione nell’ambito parrocchiale ma rispondendo direttamente al solo papa e alla fedeltà alla linea dell’intransigentismo assoluto47. Questi gruppi si sarebbero raccordati con il comitato permanente attraverso comitati diocesani e regionali. Nella realtà la diffusione nazionale non fu uniforme a conferma delle profonde differenze esistenti nelle diocesi e nelle parrocchie italiane. L’Opera, fortemente presente in Veneto e in Lombardia, diffusa in Romagna, Emilia e Toscana, conobbe poco successo nelle diocesi e nelle parrocchie centro-meridionali ad eccezione della Sicilia dove fu promossa e sostenuta da Luigi Sturzo. Come ha osservato giustamenteGabriele De Rosa:

«La ineguale distribuzione dei comitati diocesani e parrocchiali tra Nord e Sud era lo specchio delle particolari condizioni politiche e sociali dei territori in cui l’Opera agiva. È un fatto che l’Opera si diffuse e fu più attiva dove più alta era la coscienza civile dei cattolici, dove il movimento cattolico aveva alle spalle una lunga tradizione di società e di stampa sorte per la difesa di interessi religiosi, dove si erano posti in maniera più acuta i problemi operaio e contadino, come effetto dell’urbanesimo, dell’impoverimento della campagne e dell’industrialismo, dove meglio i cattolici potevano comprendere un’opposizione astensionista contro lo Stato liberale. […]. Legittimismo, regalismo, clientelismo e trasformismo erano le vere remore alla diffusione dell’Opera nell’Italia meridionale, come anche una remora era rappresentata dal clero che, salvo rare eccezioni, era portato a cercare l’accordo con le autorità e i signori del paese, era restio a trasformare la parrocchia in un centro di attività che potesse dispiacere ai padroni, era facile ad entrare nella rete dei favoritismi, specialmente in clima elettorale»48.

Nonostante queste profonde differenze destinate a permanere per lungo tempo si avviò proprio grazie all’unificazione nazionale un processo lento e faticoso di accentramento e unificazione territoriale della stessa Chiesa italiana49, processo nel quale le parrocchie divennero il fulcro fondamentale e insostituibile: l’ultima barriera contro l’invasività di uno Stato non riconosciuto, ma che attraverso una politica di benefici come i supplementi di congrua cercava di ottenere il favore di parroci e curati alla causa dell’Unità. È in questo clima di allarme e contrapposizione che vanno comprese le ironiche parole de «La Civiltà cattolica» contro l’istituzione degli asili rurali compresi come pericolo sia perché sospettati di proporre un’educazione non cattolica sia perché facenti parte di un progetto educativo in grado di allontanare i futuri contadini dalla servitù della terra ritenendo necessario che tutti sapessero leggere e scrivere:

«Ma ci sono i Parrochi, che nelle campagne insegnano presso che soli la santa legge di Dio. Come si fa ad abolire ora i Parrochi? I tempi non sono ancora a ciò abbastanza maturi. Bisogna per ora contentarsi di diminuirne, per quanto è possibile, l’influenza. La loro influenza sopra gli adulti è abbastanza controbilanciata dalle osterie, dalle taverne, dai luoghi peggiori che si vanno per tutto aumentando. Il matrimonio l’hanno civilizzato mutandolo in legale concubinato, la confessione l’hanno resa molto difficile, sopprimendo quei conventi di campagna nei quali il popolo avea confidenza. L’educazione dei giovani fatti l’hanno resa oramai impossibile, chiudendo e sopprimendo tutti i collegi cattolici, e molti seminarii; sì che ora i genitori, o debbono educarsi da sé in casa i figliuoli, o li debbono mandar ad assassinare nell’anima e nel corpo in certi convitti dove s’imparano più vizii che lettere. Restavano i bambini della campagna; ed ecco che si è trovato un comitato che li vuol pigliare sin dalle fasce e nelle scuole addestrarli alla civiltà e all’educazione liberalesca. […] A poco a poco si troveranno fondi per pagar bene maestre e maestri increduli, che insegneranno ai bambini il disprezzo del Parroco e della Parrocchia. […] non è necessariamente nemico dell’alfabeto ed amico dell’ignoranza chiunque pensa che non è assolutamente necessario che tutti sappiano leggere e scrivere»50.

La rivista dei Gesuiti denunciava quindi, al di là della drammatizzazione dei fatti, della fantasiosa volontà governativa di retribuire dignitosamente maestri e maestre e di una presunta eliminazione di parroci e parrocchie dall’Italia, l’accentuazione di quel processo di progressiva perdita di aree di competenza che ormai da tempo si stava affermando. Alle attività di assistenza e di istruzione esercitate per secoli dalla parrocchia si sostituiva progressivamente lo Stato. Non era una sostituzione indolore e non erano pochi coloro che l’avvertivano come una indebita intrusione in grado di mettere in crisi la stessa attività pastorale e come pericolo per la diffusione dell’ateismo. Da qui l’incremento dell’azione sociale dell’Opera dei congressi, la trasformazione della parrocchia in ‘parrocchia sociale’51 e l’interesse diffuso per i problemi economici vissuti da contadini e artigiani e la conseguente creazione di una rete di attività economiche promosse direttamente dalle parrocchie attraverso le casse rurali. Un’attività che sul finire del secolo XIX impose alle stesse casse rurali cattoliche – spesso promosse da singole parrocchie – la necessaria collaborazione nelle banche popolari cattoliche, istituti di credito più grandi e in grado di garantire alle casse le necessarie relazioni con le banche nazionali52. Anche grazie a queste attività economiche e sociali – ispirate ulteriormente e autorevolmente dalla Rerum novarum – la parrocchia continuò ad essere il centro delle comunità, soprattutto di quelle rurali e periferiche, un centro nel quale tutta la vita era scandita e ordinata dal suono delle campane, le stesse campane che hanno fatto da continuo sottofondo – quasi colonna musicale – al film di Ermanno Olmi L’albero degli zoccoli ambientato nel bergamasco tra il 1897 e il 1898.

Funzioni della parrocchia (oratori, biblioteche, asili, cooperative, società di mutuo soccorso, casse rurali) ispirate ad una vocazione sociale che, secondo Silvio Tramontin, «si proponevano più la protezione e la difesa della Chiesa, assediata dal persistente liberalismo e dal nascente socialismo, entrambi con una caratterizzazione spiccatamente laicista e spesso anticlericale, che non la riconquista apostolica»53. È evidente che in questa linea difensiva al laicato parrocchiale si cominciava a riconoscere, per necessità, un ruolo – seppure soltanto esecutivo e sotto il diretto controllo del parroco – la cui figura, grazie a questo proliferare di attività, acquistava ancora più forte centralità nella vita della parrocchia. Questo aumento di responsabilità e competenze rese più evidenti i limiti culturali di un clero poco preparato a tener testa alle novità (politiche e sociali) che era chiamato a fronteggiare e rispetto alle quali la formazione ricevuta appariva totalmente inadeguata54. Infatti, in tempi tanto difficili nella parrocchia abruzzese di San Nicola a Rosello l’arciprete Costantino Porfirio redige un regolamento: «convinto che da un decennio in qua la fede e i costumi sonsi oscurati non poco nella Parrocchia» e lo fa approvare dal vescovo, il quale nel firmarlo lo esorta, non senza ragione: «vi raccomando soprammodo grande prudenza in metterli in esecuzione». Alla lettura del testo appaiono chiare e giustificate le preoccupazioni del vescovo.

«Articoli disciplinari per tutti i parrocchiani

1°. A niuno è dato stare dentro o innanzi la Sagrestia senza previo permesso del Parroco.

2°. Niuno potrà stare sull’organo ad eccezione di coloro i cui nomi si trovano segnati nella lista del suonatore e dei cantori.

3°. Salvo l’organista o qualche altro che intenda di musica niuno dei circostanti deve toccare i tasti dell’organo: facendosi il contrario, o non standosi alla distanza di mezzo metro dall’organista, si procederà alla espulsione dell’insubordinato.

4°. I banchi, collocati tra l’altare di San Rocco e quello di Sant’Antonio, sono designati per gli anziani; stando disoccupati potranno ivi sedersi le persone formali, ed in mancanza di queste i giovani educati.

5°. È vietato a tutti di porre il proprio cappello sugli Altari in vista del rispetto dovuto alle Sacre Immagini.

6°. È vietato all’uno e all’altro sesso menare in Chiesa i propri e gli altrui figli che non abbiano la età al di sopra di cinque anni; (non intervenendosi nel Tempio per attendere ai bambini in casa non si pecca affatto; in tal circostanza si potrà spiritualmente assistere al SS. Sacrificio della Messa e le altre funzioni religiose).

7°. È vietato gridare, parlare e mormorare innanzi e dentro la Chiesa: coloro che incorrono in tali mancanze non potranno giammai essere ammessi in qualcuno dei Centri; ed appartenendovi ne sarebbero tosto espulsi.

8°. A niuno è dato di suonare le campane: ciò tocca solo al Sagrestano ed a coloro che da costui ne venissero richiesti.

9°. A niuno è dato di accendere ceri sugli altari: l’offerta di ceri deve porsi in mano del Sagristano o del Parroco che ne curerà la collocazione e accensione.

10°. A niuno è dato di collettare olio per lampade votive: l’offerta di olio deve porsi in mano del Sagristano che ne curerà diligentemente l’uso.

11°. Le solennità funebri saranno negate in onore di persone che àn vissuto vita scandalosa; che non àn voluto contrarre civilmente e religiosamente il matrimonio, e che sonsi mostrate sempre ribelli all’autorità del Parroco.

12°. Chi addossasse lo Scapolare non munito nel rovescio del suggello della Parrocchia, sarebbe immediatamente espulso dal Centro in cui si incontrava.

13°. È vietato ad ogni ascritto dimandare (e ricevere) elemosine sotto pretesto di far celebrare funzioni straordinarie o di lavorare oggetti da addirsi al Culto: se piamente si desidera fare qualche cosa, 12 persone del Centro si presentino al Parroco e da costui ne ottengano prima il permesso.

14°. Chi vuole intrudersi (come per lo passato) in qualcuno dei Centri per ribellione all’autorità del Parroco, ne sarà espulso dalle Guardie forestali e dai Reali Carabinieri, soffrendo tosto la pena designata dalle vigenti Leggi.

Approviamo i presenti articoli disciplinari.

Trivento, dell'Episcopio, 19 Novembre 1884

FRA LUIGI Vescovo»55

Questo regolamento è un programma pastorale particolarmente illuminante che rappresenta quale doveva essere la funzione di non poche parrocchie e l’orizzonte in cui si muovevano molti parroci. Un orizzonte che è ben descritto nell’irridente libro anonimo di un parroco missionario che denuncia non solo l’inettitudine organizzativa di molti vescovi ma l’impreparazione del giovane clero impegnato spesso, senza nessun tirocinio, a dirigere una parrocchia:

«Non vi avviene sovente di vedere più di uno di questi giovani Parrochi, che appena entrati in possesso della parrocchia, nulla si curano di osservare quale sia la posizione morale della parrocchia, quali siano le virtù necessarie a trapiantare in essa, quali a coltivare, quali siano i vizii che più serpeggiano nella popolazione, quali i mezzi più acconci a sradicarli, quali l’indole, la necessità, l’utilità morale della parrocchia? Niente affatto di tutto questo. Essi si mettono subito a far dipingere la Chiesa, e provvederla di un altro organo, oppure ad aggiustare la casa canonica, allungare e pulire il giardino. Cercano di affezionarsi qualche potente o influente, il Sindaco, per avere qualche sovvenzione ad hoc, ma specialmente onde passare insieme qualche oretta al passeggio, od ai tarocchi»56.

Parroci e parrocchiani tra la battaglia del grano e gli entusiasmi per l’Abissinia

Tra la fine degli anni Cinquanta e la prima parte degli anni Sessanta si sviluppò in Italia una particolare attenzione alla posizione tenuta dalla Chiesa nei confronti del fascismo durante tutto il ventennio. Infatti, dopo la raccolta antologica realizzata daGaetano Salvemini57 nell’esilio americano sul finire della Seconda guerra mondiale e quelle di Giulio Castelli58 – che comprendeva anche materiali dei giornali cattolici diocesani –  e Giulio De Rossi Dell’Arno59 – che riportava con intenti apologetici  un’antologia di lettere pastorali del tempo fascista –, Ernesto Rossi60, Antonio Pellicani61 e Richard A. Webster62 raccolsero discorsi e scritti dei vertici della Chiesa e delle associazioni cattoliche. Questi materiali testimoniavano con totale evidenza l’alto grado di coinvolgimento, di entusiastica partecipazione e di convinto consenso nei confronti del fascismo. Quei libri suscitarono reazioni e polemiche nel mondo cattolico anche perché non pochi dei protagonisti erano ancora vivi, attivi e occupavano posti di responsabilità. All’accusa di filofascismo o clerico-fascismo non si poteva certo rispondere sostenendo l’inverosimile tesi di un cattolicesimo italiano antifascista dal momento che l’opposizione aperta al regime di un don Sturzo, di un don Mazzolari, di un padre Bevilacqua, di un don De Corona e del povero don Minzoni – il parroco di Argenta cui i mazzieri di Italo Balbo il 23 agosto 1923 avevano fracassato la testa uccidendolo – aveva rappresentato con pochi altri un’eccezione mentre proprio quell’omicidio e le modestissime e generiche reazioni che aveva provocato63 e l’indiretta imposizione dell’esilio a Sturzo insieme all’attento controllo esercitato dalle autorità locali su vescovi e parroci avevano suggerito prudenza, silenzio e circospezione ad una inizialmente non piccola parte di clero diffidente o avversa al fascismo. Fu necessario allora coniare l’espressione rassicurante di afascismo per descrivere una posizione di complessiva indifferenza e di disinteresse dei cattolici italiani nei confronti delle vicende politiche nazionali64. Una scelta apologetica che si trovava in difficoltà a dover difendere l’abbandono del Partito popolare da parte della Santa Sede, la firma deiPatti Lateranensi del 1929 e i riconoscimenti di Pio XI nei confronti del fascismo e del duce, ma che utilizzava i fatti del 1931 come dimostrazione di una netta opposizione al fascismo da parte dell’Azione cattolica, rispetto ai quali le proteste furono caratterizzate non solo da un ritorno del vecchio intransigentismo, ma anche dalla richiesta di mantenere quel regime di privilegi e libertà che il regime di fatto aveva negato a tutti gli italiani e che – complice l’intervento dell’avvocatoLuigi Colombo, presidente dell’Azione cattolica – era stato accordato all’associazione fin dai primi anni dell’affermarsi del fascismo65.

Si è ignorato per lungo tempo nello svilupparsi della polemica storiografica quale fossero davvero la complessità e l’evoluzione dell’adesione al fascismo, come essa non fosse stata monolitica e come taluni giudizi positivi espressi da Pio XI prima della conciliazione si fossero trasformati negli anni Trenta in una posizione di perplessità e distanza verso il regime e addirittura di condanna – sebbene espressa quasi sempre in forma privata – nei confronti sia dell’impresa coloniale abissina, come recentemente ha dimostrato Lucia Ceci in uno studio documentato ed esemplare66, sia delle discriminazioni razziali attraverso la preparazione dell’enciclica Humani generis unitas che non fu pubblicata a causa della morte del papa67.

Tuttavia questa quasi esclusiva attenzione alla storia politica – e dunque alle fonti relative alla gerarchia della Chiesa – seppur condotta negli anni Settanta con maggiore equilibrio e metodo storico rispetto all’epoca precedente68, rischia sempre di considerare solo una parte della realtà e di provocare, al di là delle intenzioni degli autori, delle pericolose generalizzazioni, mentre sarebbe necessaria un’analisi dedicata a specifiche aree regionali, a singole diocesi ed episcopati fino alle realtà parrocchiali. Particolari ricerche erano già avviate ai tempi del convegno su Chiesa, azione cattolica e fascismo del dicembre 198169 nel quale si fece una prima rassegna dello stato degli studi, sebbene circoscritta alla crisi del 1931 e ai circoli dell’Azione cattolica70.

Come ricordava anni dopo Francesco Malgari, questa pista di indagine ha realizzato negli ultimi tempi importanti e pregevoli risultati71, ma è anche da sottolineare che essi sono ancora oggi troppo pochi e non sempre raggiungono la dimensione parrocchiale72. Questa micro realtà è certo complementare a quella più nota e studiata del consenso offerto al regime da parte dell’autorità ecclesiastica. Tuttavia anche quando da questa realtà emergono contrasti con i rappresentanti locali del regime non si può dire che questi smentiscano gli accordi Chiesa-fascismo o indichino una chiara opposizione. Quegli accordi erano segnati da rapporti ispirati sempre a una politica di benefici, di concessioni, di privilegi, di interessi anche solo apparentemente convergenti. Le gerarchie ecclesiastiche del tempo individuarono nel potere fascista quelle garanzie di ordine e rispetto della struttura sociale piramidale esistente che sembravano indispensabili al progetto di restaurazione cristiana. Per questo resta valida la tesi di Giovanni Miccoli secondo il quale: «la storia delle relazioni tra chiesa e fascismo è la storia di una sostanziale collaborazione, punteggiata da alcuni scontri e tensioni»73. Momenti di crisi che ebbero ripercussioni anche locali ma che non pregiudicarono la sostanza degli accordi raggiunti74. Le realtà parrocchiali sono però la dimostrazione di una frammentazione localistica destinata a rimanere in certa misura e in un primo tempo impermeabile al fascismo proprio a causa della sopravvivenza di forme religiose arcaiche e devozionali che sommate all’organizzazione interna delle parrocchie e alla stessa Azione cattolica e alle pie congreghe costituivano i pochi luoghi non direttamente controllati dal regime. Tuttavia gli assalti alle sedi di Azione cattolica e alle parrocchie della fine del maggio del 1931 sono la dimostrazione non di un presunto antifascismo dell’associazione ma della percezione che essa si trovasse in una condizione di concorrenza con il regime che non poteva essere più tollerata, di una volontà di controllo totale della società da parte del fascismo e del suo progetto totalizzante. Per questo al fascismo riuscì – attraverso la concessione dei benefici dei Patti Lateranensi e di una propaganda invasiva – un processo di controllo della Chiesa75 e di complessiva fascistizzazione e conquista di un clero già da tempo collocato tra le autorità locali e ad esse alleato. Se nel film Novecento – alla vigilia dell’affermarsi del fascismo – la riunione dei notabili del paese che si organizzano per fronteggiare con la violenza gli scioperi dei contadini si tiene proprio nella chiesa parrocchiale non dovettero essere certo rare figure di preti come don Abbacchio di cui Silone parla in Fontamara. Non si tratta soltanto di una invenzione letteraria ma di un personaggio rappresentativo di una realtà storica nella quale prete e parrocchia erano schierati sovente a favore dei possidenti e dei padroni e durante il fascismo nel pieno favore al regime:

«Egli non era un uomo malvagio, ma fiacco, timoroso e, nelle questioni serie, da non fidarsi. Non era certo un pastore capace di rischiare la vita per difendere le sue pecore contro i lupi, ma era abbastanza istruito nella sua religione per spiegare come, dal momento che Dio ha creato i lupi, abbia riconosciuto a essi anche il diritto di divorare di tanto in tanto qualche pecora. Noi ricorrevamo a lui per i sacramenti, ma sapevamo per esperienza, di non poter ricevere da lui nessun aiuto e consiglio nelle disgrazie che ci venivano dalla cattiveria dei ricchi e delle autorità»76.

Dell’efficacia di questo processo di studiata e irrimediabile fascistizzazione del clero77 è prova il coinvolgimento diretto di migliaia di parroci rurali nelle campagne del grano dei primi anni Trenta. Un concorso realizzato su scala nazionale attraverso la rivista «Italia e fede» arruolò come partecipanti e missionari del grano fino a 3.300 parroci, alcuni dei quali coinvolsero singolarmente anche quattrocento agricoltori. L’iniziativa raggiunse anche i seminari dove la formazione agricola divenne oggetto di lezioni e di pratica concreta trovando ampio consenso tra molti vescovi. I parroci lavorarono in accordo con le cattedre ambulanti di agricoltura nella promozione della Vittoria del grano. Decine e decine di direttori di quelle cattedre testimoniarono – da Nord a Sud – il decisivo contributo del clero e l’uso della parrocchia a questo fine:

«Il Dr. Enrico Bertoli, Reggente a Petrasanta (Lucca): “Il Concorso Nazionale fra Parroci e Sacerdoti è stata una iniziativa veramente lodevole. Il Parroco nei più umili paesi del contado, nelle lontane e sperdute frazioni della montagna è spesso l’unico tramite attraverso il quale si può comunicare con l’anima semplice del campagnolo e del montanaro […]”

Il Dr. Mario Amaducci, Reggente a Osimo (Ancona) “[…] ho sempre molto apprezzato questa collaborazione ed ho quasi sempre notato che, in quelle parrocchie in cui il Parroco sta molto a contatto del Cattedratico anche i rurali e specialmente i mezzadri, sono a questi più vicini […]”.

Il Dr. Umberto Puglia, Direttore a Catania: “Stimolati dal Concorso Nazionale del Grano tra Parroci e Sacerdoti, un’eletta schiera di ministri di Dio ha trovato modo nella missione spirituale di quel piccolo aggregato di famiglia che è la Parrocchia di accendere la fiaccola rurale di italianità e di fede […]”.

Il Dr. Fernando Mazzantini Reggente a Todi (Perugia): “[…] È una virtù tutta propria dei Parroci quella di convincere l’agricoltore. Nel mio breve esercizio professionale mi sono convinto che altri non riescono ad ottenere quello che ottengono i Parroci”»78.

La battaglia del grano divenne elemento fondamentale della pastorale parrocchiale, elemento di tecnica agricola che si tradusse in strumento di propaganda per il fascismo. Una fusione che vide l’intera parrocchia rurale coinvolta dall’attivismo agricolo-missionario del parroco; occorre:

«ricordare solo alcune delle forme di propaganda dei Parroci. Propaganda fatta dal Pergamo nelle prediche e nelle omelie – specie la domenica quando il popolo rurale è riunito ad ascoltare la parola del Parroco –, nelle riunioni parrocchiali, con conferenze, con scritti; nelle visite alle case coloniche e nei campi»79.

Si trattò dunque di un momento strategicamente straordinario: arruolando di fatto i parroci e i loro parrocchiani a una causa nazionale e alla volontà diMussolini80 e riconoscendone il ruolo insostituibile – anche alla luce delle norme concordatarie81 – si realizzò un avvicinamento in grado di far superare sia il passato remoto dei primi decenni postunitari – con il conseguente intransigentismo della questione romana – sia le incomprensioni e le diffidenze dei fatti del 1931. Ne sono prova, nel volgere di pochi anni successivi al 1931, gli entusiasmi per l’impresa coloniale abissina e per la partecipazione italiana alla guerra di Spagna. Rispetto alla prima, l’adesione del mondo cattolico fu estesissima ed entusiastica82. La campagna nazionale dell’oro per la patria legata proprio a quella guerra – fatta passare come opera civilizzatrice e necessaria per l’espansione vitale del popolo italiano – con la consegna delle fedi nuziali vide le parrocchie impegnate nella raccolta di oggetti d’oro e d’argento, fino alla consegna degli ex-voto, seguendo l’esempio di molti vescovi che donarono l’anello episcopale e il pettorale83; così come straordinario fu l’impegno di molte parrocchie e diocesi nell’invio Oltremare di statue di santi e madonne per attrezzare le future chiese che sarebbero state costruite, un invio tanto numeroso, ingombrante e inutilizzabile da far chiedere ufficialmente la sospensione di queste spedizioni. Una compartecipazione estesa e straordinaria a quella guerra, ma non senza talune eccezioni anche autorevoli seppur riservatissime e segrete come le sconsolate parole di monsignor Tardini – affidate al diario personale – che giudica il clero davanti alla guerra:

«tumultuoso, esaltato, guerrafondaio. Almeno si salvassero i Vescovi. Niente affatto. Più verbosi, più eccitati, più... squilibrati di tutti. Offrono oro, argento puri: anelli, catene, croci, orologi, sterline. E parlano di civiltà, di religione, di missione dell’Italia in Africa… E intanto l’Italia si prepara a mitragliare, a cannoneggiare migliaia e migliaia di Etiopi, rei di difendere casa loro... Difficilmente poteva compiersi nelle file del clero un confusionismo, uno sbandamento, un disquilibrio più gravi e più pericolosi»84.

Parole che contraddicono le semplificazioni storiografiche sull’uniforme adesione al fascismo da parte dei vertici della cattolicità italiana, ma che confermano ad un tempo sia che il dissenso restò quasi sempre inespresso e nascosto, sia il senso di vertigine di chi – investito di responsabilità – aveva sottovalutato la pervasività del fascismo, sia il diffuso consenso da esso ormai raggiunto in parte considerevole del clero impegnato in cura d’anime nelle parrocchie. Consenso di cui sono prova le entusiastiche lettere inviate a Mussolini da preti e religiosi che – dopo le rituali dichiarazioni di fede fascista – avanzano una vasta gamma di richieste: dalla concessione di udienza alle foto del duce con autografo ai finanziamenti per ricostruzioni, restauri, abbellimenti di chiese, monumenti votivi fino alle suppliche e raccomandazioni per ottenere benefici, onorificenze e arruolamenti come cappellani nell’impresa coloniale d’Africa. Nel giugno 1935 scriveva da Forlì don Augusto Leoni:

«Mi sento forte, sano, resistente e quindi anelo a raggiungere i forti e bravi soldati d’Italia che ci daranno un nuovo territorio di espansione e apriranno un vasto campo alla nostra azione coloniale, nonostante gli insidiosi ostacoli e le malvage, sleali recriminazioni di oltre frontiera. I recenti ampliamenti del risorto giardino zoologico di Roma stanno in onorata attesa di ricevere, quali graditi ospiti, i signori Ras abissini e con loro tutti i neri e i bianchi cannibali massacratori dei poveri boeri»85.

E appena due mesi dopo da Avellino don Vincenzo Lavacca si dichiarava disposto a partire immediatamente nonostante l’età:

«Il sottoscritto è Fascista di puro sangue sin dalla prima ora, mostrando sempre – come possono mostrare le autorità competenti – il maggior attaccamento al Partito e la più viva divozione a V.E. il Duce»86.

È ben evidente quale influenza poterono avere tali parroci ispirati da questo ardente patriottismo nell’azione pastorale nelle proprie parrocchie e come esse divennero centri propulsori di consenso al fascismo. È in questo clima che contemporaneamente si sviluppa un rilancio della parrocchia con il quale si disegna un nuovo profilo di compiti e funzioni:

«La nuova centralità della parrocchia era però fondata su elementi diversi da quelli di inizio secolo: la scomparsa dell’impegno sociale di molti preti, costretti dal regime a quella rinuncia; le nuove figure di preti formati negli anni della crisi modernista o mentre cresceva la tacita connivenza tra la Chiesa il fascismo; la forte crescita dell’Azione Cattolica, il cui impegno maggiore era però di carattere culturale e spirituale; le nuove forme di spiritualità connesse con i primi passi del movimento liturgico. Tutto ciò stava cambiando il volto della parrocchia»87.

Questo cambiamento è testimoniato dall’intensa pubblicistica dedicata alla parrocchia. Si tratta di volumi di larga diffusione dove vengono presentati compiti e funzioni dell’istituzione parrocchiale. Tra quelli più diffusi in quegli anni vi è quello celebrativo ed essenziale di Tito Casini che si limitava a ripercorre lo schema delle funzioni tridentine della parrocchia88. Un particolare rilievo ebbe poi il libro di Giuseppe Cavagna La parrocchia e la vita cristiana89 pubblicato attraverso il Centro diocesano di apostolato liturgico di Torino e destinato ad essere riferimento e ispirazione per molte parrocchie. Esso si presentava come un vademecum completo della struttura e della vita parrocchiale: dalle funzioni liturgiche a quelle sacramentali, dagli aspetti organizzativi a quelli di arredo e murari, dall’archivio fino all’associazionismo e alle opere parrocchiali. Di particolare interesse appare il capitolo dedicato ai nemici della parrocchia dove sono descritti secondo l’autore i pericoli e le difficoltà emergenti in quegli anni90. Individualismo e indifferentismo nei confronti dello spirito parrocchiale e rispetto umano e ignoranza della liturgia come nemici della vita parrocchiale sono denunciati e condannati. Essi appaiono condizioni devianti rispetto all’ordine parrocchiale, alla sua organizzazione gerarchica, ad un sistema perfettamente funzionante e rigido che non ammetteva né eccezioni né critiche. Ma proprio negli stessi anni andavano in stampa due libri di don Mazzolari nei quali si avanzavano perplessità e si denunciavano i limiti di un’azione pastorale inefficace e deludente. Di tale azione ne scriveva in una singolare autobiografia:

«Tra l’argine e il bosco una povera chiesa un piccolo campanile… […]. Poche giornate hanno una andatura più monotona di quelle di un presbitero di campagna. Son fatte di niente […]. E volerlo raccontare questo niente, volerlo riandare con chi sta di là della strada, oltre l’argine e il bosco, ove uno tiene l’ordinaria “vodagione” della propria testa, non è rischiare di perderlo del tutto? La tentazione s’affaccia quando ci si accorge che l’orizzonte non varia per variare di tempi, che tutto ha lo stesso colore, con in meno la freschezza dei primi anni»91.

Una descrizione questa, certo diversa dalla vita agreste raccontata con finezza lirica negli stessi anni dall’anziano prete protagonista del romanzo Diario di un parroco di campagna92. Infatti, dal modesto osservatorio di una parrocchia rurale del mantovanoMazzolari maturava – dopo anni di sofferto servizio parrocchiale che coincidevano quasi con l’avvento e l’affermazione del fascismo con il quale non erano mancati scontri duri anche a costo di aperti dissensi con la linea collaborazionista della Chiesa italiana93 – una profonda e originale riflessione dedicata alla parrocchia di cui egli denunciava limiti e carenze a partire dal bisogno di «ritrovare il coraggio di porsi in concreto i veri problemi dell’apostolato parrocchiale»94. Un apostolato per il quale ancor prima degli aspetti organizzativi – spesso ritenuti in quell’epoca prioritari della parrocchia95 – occorre che la parrocchia stessa sia viva, cioè posta «su un piano vitale col mondo presente, organizzata in funzione del compito che deve svolgere su questo piano vitale»96. Mazzolari denuncia quindi un’inadeguatezza della parrocchia a collocarsi nella dimensione del presente, nell’accettare le nuove condizioni del suo ruolo in seguito alle trasformazioni sociali. Certo vi era stato un tempo in cui la parrocchia aveva svolto meritoriamente una quantità di funzioni sociali che però progressivamente e opportunamente erano state assorbite dall’istituzione pubblica97. Questa attività di supplenza aveva creato erronee convinzioni di dover assumere ruoli sociali in realtà impropri e difficoltà a riconoscerli di competenza dello Stato. Ne erano sorti dissidi, conflitti e nostalgie che Mazzolari nel suo scritto ricomponeva individuando le vere emergenze che non erano la semplice difesa o riaffermazione dei principi dottrinali, quanto un lento e fecondo lavoro d’ispirazione della società che la parrocchia era chiamata a compiere grazie al ruolo e ai nuovi compiti che andavano riconosciuti a un laicato autonomo e adulto. Si trattava quindi di sperimentare nuovi metodi di apostolato che superassero sia le tentazioni di restaurazione di una parrocchia che non esisteva più e che era inattuale sia i metodi del lasciar fare, dell’attivismo separatista e del soprannaturalismo disumanizzato. A queste tentazioni occorreva, secondoMazzolari, contrapporre un’opera che abbattesse le barriere di cui si era circondata la parrocchia, che rompesse il regime di separazione con coloro che erano ed erano lasciati ‘lontani’ e restituisse ai laici le proprie responsabilità:

«Occorre salvare la parrocchia dalla cinta che i piccoli fedeli le alzano allegramente intorno e che molti parroci, scambiandola per un argine, accettano riconoscenti. Per uscirne, ci vuole un laicato che veramente collabori e dei sacerdoti pronti ad accoglierne cordialmente l’opera rispettando quella felice, per quanto incompleta struttura spirituale, che fa il laico capace d’operare religiosamente nell’ambiente in cui vive. Un grave pericolo è la clericalizzazione del laicato cattolico, cioè la sostituzione della mentalità propria del sacerdote a quella del laico, creando un duplicato d’assai scarso rendimento. Non devesi confondere l’anima col metodo dell’apostolato. Il laico deve agire con la sua testa e con quel metodo che diventa fecondo perché legge e interpreta il bisogno religioso del proprio ambiente. Deformandolo, sia pure con l’intento di perfezionarlo, gli si toglie ogni efficacia là dove la Chiesa gli affida la missione. Il pericolo non è immaginario. In qualche parrocchia sono gli elementi meno vivi, meno intelligenti, meno simpatici che vengono scelti a collaboratori, purché docili e maneggevoli»98.

Nella stagione del trionfalismo e del connubio Chiesa-fascismo, del meccanismo di protezione e privilegi in cambio di consenso e silenzi, le parole di Mazzolari – scritte con l’intento di aprire un dibattito – erano destinate a non destare quasi reazioni. I suoi richiami e le sue indicazioni sarebbero stati attuali ancor più dieci anni dopo quando, caduto il fascismo e conclusa la Seconda guerra mondiale, la parrocchia sarebbe ancora una volta tornata in Italia al centro della vita politica e sociale, protagonista nell’effimera stagione del collateralismo, afflitta da tutte le tentazioni e da tutti i limiti che Mazzolari aveva individuato con capacità di analisi e coraggio.

La crisi della parrocchia negli anni del collateralismo e della corsa all’edilizia sacra

Nel 1949 Lorenzo Bedeschi – in un piccolo libro dal titolo accattivante Sciopereranno i preti? – presenta la condizione del parroco italiano, soprattutto rurale, segnalandone lo stato di isolamento e di indigenza e denunciando l’inadeguatezza di una parrocchia che risulta ormai estranea alla maggioranza dei residenti nel territorio parrocchiale in particolare nelle zone urbane. Non è più tempo di rimanere in trincea – lui dice – se «la Chiesa non estende le sue conquiste se la fanteria della Chiesa cioè il clero parrocchiale non esce dalla trincea. Fuori di metafora, se la parrocchia non diventa qualcosa di vivo fra i parrocchiani»99. È la denuncia di una crisi destinata a manifestarsi negli anni dell’immediato dopoguerra che rappresentano per la parrocchia italiana un tempo di nuove sfide nelle quali essa sperimenta la propria inadeguatezza di fronte a problemi ben più urgenti rispetto alle tradizionali questioni della natura della parrocchia100. L’urbanizzazione pone problemi nuovi dall’affievolimento del vincolo territoriale a parrocchie sempre più abitate, dove è difficile realizzare un’azione pastorale efficace e dove prevale l’anonimato, fino a nuove forme di mobilità fisica. Problemi aperti sui quali si scrive molto in quegli anni arrivando ad immaginare fantasiosamente azioni pastorali non parrocchiali, come i nuclei pastorali di treno o di corriera, spostando il clero perché si spostano i fedeli101.

Di fronte alle trasformazioni sociali, all’emergenza economica e alla sopravvivenza di un sistema sociale fondato sull’ingiustizia, nonostante i principi costituzionali affermati ma non fruibili, le parrocchie non riescono a dare risposte adeguate e unitarie nonostante nella IV Settimana nazionale di aggiornamento pastorale la gravità dei problemi sociali emerga in tutta evidenza e la condizione di una povertà estesa ed estrema venga presentata con chiarezza102 senza però poter presentare esempi di particolare attenzione a tale condizione. Infatti, nel Meridione le lotte contadine avevano trovato solo eccezionalmente i parroci schierati contro il latifondo103 e scarse complessivamente erano state le conseguenze della Lettera collettiva dell’episcopato dell’Italia meridionale del 25 gennaio 1948, dove era sottolineata con allarme la gravissima situazione sociale non solo del mondo agricolo del Sud Italia ma di tutta la nazione. Un Sud dove le forze dell’ordine sparavano impunemente su contadini affamati e disarmati la cui unica colpa era di avere occupato le terre demaniali o incolte del latifondo104. Tuttavia lo spirito di quella Lettera si stempera ben presto a causa dell’agone elettorale dell’aprile di quello stesso 1948, che inaugura la lunga stagione del collateralismo con il quale le parrocchie si trovano direttamente impegnate nella propaganda elettorale della Dc attraverso il paravento dei Comitati civici. Si inaugura così una lunga stagione di contrapposizione politica, con le parrocchie in contrasto in vaste aree d’Italia con le Case del popolo. Un regime di concorrenza che induce non pochi parroci a lanciarsi nell’impresa delle opere realizzate dal commendatore Giovan Battista Giuffrè e dalla sua «Anonima banchieri». Un’organizzazione che dal finire degli anni Quaranta fino al 1958 attraverso un inverosimile sistema di usura alla rovescia raccoglie fondi (nell’ordine di diversi miliardi di lire dell’epoca) e li restituisce con interessi anche del cento per cento annuo e che contemporaneamente realizza opere parrocchiali di ogni genere. Nel volgere di pochi anni la collaborazione di alcuni vescovi, di numerosi parroci, guardiani di conventi e superiori di monasteri offerta all’«Anonima banchieri» divenne convinta e decisiva. Giuffrè godeva fama di benefattore e di cavaliere della fede. Lapidi di marmo testimoniavano su chiese, canoniche e opere sociali gratitudine al ‘banchiere di Dio’ definito «munifico benefattore». Una rete capillare e affidabile aveva permesso la raccolta di miliardi, in una dissennata corsa di prendi e rilancia denaro. Ma qual era in conclusione il motivo di fondo di quella folle impresa finanziaria? Certamente il poter ottenere dei comodi, come i termosifoni, ambienti abitativi più salubri, talvolta lussuosi, e realizzare convenienti investimenti monetari. Ma il primo e diffuso obiettivo era la costruzione di opere ritenute assolutamente indispensabili per la pastorale parrocchiale e il suo successo. Nel clima politico dell’Italia del dopoguerra le chiese locali, in nome dell’anticomunismo, dell’unità partitica dei cattolici e dell’identificazione con laDc si erano cimentate nella competizione con i partiti politici di sinistra cedendo alla tentazione dell’attivismo. Il regime di concorrenza imponeva però dei costi e la necessità di risorse innanzitutto per edificare (oratori, cinema, bar, campi di calcio) ed essere quindi alla pari delle Case del popolo e dei circoli ricreativi profani. Alle tradizionali Feste dell’Unità il parroco del paese, non di rado, contrapponeva in contemporanea una controfesta di disturbo sotto la protezione di un santo. In questa spirale all’infinito parroci e religiosi si erano trasformati in imprenditori edilizi e in impresari del tempo libero. Per le spese di questa pastorale dell’intrattenimento e del contrasto al comunismo, i finanziamenti del ‘banchiere di Dio’ erano stati accolti come un tangibile segno della provvidenza. Ed è lo stesso anticomunismo governativo ad imporre un regime di totale collateralismo che percepisce la Chiesa come insostituibile bastione difensivo e come macchina di propaganda elettorale. Osserva Giorgio Caredda, riferendosi alle istituzioni periferiche dello Stato: «Per battere in ogni piega della società italiana i comunisti e i loro alleati, i prefetti indicano una sola via: coordinare l’azione della Chiesa, dell’amministrazione dello Stato, delle organizzazioni collaterali cattoliche»105. Questo impegno diretto dei prefetti a servizio del partito di governo per l’imminente campagna elettorale per le politiche del 1958 fu promosso dall’allora ministro Tambroni con uno specifico questionario riservato nel quale si chiedeva ai prefetti quali interventi governativi dovessero essere presi per influenzare positivamente l’elettorato106.

Non si era allora in grado – all’interno della Chiesa italiana – di valutare fino in fondo l’uso puramente strumentale della religione da parte dello Stato e di considerare quanto questa strenua lotta ai comunisti, più che al comunismo, avrebbe finito per condizionare i contendenti finendo per renderli quasi rassomiglianti107, nonostante vi fossero voci autorevoli come quella del cardinale Giuseppe Siri che nel denunciare l’anemia spirituale delle parrocchie avvertiva del pericolo di poter entrare in concorrenza con il mondo finendo così per condividerne gli stessi traguardi108.

Si era quindi innescata una spirale infinita nella quale si fondevano le esigenze del controllo politico elettorale con quelle religiose sacramentali. Quanto poco questo si traducesse in crescita e maturazione della fede appariva, a voler guardare la realtà parrocchiale e ad esser sinceri, evidente. Già «Adesso» – il quindicinale di don Primo Mazzolari – aveva denunciato, poco prima che esplodesse lo scandalo, non solo l’abuso delle cerimonie frutto di un culto devozionale, fastoso e rumoroso, sempre più indipendente dalle fonti liturgiche e sacramentali, ma anche:

«L’inutile sforzo, con conseguente sciupio di denaro, di uomini ed energie, per portare la parrocchia e l’oratorio sul piano del divertimento, in concorrenza impossibile di altre istituzioni mondane. Il nostro mondo non ha bisogno di “essere divertito” ma restituito alla serietà del vivere, del pensare, del sapere»109.

E, riprendendo questa denuncia nel pieno delle polemiche dello scandalo Giuffrè, Carlo Bo era ripetutamente intervenuto osservando quanto fosse illusoria e perdente la strategia del divertimento parrocchiale110 che poggiava «nella presunzione che basti organizzare (magari il carnevale dei bambini111 o il festival della canzone112) o vestire l’abito dell’avversario per dimostrare di essere vivi. Non serve conquistare delle posizioni se poi non le sappiamo far prosperare o, come nel nostro caso dimentichiamo di nutrirle di idee o di fede»113. Ma soprattutto Bo osservava quale palese sproporzione vi fosse «fra gli sforzi fatti per essere moderni, magari più moderni degli altri, e gli sforzi fatti per arricchire il linguaggio dell’insegnamento, per adeguare la parola ai nuovi problemi, alla nuova situazione dell’uomo nel mondo»114. Questa sproporzione non solo segnava una reale inadeguatezza nel riuscire a rispondere alle emergenze del presente, ma indicava una «risoluzione di ripiegare sulle manifestazioni di forza, sull’impiego delle masse, sull’attività edilizia» in grado di dimostrare «una paurosa mancanza di idee e, ancor più, di stimoli spirituali»115. In questa situazione, che traduceva l’idea di parrocchia ‘attrezzata’ come «cittadella cristiana»116, finivano per acquisire importanza gli aspetti organizzativi-associativi117 e gli strumenti, le distrazioni, le macchine organizzative e da gioco perfette, le adunanze oceaniche, i tesseramenti, i numeri: cioè le ombre. «Guai [concludeva Bo] a limitarsi al gioco delle etichette e dei nomi, con la convinzione che, in mancanza di meglio, convenga la presenza fisica, il segno del potere»118. A strettissimo giro riprendeva questi argomenti Carlo Arturo Jemolo, integrandoli con il motivato allarme per una nazione in cui si affermava un codice di divisione della società provocato «dall’estendersi delle attività ecclesiastiche: cinema, campi di sport, biblioteche circolanti, colonie estive, campeggi, gite turistiche che talora non prendono neppure il nome di pellegrinaggi, cooperative, banche ed assicurazioni cattoliche, scuole confessionali sempre più diffuse: il corollario della separazione»119.

Primo Mazzolari sarà tra le poche voci che denunceranno i gravi limiti di questa pastorale parrocchiale di tipo edilizio. Nel piccolo libro del 1957 La parrocchia, egli scriverà che:

«osservando la febbre costruttiva che sta occupando un po’ tutti i parroci – qualcuno l’ha chiamata “il male della pietra” – mi viene il dubbio se essa non sia, per caso, un surrogato di un’insufficienza spirituale. […]. Il materialismo ha tanti modi di farsi strada anche in terra cristiana, e questo è uno dei valichi meno sorvegliati, anche perché benedetto e gratificato dalla compiacente approvazione dell’autorità, la quale misura a volte l’attività di un parroco in cura d’anime dai milioni che egli ha saputo spendere. […]. Sta occupandoci una mentalità tecnico-organizzativa, per non dire meccanica e materialista, la quale rappresenta il vero pericolo della parrocchia»120.

L’anno dopo, in modo molto più articolato, la pastorale di quell’epoca verrà segnalata nella sua inefficacia da Lorenzo Milani in Esperienze pastorali121. Un libro a lungo preparato, infatti il rifiuto alla resa rispetto all’incipiente conformismo sociale e clericale di un’Italia sotto l’assedio della guerra fredda e del consumismo invasivo e disgregante condusse Milani alla scelta pastorale di studiare la condizione culturale e religiosa del popolo di San Donato, nella cui parrocchia era stato cappellano dal 1947 al 1954 prima di essere confinato a Barbiana. E per far questo egli dovette analizzare a fondo l’ambiente in cui operava e costruire dall’interno di quel mondo delle soluzioni pastorali efficaci. Il taglio della ricerca, che provocò dibattiti e polemiche successive alla richiesta del Sant’Uffizio di ritiro del libro dal commercio perché ‘inopportuno’, fu storico e ad un tempo di ‘sociologia religiosa’, testimoniandoci nei particolari quell’insostituibile processo di raccolta di informazioni minute necessarie per capire la vita dei propri parrocchiani, un’analisi storica attenta a ricostruire la condizione religiosa in rapporto alla fede e ai sacramenti attraverso l’uso di statistiche e diagrammi. Si evidenziano così le percentuali degli iscritti al catechismo, dei praticanti la messa, dei luoghi occupati da maschi e donne in chiesa, dei partecipanti alle processioni, della frequenza ai sacramenti, delle spese sostenute per prime comunioni e matrimoni. In Esperienze pastorali Milani non si limita a prendere atto del fallimento della cultura religiosa, ma collega questa al fallimento della vita civile122 di fronte alla quale i parroci continuavano ad interessarsi della grandezza dei campi di calcio dei proprio oratori123.

La pastorale della competizione non solo impegnava la Chiesa in compiti e ruoli che le erano impropri, sovente con uno spirito di crociata e di combattimento, e con una pericolosa fiducia in mezzi e strumenti palesemente vuoti e caduchi, in una azione che don Giuseppe De Luca definiva efficacemente di propaganda124, ma rischiava di divenire elemento di frattura nella società italiana. Si era, infatti, affermata in concreto l’idea di una società cristiana alternativa, per il successo della quale si giustificava il coinvolgimento ecclesiale nella cristianizzazione di ogni realtà mondana, fino ad un impegno politico diretto e a una totale identificazione con un partito politico125.

Le prove di questo collateralismo della parrocchia sono tanto numerose quanto ancora complessivamente poco ricordate oppure ignorate126 e costituiscono un elemento insostituibile per comprendere il rapporto della Chiesa italiana con la politica. Si prenda come esempio ciò che racconta Giovanni Petrucci, parroco di Castellino del Biferno, piccolo paese in provincia di Campobasso, in occasione della solenne inaugurazione e benedizione di una fontanella alla presenza di un sottosegretario ai Lavori Pubblici e con la partecipazione di tutta la parrocchia con i bambini dell’asilo e delle scuole elementari e gli insegnanti, le Acli, i Coltivatori diretti, la Dc, il sindaco, il medico condotto, il segretario comunale. Siamo nel maggio del 1958 a quattro giorni dalle elezioni politiche della III legislatura e Castellino non ha ancora rete fognaria e rete idrica né l’avrà ancora nel 1963, quando verrà pubblicato il libro del parroco:

«Un avvenimento di eccezionale importanza e degno di essere scritto a caratteri indelebili nelle memorie storiche del paese è quello del 21 maggio 1958: la inaugurazione della fontana pubblica […]. È seguito un intervento del M.R. Sig. Parroco che confermando quanto aveva detto l’insegnante Storto specie per le povere donne di Castellino costrette d’inverno e d’estate a fare lunga strada e spendere tanto tempo per riempire i recipienti di acqua tante volte poco potabile e forse inquinata, ha pregato S.E. Sedati a tenere presente i bisogni più impellenti del povero comune di Castellino, augurando che, dopo le prossime elezioni del 25 maggio, l’On. Parlamentare, col suffragio trionfale del popolo, possa conseguire migliori e maggiori incarichi negli organi governativi. Quindi ha preso la parola S.E. Sedati il quale rievocando brevemente tutte le opere del governo, in modo particolare la provvidenziale legge in favore della Cassa del Mezzogiorno ha fatto comprendere tutti gli sforzi del Governo in favore di tutte le classi sociali, sforzo che continuerà sempre meglio qualora il popolo italiano, riconoscente a quanto già fatto darà al partito democristiano quella fiducia nei suffragi che permetteranno una stabilità di governo»127.

Dalla parrocchia mancata del dopo Vaticano II alla parrocchia senza parrocchiani

Nella metà degli anni Novanta viene pubblicato un libro che ispirandosi alla nota opera di Antonio Rosmini si intitola Le cinque piaghe della parrocchia italiana128. I singoli capitoli sono dedicati a piaghe ancora aperte, dalla missione anemica alla catechesi sclerotizzata, dal disimpegno socio-pastorale allo scollamento tra parrocchie e movimenti, fino alla disattenzione del clero. Si tratta di un’analisi articolata e puntuale che rende bene la condizione della parrocchia italiana che aveva attraversato faticosamente il trentennio postconciliare.

A quei problemi vi è da aggiungere il permanere – in tutti quegli anni – del collateralismo e della pretesa unità politica dei cattolici in Italia. Si tratta della chiave di lettura più efficace per comprendere il prolungamento e la trasformazione della lunga crisi della parrocchia italiana con i suoi limiti e le sue contraddizioni. Se infatti Guido Crainz ha intitolato un recente e documentato libro sugli anni Sessanta-Ottanta Il Paese mancato129, si può parafrasare quel titolo – che sottolinea l’occasione perduta dall’Italia in quegli anni – anche per la parrocchia italiana e si possono individuare possibilità negate o perdute. Ovvero uno scarto profondo tra le attese che erano maturate già prima del concilio Vaticano II e che i documenti conciliari avevano in buona parte confermato – pur non parlando direttamente di parrocchie ma affermando una nuova ecclesiologia – e una prassi ecclesiale che in molte diocesi, e quindi in tantissime parrocchie, dopo i primi entusiasmi e trasformazioni aveva conosciuto allarmi e vivissime preoccupazioni, ripiegamenti e frettolosi ritorni al passato. La mappa di questo processo attraversa tutta Italia e ne è prova il fiorire di gruppi locali che coinvolge molte parrocchie e la cui proposta è superare la parrocchia struttura amministrativo-burocratica erogatrice di sacramenti e servizi affermandone invece il senso di comunità di fede e condivisione in grado di determinare autonomamente anche le scelte politiche particolari. Fra tutte le esperienze, da Nord a Sud d’Italia, valga l’esempio della parrocchia dell’Isolotto, il quartiere realizzato nel 1954 dal sindaco Giorgio La Pira e composto dalle cosiddette case minime. Proprio l’esclusione di La Pira nel 1966 dalle liste democristiane e la conseguente protesta di un gruppo di credenti che infrange l’unità politica dei cattolici daranno avvio a un processo persecutorio nei confronti della parrocchia dell’Isolotto la cui comunità verrà sconfessata nel 1969 dal cardinale di Firenze Ermenegildo Florit130. Quella vicenda è paradigma di un movimento diffuso di dissenso che, nato quasi sempre all’interno delle parrocchie, ne sarà allontanato o se ne allontanerà dando vita all’esperienza delle comunità di base che a partire dal 1971 tenteranno un collegamento e un impegno comune ispirato ad un dissenso ecclesiale che non si riconosce nel partito dei cattolici, che si oppone alla guerra nel Vietnam, che rivendica un nuovo protagonismo dei laici, che afferma una volontà di presenza della comunità all’interno delle dinamiche sociali, in particolare quelle di maggiore privazione e marginalità131.

Contemporaneamente a queste esperienze – complessivamente minoritarie – nella parrocchia si vive il tumultuoso periodo postconciliare con viva apprensione. La riforma liturgica e le necessarie trasformazioni della Chiesa, i nuovi canti, i nuovi messali e la nuova catechesi, l’abbandono del sacerdozio da parte di non pochi parroci, la nascita di movimenti ecclesiali spesso in concorrenza – quando non in opposizione – con l’Azione cattolica e con l’associazionismo tradizionale sono tutti elementi che concorrono a disgregare ulteriormente una struttura che, nonostante la crisi avviata negli anni Cinquanta, era rimasta complessivamente statica. Si afferma così urgente – nel dibattito di quegli anni fino al presente – la ridefinizione dello statuto della parrocchia e del proprio ruolo in relazione alla diocesi secondo un profilo di similitudine (rappresenta la Chiesa e la rende visibile) e di subordinazione (cellula e parte della Chiesa particolare)132 mentre si sostiene ripetutamente il nuovo ruolo della parrocchia come soggetto evangelizzatore e attivo nell’azione pastorale133. Saranno questi elementi che caratterizzeranno sia i lavori di alcune Settimane nazionali di aggiornamento pastorale134, sia i ripetuti interventi della Cei sulla parrocchia, un tentativo di ridefinire ruoli e impegni che necessita di continue messe appunto a dimostrazione delle difficoltà che gli stessi vescovi percepiscono135, fino ad arrivare al tema del biennio 2003-2004 dedicato a La parrocchia in un mondo che cambia. In esso si registrano i vertiginosi cambiamenti sociali e la difficoltà per la parrocchia di seguire le trasformazioni. Una parrocchia che segna progressivamente sempre nuove emorragie fino ad arrivare ad oltre il 70% di assenze dalla vita di comunità. Un fenomeno che rende l’idea che il vero problema della parrocchia del presente non è quello delle strutture, alle quali un tempo erano dedicate tutte le energie e le risorse, ma di persone136. In una società formata da dispersi e superstiti nella parrocchia sembrano pesare più i vuoti che le presenze, e i vuoti indicano una complessiva marginalità del laicato nelle parrocchie mentre il numero dei presbiteri si assottiglia e quello dei parroci di più parrocchie aumenta137. Al laicato – mettendo da parte dichiarazioni ufficiali di intenti – sembrano ancora riservati ruoli esclusivamente esecutivi e quasi sempre la specifica competenza civile del laicato resta ancora negata. Mentre talvolta si cede ad una clericalizzazione emergenziale del laicato. È una condizione che mostra quanto irrisolta sia in Italia la questione di una ecclesiologia di condivisione e di corresponsabilità e quanto ritardo vi sia nel riconoscere una laicità in grado di assumersi impegni e autonomia, di cui la parrocchia dovrebbe essere luogo di realizzazione esemplare anche per la comunità civile. Non mancano al riguardo interventi significativi e innovativi della Cei come per esempio il documento dedicato nel 1989 al Mezzogiorno, dove alla parrocchia – come spazio di liberazione, promozione umana e di servizio – è riconosciuto il rilevante ruolo di soggetto sociale:

«Bisogna che nasca una parrocchia comunità missionaria di credenti, che si ponga come “soggetto sociale” nel proprio territorio. Se la parrocchia è la Chiesa posta in mezzo alle case degli uomini, essa vive e opera profondamente inserita nella società umana e intimamente solidale con le sue aspirazioni e i suoi drammi. Deve, in una parola, essere la casa aperta a tutti e al servizio di tutti»138.

Di quell’inserimento sociale e di quella intima solidarietà era già prova dagli inizi degli anni Settanta l’attività della Caritas italiana guidata e ispirata da Giovanni Nervo e successivamente da Giuseppe Pasini, che promuoveranno e sosterranno la nascita delle Caritas diocesane e parrocchiali. Si realizzerà così una nuova presenza della parrocchia, destinata – soprattutto in alcune aree metropolitane – ad entrare, proprio malgrado, in aperto conflitto con le istituzioni civili. Si pensi al riguardo all’azione del direttore della Caritas della diocesi di Roma, Luigi Di Liegro, che fin dagli anni Ottanta impegnò le Caritas parrocchiali nella realizzazione di servizi nei confronti delle nuove marginalità (alloggi per migranti, mense, case per malati di Aids) e delle povertà sistemiche senza cadere nel rischio di una supplenza rispetto alle incapacità e insensibilità dell’amministrazione locale dell’epoca:

«L’esperienza di solidarietà verso i cittadini più indifesi deve accompagnarsi costantemente a un’opera di denuncia profetica di ogni forma di violenza verso gli indifesi. Il rischio è quello – giustificato dalla tradizione caritativa del passato – di badare più al gesto isolato e generoso che non alle condizioni strutturali e culturali dei problemi sociali»139.

Ma le indicazioni di quel documento sul Mezzogiorno si tradussero anche nelle testimonianze di parroci come don Peppino Diana e don Pino Puglisi, uccisi l’uno dalla mafia nel 1993 e l’altro dalla camorra nel 1994. Le loro figure solo ultimamente sono state ufficialmente recuperate dal documento della Cei Per un Paese solidale. Chiesa italiana e Mezzogiorno. La loro opposizione alle associazioni criminali fu una scelta cosciente ed esemplare alla quale diedero un valore civile ed ecclesiale ad un tempo, a partire innanzitutto dalle proprie parrocchie. Nel Natale del 1991 don Diana fu promotore dell’appello Per amore del mio popolo – sottoscritto da diversi parroci –, un documento breve e programmatico per la società e per le parrocchia e che non ha perso ancora la sua drammatica attualità:

«La camorra rappresenta uno Stato deviante parallelo rispetto a quello ufficiale, privo però di burocrazia e d’intermediari che sono la piaga dello Stato legale. L’inefficienza delle politiche occupazionali, della sanità, ecc., non possono che creare sfiducia negli abitanti dei nostri paesi; un preoccupato senso di rischio che si va facendo più forte ogni giorno che passa, l’inadeguata tutela dei legittimi interessi e diritti dei liberi cittadini, le carenze anche della nostra azione pastorale ci devono convincere che l’Azione di tutta la Chiesa deve farsi più tagliente e meno neutrale per permettere alle parrocchie di riscoprire quegli spazi per una “ministerialità” di liberazione, di promozione umana e di servizio».

Note

1 M. Rosa, Le parrocchie italiane nell’età moderna e contemporanea. Bilancio di studi e linee di ricerca, in Id., Religione e società nel Mezzogiorno tra cinque e seicento, Bari 1976, p. 157.

2 Cfr. La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, Atti del II Incontro seminariale (Maratea 1979), a cura di G. De Rosa, A. Cestaro, Napoli-Roma 1982.

3 P. Borzomati, La parrocchia, in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, a cura di M. Isnenghi, Roma-Bari 1997, p. 74.

4 «La visita pastorale si presenta come una grande inchiesta del vescovo sulle parrocchie e la vita religiosa nella sua diocesi […]. La visita era preparata dall’annuncio e dall’invio di questionari ai parroci, che dovevano riferire circa lo stato ecclesiastico e quello delle anime appartenenti alla parrocchia […]. Le scritture, che costituiscono il corpo della visita, sono documenti preziosi per ricostruire l’ambiente storico e sociale di una parrocchia o di una diocesi, colta attraverso l’attività e il pensiero del vescovo. Lo studio delle visite pastorali sono il presupposto necessario per impostare la storia di una spiritualità non emotiva né carismatica ma istituzionalizzata, per così dire, nella vita di pietà e di devozione di una o più parrocchie», G. De Rosa, Vescovi, popolo e magia al Sud. Ricerche di storia socio religiosa dal XVII al XIX secolo, Napoli 1971, pp. 280, 283.

5 «La coscienza prospettica dell’azione ecclesiale desunta dagli archivi offre la possibilità di un congruo adeguamento delle istituzioni ecclesiastiche alle esigenze dei fedeli e degli uomini del nostro tempo. Attraverso un’indagine storica, culturale e sociale, i centri di documentazione favoriscono infatti lo sviluppo delle precedenti esperienze ecclesiali, la verifica delle inadempienze, il rinnovamento in riferimento alle mutate condizioni storiche. Un’istituzione che dimentica il proprio passato difficilmente riesce a configurare la sua funzione tra gli uomini di un determinato contesto sociale, culturale e religioso. […]. Gli archivi sono i luoghi della memoria ecclesiale da conservare e trasmettere, da ravvivare e valorizzare poiché rappresentano il più diretto collegamento con il patrimonio della comunità cristiana. Le prospettive per un loro rilancio sono favorevoli, tenuto conto della sensibilità che si è sviluppata in molte Chiese particolari per i beni culturali ed in particolare per la memoria degli eventi locali. Le iniziative in merito sono molteplici e significative non solo in campo ecclesiastico, ma anche in quello civile», Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, 3 febbraio 1997, 1.3-2, http://www.vatican.va/ roman_curia/pontifical_commissions/pcchc/documents/rc_com_pcchc_19970202_archivi-ecclesiastici_it.html (22 ott. 2010).

6 Sui problemi relativi alla ricerca restano ancora attuali le indicazioni emerse in La conta delle anime. Popolazione e registri parrocchiali. Questioni di metodo ed esperienze, a cura di G. Coppola, C. Grandi, Bologna 1989. Si cfr. come esempio della ricchezza delle possibili ricerche il progetto La memoria dei sacramenti (http://www.memoriadeisacramenti.it) il cui lavoro di catalogazione sugli archivi di alcune parrocchie di diverse diocesi toscane è stato avviato da Gianluca Camerini per le Edizioni Archivinform a partire dal 2008; o ancora l’Inventario dell’archivio storico delle parrocchie del Trentino.

7 Si pensi per esempio Liber Chronicus (1910-1963) del parroco Agostino Ciccone riportato nel volume La Parrocchia di Catona dal Settecento ai nostri giorni, a cura di P. Borzomati, Soveria Mannelli 2001, pp. 93-160.

8 Pontificia Commissione per i Beni Culturali della Chiesa, La funzione pastorale degli archivi ecclesiastici, cit., p. 3.

9 Cfr. C. Ge Rondi, L’analisi nominativa in demografia storica: metodi e problemi. Il caso di una parrocchia, Milano 1988.

10 Cfr. esemplari studi come quelli per esempio di A. Zambarbieri, Parrocchia e mondo contadino tra Ottocento e Novecento. Maleo e il parroco Trabattoni, Lodi 1980; F. Iozzelli, Roma religiosa all’inizio del Novecento, Roma 1985; A. Manfredi, Vescovi, clero e cura pastorale. Studi sulla diocesi di Parma alla fine dell’Ottocento, Roma 2000; D. Morfini, Parrocchia e laicato cattolico nel Novecento meridionale. L’episcopato barese di Giulio Vaccaro (1898-1924), Bari 2006.

11 «Il Governo, da ultimo, una volta iniziato uno studio religioso in Roma, centro del cattolicesimo ha ragioni innumerevoli, tutte di un grande valore storico e politico, non solo a conservare, ma anche ad allargare esso studio. L’insegnamento storico-religioso, nelle Università, non è necessario che venga raccomandato in sé stesso al Ministero, che certamente saprà con quanta sollecita cura oggi s’impartisce nelle principali Università d’Europa. Se non possiamo, in tale fatto, essere i primi, almeno cerchiamo di non essere gli ultimi! Neppure è necessario dimostrare che il nostro Paese ne abbia bisogno imperioso, più assai degli altri, per le sue condizioni religioso-cristiane, tanto connesse con la vita civile, passata e presente», B. Labanca, Gli studi religiosi nell’università di Roma, Bologna 1888, pp. 3-4; cfr. anche Id., Difficoltà antiche e nuove degli studi storico religiosi in Italia, Milano-Torino 1890.

12 Cfr. F. Cavezzana Romanelli, M. Martignon, R. Pegoraro, Solo carte? Indicazioni operative per la tenuta dell’ archivio corrente delle parrocchie, Venezia 2006.

13 C. Violante, L’organizzazione ecclesiastica per la cura d’anime nell’Italia settentrionale e centrale, in Pievi e parrocchie in Europa dal medioevo all’età contemporanea a cura di C.D. Fonseca, C. Violante, Galatina 1990, p. 210.

14 Cfr. V. Bo, Storia della parrocchia, 5 voll., Bologna 2004.

15 Cfr. tra la sconfinata bibliografia teologica dedicata alla parrocchia, per es. in ordine cronologico G. Damizia, s.v. Parrocchia, in Enciclopedia Cattolica, IX, Firenze 1952, coll. 856-859; V. Bo, s.v. Parrocchia, in Dizionario di Pastorale della comunità cristiana, Assisi 1980, pp. 412-418; F.G. Brambilla, s.v. Parrocchia, in Enciclopedia di Pastorale, a cura di B. Seveso, IV, Casale Monferrato 1993, pp. 171-179; A. Mastantuono, s.v. Parrocchia, in Dizionario di ecclesiologia, a cura di G. Calabrese, P. Goyret, O.F. Piazza, Roma 2009.

16 Cfr. G. De Rosa, Verso quale storiografia religiosa di fine millennio? Bilancio e prospettive del nostro lavoro, in G. De Rosa, Tempo religioso e tempo storico. Saggi e note di storia sociale e religiosa dal Medioevo all’età contemporanea, Roma 1998, pp. 275-292. Si pensi, oltre al già citato incontro seminariale di Maratea del 1979, a quello del 1977: La parrocchia nel Mezzogiorno dal medioevo all’età moderna, Atti del I Incontro seminariale (Maratea 1977), Napoli 1980.

17 Tra le poche eccezioni: M. Guasco, Parrocchia, comunità missionaria, in La Chiesa in Italia dall’Unità ai nostri giorni, a cura di E. Guerriero, Cinisello Balsamo 1996, pp. 485-492 (per quello che riguarda la parrocchia a livello di varie Chiese nazionali).

18 G. De Rosa, Anagrafe di una storiografia socio-religiosa, in Id., Tempo religioso e tempo storico, cit., p. 89.

19 Cfr. come solo esempio fra i più recenti: L. Tavano, La diocesi di Gorizia (1750-1947), Mariano del Friuli 2008; Storia della diocesi di Piacenza, III, L’età moderna. Il rinnovamento cattolico 1508-1783, a cura di P. Vismara, Brescia 2010.

20 Cfr. Storia Religiosa della Lombardia, a cura di A. Caprioli, A. Rimoldi, L. Vaccaro, 12 voll. (più 2 voll. complementi), Brescia 1986-2007; Storia religiosa del Veneto, 10 voll., Padova 1991-2004; M. Mariotti, Istituzione e vita della Chiesa della Calabria moderna e contemporanea, Caltanissetta 1994; R. Turtas, Storia della Chiesa in Sardegna, dalle origini al Duemila, Roma 1999; Storia delle chiese di Sicilia, a cura di G. Zito, Città del Vaticano 2009; Dizionario storico delle diocesi: Campania, a cura di S. Tanzarella, A. Carfora, C. Galiano et al., Palermo 2010.

21 Cfr. Le diocesi di Italia, a cura di L. Mezzadri, M. Tagliaferri, M. Guerriero, 3 voll., Cinisello Balsamo 2007-2008.

22 La prova di questo si ha per esempio già in uno studio del 1877 in cui si analizza la situazione sanitaria e igienica dei quartieri di Roma utilizzando i dati dei decessi desunti dagli archivi parrocchiali delle quarantaquattro parrocchie urbane nel decennio 1861-1870, cfr. F. Scalzi, La salubrità di Roma assoluta e regionale studiata nella Necrologia delle Parrocchie Urbane, Roma 1877.

23 Cfr. V. Bortolotti, Gli archivi dei comuni – opere pie – parrocchie – provincie – famiglie – aziende private – notarili e di stato. Loro formazione e ordinamento, Milano 1915, pp. 73-74.

24 F. Salimbeni, La parrocchia nel Mezzogiorno nell’età moderna e contemporanea, «Ricerche di storia sociale e religiosa», n.s. VI, 12, 1977, pp. 250-251.

25 Cfr. M. Cuminetti, Il dissenso cattolico in Italia 1965-1980, Milano 1983; e sull’esperienza delle Comunità di base: M. Campli, M. Vigli, Coltivare la speranza. Una Chiesa altra per un altro mondo possibile, Pescara 2009.

26 G. Berthelet, Dizionario delle Parrocchie italiane con le indicazioni del Comune, della Diocesi, della Provincia, della Popolazione e delle Congrue Parrocchiali, Roma 1901, pp. III-IV.

27 Per Bertolotti il numero delle parrocchie era di 20.707 e il totale delle diocesi 316. Tuttavia le differenze di proporzioni tra Nord e Sud emergevano anche nelle sue tabelle: Italia Settentrionale 47 diocesi con 7.465 parrocchie, Italia Centrale 120 diocesi con 8430 parrocchie, Italia Meridionale 118 diocesi con 3.738 parrocchie, Italia insulare 31 diocesi con 1.074 parrocchie, cfr. G. Bertolotti, Statistica Ecclesiastica d’Italia, Savona 1885.

28 Cfr. Ministero di Grazia e Giustizia e dei Culti – Direzione Generale del fondo per il culto, Attività e passività delle parrocchie del Regno d’Italia e assegni di congrua a carico del fondo per il culto, Roma 1897, pp. 466-467.

29 «Le varie regioni avevano ereditato le tradizioni e la prassi consolidata nel tempo: le parrocchie siciliane avevano superfici che andavano dagli 88 kmq di Caltanissetta con una popolazione media di circa 9.000 abitanti, ai 97 kmq di Trapani, con una media di abitanti superiore agli 11.000; a Napoli la superficie media non superava i 4 kmq, con una popolazione superiore ai 5.000 abitanti, mentre a Lucca, con una media di 5 kmq, la popolazione era inferiore a 1.000 abitanti. A Firenze, poi, la media degli abitanti non raggiungeva gli 800, a Siena, Perugia e Pesaro era inferiore ai 600, ad Arezzo inferiore ai 500. Ciò era dovuto alla diversa organizzazione territoriale e pastorale che si era lentamente sviluppata nelle varie regioni», M. Guasco, Storia del clero in Italia dall’Ottocento ad oggi, Roma-Bari 1997, p. 189.

30 A. Gambasin, La parrocchia veneta nell’età contemporanea, in La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, cit., Napoli 1982, pp. 33-34.

31 Ibidem, pp. 37-38: «La parrocchia, sempre meno patrimonio del principe o dei patroni, si trasformò in porzione della diocesi sotto la piena giurisdizione del vescovo: unico centro della vita religiosa per l’amministrazione dei sacramenti, la catechesi, per le manifestazioni della pietà popolare, per il movimento cattolico, per le opere di beneficenza […]. La risposta della parrocchia all’emarginazione, alle malattie, ai dissesti familiari dei fedeli, traeva motivazioni ideali dalla dottrina della Chiesa e dagli indirizzi papali e si concretizzava nelle casse rurali per sconfiggere l’usura, nelle società mutue, cooperative per trovare rimedi alle cattive annate, nelle scuole per l’istruzione agronomica per vincere l’arretratezza culturale soprattutto dei ceti contadini».

32 «In particolare la parrocchia per la sua funzione di formare non solo la coscienza, mediante la catechesi e il rito, ma di compenetrare la scuola, la famiglia e il comune, si trova costantemente impigliata nella rete della pubblica amministrazione. La parrocchia seleziona e separa l’intero apparato dei “segni” che manifestano ed attuano la fede cristiana, da inquinamenti temporali; ma non elude problemi, aspirazioni, tensioni politiche, crisi economiche e sussulti sociali», A. Gambasin, Parroci e contadini nel Veneto alla fine dell’Ottocento, Roma 1975, p. 20.

33 Cfr. A. Gambasin, Gerarchia e laicato in Italia nel secondo Ottocento, Padova 1969.

34 Cfr. M. Rosa, Storia socio-religiosa del Mezzogiorno, «Quaderni storici», 8, 1973, 22, pp. 247-259; Id., Religione e società nel Mezzogiorno tra cinque e seicento, Bari 1976, p. 153.

35 «Agli inizi dell’Ottocento, le chiese patrimoniali costituiscono poco meno di 1/3 del totale delle chiese curate del Regno; un’analoga quota è ricoperta dal clero ricettizio nell’ambito del valore complessivo dei secolari presenti nel Sud, intorno al 1820. Tuttavia, la quota del reddito globale, posseduta dai collegi ricettizi nel medesimo periodo, risulta superiore alla metà delle rendite nette di tutte le chiese curate», V. De Vitiis, Chiese ricettizie e organizzazione ecclesiastica nel regno delle Due Sicilie dal Concordato del 1818 all’Unità, in Per la storia sociale e religiosa del mezzogiorno d’Italia, a cura di G. Galasso, C. Russo, Napoli 1982, p. 407.

36 Ibidem, p. 399: «L’incidenza della chiesa ricettizia assume una dimensione quantitativa più rilevante nelle province del Principato Ulteriore (44,37 %), del Molise (46,20 %), di Principato Citeriore (49,68%) e di Capitanata (50%). Tocca infine i livelli più alti nelle province di Terra di Bari (69,07%), di Terra d’Otranto (85,86%) e di Basilicata (93,42%)».

37 Per il testo del Concordato, cfr. Raccolta di Concordati tra la Santa Sede e le Autorità Civili, a cura di A. Mercati, 2 voll., Città del Vaticano 1954: I, pp. 620-637.

38 B. Pellegrino, Vescovi “borbonici” e Stato “Liberale”. 1860-1861, Bari 1992, p. 91.

39 «Le parrocchie sono state sempre dal nostro legislatore trattate con ogni possibile riguardo: così il numero di esse è stato integralmente conservato, i beni immobili costituenti la dotazione del beneficio parrocchiale non sono stati sottoposti a conversione, i beni parrocchiali in generale, beneficiarii o non beneficiarii, non vennero sottoposti a tassa straordinaria del 30 per cento, la quota di concorso da pagarsi a favore del fondo pel culto venne stabilita in minime proporzioni […] ed a differenza dei beni delle mense vescovili ed arcivescovili, non v’è un limite massimo, al di là del quale tutto il reddito si debba devolvere a detto ente», D. Schiappoli, Le congrue ed i supplementi di congrua ai parroci. Studio giuridico, Torino 1899, p. 9.

40 Durante il secolo XVIII: «Il potere politico interviene all’interno della vita della parrocchia, perché la considera un elemento essenziale per la conservazione dell’ordine, del consenso-fedeltà alla monarchia e dell’incivilimento delle plebi rurali. Già nell’età napoleonica e poi durante la Restaurazione i governi tendono apertamente a servirsi della parrocchia come strumento dell’opinione pubblica. I governi della Restaurazione non hanno tanto bisogno del Dio della grazia e della misericordia, quanto di un Dio-gendarme; in altre parole chiedono che parroci e vescovi raccomandino la saldatura trono e altare, il resto è un sovrappiù», G. De Rosa, Conclusioni, in La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, cit., p. 128.

41 F. Ruffini, La rappresentanza giuridica delle parrocchie, Torino 1896, p. 3.

42 Cfr. G. Corazzini, La parrocchia nel diritto italiano. Storia, legislazione, dottrina, giurisprudenza, Torino 1900, pp. 623 segg.

43 Cfr. F. Scaduto, Rappresentanza delle parrocchie vacanti. Restauro e patronato delle ex-ricettizie, Torino 1900.

44 «Si possono schematicamente individuare quattro settori in cui l’asse ecclesiastico fu distinto in base ai diversi interventi che furono applicati: un primo livello giungeva all’incameramento totale, e riguardava tutti i beni degli ordini religiosi e quelli dei benefici non curati; un altro insieme di beni fu convertito in titoli di stato, ma con un depauperamento di quasi un terzo del valore con la tassa straordinaria del 30%: ne furono colpiti seminari, mense vescovili, i canonicati sopravvissuti delle cattedrali; un terzo livello fu quello delle fabbricerie o opere parrocchiali: i beni furono tramutati in cartelle del debito pubblico, senza subire la tassazione straordinaria; infine i beni dei benefici dei parroci e dei cappellani curati rimasero intatti», A. Manfredi, Vescovi, clero e cura pastorale, cit., p. 297.

45 Cfr. G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, Roma-Bari 1988, pp. 33 segg.

46 «Dal 1874 al 1887 il programma di azione si viene sempre più limitando a forme di attività dipendente dal fine specifico dell’Opera: atti di omaggio al romano pontefice per riparare le offese pubbliche permesse dall’autorità statale contro il papa, per attestare affetto e devozione in occasione di giubilei sacerdotali, per soccorrere la sua augusta povertà con l’obolo di S. Pietro; elezioni amministrative come affermazione dei cattolici nei comuni e nelle province; pellegrinaggi nazionali, regionali, diocesani, come mezzo di coordinamento dei cattolici e manifestazione pubblica di fede», A. Gambasin, Il movimento sociale nell’opera dei congressi (1874-1904). Contributo per la storia del cattolicesimo sociale in Italia, Roma 1958, p. 115.

47 Cfr. A. Gambasin, Gerarchia e laicato in Italia nel secondo Ottocento, Padova 1969, pp. 86 segg.

48 G. De Rosa, Il movimento cattolico in Italia. Dalla Restaurazione all’età giolittiana, cit., p. 81.

49 Si pensi «che nel Concilio – Vaticano I – i vescovi erano ancora distribuiti secondo le antiche, scomparse ripartizioni regionali (Regno delle Due Sicilie, Stato pontificio, Granducato di Toscana e così via) […] Ad appena dieci anni di distanza dall’unificazione nazionale, l’unità reale della Nazione doveva infatti compiere ancora molta strada e lo stesso va detto circa l’unità della vita cattolica ed ecclesiastica. Le situazioni locali rimanevano ancora troppo diverse e il peso delle singole tradizioni troppo forte perché una unificazione potesse avere luogo entro breve tempo», G. Penco, Storia della Chiesa in Italia, II, Dal Concilio di Trento ai nostri giorni, Milano 1978, p. 335.

50 Rassegna della stampa italiana, «La Civiltà cattolica», 18, 1867, 1, pp. 342-343.

51 Cfr. A. Zambarbieri, Parrocchia e mondo contadino tra Ottocento e Novecento, cit., pp. 65 segg.

52 «Si accelerò il processo di diffusione, almeno presso le diocesi meglio organizzate, di una sorta di connubio tra banche e casse cattoliche: il piccolo sistema si andò sovrapponendo alle circoscrizioni ecclesiastiche appoggiandosi ai Comitati parrocchiali e ai Comitati diocesani dell’Opera dei Congressi. Se le casse mai dismisero le caratteristiche originarie di piccola azienda locale, quasi una sorta di salvadanaio della comunità parrocchiale, i “piccoli crediti” assunsero sempre più le fattezze di “banca della diocesi” e non mancarono casi nei quali gli stessi vescovi impegnassero il proprio ruolo in appoggio agli istituti», P. Cafaro, Chiesa, cattolici e mondo della finanza. Casse rurali e banche popolari dalle origini alla crisi degli anni Trenta, in La Chiesa e l’Italia. Per una storia dei loro rapporti negli ultimi due secoli, a cura di A. Acerbi, Milano 2003, p. 283.

53 S. Tramontin, Vita di pietà e vita di parrocchia, in Storia della Chiesa. La Chiesa e la società industriale (1872-1922), a cura di E. Guerriero, A. Zambarbieri, XXII, 2, Cinisello Balsamo 1996, p. 135.

54 Sebbene il seguente giudizio sia inficiato dal clima di contrapposizione Stato-Chiesa, tuttavia presenta realisticamente una condizione diffusa: « È fuor dubbio che il clero in Italia è molto meno istruito di quello delle altre nazioni. I parroci ignoranti e superstiziosi contribuiscono a tenere lo spirito delle popolazioni nell’ignoranza e nella superstizione rendendo la funzione dello Stato più difficile: la loro soggezione economica porta come effetto che sono considerati come ciechi strumenti nelle mani dei vescovi: a questo si aggiunge che lo spirito conservatore della Chiesa li domina talmente che davanti alle piaghe che affliggono la società nell’ora presente fanno balenare alle menti il ritorno a’ vecchi regimi paterni. Attribuendo le cause dei dolori sociali al dissidio fra Stato e Chiesa ed all’affievolirsi del sentimento religioso. Per molte di quelle menti, reclutate in massima parte fra i bassi fondi sociali e fra i contadini, cui gli studi del seminario non ebbero efficacia di sradicare la natia rozzezza, molte parole sono vuote di senso, come cultura, Stato, libertà, patria: alcuni invece che si sollevano diventano battaglieri e dipendenti assolutamente dalla Santa Sede», D. Schiappoli, Le congrue ed i supplementi di congrua ai parroci, cit., p. 13.

55 Regolamento da osservarsi nella parrocchia di San Nicolò di Bari di Rosello, Rocca San Casciano 1885.

56 Il clero e le sue funzioni. Considerazioni pratiche di un parroco missionario, Torino 1890, p. 98.

57 Cfr. G. Salvemini, Il Vaticano e il fascismo. Gli atti rilevanti del clero cattolico in favore dell’uomo della Provvidenza, Boston-Roma 1944-1945.

58 Cfr. G. Castelli, La Chiesa e il fascismo, Roma 1951.

59 Cfr. G. De Rossi Dell’Arno, Pio XI e Mussolini, Roma 1954.

60 Cfr. E. Rossi, Il manganello e l’aspersorio, Firenze 1958.

61 Cfr. A. Pellicani, Il papa di tutti. La Chiesa cattolica, il fascismo e il razzismo (1929-1945), Milano 1964.

62 Cfr. R.A. Webster, La croce e i fasci, Milano 1964.

63 «Il fatto che fosse stato ucciso a bastonate un prete provocò un insolito fermento. Ma le autorità ecclesiastiche di Ravenna, nella cui diocesi rientrava Argenta, e di Ferrara e i dirigenti del partito popolare si limitarono a chiedere un esemplare giustizia senza denunciare le responsabilità fasciste, così come non avevano mai denunciato il terrore squadrista. Don Minzoni era stato un prete scomodo in vita, non doveva continuare da morto a disturbare la promettente collaborazione della chiesa cattolica con il governo fascista», G. Rochat, Italo Balbo. Lo squadrista, l’aviatore, il gerarca, Torino 20032, p. 98.

64 Una dichiarazione di distanza che – come osservò M. Guasco – rischiava di essere una giustificazione peggiore della stessa accusa: «mi pare che la categoria dell’afascismo, invece di salvare il salvabile, rischi di affermare una caduta culturale anche peggiore: poiché è l’atteggiamento di Pilato, che per non dover affrontare certe sue responsabilità abbandona Cristo all’avversario lavandosi le mani», M. Guasco, Politica e religione nel Novecento italiano. Momenti e figure, Torino 1988, p. 215.

65 «Lo spirito dell’accordo, quanto mai umiliante per la dignità stessa delle associazioni cattoliche era estremamente difensivo: esso chiedeva che almeno i cattolici iscritti alle associazioni di Azione Cattolica fossero risparmiati dalla violenza, tollerando che questa si abbattesse sulle altre in particolare su quelle che svolgevano attività politica», G. Sale, Fascismo e Vaticano prima della Conciliazione, II, Popolari, chierici, camerati, Milano 2009, p. 71, n. 28.

66 Cfr. L. Ceci, Il papa non deve parlare. Chiesa, fascismo e guerra d’Etiopia, Bari 2010.

67 Cfr. G. Passelecq, B. Suchecky, L’Encyclique cachée de Pie XI, Paris 1995 (trad. it. L’enciclica nascosta di Pio XI. Un’occasione mancata dalla Chiesa nei confronti dell’antisemitismo, Milano 1997); G. Sale, “Humani generis unitas”. L’enciclica mai pubblicata di Pio XI, «La Civiltà cattolica», 159, 2008, 3, pp. 213-226.

68 Si pensi qui alla fondamentale opera di P. Scoppola, La Chiesa e il fascismo. Documenti e interpretazioni, Bari 1971, o all’articolo di S. Soave, P.G. Zunnino, La Chiesa e i cattolici nell’autunno del regime fascista, «Studi storici», 1977, 3, pp. 69-95.

69 Cfr. Chiesa, Azione Cattolica e fascismo nel 1931, Atti dell’Incontro di studio (Roma 1981), Roma 1983.

70 Ibidem, pp. 33-134.

71 Cfr. F. Malgeri, Chiesa cattolica e regime fascista, in Il regime fascista. Storia e storiografia, a cura di A. Del Boca, M. Legnani, M.G. Rossi, Roma-Bari 1995, pp. 177 segg.

72 Cfr. R.P.Violi, Episcopato e società meridionale durante il fascismo (1922-1939), Roma 1990.

73 G. Miccoli, La Chiesa e il fascismo, in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione, Casale Monferrato 1985, p. 116.

74 Ibidem, p. 126: «Sia chiaro, ed è opportuno insistere: l’alleanza e l’accordo della chiesa con il fascismo furono una vera alleanza ed un vero accordo, nonostante le molte cose che sul piano ideologico generale (soprattutto se ci si richiama a certi aspetti della tradizione del pensiero cristiano), sembrerebbe dovessero dividerli: un’alleanza ed un accordo non meramente tattici, ma più intimi e sostanziali, fatti di alcune consonanze essenziali (il bisogno di ordine, di disciplina, di autorità e di gerarchia, il sostanziale disprezzo e pessimismo sull’uomo come essere sociale, sempre da guidare, da correggere e da limitare, la sfiducia quindi per ogni forma di discussione e di ricerca, per ogni atteggiamento che non fosse di obbedienza e di sottomissione) e soprattutto di alcuni nemici comuni».

75 «La Santa Sede cadde nella trappola tesale da tempo da Mussolini: quella cioè di ridurre la Chiesa in Italia soprattutto a un apparato di potere – quindi ampiamente manovrabile sulla base di scambi di interessi –, limitandone le funzioni all’ambito “religioso”, ma di fatto spogliandola, dal punto di vista sociale e della coscienza nazionale, della sua alta funzione civilizzatrice, che è il segno concreto della sua perenne adesione al vangelo. L’incapacità della gerarchia ecclesiastica di comprendere tale passaggio va principalmente addebitata alla cultura religiosa del tempo, per lo più ancora di impronta tridentina (almeno in ambito ecclesiologico), e anche ai limiti della formazione teologica e culturale del clero, anche di quello preposto al Governo della Chiesa», G. Sale, Fascismo e Vaticano, cit., p. 72.

76 I. Silone, Fontamara, Milano 19584, p. 139.

77 «Le linee di politica religiosa via via definite da Mussolini puntavano a legare organicamente al regime i ministri di culto, per ovvie ragioni di consolidamento dell’egemonia fascista. Ciò si tradusse in una strumentale valorizzazione del clero naturalmente entro un orizzonte ben definito dalla macchina propagandistica dello Stato totalitario. Ma che di valorizzazione si sia trattato è difficile negarlo se solo si raffronta la posizione degli ecclesiastici prima e durante il regime. Con significativo anticipo sulla Conciliazione si assunsero misure dense di conseguenze sul piano dei rapporti Stato-Chiesa, quali la reintroduzione del crocifisso nei luoghi pubblici, il miglioramento del trattamento economico del clero e l’inserimento dell’insegnamento catechistico nella scuola pubblica, accolte con prevedibile favore dalla classe sacerdotale», M. Franzinelli, Il clero fascista, in Il regime fascista. Storia e storiografia, cit., p. 187.

78 A. Cappa, I Parroci per la Vittoria del Grano, Roma 1933, pp. 14, 19.

79 Ibidem, p. 34: «Il parroco che raccomanda e spiega dall’altare al popolo le ragioni materiali, le bellezze ideali della Battaglia del Grano; che trae dalle parabole evangeliche convincenti insegnamenti per la vita dei campi e per rinsaldare l’amore all’agricoltura; parla della scienza agricola nella maniera che più sicuramente si fa strada nella mente e nel cuore del contadino e riesce a far marciare tutti, anche i più neghittosi sulla via tracciata dal Duce per raggiungere la Vittoria del Grano».

80 Ibidem, p. 104: «Cooperazione tra Clero, autorità civili e elementi tecnici, resa possibile per la nuova atmosfera creata dal Fascismo che ha riconosciuto i valori spirituali della Religione ed ha cancellate dalla vita politica d’Italia certe aberrazioni massonico-liberali, che dividono e intristiscono gli animi. Una sola volontà oggi hanno gli agricoltori e il Clero rurale uniti dalla santa Battaglia del Grano: far sì che l’Italia nostra sia prospera e potente quale il Duce la vuole», scriverà il parroco di Paganica don Giuseppe Cimetta a nome di tutti i parroci partecipanti.

81 A conferma di ciò in un testo celebrativo – osannante il fascismo e il duce – dedicato alla parrocchia, l’autrice scrive: «Dopo il recente Concordato, il parroco italiano riacquista il suo antico carattere di pubblico ufficiale e ritorna ancora a risorgere più grande la sua antica influenza nella Religione e nella Società», E.A. Stella, Il parroco e la Parrocchia nella Storia e nel Diritto, Roma 1935, p. 79.

82 «L’ampio sostegno offerto dai cattolici al regime in occasione del conflitto italo-etiopico è un fatto che risalta come in poche altre circostanze della vita politica italiana. In numerose prese di posizione pubbliche i vescovi espressero l’adesione più fervida alle iniziative del governo in Etiopia. Alti prelati benedirono le truppe e le navi in partenza per l’Africa orientale. La presidenza nazionale dell’Azione cattolica adottò una linea di aperto sostegno alla guerra. Apprezzamenti decisamente politici nei riguardi del governo vennero dai diversi rami della Gioventù cattolica. Il gruppo dei sacerdoti di Italia e Fede, che aveva una funzione centrale nell’orientare il clero di provincia e si era distinto nella mobilitazione a favore della Battaglia del grano, ribadì il proprio sostegno alle mete imperiali e autarchiche del duce. La stampa missionaria, quella devozionale, il cinema e il teatro cattolici contribuirono a diffondere tra le masse popolari l’entusiasmo colonialista», L. Ceci, Il papa non deve parlare, cit., p. 69. Cfr. anche N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna 2002, pp. 159 segg.

83 L. Ceci, Il papa non deve parlare, cit., pp. 95 segg.

84 L. Ceci, “Il Fascismo manda l’Italia in rovina”. Le note inedite di monsignor Domenico Tardini (23 settembre-13 dicembre 1935), «Rivista storica italiana», 120, 2008, 1, p. 344.

85 M. Franzinelli, Il clero del duce/il duce del clero. Il consenso ecclesiastico nelle lettere a Mussolini (1922-1945), Ragusa 1998, p. 142.

86 Ibidem.

87 M. Guasco, Introduzione a P. Mazzolari, Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione, Brescia 1937, Bologna 20084, p. 7.

88 Cfr. T. Casini, La parrocchia, Firenze 1937.

89 G. Cavagna, La parrocchia e la vita cristiana, Torino 1935.

90 Ibidem, pp. 89-93.

91 P. Mazzolari, Tra l’argine e il bosco, Brescia 1938, Bologna 19772, pp. 13-14.

92 Cfr. N. Lisi, Diario di un parroco di campagna, Firenze 1942.

93 Si pensi al suo rifiuto dell’imposizione del partito fascista di convocare tutti i parrocchiani per cantare il Te Deum dopo l’attentato a Mussolini del 1925. Scriverà Mazzolari su quell’episodio: «La libertà della Chiesa, l’indipendenza del proprio ministero, la libertà di coscienza della propria gente sono beni tali che non si possono lasciar sopraffare senza la massima delle resistenze», P. Mazzolari, Quasi un vita. Lettere a Guido Astori (1908-1958), Bologna 1979, p. 75. Cfr. anche Id., Diario/1, Bologna 1974, pp. 792-796. In occasione della farsa delle elezioni del marzo del 1929, il noto plebiscito, egli annota sul proprio diario: «Se io in coscienza sento una ripugnanza morale invincibile contro il regime, come mi devo comportare nella circostanza della votazione? Se voto contro o mi astengo disobbedisco ad un comando dei vescovi e dell’Azione Cattolica, emanazione diretta di essi; se voto favorevolmente vado contro la mia coscienza». E aveva già scritto al proprio vescovo: «ho creduto di seguire un dettame chiaro e preciso della mia coscienza e di interpretare un pensiero di dignità e di libertà che nella Chiesa è sacro ed eterno», P. Mazzolari, Diario/2, Bologna 1984, pp. 391-392; 289. Su tutte queste vicende S. Albertini, Don Primo Mazzolari e il fascismo (1921-1943), Bozzolo 1988.

94 P. Mazzolari, Lettera sulla parrocchia. Invito alla discussione, Brescia 1937, Bologna 20084, p. 66.

95 Ibidem, p. 41: «La chiesa bella, le funzioni decorose, le campane, le congregazioni, le associazioni, i ritiri, un clero numeroso e volenteroso ecc. sono mezzi indispensabili: eppure – lo si constata con pena ogni giorno – non bastano […]. Il lavoro parrocchiale è divenuto un magnifico facchinaggio con arsenale ove nulla manca e con intorno una cinta che cresce ad ogni insuccesso e trasforma la parrocchia in fortilizio. Chi dice che il nostro armamento è vecchio, sbaglia. Siamo aggiornatissimi. Statistiche alla mano come gli altri: raduni, congressi, parate come gli altri: circolari, fogli d’ordine, giornali o roba stampata come gli altri: decorazioni, avanzamenti, promozioni come gli altri».

96 Ibidem, p. 43.

97 Ibidem, pp. 44-45: «La parrocchia aveva assunto l’esercizio diretto delle principali funzioni per la necessità storica, essendo le altre istituzioni ancora incapaci di esercitarle o così decadute da non dar più garanzia. Essa compiva una carità, ma si preparava un pericolo. Certe decadenze della Chiesa non si spiegano altrimenti […]. Che nei secoli codesti compiti secondari si sian quasi connaturati coi principali così da non poterli concepire disgiunti, è un fenomeno facile a comprendersi. Gli uomini s’abituano presto al comando e trovano comodo reggere con mani proprie invece d’imprestare l’anima o l’ispirazione a chi dovrebbe fare. Ma quello che era necessariamente temporaneo ed eccezionale non poteva né doveva durare: ne avrebbero sofferto la parrocchia e la comunità civile».

98 Ibidem, p. 60.

99 L. Bedeschi, E sciopereranno i preti?, s.l. 1949, p. 47.

100 Ancora sull’argomento scriveva G. Grasso, Osservazioni sulla teologia della parrocchia, «Gregorianum», 40, 1959, pp. 297-314.

101 Cfr. G.B. Guzzetti, La parrocchia nelle recenti discussioni, «La Scuola cattolica», 81, 1953, p. 436.

102 Cfr. P.G. Perico, Responsabilità e compiti sociali di una parrocchia, in La parrocchia. Aspetti pastorali e missionari, Atti della IV Settimana nazionale di aggiornamento pastorale (Bologna 1954), Milano 1955.

103 Cfr. S. Casmirri, Parrocchia e movimento contadino nel Mezzogiorno nel secondo dopoguerra (1943-1950), in La parrocchia in Italia nell’età contemporanea, cit., pp. 605-622.

104 Cfr. R. De Rosa, Morire di terra. Cinquant’anni fa le lotte contadine nel Sud, Manduria 2000.

105 G. Caredda, Governo e opposizione nell’Italia del dopoguerra 1947-1960, Bari 1995, p. 231.

106 «Il ministro chiede quali provvedimenti possano essere adottati “prima delle elezioni per influenzare favorevolmente il corpo elettorale: naturalmente dovrà trattarsi di proposte precise che abbiano concrete possibilità di attuazione pratica” […]. Chiede inoltre quali argomenti e quali misure possano essere meglio adottate per combattere i comunisti, per evitare controproducenti proteste sociali in periodo elettorale […]. Tambroni raccoglie le diverse richieste dei prefetti diramandole ai ministeri di competenza e alla Cassa per il Mezzogiorno. Si sollecita così l’entrata in gioco di risorse e di energie dello stato, secondo una linea di conquista giocata esplicitamente sul brevissimo periodo e tenuta al livello più basso. È una massa ingente di finanziamenti indiscriminati (o discriminati clientelarmente) che viene inevitabilmente a frenare interventi più mirati», G. Crainz, Storia del miracolo italiano. Culture, identità, trasformazioni fra anni cinquanta e sessanta, Roma 1996, pp. 19, 21.

107 «Nella lotta al comunismo vi è paradossalmente il massimo di cedimento all’avversario sul terreno degli strumenti di lotta; il mondo cattolico, come tutti i movimenti di massa, tende anch’esso a mobilitarsi in negativo attraverso l’identificazione di un nemico e giunge ad un massimo di semplificazione dei giudizi e nelle formule che devono servire alla mobilitazione. Contrapponendosi, proprio in forza dei meccanismi della società di massa, i due fronti vengono a rassomigliarsi: si pensi alle simboliche figure di don Camillo e Peppone», P. Scoppola, La “nuova cristianità” perduta, Roma 1985, p. 66.

108 Cfr. G. Siri, L’impegno ascetico della parrocchia. Lettera Pastorale al Clero, Genova 1958, p. 24.

109 La Parrocchia, «Adesso», 10, 1 agosto 1958, p. 3.

110 «La grossa illusione […] che la vita possa essere vinta, passata e assolta nel divertimento. Il divertimento come l’unico oppio offerto in un mondo che sembra insistere sulla strada della negazione e della distruzione», C. Bo, Morte della parrocchia?, «La Stampa», 31 luglio 1958.

111 Cfr. riguardo alla diffusione del carnevale promosso da parrocchie e diocesi quanto scriveva l’autorevole e diffusa «Rivista del clero italiano»: «Forse alcuni confratelli non sanno rendersi conto dell’importanza di questo “carnevale del Cardinale”, che a sua volta ha dato luogo in varie diocesi, al “carnevale dei ragazzi”, organizzato nelle parrocchie, definito dai “compagni”: “Il carnevale dei preti”. È utile richiamare l’attenzione dei parroci e di tanti giovani zelanti sacerdoti, perché si preparino in tempo ad attuare questa manifestazione […]. Tutti sanno che le sfilate di carnevale, iniziate timidamente, hanno avuto un crescendo ed un risultato notevolissimo. A Ferrara per merito dei Salesiani, si è costituito un comitato. E S.E. Mosconi, Arcivescovo, non molto tenero per le esteriorità, ha permesso che si facesse la sfilata nella Domenica di Passione, affinché i compagni non ci soppiantassero, servendosi dei nostri ragazzi, qualora ci fossimo astenuti, facendo cosi il “loro carnevale”. Non mancarono i soliti “pusilli”, che fecero gli scandalizzati. Non pensavano che il carnevale dei ragazzi finisce sul sagrato delle nostre chiese e nelle sale parrocchiali pavimentate di coriandoli», M. Aloja, Il carnevale del Cardinal Lercaro, «Rivista del clero italiano», 38, 1957, pp. 147-148.

112 È probabile che Carlo Bo avesse in mente il I Festival della canzone organizzato e presentato il 30 aprile del 1958 nel teatro Monteverdi di La Spezia da un certo padre Dionisio frate francescano.

113 C. Bo, La rete di Pietro, «La Stampa», 7 settembre 1958.

114 C. Bo, Morte della parrocchia?, cit.

115 Ibidem.

116 «Se si vuole che la parrocchia realizzi in pieno la sua altissima missione di bene, ciò non è pienamente possibile se non con le “opere” e perciò “costruzioni” che fiancheggino – più o meno – il tempio. Un tempo bastava per la vita cristiana del popolo la chiesa – con annessa la sacrestia e la casa parrocchiale; – oggi per una vita cristiana piena ed efficiente, nonché per le molteplici e necessarie opere di assistenza, di protezione, di apostolato è necessaria una specie di “cittadella cristiana”», La parrocchia comunità apostolica, «Prospettive», giugno-luglio 1950, 16, citato in L. Ferrari, L’azione cattolica in Italia dalle origini al pontificato di Paolo VI, Brescia 1982, p. 143.

117 «Si crede di aver salvata la parrocchia, perché si sono creati dei quadri fittissimi di congregazioni, associazioni, commissioni, iniziative, iscritti. E se dietro i quadri non vi è una realtà vivente, tutto questo a che serve se non ad illuderci, ad amaramente illuderci?», A. Bernareggi, La parrocchia, oggi. Lettera per la quaresima dell’Anno 1952, Bergamo 1952, pp. 12-13.

118 C. Bo, La rete di Pietro, cit.

119 A.C. Jemolo, Vivere insieme, «La Stampa», 14 luglio 1958.

120 P. Mazzolari, La parrocchia, Vicenza 1957, Bologna 20083, pp. 94-95.

121 L. Milani, Esperienze pastorali, Firenze 1958.

122 E come la soluzione della prima derivi dalla soluzione del problema dell’istruzione civile, cioè soprattutto «un minimo di preparazione linguistica e logica», L. Milani, Esperienze pastorali, cit., p. 51, grazie alla quale rovesciare una religiosità abitudinaria ponendo «quei fondamenti intellettuali che soli possono garantire una coerenza interiore e stabilità in questa coerenza», ibidem, p. 73.

123 Ibidem, p. 136: «In una importante riunione di parroci, presieduta dal Vescovo, [uno dei sacerdoti più in vista della diocesi di Prato] ha svolto il seguente tema: “Come si può pretendere di tener testa al comunismo finché i comunisti disporranno di campi regolamentari e noi di campi che arrivano al massimo a 70 metri di lunghezza?”».

124 «Propaganda, non più predicazione. Organizzazione, non più chiesa, non più grazia. Opere, non più opere buone. Conclusione: regno dell’uomo, non regno di Dio», citato in G. Antonazzi, Introduzione a G. De Luca, L’annuario del parroco 1955-1962, Roma 2002, p. XII.

125 È totalmente condivisibile quanto osserva Miccoli riguardo alla presunta distinzione nel mondo cattolico italiano di quell’epoca tra militanza nell’associazionismo religioso e nella Democrazia cristiana. Queste distinzioni furono strategiche o relative a contrapposizioni interne ed episodiche, ma non strutturali e tra loro alternative. Soprattutto si riunificavano sempre nella direzione voluta dalla gerarchia, o nel riconoscimento che essa aveva comunque l’ultima parola in tutte le questioni politiche nazionali: «La “politicizzazione” della religione costituisce insomma un fatto reale che corrisponde sino in fondo alla concezione e alla pratica di Chiesa dominante in quegli anni: anche se allora venne attuata con una capillarità e larghezza di interventi, con una mobilitazione di energie e di strumenti, con un insieme di spinte e suggestioni emotive che corrispondevano al carattere di massa ormai assunto dalla battaglia politico-sociale ma che evidenziarono anche, progressivamente, il carattere strumentale, fittizio, mistificatorio di quelle distinzioni, qualificando l’apparato ecclesiastico come una massiccia e articolata macchina di potere e aprendo quindi, gradualmente, una profonda crisi in quella concezione e in quella pratica», G. Miccoli, Chiesa, partito cattolico e società civile (1945-1975), in Id., Fra mito della cristianità e secolarizzazione, cit., p. 394.

126 Cfr. S. Tanzarella, Gli anni difficili. Lorenzo Milani, Tommaso Fiore e le “Esperienze pastorali”, Trapani 20082, pp. 75 segg.

127 G. Petrucci, Castellino del Biferno. Il villaggio, la parrocchia, il comune. Saggio storico, Campobasso 1963, pp. 59-60.

128 Cfr. A. Fallico, Le cinque piaghe della parrocchia italiana tra diagnosi e terapia, Catania 1995.

129 Cfr. G. Crainz, Il Paese mancato. Dal miracolo economico agli anni ottanta, Roma 2003.

130 Cfr. Comunità dell’Isolotto, Oltre i confini. Trent’anni di ricerca comunitaria, Firenze 1995.

131 «La sofferta esperienza di molte comunità, definite di “base”, proprio per il loro sorgere dal basso di una condizione sociale e culturale spesso deprivata, è garanzia di impegno serio e responsabile, che richiama quanto in altri luoghi del mondo sia costata in termini di libertà, di aggressione violenta fino alla perdita della stessa vita per laici e presbiteri difensori della dignità umana», M. Campli, M. Vigli, Coltivare speranza, cit., p. 13.

132 Cfr. F.R. Romersa, Il rinnovamento della parrocchia nella Chiesa italiana dal Concilio ad oggi, Roma-Milano 1999, p. 61.

133 Cfr. G. Boncristiano, La parrocchia nel pensiero di Giovanni Paolo II, Dissertatio ad lauream in Facultatae S.Theologiae apud pontificiam universitatem S.Thomae in Urbe, Roma 1998, pp. 48 segg.

134 Cfr. Parrocchie, istituzioni e autonomie locali, Atti della XLI Settimana nazionale di aggiornamento pastorale, Roma 1992; In cerca di Dio? Religiosità dispersa e pastorale in parrocchia, Atti della XLIII Settimana nazionale di aggiornamento pastorale, Roma 1993.

135 V. De Marco, La parrocchia, in La nazione cattolica. Chiesa e società dal 1958 ad oggi, a cura di M. Impagliazzo, Milano 2004, pp. 188 segg.

136 Cfr. P. Vanzan, Identità e missione della parrocchia oggi: trasformazioni e prospettive, «La Civiltà cattolica», 2004, 1, pp. 375-386.

137 Cfr. G. Dalla Zuanna, G. Ronzoni, Meno preti, quale Chiesa? Per non abbandonare le parrocchie, Bologna 2003.

138 Conferenza Episcopale Italiana, Sviluppo nella solidarietà. Chiesa italiana e Mezzogiorno, in ECEI, IV, Bologna 1991, p. 1003.

139 Educare alla carità. Testimonianze e riflessioni in memoria di don Luigi Di Liegro, Roma 2001, pp. 26 segg.