La magistratura

L'Unificazione (2011)

La magistratura

Antonella Meniconi

Al momento dell’unificazione l’assetto della magistratura del Regno sabaudo era palesemente riconducibile al modello francese, così come scaturito dall’esperienza napoleonica e poi ripreso e adattato, sia pure in modo contraddittorio, durante la Restaurazione. Prevaleva, in effetti, sino a rappresentare il tratto caratterizzante del modello, una forte struttura gerarchica, con pieno controllo della vita professionale del magistrato in mano al ministro della Giustizia e ai vertici delle Corti di cassazione e di appello. Una serie di norme («editti» e «patenti»), susseguitesi dal 1814 fino alla svolta determinata nel 1848 dall’emanazione dello Statuto albertino, avevano disegnato un sistema giudiziario intermedio tra le forme francesi e quelle delle antiche costituzioni piemontesi, in cui, però nessuna indipendenza era riconosciuta ai magistrati, reclutati ancora principalmente tra la nobiltà (specie i rami cadetti) e l’alta borghesia.

Questo tipo di organizzazione avrebbe poi trovato la sua compiuta disciplina nel primo testo legislativo italiano denominato «ordinamento giudiziario» (r.d. 6 dicembre 1865, n. 2626), in base al quale le funzioni giudiziarie furono fondamentalmente affidate a un corpo di magistrati di carriera nominati dall’esecutivo e dotati di uno status che nominalmente ne garantiva l’indipendenza. Indipendenza, peraltro, relativa, in quanto accordata solo ai magistrati che esercitavano la funzione giudicante e non a quelli del pubblico ministero, posti invece alle dipendenze «dirette» del ministro della Giustizia.

Giudici e Corti di giustizia prima dell’Unità

A partire dalla riforma napoleonica del 20 aprile 1810 e, poi, dalla Restaurazione, si può dunque parlare di un modello, quello francese, che avrebbe orientato e condizionato la legislazione adottata nel periodo successivo in molte parti d’Europa e del mondo. Per quanto riguarda la penisola, le costituzioni italiane del 1848, espressione dell’ideologia liberale, rifletterono a pieno le due diverse esigenze che si erano contrapposte durante la Restaurazione in Francia: la centralizzazione del potere esecutivo da porre alla base di tutta la vita politica dello Stato e la libertà del cittadino nominalmente garantita da un potere giudiziario autonomo.

Così nello Statuto albertino, gli articoli riguardanti la giustizia (artt. 68-73), ripresi quasi letteralmente dalla Charte francese del 1814, contenevano solo pochi e generici princìpi, per di più tutti derogabili da parte del legislatore a causa del carattere flessibile della costituzione. In particolare, l’art. 68 stabiliva che «la Giustizia emana dal Re ed è amministrata in suo nome dai Giudici che Egli istituisce», prefigurando così una magistratura «professionale» composta da funzionari nominati dall’esecutivo (che rispondevano al re), non dotati in alcun modo di autonomia. Non casuale appariva poi che gli stessi articoli fossero posti nell’impianto statutario sotto il titolo «Dell’ordine giudiziario», evitandosi dunque intenzionalmente l’uso del termine «potere», utilizzato invece per il «legislativo» e l’«esecutivo». Il che avrebbe confermato, secondo un’opinione diffusa, la visione del potere giudiziario come una branca di quello esecutivo, conformemente all’idea dominante durante la Restaurazione; mentre, secondo una diversa e opposta concezione, rifacendosi l’intera Costituzione sabauda al sistema francese, era evidente che fosse pienamente riconosciuta l’autonomia e l’indipendenza giudiziaria.

Lo Statuto sanciva, poi, il principio di inamovibilità (art. 69), che avrebbe dovuto garantire i giudici (non quelli di mandamento e i pubblici ministeri, però) dopo tre anni dall’entrata nelle loro funzioni. Secondo l’icastica definizione di Giuseppe Mirabelli, alto magistrato e senatore del Regno, «muovere è togliere qualcuno da un luogo e porlo in un altro, e perciò è inamovibile chi non può essere trasferito da un luogo ad un altro, sia con lo stesso ufficio che con un altro superiore» (Mirabelli 1880, pp. 56-58).

Gli altri articoli, in tema di giustizia, dal 70 al 74, stabilivano, inoltre, che l’organizzazione giudiziaria potesse essere modificata soltanto per legge, le udienze dei tribunali fossero pubbliche mentre, per quanto riguardava l’interpretazione delle leggi, vincolante per tutti, si stabiliva che essa spettasse esclusivamente al potere legislativo.

Non si trattava – beninteso – di sconvolgenti trasformazioni. Gli stessi princìpi, a ben vedere, si ritrovavano, con alcune differenze non sostanziali, nelle costituzioni del Regno delle Due Sicilie, dello Stato della Chiesa e del Granducato di Toscana, mentre solo in quelle del Regno di Sicilia e della Repubblica romana si faceva esplicito riferimento all’autonoma posizione del «potere» giudiziario (così espressamente indicato).

Eppure, anche l’attuazione di forme «attenuate» di indipendenza dei giudici dal governo, come l’inamovibilità, erano destinate negli anni immediatamente successivi all’entrata in vigore dello Statuto a suscitare ampie discussioni e ripensamenti. Il tema dell’epurazione degli alti magistrati sabaudi, provenienti all’epoca dalle file dell’aristocrazia più conservatrice e spesso apertamente reazionaria, venne alla ribalta nell’occasione specifica della convalida dell’elezione alla Camera di un magistrato, ma avrebbe dominato a lungo la scena parlamentare: si temeva in effetti che un corpo giudiziario composto da uomini dell’antico regime non avrebbe provveduto ad applicare le linee riformatrici del nuovo Statuto, tradendone di fatto la novità fondamentale.

Emblematico il citato episodio della convalida, non a caso collocato proprio nel 1848. La legge elettorale aveva riservato l’eleggibilità solo ai magistrati inamovibili, e si trattava quindi di stabilire quali fossero i beneficiari della disposizione prevista dall’art. 69 dello Statuto. La Sinistra capitanata da Urbano Rattazzi avanzò la pressante richiesta di limitare l’applicazione della misura di garanzia a partire dall’entrata in vigore dello Statuto, non considerando quindi il periodo precedente di esercizio delle funzione giudiziarie. Era necessario – ribadì proprio Rattazzi il 13 maggio del 1848 – che tutto il personale della magistratura fosse sottoposto a «scrutinio», in quanto «la sola presunzione di capacità ed onestà non [era] sufficiente per attribuire quel prezioso diritto all’inamovibilità al magistrato: non basta[va] anche quando la nomina [partiva] dal re costituzionale» (D’Addio 1966, p. 12).

È sintomatico però che il principio della necessaria fedeltà del magistrato allo Statuto e all’esecutivo non fosse in quella prima occasione sanzionato dalla Camera, la quale invece approvò la posizione della maggioranza conservatrice e del ministro Federico Sclopis a difesa della magistratura piemontese (di cui egli stesso, il ministro, faceva parte). Tuttavia, il tema era ormai posto e avrebbe echeggiato a lungo nell’aula parlamentare. Solo tre anni più tardi, infatti, nel 1851, dopo un triennio caratterizzato da alterne vicende, alla scadenza dei tre anni indicati dallo Statuto, sarebbe prevalsa la posizione della Sinistra, e la magistratura, ancora piemontese, sarebbe stata sottoposta alla prima epurazione «costituzionale». Con un decreto (17 marzo 1851), firmato dal guardasigilli ad interim Giuseppe Galvagno (il ministro della Giustizia e magistrato Giuseppe Siccardi si era addirittura dimesso per non firmare il provvedimento), furono infatti posti a riposo, o comunque sarebbero stati sostituiti, 9 alti magistrati sui circa 1.250 (la metà dei quali appena qualche giorno dopo avrebbe conseguito l’inamovibilità), che si erano schierati, in particolare, contro la politica ecclesiastica del governo. Successivamente, con la cosiddetta legge Siccardi (legge 19 maggio 1851, n. 1186), la maggioranza sarebbe riuscita a far approvare dal Parlamento un testo per riconoscere l’inamovibilità «piena» dei magistrati, vale a dire sia in relazione al grado sia alla sede, secondo il principio innovativo per cui il consenso del giudice al «tramutamento» diveniva adesso il requisito indispensabile per ogni atto riguardante la sua carriera.

Al tempo stesso, però, il carattere gerarchico dell’ordinamento traspariva da altre disposizioni: specialmente quelle sull’alta sorveglianza e sul potere di convocazione che la legge riservava al ministro di Grazia e giustizia. Di nuovo, qui le norme riecheggiavano l’ordinamento francese, configurando un’inamovibilità solo di diritto, mentre di fatto il giudice era esposto a pene disciplinari, avvertimenti, censure, sospensioni; anche se in linea di massima veniva attribuito alla Corte di cassazione il giudizio sull’operato del giudice.

Fu poi approvata la legge sugli stipendi (legge 27 giugno 1851, n. 1207) – rimasta in vigore anche per la magistratura italiana fino al 1876 – che, riproducendo la più rigorosa gerarchia, sanzionava la distanza anche economica tra i vertici e la base (l’«alta» e la «bassa» magistratura). Dalle 15.000 lire del primo presidente della Cassazione alle 1.600 lire attribuite al giudice di mandamento il divario appariva davvero grande, il che non mancò di essere rilevato dall’opinione pubblica e dalla stessa «bassa» magistratura, ma senza nessun esito. In più, poiché per i consiglieri di appello e i giudici di circondario (vale a dire dei tribunali, struttura fondante dell’organizzazione giudiziaria) era prevista una suddivisione in categorie utili ai fini della determinazione dello stipendio, il governo, che aveva la facoltà di assegnare i magistrati a queste categorie formalmente in base all’importanza della Corte o del tribunale, rafforzò così di fatto il proprio potere di «pressione» sui giudici.

Quando, nel 1859, fu emanato, in base al conferimento al governo dei pieni poteri, l’ordinamento giudiziario del Regno di Sardegna (r.d. 13 novembre 1859, n. 3781), il ministro Rattazzi provvide poi a introdurre una forte limitazione all’inamovibilità, relegandola al grado, ma escludendola per la sede, per cui il magistrato poteva adesso essere liberamente trasferito dal ministro. Il decreto racchiuse in unico testo, per la prima volta, tutte le norme che riguardavano i magistrati.

L’ordinamento giudiziario dopo l’unificazione nazionale

L’ordinamento Rattazzi fu esteso quasi senza modifiche agli altri Stati preunitari, con semplici decreti dittatoriali in Emilia e in Romagna e decreti luogotenenziali nelle province napoletane e siciliane (1860-61); con qualche resistenza, in Lombardia nel 1862 (per qualche anno si era proceduto in un regime misto con l’ordinamento austriaco); nel 1865 in Toscana (dove l’ordinamento granducale resistette per cinque anni, dal 1860); in Veneto e a Roma nel 1871. Solo tra il 1861 e il 1862 furono adottati ben 65 provvedimenti riguardanti la magistratura, il suo ordinamento, i concorsi per gli uditori, i tribunali; e ciò in un nuovo Stato che si presentava ancora in forma magmatica e provvisoria, ma la cui unica preoccupazione era costituita – secondo le parole di Cavour alla Camera il 27 aprile del 1860 – dall’unità politica. Nel 1863 il numero dei decreti sarebbe arrivato a 10, a 12 nel 1864 e poi a 7 nel 1865 (si attestò, in seguito, su circa 10 decreti l’anno), compreso il regio decreto per «l’inaugurazione in Torino della sessione della Corte di Cassazione per l’anno giuridico 1865-1866» (r.d. 12 febbraio 1865, n. 2190). Si trattò, spesso, di provvedimenti minuti, dettati alla contingenza del momento, che regolarono, ad esempio, «la giurisdizione del Tribunale di commercio di Sinigaglia nel tempo delle fiera» (r.d. 23 giugno 1861, n. 66) o che aumentarono «il numero dei Sostituti Avvocati dei poveri presso le Corti d’Appello di Milano e di Brescia» (r.d. 25 maggio 1852, n. 628). Norme frammentarie, ma che consentono di intravedere il «cantiere aperto» rappresentato in quegli anni dalla costruzione di un unico apparato giudiziario nazionale.

Spiccavano però, ovviamente, anche se in una forma a volte confusa e contraddittoria (si pensi alla decisione poi ritirata di applicare subito l’ordinamento giudiziario a Milano), i provvedimenti portanti del processo di unificazione. In soli due anni, dal 1863 al 1865, sarebbe infatti entrato in vigore il corpus delle leggi unitarie, il codice civile, il codice di procedura civile e l’ordinamento giudiziario, mentre per il codice penale si sarebbe dovuto attendere il 1889, con la riforma Zanardelli.

Nel 1865 dunque, sempre con delega al governo, l’applicazione del decreto del 1859 venne estesa al resto d’Italia (r.d. 6 dicembre 1865, n. 2626), ma con alcune significative modifiche: i giudici di mandamento furono trasformati in pretori; l’avvocatura dei poveri sostituita con il gratuito patrocinio; fu stabilito il concorso per uditore come strumento di accesso alla carriera giudiziaria (con esami e poi un tirocinio); vennero fissati limiti d’età per il collocamento a riposo (settantacinque anni, la dispensa dal servizio che era facoltativa tra il 1859 e il 1865 divenne dunque obbligatoria). Fu, inoltre, stabilita la separazione tra le carriere di giudice di tribunale e di pretore: due strade fino al 1890 destinate a rimanere parallele. Quindi l’accesso per concorso, che costituiva la prima possibilità per il reclutamento dei magistrati, prevedeva, dopo un anno di uditorato, la possibilità di superare un esame pratico per la nomina a pretore, o dopo tre anni quella di sostenere l’esame di aggiunto giudiziario e da lì iniziare la carriera di giudice di tribunale (dopo altri due anni), i cui gradini sarebbero nel migliore dei casi giunti alla Corte di cassazione (dopo il doveroso passaggio in Corte d’appello).

Questo secondo le norme. Perché nella realtà i contorni delle vicende della prima leva di magistrati, entrati giovani, appena laureati (ancora peraltro in assenza di un sistema universitario nazionale che conferisse titoli di studio uniformi), nell’amministrazione unitaria, appaiono quanto mai sfumati, poco riconducibili al netto quadro normativo. Peraltro il ministro avrebbe comunque conservato una grande influenza sul secondo tipo di reclutamento, spesso il più frequente tra il 1859 e il 1890, vale a dire l’inserimento diretto nel ruolo come pretore, uditore, o giudice «soprannumerario» (tante le definizioni dei primi anni) attingendo spesso, ma non necessariamente, da categorie prefissate (avvocati, notai).

Che la prassi (com’era forse ovvio) contraddicesse la norma lo dimostra, ad esempio, una piccola vicenda tra le tante che si intrecciarono con il processo di unificazione nazionale: il veneziano Edoardo Marconi (che nel 1909 sarebbe diventato primo presidente della Corte d’appello di Bologna), nato il 4 febbraio 1844, venne ammesso come praticante giudiziario di concetto presso il Tribunale provinciale di Venezia, con decreto del 31 ottobre 1865; il 12 giugno 1866 fu nominato «ascoltante», ma il 31 ottobre dello stesso anno – una volta annesso ormai il Veneto all’Italia – avrebbe prestato giuramento in qualità di «uditore al Governo Nazionale»; con certificato del 29 dicembre 1867 sarebbe stato poi dichiarato idoneo all’ufficio di giudice; ma con decreto del 21 dicembre 1871 fui poi nominato vice pretore nella pretura del III mandamento di Venezia; per poi essere l’anno successivo (era già in vigore in Veneto l’ordinamento Rattazzi), precisamente il 21 marzo del 1872, promosso aggiunto giudiziario nel Tribunale civile e correzionale di Venezia e applicato all’ufficio di istruzione (Archivio centrale dello Stato, Ministero di Grazia e Giustizia, uff. sup. personale, uff. II, fascicoli personali dei magistrati, II vers., b. 407, f. 44311). Insomma, furono anni, anche in questo settore, di non piena aderenza della realtà alla lettera della norma.

I primi concorsi effettuati con il nuovo ordinamento nel 1866, del resto, mostrarono da subito tra le nuove generazioni dei giudici reclutati una predominanza di elementi provenienti dal Mezzogiorno: quell’anno, su 207 ammessi all’uditorato (esaminati da commissioni nominate dal ministro della Giustizia nelle diverse Corti d’appello), ben 147 provennero dal Sud, in particolare da Napoli, la sede che con la sua gloriosa facoltà di giurisprudenza avrebbe continuato anche nello Stato unitario la sua tradizione di «fucina» di alti magistrati; ancora, nel 1867, sui 96 «approvati», la sola Corte di Napoli ne sfornò 62, i rimanenti distribuendosi tra le altre regioni senza grandi picchi (Torino 13, Firenze 8, Milano solo uno). Evidentemente, nella magistratura, il processo di «meridionalizzazione», che avrebbe segnato tutta la pubblica amministrazione dalla fine del XIX secolo, era iniziato già dagli anni Sessanta dell’Ottocento, forse anche a causa della scarsa attrazione che la carriera giudiziaria, con i suoi bassi stipendi iniziali e i problematici avanzamenti di carriera, poteva esercitare nei confronti dei laureati del Nord; o forse anche per la forte preparazione giuridica dei candidati del Sud.

L’ordinamento giudiziario del 1865 conteneva anche, nel Capo III, «l’inamovibilità e l’inabilitazione al servizio», ribadendo che «per l’utilità del servizio» i magistrati potevano essere trasferiti di sede, anche senza il loro consenso, purché a parità di grado. Così il trasferimento in zona disagiata rappresentò spesso la punizione per chi pronunciasse sentenze sgradite al governo, tanto che quando il «tramutamento» non nascondeva un intento punitivo invalse l’uso di indicarlo espressamente nel fascicolo personale del giudice.

Numerosi furono gli episodi di questo tipo segnalati dai giornali e dalla memorialistica dell’epoca: fecero, ad esempio, scalpore nel 1862 gli allontanamenti voluti dallo stesso Rattazzi dal distretto della Corte di cassazione di Palermo di magistrati ritenuti non fedeli alla monarchia: un ampio «movimento» tra trasferimenti, collocamenti a riposo e in aspettativa, che coinvolse circa 52 magistrati di cassazione e di appello, tra cui il presidente della Suprema corte di Palermo Pasquale Calvi (trasferito a Firenze), fu messo in piedi con due decreti del 26 e 30 ottobre (a dimostrazione dello strumentario a disposizione del governo); ma provocò, anche, oltre alle proteste dell’opposizione guidata dal siciliano Francesco Crispi, le dimissioni del guardasigilli e magistrato Raffaele Conforti, che non volle avallare la decisione. Segno che, in realtà, alcuni contrappesi all’azione dell’esecutivo esistevano e si facevano sentire.

Per quanto riguardava la dispensa dall’impiego o la destituzione (le sanzioni più gravi che potessero essere applicate a un magistrato) era necessaria la declaratoria conforme della Corte di cassazione a sezioni unite, ma l’atto doveva essere promosso dal pubblico ministero, che dipendeva direttamente dal ministro della Giustizia. Anzi, il pubblico ministero diventò espressamente il «rappresentante del potere esecutivo presso l’autorità giudiziaria», non godendo dell’inamovibilità e, in pratica, decidendo, in nome del governo, della carriera dei giudici. Le due carriere di pubblico ministero e di giudice furono separate, però fu prevista la possibilità «eccezionale», ma di fatto frequente (per agevolare le promozioni) del passaggio dall’una all’altra carriera.

Per quanto riguarda la Corte di cassazione si previde (sempre sull’onda del modello napoleonico) che essa mantenesse «l’esatta osservanza delle leggi», senza divenire giudice del merito (come era in alcuni ordinamenti preunitari, ad esempio a Milano, dove il tribunale di terza istanza fu soppresso nel 1865). Ma l’unificazione del sistema giudiziario avvenne in modo incompleto, furono mantenute le corti esistenti: Torino (con un breve passaggio a Milano dal 1859 al 1865) e poi ancora Firenze, Napoli e Palermo e nel 1875 fu istituita la Corte a Roma, che sarebbe presto divenuta la più importante, in quando le sarebbe stata attribuita la funzione di decidere sui conflitti di competenza e di giurisdizione (legge 12 dicembre 1875, n. 2837). Nel 1888 la competenza in materia di giurisdizione penale sarebbe stata unificata e attribuita sempre a Roma; mentre solo nel 1923 le sarebbe stata assegnata anche la materia civile.

Nel 1881 fra giudici requirenti e giudicanti i magistrati in cassazione erano 105, diventati 133 nel 1891 e così fino alla prima guerra mondiale. La struttura giudiziaria delineata nel 1865 prevedeva, come si è accennato, una forte gerarchizzazione, nel senso che solo i capi degli uffici delle Corti d’appello erano posti in diretto contatto con il ministro della Giustizia, tramite un fitto reticolo di disposizioni e di atti loro richiesti, come le informazioni sul singolo magistrato in caso di avvio di procedimento disciplinare (era sufficiente anche solo una lettera anonima) o la compilazione delle note riservate del fascicolo. I «Primi presidenti e Procuratore generale» delle Corti d’appello erano, inoltre, destinatari e principali attuatori della politica giudiziaria del governo, attraverso le disposizioni inviate nelle circolari del ministro: erano e si rappresentavano come «guardasigilli di distretto».

Sempre nel 1865, un ulteriore decreto (r.d. 14 dicembre 1865, n. 1641) provvide a disegnare il primo «manto» delle circoscrizioni giudiziarie, che sarebbe stato – nel corso dell’età liberale – sottoposto solo ad alcune, peraltro lievi, modifiche. In ciò, l’unificazione del sistema giudiziario non presentò caratteri distinti da quanto avveniva contemporaneamente nel più generale processo di unificazione amministrativa a livello nazionale. Così come la legge comunale e provinciale del 1865 aveva, infatti, riprodotto sostanzialmente la centralistica legge Rattazzi del 1859 e, seguendone la medesima scansione, aveva suddiviso il territorio nazionale in livelli amministrativi uguali e uniformi (province, circondari, mandamenti e comuni), altrettanto fu predisposto per la rete giudiziaria. I comuni furono la sede e limitarono la competenza dei giudici conciliatori, i mandamenti dei pretori, i circondari dei tribunali e i distretti delle Corti d’appello. Si trattava di un sistema concentrico, in quanto i mandamenti comprendevano più comuni, i circondari più mandamenti, i distretti più circondari, i distretti delle Corti di cassazione più distretti di Corte d’appello. Gli unici mutamenti rispetto al disegno originario del 1859 furono, nel 1865, l’istituzione dei giudici conciliatori (mutuati dalla legge napoletana del 1817 e a loro volta derivazione del juge de paix dell’ordinamento francese); e quella dei tribunali di commercio; e la sostituzione dei giudici di mandamento (denominati giudicature di polizia) con i pretori (secondo gli ordinamenti toscano e lombardo): per il resto, anche in questo, si preferì seguire il modello francese, che, anche a livello geografico, meglio garantiva lo spirito «disciplinare» vale a dire il controllo gerarchico del ministro e del governo su tutto l’ordine giudiziario.

Nel 1865, in pratica, ci si era limitati – lo riconobbero talvolta gli stessi artefici nei dibattiti parlamentari successivi – a ricalcare le circoscrizioni giudiziarie delle vecchie province e, nelle nuove, a moltiplicare tribunali e giudici di circondario (nell’illusione, rivelatasi vana, di avvicinare la giustizia agli interessati), anche dove questo nella prospettiva dello Stato unitario appariva palesemente assurdo. Così, ad esempio, la «Romagna toscana» fece parte fino al 1923 del distretto di Firenze, nonostante alcuni dei suoi mandamenti arrivassero alle porte di Forlì.

Malgrado diversi tentativi, anche a impulso ministeriale, non si riuscì, soprattutto per motivi elettoralistici e politici, a modificare il tessuto giudiziario, precocemente denunciato come fonte di disservizi e diseconomie. Solo nel 1890 il ministro Giuseppe Zanardelli sarebbe riuscito a far approvare una delega al governo per «modificare la circoscrizione giudiziaria del Regno e migliorare gli stipendi della magistratura» (legge 20 marzo 1890, n. 6702 e legge 8 giugno 1890, n. 6878).

Intanto nel 1863 – anno in cui è possibile ricavare dati certi dal bilancio del ministero e dai Calendari del Regno – la fotografia della struttura giudiziaria appariva già abbastanza nitida: vi erano 4 Corti di cassazione e un tribunale di terza istanza a Milano; 18 Corti d’appello con 4 sezioni distaccate e 16 uffici di «gratuita clientela»; 142 tribunali di circondario (con un ufficio gratuito), un tribunale del contenzioso amministrativo; 25 tribunali di commercio, 1.686 tribunali di mandamento, 6 tribunali di polizia, 4 di dazi indiretti, per un totale di 1.904 tribunali. Rispetto alla situazione degli Stati preunitari sembravano convivere ancora diversi ordinamenti, ma soprattutto, ciò che colpiva di più i governanti del nuovo Stato, spiccava l’aumento del numero dei tribunali (di 123 unità) e del personale giudiziario. In totale tutto il personale delle amministrazioni giudiziarie precedenti constava di 6.013 dipendenti, mentre ora ammontava a 11.080. Anche se in realtà i giudici erano passati solo da 3.487 a 4.066 elementi, con al loro interno una predominanza molto forte della componente «bassa»: 95 i magistrati di cassazione e 642 i giudici di appello, mentre i tre quarti appartenevano ai tribunali o alle preture, con stipendi e quindi prestigio sociale più basso rispetto agli altri funzionari dello Stato.

La magistratura italiana: uomini e modelli

In quegli anni, anzi ancor prima del 1859 per la verità, si era intanto proceduto a un’altra epurazione, più corposa rispetto alla precedente degli anni 1848-51. «La composizione degli organici della nuova magistratura italiana – si sarebbe commentato non senza una nota critica nel 1907 – avvenne, parimenti, nel modo più affrettato ed arbitrario, coll’opera insindacabile d’uomini che mal conoscevano il personale delle antiche magistrature, erano gravati da uffici diversi, politici, amministrativi e militari, e che, dominati dalla preoccupazione del momento politico, facevano prevalere al criterio delle capacità dei magistrati quello della condotta politica, più o meno favorevole al passato o al presente ordine delle cose» (Piola Caselli 1907, p. 105).

Queste osservazioni dovute a un magistrato come Edoardo Piola Caselli, profondo conoscitore dell’ordinamento giudiziario e stretto collaboratore di diversi guardasigilli, come Vittorio Emanuele Orlando, lascerebbero ritenere che veramente il processo di unificazione fosse stato condotto in un modo «arbitrario» e confuso. E forse, effettivamente, vi furono, nella concitazione del momento, errori di valutazione e persino soprusi.

La formazione della «nuova» magistratura italiana – era questo il punto cruciale – era passata in quegli anni iniziali attraverso una forte «selezione» degli appartenenti ai corpi giudiziari precedenti, selezione avvenuta, a varie riprese, tra il 1859 e il 1863 e poi nel 1870: nell’amministrazione del nuovo Stato non erano stati assorbiti (cioè erano stati di fatto epurati, sia pure per varie ragioni e con differenti modalità) circa 3.500 giudici appartenenti ai corpi giudiziari degli Stati preesistenti. In particolare la nuova epurazione aveva risparmiato, ovviamente, le «antiche provincie» e anche il Granducato di Toscana, e non molto lambito i magistrati lombardi e coloro che provenivano dal Ducato di Parma (di più nel Ducato di Modena), ma si era pesantemente concentrata sulla magistratura del Regno delle Due Sicilie (pesò la responsabilità di quei giudici nella repressione borbonica seguita al 1848), e più a Napoli che in Sicilia; e soprattutto su quella ex pontificia (ma va detto che qui l’esodo fu spesso volontario: in molti abbandonarono, soprattutto nel decennio successivo, il nuovo Stato sorto contro il papa. Su 165 magistrati, ne rimasero solo 25, tutti laici).

Difficilmente però il rapporto tra magistratura e potere politico in età liberale, e soprattutto nel periodo immediatamente postunitario, può essere ricondotto a un semplice conflitto tra potere politico e giudiziario intesi in modo separato (come alle volte, per altro, è stato sostenuto). Innanzitutto, nell’Italia appena unificata, l’«osmosi» tra alti magistrati e ceto politico rappresentò un fenomeno molto consistente; nel Risorgimento non solo si era formata una nuova classe politica nazionale, ma anche una nuova magistratura. Alti magistrati furono presenti a lungo e in gran numero nel Parlamento nazionale: l’otto per cento in tutta la storia del Senato del Regno, organo in cui potevano, in base all’art. 33 dello Statuto, essere nominati secondo cinque categorie, e del cui consesso spesso espressero il presidente, godendo di un implicito ed efficace potere di veto su tutte le questioni inerenti la giustizia, mentre alla Camera (assemblea in cui comunque furono presenti) sussistevano limitazioni al loro numero. Al tempo stesso, le porte del governo furono subito aperte alla expertise giuridica di chi proveniva dalle file della magistratura, e sarebbero rimaste ben spalancate soprattutto fino almeno alla fine dell’Ottocento: sul totale di 45 guardasigilli tra il 1848 e il 1899 ben 21 furono i magistrati.

Uomini, va rilevato, la cui stessa vicenda personale, a volte tragica, si fondeva senza soluzione di continuità con la «causa nazionale»: come Michele Pironti, ministro della Giustizia nel 1869 (terzo ministero Menabrea), accusato poi di aver proceduto durante il suo mandato a una gran quantità di trasferimenti di sede di giudici e pubblici ministeri dimostratisi non sufficientemente duri in alcuni processi politici, e perciò costretto alle dimissioni. Ma dal suo fascicolo personale emerge un ritratto esemplare: nato nel 1814, coinvolto in prima persona nei moti del 1848 a Salerno, eletto al parlamento napoletano e poi giudice della Gran corte criminale di Santa Maria Capua Vetere, alla reazione dei Borboni preferì opporsi senza andare in esilio, essendo condannato a 24 anni nel 1850. Aveva appena finito di scontare 10 anni di carcere ad opera dei Borboni («nei peggiori bagni penali del Regno di Napoli», a Ischia, poi a Nisida da dove uscì moribondo), quando nel 1860, liberato dal carcere, fu nominato consigliere della Corte di cassazione di Napoli, eletto deputato e, nel luglio del 1861, nominato segretario di Grazia e giustizia nella luogotenenza Cialdini. Come sottolinea Pietro Saraceno, fu proprio Pironti a organizzare il primo piano organico di epurazione e di rinnovamento del personale delle province dell’ex Regno di Napoli (ad esclusione della Sicilia); progetto poi revisionato da una commissione sempre formata da quattro meridionali, già magistrati e politici fuggiti in esilio dopo il 1848, destinati ad avere un ruolo importante nel futuro Stato (Raffaele Conforti, Bernardino Giannuzzi Savelli, Pasquale Stanislao Mancini, Giuseppe Vacca). Dall’aprile del 1862 al giugno 1866 tutti e cinque i ministri che si succedettero al dicastero furono meridionali, in maggioranza esuli, e al tempo stesso magistrati: Conforti, Giovanni De Falco, Paolo Cortese, Giuseppe Pisanelli e Vacca (Saraceno 1979, pp. 20 sgg.).

Esempi non isolati. Se si prendono in esame i 43 primi presidenti e procuratori generali delle quattro Corti di cassazione e delle 18 Corti d’appello esistenti al 1866 nel Regno d’Italia, emergono due dati di rilievo: la partecipazione alla vita politica (ben 27 al Parlamento nazionale e 8 ministri; degli 8 capi di cassazione, 7 senatori) e la provenienza dei magistrati rigorosamente ripartita tra i «subalpini» (27 dalle vecchie province dell’ex Regno di Sardegna) e i «meridionali» (12), mentre tutte le altre regioni furono rappresentate da un magistrato ciascuna (Toscana, Emilia e Veneto).

Due tipologie ben distinte, dunque, che, in qualche modo, si confrontarono e cooperarono nel processo di unificazione. I primi, i «piemontesi», segnati in genere da una carriera abbastanza lineare, tutta percorsa all’interno o quasi dell’amministrazione della giustizia, connotata dalla stretta fedeltà alla dinastia dei Savoia: si pensi al primo presidente del consiglio di Stato dal 1859 al 1874, Luigi Des Ambrois de Nevâche, magistrato amministrativo ma esempio abbastanza tipico di quel percorso sospeso tra il ruolo di consigliere del sovrano e la partecipazione in prima persona, nel suo caso, alla redazione delle leggi sull’unificazione amministrativa; o a Paolo Onorato Vigliani, entrato in carriera nel 1841, a 27 anni, come segretario capo sezione nella cancelleria di Sua Maestà presso il dicastero della Giustizia, poi a lungo impiegato tra funzione requirente e giudicante fino alla promozione a primo presidente di Cassazione (dal 1876 al 1889), ma con lunghi periodi dedicati alla politica: governatore in Lombardia nel 1859, ministro nel 1869 e poi dal 1873 al 1876.

I secondi, i «meridionali» (come Pironti, Conforti, Calvi e gli altri) riconducibili invece a un modello caratterizzato dagli studi legali compiuti in genere all’università di Napoli, seguiti dall’attività forense piuttosto che dall’ingresso nella magistratura borbonica (il che li distingue dai colleghi subalpini); poi coinvolti nei moti del 1848-49, con l’assunzione di un ruolo dirigente o nei governi provvisori di Napoli e di Palermo o nella carriera giudiziaria; perseguitati quasi tutti negli anni della reazione e quindi immessi (o riammessi) quasi per meriti patriottici nella magistratura italiana tra il 1860 e il 1862, con i gradi della carriera attribuiti, in questa prima fase, in funzione della partecipazione alla «causa nazionale».

Ai vertici furono così poste persone relativamente giovani, che vi sarebbero rimaste per molti anni (e ciò avrebbe costituito un problema per le generazioni successive): nel 1862 a soli 40 anni, cioè a una età media di 20 anni più giovane rispetto ai decenni successivi, si poteva essere capo di una Corte d’appello e a 50 anni di una Cassazione.

Intanto, nel 1863 erano ormai compiuti tutti i più grandi «movimenti» collettivi di giudici e pubblici ministeri; nella primavera del 1862 vi era stata la sistemazione delle magistrature meridionali e poi della Lombardia, per concludere nel 1863 con la Toscana. Anche tra i 280 magistrati che ricoprirono la carica di presidente (139) e di procuratore del re (141) a capo dei 142 tribunali italiani (escluse alcune vacanze) è possibile rintracciare alcune costanti, a prescindere dalle diverse provenienze territoriali.

Dal punto di vista economico (quello che nel fascicolo personale è designato come lo «stato di fortuna») la maggior parte apparteneva a famiglie di piccola nobiltà o borghesia più o meno abbiente, spesso con relazioni in ambito giudiziario (rapporti precedenti con avvocati e magistrati). Quanto alla provenienza professionale e politica, la maggioranza proveniva dai corpi giudiziari degli antichi Stati (circa un quarto dalla magistratura subalpina), e la restante percentuale era stata nominata per meriti politici, talvolta direttamente nel ruolo ricoperto di capo del tribunale.

Un apparentemente rigido criterio di anzianità era stato poi introdotto dall’ordinamento del 1865, anche se poi man mano temperato con l’introduzione di quote (di ampiezza variabile a seconda del susseguirsi delle norme) riservate all’avanzamento per merito. Ma, almeno fino al 1876, non si poté parlare di una vera e propria «carriera», di una struttura gerarchica per gradi cui si accedesse mediante regolari meccanismi di promozione, sia pure controllati dai superiori, proprio per la vigenza contemporanea e spesso sovrastante del meccanismo di reclutamento parallelo gestito dal ministro della Giustizia e per la sussistenza di graduatorie a base regionale, che non permettevano l’acquisizione di diritti (o aspettative) per la promozione. Nel 1875 la graduatoria divenne a carattere nazionale, con parametri che furono presto uniformi (si era suddivisi in: «buoni», «ottimi», «promovibili», «non promovibili») e i magistrati acquisirono il diritto di essere presi in considerazione per le promozioni secondo valutazioni periodiche.

Un grande potere risiedeva comunque nelle mani dei capi delle Corti d’appello e in generale dell’alta magistratura: la valutazione «segreta» del magistrato contenuta nel suo fascicolo personale e, specificatamente, nelle Note caratteristiche (obbligo dal 1865), in cui dovevano essere registrati anche gli orientamenti politici («condotta politica»), spesso però in pratica lasciati in bianco, e la «capacità», la «dottrina in materia civile e penale», l’«operosità», la «condotta morale» («è fornito di molta coltura giuridica in materia civile e penale; diligentissimo e scrupolosissimo nello studio delle cause» recitava un giudizio sul magistrato Luigi Perrone, più tardi, nel 1907), aveva il potere di condizionare l’andamento della carriera. Così come ebbero sempre un loro peso nella vita professionale del magistrato in età liberale le lettere anonime, che in gran quantità arrivavano sui tavoli dei primi presidenti o dei procuratori generali, originando sempre una micro-inchiesta destinata a concludersi rapidamente, se nulla risultava, ma che, comunque, avrebbero «galleggiato» (muta traccia sempre consultabile) nel fascicolo dell’interessato. Anche minime ombre sulla vita personale («convive con la domestica e tutta la parrocchia della Santissima Trinità è meravigliata della tresca» si legge nel fascicolo di un magistrato, celibe, dell’Aquila) potevano dar luogo a trasferimenti indesiderati e penalizzanti o, al contrario, a mancate promozioni.

In qualche modo, l’alta magistratura avrebbe garantito, nel corso di tutta l’età liberale, una relativa protezione alla bassa magistratura contro le ingerenze della politica: l’«indipendenza esterna», che però sarebbe servita anche a tutelare il proprio monopolio sul corpo giudiziario, non garantendo ai giudici l’«indipendenza interna» (nella struttura gerarchica). Una gran messe di lettere di raccomandazione affollava i tavoli, questa volta, degli uffici del gabinetto del ministro (altro luogo strategico dell’amministrazione della giustizia) per sollecitare promozioni e trasferimenti di giudici (ad esempio per il 1878 furono circa 2.920 le lettere di risposta alle sollecitazioni). La carriera, in assenza di regole certe, era fortemente condizionata dal numero di appoggi che il magistrato riusciva a ottenere per conquistare una sede più prestigiosa o semplicemente fuggire da collocazioni ritenute sgradite per il clima, collocazione geografica o sociale (alcuni piccoli centri del Sud o della Sardegna, ad esempio); erano uomini politici a scrivere (come, tra tanti, Agostino Depretis che raccomandò a più riprese un giudice, Angelo Bozzi, poi primo presidente della Corte di appello di Casale Monferrato) o anche, frequentemente, alti magistrati: una rete di rapporti determinata dall’interessamento del deputato locale coadiuvò di fatto nel corso degli anni l’opera del guardasigilli.

Mutamenti e continuità nell’amministrazione della giustizia

Negli anni Settanta dell’Ottocento furono affrontati alcuni nodi relativi allo stato della magistratura. Nel 1873 un provvedimento del ministro Vigliani introdusse un parziale temperamento al potere del responsabile del dicastero della Giustizia, prevedendo l’istituzione di commissioni locali presso le Corti d’appello per proporre nomine, promozioni, trasferimenti dei consiglieri di Corte d’appello e dei tribunali. Per i giudici inamovibili fu poi previsto il divieto di trasferimento senza consenso e l’obbligo di essere informati sui motivi del trasferimento; mentre per i consiglieri d’appello in caso di trasferimento senza consenso occorreva ora anche il parere sezione civile della Cassazione e per quelli di Cassazione il parere del collegio cui appartenevano (r.d. 3 ottobre 1873, n. 1595). L’unico problema era che tutti i pareri restavano di carattere consultivo.

Con l’ascesa al governo della Sinistra nel 1876 si assistette a un’ulteriore «epurazione» (circa 20 gli alti magistrati trasferiti), questa volta voluta da un ministro proveniente dall’ordine giudiziario come Pasquale Stanislao Mancini, che si sarebbe difeso dagli attacchi della stampa e dalle critiche della Destra parlando di «giusto castigo per chi si era prestato a farsi strumento del governo in alcuni processi politici» solo qualche anno prima.

Poco dopo (r.d. 5 gennaio 1879, n. 4686) si sarebbe giunti ad opera di un altro ministro-magistrato, Diego Tajani (costretto nel 1871 alle dimissioni da procuratore generale della Corte d’appello di Palermo proprio da un governo di Destra), alla revoca del decreto Vigliani (accusato di creare «magistrature regionali») con contemporaneo trasferimento e collocamento a riposo di un certo numero di alti magistrati (sulla cifra non sussistono dati certi, se non le testimonianze di esponenti della Destra che parlarono di circa 122 magistrati toccati dal «movimento»). In particolare, sarebbero risultati colpiti dai provvedimenti, in una sorta di spoils system ante litteram, i procuratori delle principali città del Regno: ma non solo ciò non avrebbe costituito alcuna violazione, in quanto i pubblici ministeri erano funzionari del governo, ma avrebbe – secondo i nuovi governanti – rappresentato una pedina importante per assicurarsi l’imparzialità della magistratura (a lungo compromessa, a sentir loro) dopo il passaggio di governo dalla Destra alla Sinistra.

Ma al di là del dibattito che si sarebbe aperto sull’operato dei singoli ministri della Sinistra (nel 1880 l’allora ministro, l’avvocato Tommaso Villa, avrebbe istituito una Commissione consultiva centrale per le promozioni e i tramutamenti), solo nel 1890 a opera di Zanardelli si sarebbe tentato di risolvere alcune questioni fondamentali per lo status del magistrato. Innanzitutto, la regola per l’accesso in magistratura divenne da quell’anno in poi il concorso, e il reclutamento parallelo solo un’eccezione (adottata per nomine «eccellenti», come furono nel 1893 quella di Luigi Lucchini e nel 1903 quella di Lodovico Mortara), con una commissione centrale presso il ministero che diede maggiori garanzie di affidabilità; inoltre, non solo la carriera venne unificata superando la separazione tra giudici e pretori, e semplificata con l’eliminazione di alcuni gradi intermedi, ma si cercò anche di intervenire sugli stipendi, specie dei gradi inferiori (gli altri erano ancora abbastanza appetibili), collegando infine la misura alla riforma delle circoscrizioni giudiziarie con l’eliminazione delle preture inutili (sebbene la riduzione delle preture, sulla carta di 600 unità, si attestasse, nella realtà, solo su 273).

Verso la fine del secolo, le pressioni della bassa magistratura, che voleva più garanzie per la carriera e al tempo stesso lamentava di non avere uno stretto rapporto con la politica, avrebbero iniziato a farsi sentire sempre di più, fino all’organizzazione (nel 1909) dell’Associazione generale fra i magistrati d’Italia.

A reggere il sistema non sarebbe più bastata, allora, la protezione benevola e un po’ paternalista degli alti gradi, espressione residua di un superato modello «politico» di magistrato (con un’età media molto alta nel 1896, spesso superiore ai 70 anni per i capi delle Corti). Si sarebbe viceversa affermato un modello diverso, più «burocratico» di giudice, di estrazione tecnica e protagonista di un rapporto nuovo, seppure sempre determinante, con la politica.

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