La mafia, le mafie: capitale sociale, area grigia, espansione territoriale

L'Italia e le sue Regioni (2015)

La mafia, le mafie: capitale sociale, area grigia, espansione territoriale

Rocco Sciarrone

Tratti distintivi e radicamento territoriale

Le mafie italiane hanno origine in zone specifiche del Mezzogiorno: ‘cosa nostra’ nella Sicilia occidentale, la ’ndrangheta nella Calabria meridionale, la camorra nel Napoletano. Il fenomeno mafioso non è dunque tipico della società meridionale nel suo insieme, ma si sviluppa in alcune sue aree circoscritte, mostrando poi una forte tendenza all’espansione territoriale. Nonostante una genesi storica ‘localizzata’, le tre mafie sono ormai da tempo rappresentate come varianti regionali di una forma sui generis di criminalità organizzata, vale a dire di un fenomeno che, pur non essendo ‘altro’ rispetto alla criminalità, non si identifica semplicemente con essa (S. Lupo, R. Mangiameli, Mafia di ieri, mafia di oggi, «Meridiana», 1990, 7-8, pp. 17-44). Oltre a impegnarsi in traffici illeciti, le organizzazione mafiose tendono infatti a instaurare legami con la politica, a condizionare il funzionamento delle istituzioni, a esercitare funzioni di protezione e di controllo delle attività economiche che si svolgono su un determinato territorio.

L’evoluzione dei tre diversi tipi di mafia – a partire dagli anni successivi all’Unità d’Italia – è tuttavia differenziata e difficilmente ricomponibile in un quadro unitario: per quella siciliana è possibile individuare un nucleo originario caratterizzato da importanti elementi di persistenza nel tempo (Lupo 1993), mentre la storia della camorra è contrassegnata da rilevanti punti di discontinuità (Barbagallo 2010; Marmo 2011). La ’ndrangheta è invece la formazione criminale a cui è stata riservata minore attenzione, anche se da alcuni anni si sono intensificati gli sforzi degli studiosi per colmare i vuoti conoscitivi e ricostruirne le dinamiche storiche (Ciconte 1992; cfr. anche S. Mannino, Criminalità nuova in una società in trasformazione, 1997). Non mancano inoltre i tentativi di inserire in un’unica matrice interpretativa l’origine delle diverse mafie (E. Ciconte, Storia criminale, 2008; J. Dickie, Onorate società, 2012), operazione che rende più agevole la possibilità di identificarne un idealtipo. In generale, nonostante importanti specificità e differenze, è possibile delineare una serie di elementi che accomuna i diversi tipi di associazione mafiosa, ovvero somiglianze e convergenze per quanto riguarda le caratteristiche di fondo e le strategie di azione.

D’altra parte, bisogna tenere conto che tra i differenti gruppi mafiosi sono all’opera da tempo evidenti processi di isomorfismo, ovvero di crescente rassomiglianza e conformità, con effetti di reciproca influenza, pur conservando ciascuno di essi aspetti significativi della matrice originaria: per es. «il diffondersi dei rituali attraverso i tempi e gli spazi, il loro infittirsi recente, dimostra la progressiva omogenizzazione delle mafie e dei loro modelli organizzativi» (S. Lupo, Le mafie, i Storia dell’Italia repubblicana, 3° vol., t. 2, 1997, p. 272).

Obiettivo di questo saggio è analizzare alcuni tratti distintivi delle mafie, focalizzando in particolare l’attenzione sui meccanismi di riproduzione del fenomeno, ovvero sui fattori in grado di spiegarne la persistenza nel tempo e la diffusione nello spazio. Detto altrimenti, sui punti di forza del modello mafioso e i fondamenti del suo successo. Dopo aver introdotto alcuni riferimenti analitici e mostrato una mappa della presenza della criminalità organizzata sul territorio, si approfondiscono caratteristiche e ambivalenze dei modelli organizzativi e delle logiche di azione dei gruppi mafiosi. Successivamente, si propone una lettura del fenomeno adottando la prospettiva teorica del capitale sociale, mettendo quindi in evidenza l’importanza delle risorse relazionali dei mafiosi e la loro capacità di renderle produttive per fini diversi. L’analisi si sofferma poi sulla cosiddetta area grigia, in cui prendono forma – ai confini tra lecito e illecito – relazioni di complicità e collusione; infine, si affrontano i processi di espansione territoriale in aree non tradizionali, ovvero diverse da quelle di genesi storica, con specifica attenzione alle regioni del Centro e Nord Italia.

Capire come le mafie si riproducono nel tempo e nello spazio richiede di affrontare anche la questione relativa a ‘che cos’è la mafia’, ovvero individuare i confini che la definiscono, tenendo conto della specificità dei contesti in cui è presente. In questa prospettiva è rilevante comprendere sia come la mafia stabilisce criteri di distinzione per chi entra a farvi parte, sia come essa viene riconosciuta da chi non vi appartiene, secondo modalità assai diverse tra chi in qualche modo la sostiene e chi invece la contrasta. Come sappiamo, i mafiosi tendono a costituire gruppi strutturati, dotandosi di un’organizzazione e stabilendo confini tra l’interno e l’esterno. Questi confini, in molti casi, sono fissati sul piano culturale e simbolico attraverso rituali di iniziazione e specifici segni di riconoscimento della posizione ricoperta all’interno dell’organizzazione. Riti e formule di giuramento non sarebbero spiegabili in presenza di gruppi cementati esclusivamente da legami primari, ovvero da vincoli di sangue. Questi sono importanti in tutte le mafie, ma si combinano in modo variabile con legami più formali. In realtà sono presenti più linee di strutturazione, così che in alcuni casi i legami familiari e parentali costituiscono il nucleo centrale del gruppo criminale che poi si allarga attraverso affiliazioni più o meno formalizzate. Le associazioni mafiose mostrano quindi simultaneamente un elevato livello di chiusura sociale verso l’interno – quindi confini più o meno cristallizzati anche a livello simbolico e normativo – e un elevato livello di apertura verso l’esterno – quindi confini altamente variabili a seconda delle circostanze.

I gruppi mafiosi si qualificano – sin dalle origini – per la capacità di radicarsi in un territorio, di disporre di notevoli risorse economiche, di influenzare la vita politica e istituzionale a livello locale e nazionale, ricorrendo all’uso di un apparato militare, ma ricercando anche un certo grado di consenso sociale. Troviamo in questi tratti la valenza insieme economica e politica del fenomeno mafioso: una struttura criminale orientata al tempo stesso alla ricerca del profitto e del potere, con gradi diversi di radicamento in un dato territorio (Sciarrone 2006). Coerentemente, una caratteristica di lunga data dei gruppi mafiosi riguarda l’esistenza di rapporti di cooperazione con soggetti che esercitano funzioni legittime, ovvero che detengono posizioni di potere politico e sociale. Come vedremo, questi rapporti sono ricercati attivamente non solo dai mafiosi, ma anche da esponenti delle istituzioni, della politica e dell’economia.

In questa ottica e secondo questi criteri, si dovrebbe parlare in senso stretto di mafia

solo in presenza dell’incontro fra strutture delinquenziali, organizzate su base locale, e circuiti politico-istituzionali: la questione mafiosa perciò consiste fondamentalmente in un rapporto che si instaura fra strutture illegali e poteri legittimi (P. Pezzino Mafia, Stato e società nella Sicilia contemporanea: secoli XIX e XX, in La mafia, le mafie, a cura di G. Fiandaca, S. Costantino, 1994, p. 17).

Per lungo tempo il controllo mafioso del territorio di alcune zone del Mezzogiorno non è stato percepito come una minaccia nei confronti dello Stato, anzi è stato considerato quale fonte di autorità extralegale. Ciò ha reso possibile la coesistenza – la «coabitazione» nei termini della Commissione parlamentare antimafia (Mafia e politica, 1993) – tra due fonti di autorità in linea di principio nettamente contrapposte. Nella sua concreta dinamica – ha osservato Umberto Santino – il rapporto mafia-istituzioni «vede operanti soggetti formalmente contrapposti ma in realtà portatori di duplicità, per cui al posto del paradigma alterità-contrapposizione, sancito formalmente, opera quello alterità-interazione». Per comprendere genesi e sviluppo della mafia, l’attenzione va dunque posta, più che su un’assenza o un «vuoto di Stato», sul «processo concreto di formazione e funzionamento dello Stato e degli altri corpi istituzionali, intermedi e locali» (U. Santino, La mafia come soggetto politico, 1994, p. 128). Il punto centrale è dato, allora, dal rapporto che si stabilisce tra mafia e Stato, che si caratterizza come un rapporto simbiotico tra le logiche dell’ordine extra-legale e quelle dell’ordine pubblico. Queste ultime, ha avvertito Alessandro Pizzorno, sono «sempre frutto di un processo composito in cui imposizione, negoziato, delega, si avvicendano e coesistono» (A. Pizzorno, I mafiosi come classe media violenta, in «Polis», 1987, 1, p. 201).

D’altra parte, l’«estorsione-protezione» è l’attività che più contraddistingue i gruppi mafiosi (Catanzaro 1988; Gambetta 1992). L’affermarsi del sistema estorsivo – organizzato a fini di protezione – è un elemento fondamentale per il funzionamento e la regolazione della ‘signoria territoriale’ della mafia (Santino 2006). Peculiare dell’offerta di protezione è che essa risulta sempre legata a un contesto locale. Il suo funzionamento è attivato da risorse relazionali e, a sua volta, attiva risorse relazionali definibili in termini di capitale sociale. Il meccanismo della estorsione-protezione, oltre a essere uno dei canali di arricchimento dei gruppi mafiosi, costituisce un efficace meccanismo per stabilire, mantenere nel tempo e rendere operativo il controllo del territorio. Con questa espressione si intende l’offerta di protezione su un’ampia gamma di transazioni economiche, l’estensione delle attività criminali lucrative in più ambiti, la costituzione di una rete densa di relazioni in differenti ambienti istituzionali, l’acquisizione di adeguati mezzi di controllo sulla comunità locale nel suo insieme. Del resto, una delle principali caratteristiche della mafia e della sua forza è la capacità di inserirsi nei meccanismi di funzionamento dell’economia e di collocarsi negli interstizi fra le regole del mercato e la sfera della politica e dell’intervento dello Stato (Catanzaro 1988). Il controllo del territorio si basa dunque sul «dominio violento», ma anche sulla «costruzione di uno spazio politico in cui esercitare un’egemonia pubblicamente riconoscibile» (G. Gribaudi, in Traffici criminali 2009, p. 229).

Ragionare sul fenomeno dell’estorsione-protezione permette di identificare le principali competenze di cui dispongono i mafiosi: da un lato, l’uso specializzato della violenza, dall’altro, la capacità di manipolare e utilizzare relazioni sociali, ovvero di accumulare e impiegare capitale sociale (Sciarrone 1998). Come anticipato e come vedremo meglio in seguito, quest’ultimo concetto è qui inteso con riferimento alla disponibilità di risorse collocate in reticoli di relazioni (J.S. Coleman, Foundations of social theory, 1990, trad. it. 2005). La mafia è distinguibile da altre forme di criminalità organizzata proprio in virtù del patrimonio relazionale di cui si avvale. Attraverso l’uso di capitale sociale i mafiosi riescono a creare legami di sostegno attivo e a ottenere quel consenso necessario alla loro sopravvivenza e riproduzione.

Prima di procedere con l’analisi, proponiamo un quadro di sintesi sulla presenza e l’intensità della criminalità organizzata a livello territoriale. Facciamo quindi riferimento a due diversi indici, costruiti su scala provinciale ricorrendo a una serie di dati statistici relativi a specifici delitti e provvedimenti antimafia: quello di power syndicate, che riguarda la sfera di controllo del territorio, e quello di enterprise syndicate, relativo all’esercizio di traffici illeciti (A. Block, East side West side. Organizing crime in New York 1930-1950, 1980). Si tratta di due sfere distinguibili analiticamente ed empiricamente, ma in rapporto di reciproca funzionalità e, rispetto al fenomeno mafioso, quasi sempre intrecciate e sovrapposte: si può infatti dire che la persistenza della mafia dipenda in gran parte dal peculiare abbinamento tra controllo del territorio e attività svolte a fini di lucro.

Figura 1 Presenza

L’indice di power syndicate espresso nella figura 1 è stato costruito calcolando la media, nei quattro anni considerati, dei quozienti di delittuosità (numero di delitti denunciati per 100.000 abitanti) dei reati di associazione di tipo mafioso, omicidio di tipo mafioso ed estorsione, ai quali sono stati aggiunti il numero complessivo dei beni confiscati alla criminalità organizzata e quello degli enti locali sciolti per condizionamento mafioso. Tutti i dati sono stati quindi standardizzati rispetto al valore medio nazionale (Italia=100) e sintetizzati in un indice di tipo additivo che fornisce, per ogni provincia, la media degli indicatori selezionati. Come si può vedere, l’indice di power syndicate risulta più elevato nelle zone di tradizionale insediamento mafioso: nella Sicilia occidentale e in parte di quella orientale, nella Calabria meridionale, nella fascia tirrenica della Campania e in alcune province pugliesi. Nel Centro-Nord il fenomeno appare meno intenso: valori relativamente più elevati si riscontrano in corrispondenza di aree metropolitane (in particolare Milano, Torino e Roma), ma anche in alcune province del Lazio e dell’Abruzzo, e in quelle di Imperia, Bologna, Prato, Varese, Brescia e Verbano-Cusio-Ossola (Sciarrone, Dagnes, in Mafie del Nord, 2014, pp. 44-5).

fig. 2

L’indice di enterprise syndicate (fig. 2) rivela una distribuzione territoriale più a macchia di leopardo, anche perché non riguarda reati riconducibili in modo esclusivo alle formazioni mafiose, bensì attività illecite gestite più in generale da gruppi strutturati di criminalità organizzata. I valori più elevati si registrano nelle province comprendenti grandi centri urbani (nell’ordine Napoli, Bologna, Milano, Catania, Roma, Firenze, Torino). I reati connessi ai traffici illeciti risultano inoltre relativamente più diffusi in Abruzzo, nel basso Lazio, in Molise, in Umbria, in Liguria e in alcune province della Toscana e dell’Emilia-Romagna (Sciarrone, Dagnes, in Mafie del Nord, pp. 46-7). In questo caso, l’indice di enterprise syndicate è stato costruito calcolando la media, nei quattro anni considerati, dei quozienti di delittuosità (numero di delitti denunciati per 100.000 abitanti) dei reati di associazione per delinquere, violazione della normativa sugli stupefacenti, rapine in banca e negli uffici postali, usura e sfruttamento della prostituzione. Anche qui i dati sono stati standardizzati rispetto al valore medio nazionale (Italia=100) e sintetizzati in un indice di tipo additivo su base provinciale.

Vi sono infine alcuni territori (in particolare le province di Reggio Calabria, Napoli, Caserta, Catania e Foggia) in cui power syndicate e enterprise syndicate presentano congiuntamente valori elevati, quindi l’esercizio del potere mediante il controllo del territorio si accompagna a processi di accumulazione della ricchezza attraverso l’organizzazione di traffici illeciti.

La presenza delle mafie è dunque fortemente differenziata a livello territoriale. Lo è anche all’interno dello stesso Mezzogiorno, anche se qui essa sembra costituire una delle linee di frattura che distinguono ‘diversi Sud’, rivelando nette differenze tra aree a più alta densità mafiosa e altre caratterizzate da minori livelli di criminalità (Busso, Storti, in Alleanze nell’ombra, 2011). Sono poi evidenti i processi di espansione in aree non tradizionali, che prendono avvio a partire dagli anni Sessanta e si sviluppano con maggiore intensità nei decenni successivi. La diffusione mafiosa ha riguardato innanzitutto aree contigue a quelle di genesi storica, cosicché le mafie si sono dapprima ‘regionalizzate’, vale a dire hanno sviluppato il loro raggio di azione nella stessa regione di origine, e poi si sono progressivamente insediate in altre regioni sia del Sud sia del Centro-Nord.

Insieme all’espansione territoriale di mafie ‘vecchie’, ovvero tradizionali, si è assistito anche all’emergere di mafie ‘nuove’, costituite sul modello delle prime (Sciarrone 1998). Da questo punto di vista, un caso particolarmente significativo è quello della ‘sacra corona unita’ in Puglia, dove l’iniziale penetrazione da parte di gruppi di camorra e di ’ndrangheta è stata poi seguita da un processo di ‘imitazione’ operata dalla criminalità autoctona, che è poi sfociato all’inizio degli anni Ottanta nella formazione di una nuova mafia (M. Massari, La Sacra corona unita, 1998). È dunque fuorviante assimilare questa organizzazione criminale alle mafie ‘storiche’, in quanto il suo sviluppo è assai più recente e presenta caratteristiche peculiari. Nondimeno, il caso è interessante perché mostra attraverso quali meccanismi può sorgere un nuovo gruppo mafioso in un’area precedentemente immune da forme strutturate di criminalità organizzata.

L’espansione mafiosa ha seguito – com’è noto – anche direttrici sovranazionali: il caso più emblematico è quello di ‘cosa nostra’ americana, che però si è sviluppata attraverso un processo tutt’altro che lineare e unidirezionale dal Vecchio al Nuovo continente. Strategie di azione e modelli organizzativi si sono diffusi dalla Sicilia agli Stati Uniti, adattandosi al nuovo contesto, e poi – così trasformati – sono ritornati nei luoghi di origine. La stessa ‘cosa nostra’ siciliana per come l’abbiamo conosciuta negli ultimi decenni ha preso forma da questi movimenti circolari di diffusione e adattamento (Lupo 2008). Anche le altre mafie sono state protagoniste di consistenti processi di espansione territoriale all’estero. Sono infatti numerosi i gruppi di ’ndrangheta e camorra presenti da tempo in diversi Paesi, dal Canada all’Australia, ma anche in Europa, dalla Germania alla Spagna e al Regno Unito. Sono proprio questi due tipi di mafia a essere maggiormente attivi nel Centro e Nord Italia.

Modelli organizzativi e logiche di azione

Dal punto di vista organizzativo, i gruppi mafiosi – pur in una varietà di formule e strutture – sono sufficientemente chiusi per resistere alle pressioni di avversari e agenzie di contrasto, ma sufficientemente aperti per riprodursi. Il loro successo dipende essenzialmente dalla capacità di procurarsi all’esterno la cooperazione, attiva o passiva, di altri attori sociali e, in particolare, di instaurare rapporti di scambio – di collusione e complicità – nei circuiti economici, politici e istituzionali.

Queste formazioni criminali sono tuttavia caratterizzate da una serie di tensioni e ambivalenze che riguardano la struttura organizzativa, l’apparato simbolico e i codici normativi, le logiche e le modalità di azione. Possiamo immaginare queste ambivalenze come dicotomie o polarità che nei casi concreti si dispiegano lungo un continuum. Sul piano della struttura organizzativa troviamo le opposte tendenze alla centralizzazione e alla dispersione, verso modelli più verticali o più orizzontali, gerarchici o reticolari. Queste tendenze si riscontrano all’interno dello stesso tipo di mafia, oltre a contraddistinguerne storicamente i diversi tipi. Per lungo tempo si è associato a ‘cosa nostra’ un modello organizzativo gerarchico e piramidale, alla ’ndrangheta una struttura orizzontale e dispersa in cosche autonome, alla camorra un sistema pulviscolare e frammentato. Senonché, negli ultimi anni le inchieste giudiziarie hanno complicato il quadro, rivelando cambiamenti nei diversi modelli di organizzazione. Per es., per alcuni aspetti ‘cosa nostra’, messa sotto pressione dalle agenzie di contrasto, pare aver allentato il carattere centralizzato e verticale della sua struttura organizzativa, mentre la ’ndrangheta ha mostrato di avere un modello assimilabile a quello di una rete di organizzazioni, con organi sovraordinati di coordinamento (R. Sciarrone, ’Ndrangheta: A reticular organization, in The ’Ndrangheta and Sacra corona unita, 2014, pp. 81-99). Per la camorra si è infine ravvisata la coesistenza di diversi moduli organizzativi: accanto a gruppi che assomigliano a bande gangsteristiche ne sono presenti altri più strutturati, con gerarchie e ruoli formalizzati (Sales 2006; Traffici criminali, 2009). Queste differenze sono evidenti se si confrontano i clan più dispersi attivi nell’area urbana di Napoli con quelli più articolati della provincia e quelli ancora più accentrati che fanno riferimento ai cosiddetti clan dei Casalesi. Le dinamiche organizzative sono influenzate anche dai processi di espansione territoriale, che possono provocare spinte centripete o centrifughe. Per es., la proliferazione delle cosche di ’ndrangheta in territori diversi e lontani da quelli di origine ha posto problemi di riconoscimento e di coordinamento tra un numero crescente di affiliati e di cosche, favorendo la creazione di legami e organi interorganizzativi.

Sul piano culturale e normativo emergono ambivalenze di diversa natura, come testimonia il ricorso a simboli e rituali che segnano l’ingresso e i passaggi di carriera all’interno dell’organizzazione. I rituali di iniziazione evidenziano infatti il confine tra ‘onorata società’ e società circostante, separando e distinguendo l’una dall’altra, a dispetto delle tesi che presuppongono un’omogeneità tra mafia e cultura diffusa; servono dunque a rafforzare i legami di appartenenza e sono funzionali al riconoscimento esterno. In questo modo il mafioso si percepisce come membro di una cerchia ‘speciale’ di uomini: non è più nuddu ammiscatu cu niente («nessuno mischiato con niente»), come riferiscono numerosi collaboratori di giustizia per spiegare le motivazioni della loro affiliazione criminale. Per quanto riguarda le regole e i codici di comportamento si rileva una produzione ipertrofica di norme, che si accompagna a una sequenza altrettanto sovrabbondante di eccezioni e a una continua ricerca di espedienti per aggirarle o piegarle a interessi di parte.

Un altro tipo di ambivalenza è quella che può essere ricondotta alla dicotomia visibilità/invisibilità e che ci riporta direttamente alla questione del ‘riconoscimento’ delle mafie, particolarmente evidente quando il fenomeno è in una fase di ‘emergenza’ come accade nelle zone di nuova espansione. Come è noto, le mafie hanno l’esigenza di essere invisibili, in quanto organizzazioni illegali che devono sfuggire all’azione repressiva delle forze dell’ordine: quindi si costituiscono come associazioni segrete e investono notevoli risorse per dissimulare le loro attività e occultare chi ne fa parte. Al tempo stesso, tuttavia, esse hanno bisogno di essere visibili nel territorio in cui decidono di insediarsi stabilmente o di operare con una certa continuità: una qualche forma di visibilità è condizione necessaria affinché i mafiosi ottengano quel riconoscimento sociale che è indispensabile per costruire e rendere effettiva la propria reputazione. Nelle zone ad alta densità mafiosa, quelle in cui la presenza di queste organizzazioni è ormai sedimentata nel tempo, il rapporto tra visibilità e invisibilità tende a raggiungere un certo equilibrio, tanto che l’una risulta funzionale all’altra. In queste zone tutti ‘sanno’ chi sono i mafiosi, ma questo non fa venire meno la dimensione della segretezza, che è anche carattere costitutivo dell’organizzazione criminale. Nelle aree non tradizionali la situazione invece cambia: i mafiosi devono innanzitutto garantirsi un efficace livello di invisibilità, ma al tempo stesso devono rendersi riconoscibili all’esterno. Devono quindi costruirsi una visibilità sociale, senza esporsi troppo e diventare così vulnerabili nei confronti delle agenzie di contrasto. Si tratta di un’operazione che richiede tempo e soprattutto investimenti mirati sul piano delle relazioni sociali. È infatti probabile che si cerchi di essere riconosciuti a partire da specifiche cerchie sociali, mettendo in atto anche comportamenti che ostentano il proprio status e le capacità tipiche dei mafiosi. È necessario essere credibili, ma soprattutto bisogna trovare soggetti sui quali è possibile far presa, ovvero soggetti disponibili a ‘crederci’ e ad apprezzare le risorse e le competenze mafiose (Mafie del Nord, 2014).

Affrontiamo adesso un’altra dicotomia che caratterizza l’agire mafioso, quella tra logica dell’appartenenza e logica degli affari. Come in altre organizzazioni, anche in quelle mafiose coesistono diversi criteri che orientano l’azione del gruppo nel suo insieme e quella dei membri che ne fanno parte. Da un lato, abbiamo una logica organizzativa che mira ad assicurare la coesione interna, i legami di lealtà, il coordinamento e la cooperazione degli attori; dall’altro, abbiamo una logica strumentale, finalizzata a ottenere vantaggi e benefici materiali, soprattutto – anche se non esclusivamente – di tipo economico. La distinzione può essere ricondotta a una variante della classica dicotomia tra interessi collettivi e individuali. La logica dell’appartenenza privilegia e cerca di tutelare gli interessi dell’organizzazione, mentre quella degli affari favorisce gli interessi dei singoli. La differenza richiama inoltre due diversi modelli di azione: l’uno di tipo imprenditoriale, orientato a ottenere profitti economici, l’altro di tipo politico, finalizzato all’esercizio del potere. Le due finalità si trovano combinate tradizionalmente insieme, anche se a seconda dei contesti e del periodo storico una può essere prevalente rispetto all’altra. Distinguere analiticamente i due aspetti permette di osservare i margini di libertà e lo spazio di azione che l’organizzazione lascia agli individui che ne fanno parte.

Contrariamente a un’idea molto diffusa, gran parte delle attività economiche svolte dalle mafie non è realizzata in modo centralizzato e unitario dall’organizzazione nel suo complesso, ma è perseguita in modo autonomo da mafiosi che agiscono individualmente o come parte di gruppi o coalizioni, che si costituiscono ad hoc oppure sono basati su legami pregressi, spesso di tipo familiare o territoriale. In genere l’organizzazione mafiosa tende a gestire in modo accentrato i proventi che derivano dall’estorsione-protezione, che infatti è strettamente collegata al controllo del territorio, ovvero a finalità di tipo politico, connesse alla ricerca e all’esercizio del potere. La maggior parte delle attività svolte nei mercati illegali, in quelli legali o a cavallo di entrambi è invece realizzata dai mafiosi con ampi margini di autonomia individuale. Detto altrimenti, la proprietà delle imprese mafiose e i profitti che ne derivano non sono riconducibili all’organizzazione, ma a singoli o gruppi di affiliati che le hanno costituite.

Questo spiega perché all’interno delle mafie esiste un forte squilibrio nella distribuzione della ricchezza, con una accentuata diseguaglianza economica che solo in parte rispecchia la gerarchia formale dell’organizzazione. È abbastanza ovvio che chi occupa posizioni apicali tenda a essere più ricco rispetto ai subordinati, ma sono anche molto frequenti situazioni di squilibrio di status, in assenza di corrispondenza tra il ruolo ricoperto sul piano formale e il patrimonio di risorse di cui si dispone. Del resto, queste ultime sono in molti casi utilizzate dai mafiosi a favore dei propri interessi individuali o di quelli del gruppo ristretto a cui sono legati (la famiglia o il clan). Al tempo stesso, tuttavia, l’organizzazione cerca di sottoporre a qualche vincolo le attività imprenditoriali svolte da singoli o gruppi mafiosi, nel tentativo di non far prevalere del tutto la logica degli affari rispetto a quella dell’appartenenza. Esistono obblighi di solidarietà (per es., rispetto ai detenuti e alle loro famiglie) e si incentivano impegni di tipo cooperativo, come quello relativo ad assecondare forme di compartecipazione in caso di affari particolarmente lucrosi.

tab. 1

Queste due logiche si intrecciano dunque con la presenza di diversi livelli di azione organizzativa, che è importante prendere in considerazione anche con riferimento ai processi di espansione territoriale nelle aree non tradizionali. Schematizzando l’analisi svolta, è possibile individuare quattro livelli distinti a seconda del tipo di attore in gioco, dei legami prevalenti e delle forme di transazione (tab. 1). Un primo livello è quello individuale, nel quale i mafiosi si muovono come agenti indipendenti (Coleman, cit., p. 539) e le transazioni tendono a essere gestite via mercato. Il secondo livello è quello di gruppo, ovvero di una famiglia mafiosa oppure di una coalizione o di un cartello di affari: in questo caso relazioni e transazioni rispondono alla logica del clan (W. Ouchi, Markets, bureaucracies and clans, «Administrative science quarterly», 1980, 25, 1, pp. 129-41). A questi due livelli risultano prevalenti i legami personali e la logica degli affari, mentre nei due successivi sono preponderanti i legami organizzativi e la logica dell’appartenenza. A seguire troviamo infatti il livello dell’organizzazione, che può essere costituito da una cosca o da un’impresa mafiosa, in cui le transazioni sono regolate dalla gerarchia. Infine abbiamo il livello interorganizzativo, dove la gestione di relazioni e transazioni è quella tipica dell’associazione (W. Streeck, P.C. Schmitter, Comunità, mercato, stato e associazioni? Il possibile contributo dei governi privati all’ordine sociale, «Stato e mercato», 1985, 13, pp. 47-86), che rappresenta gli attori collettivi che ne fanno parte e quindi aspira a regolare i rapporti che intercorrono tra diversi gruppi e organizzazioni. A questo livello si rileva la presenza di confederazioni o di organismi sovraordinati che hanno soprattutto funzioni di rafforzamento dei legami di lealtà e di appartenenza, di coordinamento delle azioni e di risoluzione delle controversie.

Nei casi concreti possono coesistere e combinarsi diversi livelli di azione e di organizzazione. I processi di espansione territoriale possono riguardare individui, gruppi, organizzazioni e possono avvenire prevalentemente per via economica, seguendo la logica degli affari, oppure per via organizzativa, privilegiando la logica dell’appartenenza (Mafie del Nord, 2014). Quest’ultimo tipo di espansione è quello che più tipicamente si realizza in aree contigue a quelle tradizionali, dove le organizzazioni mafiose si diffondono attraverso una estensione dei confini originari, ma può avvenire anche in aree distanti, quando esse riescono a instaurare una qualche forma di regolazione e controllo – attraverso l’offerta di protezione – in contesti territoriali circoscritti, oppure in specifici settori di attività legali o illegali.

Come si vedrà in seguito, nelle aree non tradizionali è tuttavia più agevole praticare, almeno in una prima fase, un’espansione per via economica: la strategia più nota è quella del reinvestimento nei traffici illeciti o nei mercati legali, ma sempre più diffuse sono altre modalità che prevedono accordi collusivi con altri attori criminali oppure la promozione di relazioni di collusione e complicità con soggetti dell’area grigia, o ancora innovazioni organizzative che riguardano per es. un adattamento e una razionalizzazione delle proprie risorse e competenze per offrire determinati beni o servizi oppure per presidiare determinati mercati.

Il lato oscuro del capitale sociale

I mafiosi sono in grado di costruire e gestire reti di relazioni che si muovono e articolano in modo informale in ambiti e contesti istituzionali diversi, riuscendo a mobilitare risorse materiali e finanziarie che utilizzano per il conseguimento dei propri fini. Essi tendono a intrecciare reticoli sociali a elevata densità e a manipolare per i propri scopi reti di relazioni diversamente finalizzate. Si ha così una utilizzazione intensiva delle relazioni, che provoca sia un effetto di moltiplicazione dei legami sia un effetto di ramificazione degli stessi.

In particolare, sono molto rilevanti le relazioni che un’organizzazione mafiosa instaura con l’esterno, con le diverse sfere della società civile, dell’economia, della politica e delle istituzioni: «La natura e la solidità di queste relazioni esterne possono descrivere le caratteristiche del crimine organizzato più di quanto possono farlo l’esame di famiglie, clan e le rispettive genealogie». Infatti, un’organizzazione criminale «si riproduce non tanto grazie alla coesione di unità elementari quali famiglie e clan, ma in virtù di interessi coesivi con attori esterni a tali unità elementari» (V. Ruggiero, Economie sporche, 1996, pp. 59-60). Questa struttura relazionale rende disponibile capitale sociale, fruibile non soltanto dai mafiosi ma anche dagli stessi soggetti esterni all’organizzazione, con cui i primi instaurano rapporti di scambio e cooperazione.

Rispetto alla prospettiva teorica del capitale sociale, Alessandro Pizzorno (Perché si paga il benzinaio. Nota per una teoria del capitale sociale, «Stato e mercato», 1999, 3, pp. 373-94) ha distinto tra «capitale sociale di solidarietà» e «capitale sociale di reciprocità»: il primo è tipico di gruppi coesi, i cui membri sono legati tra loro in modo forte e duraturo e agiscono quindi secondo principi di solidarietà di gruppo; il secondo riguarda quel tipo di relazioni basate su legami meno coinvolgenti e pervasivi che, consentendo la cooperazione con attori esterni al gruppo di appartenenza, offrono riconoscimento e legittimazione. Lo stesso Pizzorno osserva che il capitale sociale di solidarietà può essere rintracciato all’interno dei gruppi mafiosi. Da quanto si è detto, dovrebbe essere tuttavia chiaro che per la riproduzione della mafia sono importanti anche forme di capitale sociale di reciprocità. Oltre ai legami di lealtà intragruppo, sono infatti rilevanti le relazioni verso l’esterno.

Una caratteristica importante delle reti mafiose è che esse sono costituite non solo da legami ‘forti’, ma anche da legami ‘deboli’ (Sciarrone 1998; 2006). Questo può essere controintuitivo rispetto all’immagine corrente della mafia, rappresentata piuttosto come una rete densa e compatta. Eppure, a parte un nucleo centrale costituito da legami forti, i network mafiosi presentano una configurazione prevalentemente a maglie larghe. È proprio questa la ragione che rende molto difficile disfare una rete mafiosa, e soprattutto svelare e sanzionare le relazioni instaurate nell’ambito della sfera economica e politica, basate il più delle volte proprio su un intreccio di legami deboli. Questi ultimi sono per definizione sfuggenti, difficili da individuare e isolare, e quindi anche da contrastare.

La presenza di legami deboli permette alla rete di estendersi verso l’esterno: questi legami sono infatti dotati di una peculiare forza (M. Granovetter, The strength of weak ties, 1973, trad. it. 1998), poiché tendono a ramificarsi, stabilendo connessioni tra soggetti eterogenei, e rendono quindi più aperta e dinamica la rete. Nel caso della mafia, i legami deboli devono essere intesi più precisamente come legami ‘laschi’, in quanto denotano un nodo elastico e flessibile, che lascia gioco alle corde che lo compongono, ma che non è affatto sul punto di sciogliersi (G. Bonazzi, Storia del pensiero organizzativo, 1989, 19957, p. 392).

Una proprietà di questi legami è che essi riescono a funzionare da ‘ponte’ tra due o più network, che possono avere una elevata interdipendenza interna ma sono tra loro separati, cioè non hanno collegamenti esterni. Nella maggioranza dei casi, i mafiosi tendono a sfruttare proprio i ‘buchi strutturali’ delle reti (R.S. Burt, Structural holes, 1992), ovvero l’assenza di relazioni fra cerchie sociali distinte. In questo modo, sono in grado di controllare il flusso di informazioni e il coordinamento delle azioni fra gli attori che si trovano da una parte e dall’altra del ‘buco’, riuscendo a creare legami di sostegno attivo e a porsi come intermediari fra diverse reti di relazioni. Già Anton Blok aveva osservato che il potere di un mafioso, e in particolare del capo, dipende dalla capacità di stabilire contatti e «rapporti ramificati con persone esterne alla cosca», ma anche dalla capacità di tenere sotto controllo e di ridurre al minimo i legami tra gli altri soggetti della rete, specie di quelli a lui molto vicini, in modo da assicurarsi il monopolio dell’intermediazione (A. Blok, The mafia of a Sicilian village 1860-1960, 1974, trad. it. 1986, p. 136). Oltre che nelle relazioni interne ed esterne all’organizzazione, una parte rilevante del capitale sociale di cui dispone un mafioso riposa, sia a livello simbolico che materiale, sui legami con le donne della propria famiglia, importanti per es. nelle strategie matrimoniali che saldano le alleanze tra le cosche (R. Siebert, Le donne, la mafia, 1994). Questi legami, che coinvolgono attivamente le donne in una struttura organizzativa monosessuale maschile, rappresentano ciò che possiamo chiamare la dimensione ‘sommersa’ del capitale sociale della mafia.

Le forme di capitale – economico, sociale, culturale – che circolano all’interno di un network possono essere convertite in ‘capitale simbolico’. Quest’ultimo è importante perché serve a legittimare il potere, costruendo una visione accettata e riconosciuta dell’ordine sociale (P. Bourdieu, The forms of capital, in Handbook of theory and research for the sociology of education, 1986). Nel caso della mafia, il potere viene legittimato proprio attraverso le reti di relazioni che si intrecciano con soggetti esterni all’organizzazione criminale, in particolare figure sociali e professionali riconducibili alle classi dirigenti, in quanto occupano posizioni di responsabilità nell’ambito dell’organizzazione sociale, vale a dire «posizioni dalle quali si può esercitare influenza diretta su decisioni a rilevanza collettiva» (F. Rositi, Sulle virtù pubbliche, 2001, p. 189).

Il tema dei rapporti con le classi dirigenti è dunque cruciale per comprendere la forza della mafia. Sarebbe comunque fuorviante stabilire una gerarchia tra classi dirigenti e mafiosi, ovvero tra potere ufficiale e potere mafioso: non c’è un rapporto di subordinazione dell’uno all’altro, bensì di interdipendenza. Così come fuorviante sarebbe distinguere una mafia ‘alta’ da una ‘bassa’, una mafia ‘di dominio’ da una ‘popolare’. È piuttosto da evidenziare la capacità egemonica del suo «progetto interclassista» (A. Recupero, Ceti medi e «homines novi». Alle origini della mafia, «Polis», 1987, 2), in quanto «i suoi affari mettono insieme interessi di ogni tipo, soggetti appartenenti a ceti emergenti, intermedi e popolari» (S. Lupo, Potere criminale, 2010, p. 167). Se la mafia non è dunque riducibile alla classe dirigente, trova tuttavia in quest’ultima il principale canale della sua istituzionalizzazione e in definitiva del suo successo.

A questo riguardo, non si può fare a meno di citare Leopoldo Franchetti che nella celebre Inchiesta in Sicilia, svolta insieme a Sidney Sonnino nel 1876, sostiene che l’industria della violenza è composta da «una classe di facinorosi indipendente e con interessi suoi propri» (1992, p. 105), che però trova il suo fondamento nelle

relazioni fra i malfattori di mestiere e le classi agiate e ricche della popolazione (p. 105). Difatti, per quanto l’industria della violenza, la sola che per adesso prosperi realmente in Sicilia, abbia acquistato interessi ed in conseguenza ragioni d’essere sue proprie ed indipendenti, pure la forza che le ha permesso di porsi in questa condizione e che la fa sussistere, sta nella classe dominante (p. 107).

Molto tempo dopo, anche Pio La Torre avrebbe definito la mafia come un «fenomeno di classi dirigenti» (Commissione parlamentare antimafia, Relazione di minoranza, 1972, p. 569).

Si tocca qui il nodo della questione mafiosa: i processi di legittimazione e di costruzione del consenso su cui si fonda e perdura il potere mafioso. Com’è noto, molti osservatori tendono a spiegare il consenso di cui godono i gruppi mafiosi in termini di condivisione o comunanza di codici culturali e valoriali rispetto alla società locale di riferimento. È spesso tenuto in secondo piano il fatto che, in realtà, «l’organizzazione mafiosa si appropria dei codici culturali, li strumentalizza, li modifica, ne fa un collante per la propria tenuta» (Lupo 1993, 19962, p. 20). Sin dalle origini, siamo davanti «a un gruppo di potere, il quale esprime un’ideologia che intende creare consenso all’esterno e compattezza all’interno» (p. 21).

Un’altra lettura del fenomeno è quella che mette in luce i meccanismi attraverso i quali la mafia cambia la struttura degli incentivi degli individui che interagiscono nel contesto in cui essa è radicata. A differenza del singolo criminale, ha osservato per es. Mancur Olson:

la famiglia mafiosa che detiene il monopolio del crimine in una determinata comunità nutre, per via del monopolio stesso, un interesse moderatamente inclusivo e scommette in una certa misura sul reddito della comunità, tenendo perciò in conto – nell’uso del suo potere coercitivo – l’interesse della comunità (Power and prosperity, 2000, trad. it. Potere e mercati, 2001, p. 5).

Con quest’ottica, si può comprendere – dice ancora Olson – perché, in presenza di un gruppo criminale che è riuscito a insediarsi su un territorio e a controllarlo efficacemente, i «sudditi» – pur essendo vittime dell’estorsione – finiscano per preferire «tale regime alle sporadiche ruberie dei banditi nomadi». In altri termini, il «bandito stanziale» – essendo portatore di un interesse inclusivo riguardo al territorio da lui controllato – garantisce ordine e vantaggi anche alla popolazione, per cui l’estorsione permanente risulta alla fine di gran lunga migliore di una situazione di anarchia: «Il suo comportamento, pertanto, non è quello del lupo che attacca l’alce, bensì analogo a quello dell’allevatore che si assicura che la propria mandria sia protetta e riceva la giusta razione di acqua» (p. 11).

Questo tipo di analisi, pur avendo il merito di superare le vecchie spiegazioni di matrice culturalista, non tiene in debito conto altri aspetti importanti. Per comprendere il consenso di cui godono i gruppi mafiosi bisogna infatti prendere in considerazione da un lato la forza di «attrazione relazionale» (Sciarrone 2006) che essi sono capaci di dispiegare, dall’altro le modalità attraverso le quali numerosi esponenti delle classi dirigenti si rapportano alla mafia. Da sempre i mafiosi cercano di intrecciare relazioni con coloro che esercitano funzioni legittime, ovvero con chi detiene una qualche forma di autorità. Ma da sempre chi esercita funzioni legittime cerca a sua volta di intrecciare relazioni con i mafiosi.

Un aspetto che forse non è stato sufficientemente tematizzato negli studi sulla mafia e che risulta in controtendenza rispetto alle visioni correnti del fenomeno è che i mafiosi, nella maggioranza dei casi, tendono a evitare ‘giochi a somma zero’, ovvero situazioni in cui chi vince piglia tutto (se non ovviamente nei confronti di coloro che si pongono o sono percepiti come avversari). Essi preferiscono piuttosto ‘giochi a somma positiva’, in cui tutti i partecipanti al gioco hanno qualcosa da guadagnare. In altri termini, i mafiosi optano per ‘giochi cooperativi’, tanto è vero che privilegiano chiaramente strumenti atti a favorirli, come la negoziazione, l’offerta di incentivi (non solo materiali ma anche simbolici) o la capacità di indennizzare chi risulta temporaneamente perdente. In ogni caso, la cooperazione con la mafia produce benefici selettivi, nel senso che solo chi coopera può usufruire dei vantaggi che ne derivano; promettere o offrire vantaggi a chi è disposto a cooperare può implicare poi pretendere una contropartita, ovvero la reciprocità dello scambio. La cooperazione, indipendentemente dai presupposti su cui poggia e su cui è avviata, comporta a sua volta una qualche forma di riconoscimento e in definitiva di legittimazione. Reciprocità, iterazione ed estensione dello scambio creano equilibri cooperativi che tendono a essere ricorsivi e a stabilizzarsi nel tempo. Proprio in questi giochi cooperativi trovano fondamento i meccanismi di costruzione del consenso di cui gode la mafia e, insieme, quelli che strutturano l’area grigia in cui si sviluppano le sue «alleanze nell’ombra» (Alleanze nell’ombra, 2011).

Se si tiene conto della presenza e delle modalità di funzionamento delle reti mafiose, si ricava un’immagine ben lontana da quella che descrive il Mezzogiorno come privo, in assoluto, di fiducia e di capitale sociale. Nelle aree ad alta densità mafiosa, il problema non è tanto l’assenza di risorse di questo tipo, quanto la loro distribuzione, vale a dire il fatto che esse sono concentrate in mani sbagliate e, anziché essere indirizzare a fini di sviluppo e a beneficio della collettività, risultano funzionali a perseguire gli interessi particolaristici di coloro che si muovono nella terra di mezzo, in cui lecito e illecito si intrecciano e, spesso, si sovrappongono.

L’area grigia delle collusioni e delle complicità

‘Area grigia’ è un’espressione suggestiva, che rappresenta una metafora efficace per descrivere lo spazio opaco in cui prendono forma relazioni di collusione e complicità con la mafia, coinvolgendo un’ampia varietà di attori, diversi per competenze, risorse, interessi e ruoli sociali. Tra i mafiosi e i soggetti che si muovono nell’area grigia è ravvisabile un processo di vicendevole riconoscimento, in base al quale si scambiano beni e servizi, si avvalgono gli uni delle risorse e delle competenze degli altri, si sostengono per conseguire specifici obiettivi (che possono essere distinti, ma complementari), e in alcuni casi costituiscono alleanze organiche per tutelare o perseguire interessi comuni. È proprio in questo modo che tendono a instaurarsi i giochi a somma positiva di cui si è detto.

Soprattutto a partire dalla metà degli anni Novanta, la presenza dei mafiosi nei mercati legali sembra essere diventata paradossalmente meno rischiosa e, al contempo, più fruttuosa di quella nei mercati illeciti, in particolare nei contesti in cui risulta relativamente agevole intercettare i flussi della spesa pubblica. D’altra parte, se in passato si poteva parlare di ‘infiltrazione’ della mafia nell’economia legale, adesso in molti casi potrebbe essere fuorviante. A fronte di un contesto economico sempre più incerto e problematico, appare in crescita il numero di imprenditori che cercano forme di adattamento attraverso accordi e accomodamenti con il potere politico e, nelle zone di mafia, anche con il potere criminale. Gli scambi occulti e gli accordi collusivi finiscono per essere concepiti come un ‘modo’ per stare sul mercato, se non addirittura come l’unico modo per sopravvivere economicamente. Su queste basi si afferma un meccanismo di regolazione e di selezione delle opportunità economiche che va a vantaggio di coloro che sono in grado di ‘mettersi d’accordo’ (Alleanze nell’ombra, 2011).

Al tempo stesso, sono cambiate le caratteristiche della presenza mafiosa in attività legali o formalmente legali e i fattori che la favoriscono. In particolare, sono diventati molto più opachi e porosi i confini tra mercati legali e illegali: non si tratta di una mera estensione dell’area dell’illecito nel lecito, quanto di una commistione tra le due aree, con legami sempre più stretti tra crimine economico e crimine organizzato, tra mondo della politica, criminalità dei colletti bianchi e mafie (Dino 2011). In questa ottica, è importante tenere presente che i mafiosi non sono attori economici dotati di elevate capacità imprenditoriali: essi infatti continuano a fare affari soprattutto in settori tradizionali e, anche quando allargano il raggio di azione verso ambiti più innovativi, raramente danno prova di possedere particolari abilità manageriali, tecniche e finanziarie. Per es., il loro interesse per il settore delle energie rinnovabili pare circoscritto alle attività connesse al cosiddetto ciclo del cemento e alla realizzazione delle infrastrutture di supporto agli impianti. Le loro attività continuano infatti a essere indirizzate prevalentemente verso settori ‘protetti’, ossia legati a forme di regolazione pubblica, caratterizzati da concorrenza ridotta e, spesso, da situazioni di rendita (Sciarrone 1998; Alleanze nell’ombra, 2011). Le imprese mafiose rivelano comunque un’elevata capacità di realizzare profitti non solo per la possibilità di avvalersi di mezzi preclusi alle imprese lecite nella regolamentazione della concorrenza, nella gestione della forza lavoro, nella disponibilità di risorse finanziarie (P. Arlacchi, La mafia imprenditrice, 1983), ma anche perché possono contare su competenze e risorse che derivano dai rapporti di scambio e collusione intrecciati con amici, complici e alleati.

L’area grigia è dunque uno spazio di relazioni e di affari in cui prendono forma accordi e intese criminali. Le principali figure che operano in questo spazio sono imprenditori, politici, professionisti e funzionari pubblici. L’area grigia è importante per la riproduzione delle mafie, in quanto fornisce quelle risorse di capitale sociale necessarie ai gruppi criminali per estendere le proprie reti in molteplici direzioni e ottenere sostegno e legittimazione. D’altra parte, intrattenere rapporti con i mafiosi permette anche agli altri attori di ricavare capitale sociale da utilizzare per i propri obiettivi. Siamo di fronte a uno spazio con una variegata articolazione interna, con configurazioni variabili a seconda dei contesti, dei settori di attività, delle capacità criminali, della posta in gioco e dei rapporti di forza. I mafiosi non sono sempre e necessariamente in posizione dominante, né sono gli attori che dispongono in via esclusiva di competenze di illegalità. Essi si distinguono per il possesso di risorse qualificate, riconducibili fondamentalmente all’uso specializzato della violenza, alle funzioni di intermediazione tra reti diverse, e più in generale all’abilità di accumulare e impiegare capitale sociale. Dal canto loro, gli attori esterni detengono altre risorse specifiche – di tipo economico gli imprenditori, di autorità i politici, tecniche i professionisti e normative i funzionari pubblici – in virtù delle quali possono godere di autonomia di azione e di un patrimonio di relazioni più o meno privilegiate. Per comprendere il funzionamento delle aree grigie è dunque importante porre attenzione ai network e ai legami che connettono tra loro i diversi attori coinvolti in situazioni specifiche.

A seconda delle circostanze, i mafiosi tendono a presentarsi come mediatori, patroni, protettori, collocandosi in strutture relazionali di natura diversa, che cercano di utilizzare per i propri obiettivi. In molti casi le relazioni che prendono forma nell’area grigia configurano un modello che potremmo definire di ‘governance mafiosa’: l’attore mafioso si trova in posizione centrale e rappresenta il perno su cui ruota il sistema relazionale. In altri termini, i mafiosi costituiscono i nodi più importanti della rete, a cui sono collegati direttamente tutti gli altri attori. Tra questi, alcuni sono connessi tra loro attraverso legami diretti, mentre altri lo sono indirettamente, ovvero i rapporti sono mediati da nodi diversi. In molti altri casi, le relazioni dell’area grigia non hanno tuttavia l’‘ordine’ appena descritto: si trovano piuttosto configurazioni a geometria variabile nelle quali la posizione centrale non è occupata necessariamente dai mafiosi. Per es., il nodo più importante può essere rappresentato da un politico, legato direttamente a tutti gli altri attori del network, mentre il mafioso può avere rapporti diretti con alcuni ma non con altri. È così possibile trovare un imprenditore che si rivolge al mafioso che, a sua volta, lo indirizza al politico. Oppure un funzionario comunale che – grazie ai buoni rapporti con l’organizzazione criminale – cerca di assumere in proprio un ruolo di intermediazione rispetto agli imprenditori. È anche possibile individuare figure ibride, vale a dire soggetti che occupano contemporaneamente più ruoli, come per es. funzionari pubblici o professionisti organici alla mafia, che partecipano direttamente o indirettamente ad attività imprenditoriali.

Nella maggioranza dei casi, le relazioni di cui stiamo parlando configurano reti policentriche, nelle quali contano molto di più i legami orizzontali di quelli verticali, e che si caratterizzano per la presenza di figure di mediazione, che possono favorire accordi e negoziazioni. Il fatto che i mafiosi non occupino necessariamente le posizioni più ‘centrali’ della rete non fa venire meno il loro potere di intermediazione, che è uno dei tratti che tradizionalmente li caratterizza. In quanto imprenditori sociali, ovvero esperti di relazioni, i mafiosi cercano di mantenere nelle proprie mani le funzioni di intermediazione dei network in cui sono inseriti. Queste funzioni hanno un carattere polivalente, in quanto, oltre a essere veicolo di informazioni rilevanti, possono assumere diverse forme: legami ponte, che mettono in collegamento; legami di garanzia, che fanno rispettare i patti; legami filtro, che regolano e selezionano l’accesso a risorse e opportunità, funzionando da barriera o imponendo un ‘pedaggio’ di ingresso. Il ruolo dei mafiosi può quindi essere tutt’altro che secondario, ma è importante focalizzare l’attenzione anche sul comportamento degli altri attori.

tab. 2

Sulla base di una vasta documentazione empirica (Alleanze nell’ombra, 2011) è possibile delineare uno schema di analisi incrociando due dimensioni che individuano rispettivamente, da un lato, i diversi tipi di relazioni che caratterizzano l’area grigia, dall’altro, la logica che guida le condotte dei soggetti esterni che instaurano legami di cooperazione con i mafiosi (tab. 2). È così possibile distinguere a livello idealtipico tre principali situazioni:

1) dalla combinazione tra logica di tipo strumentale e relazioni di contiguità con la mafia deriva una situazione di complicità, caratterizzata da uno scambio economico tra gli attori, in genere specifico e limitato nel tempo e nei contenuti;

2) all’incrocio tra una logica di compartecipazione e ambiti relazionali che si sovrappongono troviamo la più evidente situazione di collusione, quella in cui attori mafiosi e non mafiosi si mettono d’accordo per svolgere affari in comune, ovvero instaurano un tipo di scambio continuativo, che può assumere concretamente diverse forme: dalla funzione di prestanome nei confronti del mafioso fino alla costituzione di vere e proprie società di fatto; 3) l’ultima situazione è quella caratterizzata da rapporti organici e legami di identificazione rispetto ai mafiosi, ovvero una situazione in cui subentra una logica di appartenenza insieme a relazioni di compenetrazione degli attori esterni rispetto all’organizzazione criminale.

Le due dimensioni rappresentate in tabella vanno intese in modo processuale. Così quella che individua diverse logiche di azione – strumentale, di compartecipazione, di appartenenza – può essere concepita come un continuum ai cui poli troviamo da un lato la ‘logica della consequenzialità’, propria appunto dell’agire strumentale, e dall’altro la ‘logica dell’appropriatezza’, propria di un’agire in conformità a norme (J.G. March, J.P. Olsen, Rediscovering institutions, 1989, trad. it. 1992; A. Panebianco, L’automa e lo spirito. Azioni individuali, istituzioni, imprese collettive, 2009). L’altra dimensione indica invece tipi di relazioni che qualificano figure diverse – complici, soci, affiliati – che possono tuttavia sfumare facilmente l’uno nell’altro. Può accadere così che un soggetto esterno passi da un rapporto di complicità strumentale con la mafia a legami più organici di collusione e, infine, di appartenenza. I passaggi da una situazione all’altra sono condizionati e controllati dai meccanismi di intermediazione attivi nella rete e, soprattutto, da chi occupa i nodi che li rendono operativi o i ruoli di relais organizzativi, ovvero di connettori tra il network e il suo ambiente esterno. Sono peraltro i legami ponte che rendono interdipendenti gli attori in gioco, garantendo le condizioni non solo per il coordinamento delle loro azioni, ma anche per la reciproca cooperazione.

Nei casi concreti, la situazione di complicità è quella che coinvolge soprattutto imprenditori che stabiliscono con un mafioso un rapporto strumentale: si tratta per lo più di imprese relativamente forti dal punto di vista delle capacità finanziarie e della dotazione tecnica. Spesso sono imprese esterne al contesto locale: rientrano infatti in questa categoria le grandi imprese nazionali che operano nel campo delle infrastrutture e dei lavori pubblici. In virtù della loro capacità di mercato e del possesso di risorse radicate all’esterno, esse si trovano nella condizione di poter negoziare con i mafiosi termini e condizioni del ‘contratto’ di protezione. È, per es., quanto accaduto negli appalti per i lavori di ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria, dove le grandi imprese nazionali hanno spesso cercato un accordo preventivo con i mafiosi. Si può dire che questi imprenditori raggiungono con i mafiosi un compromesso che ha carattere condizionale e contingente, anche perché l’accordo in genere non vale una volta per tutte, ma deve essere continuamente rinegoziato (Sciarrone 1998). Essi motivano le proprie scelte con il fatto che, per poter operare in determinati contesti, è necessario scendere a patti con la mafia, poiché l’alternativa sarebbe rinunciare all’attività stessa. Il problema della presenza mafiosa viene vissuto come un dato dell’ambiente e quindi risolto – dal punto di vista aziendale – valutandolo alla stregua di un costo aggiuntivo preventivato sin dall’inizio. Fatto sta che tale costo, in realtà, è solo in minima parte sopportato dall’azienda stessa, in quanto viene spesso trasferito su terzi (nel caso delle opere pubbliche sull’ente appaltante, ovvero sulla collettività). La condotta di questi imprenditori è la più difficile da far emergere a livello giudiziario, proprio perché si fa spesso valere la difficoltà di stabilire un confine netto tra l’essere vittima o complice.

La seconda situazione individua invece espliciti rapporti di collusione con i mafiosi. In questo caso troviamo imprenditori che stabiliscono con questi ultimi un rapporto stabile e continuativo, che coinvolge interamente la loro attività e spesso la loro stessa persona. Settori di attività rilevanti sono quelli dell’edilizia, degli appalti e della gestione dei rifiuti. I rapporti di collusione non implicano soltanto relazioni di tipo diadico, ma tendono a coinvolgere un numero più ampio di soggetti, come per es. cordate di imprenditori, politici e professionisti. La gamma di prestazioni rese da questi soggetti ai mafiosi è molto varia e dipende soprattutto dal tipo di attività svolta e dalle opportunità che può offrire. È la situazione in base alla quale si formano spesso cartelli e veri e propri ‘comitati di affari’, cementati da accordi collusivi che finiscono per controllare e regolare le attività e la filiera produttiva di un determinato settore economico a livello locale. È per es. il caso della grande distribuzione commerciale, dove gli accordi collusivi possono assumere quasi carattere sistemico: dalla individuazione dei terreni e dalla realizzazione delle opere di edilizia, fino all’organizzazione commerciale vera e propria, attraverso il controllo delle forniture e della manodopera da impiegare. Il legame di collusione può essere l’esito di una ‘carriera’ che si sviluppa attraverso diversi passaggi (Alleanze nell’ombra, 2011). Sono molto diffusi i casi di imprenditori che, in un primo tempo, subiscono le imposizioni dei mafiosi (pagando il pizzo), che poi ‘migliorano’ la loro situazione sperimentando patti di complicità (quindi accordi di tipo strumentale), per stringere alla fine un’alleanza più organica. Spesso l’ultimo passaggio – quello che sancisce il legame di collusione – coincide con un salto di qualità della carriera imprenditoriale. In altri termini, gli imprenditori collusi tendono a diventare anche imprenditori ‘di successo’.

L’ultima situazione – quella della compenetrazione – è relativa ai casi in cui si instaurano con i mafiosi relazioni personali di fedeltà, vale a dire quando al rapporto di scambio si associa un processo di identificazione. I soggetti esterni stabiliscono quindi con i mafiosi un rapporto organico, entrando spesso a far parte della struttura dell’organizzazione criminale, condividendone le sorti sia in positivo sia in negativo. Le loro possibilità di affermazione sono connesse ai successi o agli insuccessi della cosca cui sono legati: possono godere di straordinari vantaggi, ma corrono anche più di altri il rischio di subire l’azione degli apparati di contrasto.

L’espansione nelle regioni del Centro e Nord Italia

Se da un lato quello mafioso è sin dalle origini un fenomeno di società locale, in quanto tende a manifestarsi in modo compiuto all’interno di un’area circoscritta, esercitando una qualche forma di dominio (il cosiddetto controllo del territorio), dall’altro i gruppi mafiosi – almeno quelli più strutturati – da sempre si muovono in una dimensione sovralocale, cercando di estendere i propri ambiti di attività non solo con riferimento ai traffici illeciti ma anche rispetto ai contesti di insediamento. La presenza delle organizzazioni mafiose infatti non è omogenea – in termini di densità e di intensità – né all’interno del Mezzogiorno, né nel resto del Paese. Nondimeno, in alcune aree del Centro e Nord Italia la diffusione di gruppi criminali riconducibili alle tre mafie storiche è ormai di lunga data e si è consolidata nel corso del tempo. Negli ultimi anni è tuttavia emerso un ruolo più rilevante dei gruppi di ’ndrangheta e di camorra, a fronte del netto ridimensionamento di quelli appartenenti a ‘cosa nostra’.

Sulla presenza delle mafie nelle regioni del Centro-Nord si ravvisano due opposte tendenze, in verità da sempre molto diffuse quando si discute del fenomeno anche con riferimento alle aree tradizionali: da un lato prevale la minimizzazione, dall’altro predomina l’allarmismo. In un caso si arriva a negare la rilevanza del problema, nell’altro si tende a esagerarne la portata, descrivendo un Nord ormai completamente conquistato dalle mafie. Entrambi gli orientamenti sono fuorvianti, inadeguati non solo a comprendere il fenomeno ma anche ad approntare efficaci strategie di contrasto.

A queste rappresentazioni possono essere affiancati due diversi modelli interpretativi. Uno ritiene che il fenomeno mafioso incontri seri ostacoli a espandersi al di fuori delle aree di genesi storica. L’altro sostiene invece che esso si diffonde con relativa facilità in nuovi territori. La tesi della ‘non esportabilità’ della mafia è stata a lungo dominante, non solo nel dibattito pubblico e politico, ma anche in quello scientifico. Nelle versioni più sofisticate di queste interpretazioni, si asserisce che i gruppi mafiosi avrebbero stringenti vincoli localizzativi, in quanto fortemente dipendenti da specifiche condizioni dell’ambiente di origine (Gambetta 1992). In altri casi, questo tipo di letture ha finito con sovrapporre e confondere lo stesso fenomeno con il suo contesto di riferimento, per es. quando si assume che la mafia può attecchire e svilupparsi solo in una situazione caratterizzata da una pervasiva – tanto diffusa quanto indefinita – ‘mafiosità’.

Al polo opposto troviamo le interpretazioni che vedono la diffusione delle mafie come un processo ‘spontaneo’, sostenuto e animato da una forza intrinseca a questo tipo di criminalità. Sono le analisi che possiamo ricondurre alla tesi del ‘contagio’: in questo caso la mafia è vista come un agente patogeno che si espande senza limiti contaminando nuovi territori. È una tesi che enfatizza la pericolosità del fenomeno, sottolineando che non ci sono aree immuni che possono sfuggire all’infezione, ma che in modo più o meno esplicito presuppone che esso si diffonda al pari di un virus o di un batterio che aggredisce un tessuto fondamentalmente sano (Sciarrone 1998). L’idea sottostante è infatti quella di un fattore maligno, di provenienza esogena, che attacca e infetta un corpo in buona salute. Si trascura invece del tutto che, prendendo in seria considerazione la prospettiva epidemiologica, il contagio non è tanto determinato da un agente infettivo, quanto dal terreno di coltura che permette a quest’ultimo di svilupparsi. Non è tuttavia casuale che le metafore sanitarie siano molto diffuse quando si parla di mafia: molto ricorrente è per es. quella del cancro. Il riferimento è sempre a un elemento esogeno che mette a repentaglio un organismo ben funzionante.

Per certi versi vicina a questa prospettiva è l’idea che la diffusione delle mafie sia una sorta di invasione di una nuova area da parte di specifici attori criminali. Anche in questo caso predomina l’immagine di un agente esterno che invade un territorio e cerca di conquistarlo. In questa prospettiva, tuttavia, il processo espansivo non è attribuito a una trasmissione spontanea o comunque a un contatto con elementi patogeni, ma è considerato l’esito di una strategia intenzionale di occupazione di un nuovo territorio. La tesi del contagio e quella dell’invasione o della conquista hanno però in comune il fatto che la diffusione mafiosa è rappresentata come un’aggressione che proviene dall’esterno nei confronti di un’area che la subisce e ne è vittima, in quanto caratterizzata dall’assenza di efficaci anticorpi o dall’incapacità di valutarne il pericolo e di contrastarlo.

Al di là delle distinzioni sin qui ricostruite, nella spiegazione del fenomeno un aspetto importante è rappresentato dalla diversa rilevanza assegnata ai fattori intenzionali e non intenzionali nel provocare e facilitare l’espansione mafiosa (Mafie del Nord, 2014). Da un lato si enfatizzano i fattori non intenzionali, mostrando come i mafiosi si spostino dalle aree di origine soprattutto per cause non direttamente dipendenti dalla loro volontà: per es., perché perdenti in una guerra di mafia, oppure per sfuggire all’azione repressiva di magistratura o forze dell’ordine, o ancora perché sottoposti a una misura che li costringe a trasferirsi altrove, come accade con l’invio al soggiorno obbligato. Dall’altro si mettono in evidenza le strategie degli attori mafiosi, che esplicitamente e intenzionalmente allargano il loro raggio di azione e si insediano in nuovi territori. Sul primo versante, quello che sottolinea il ruolo dei fattori non intenzionali, l’espansione è ritenuta una sorta di anomalia e si verifica in circostanze eccezionali: ci devono essere ragioni speciali affinché un gruppo mafioso allarghi il proprio raggio di azione, e spesso queste ragioni sono da ricondurre a fattori esterni al sodalizio criminale (Varese 2011). A ben vedere, alcuni fattori non intenzionali possono essere intesi come ‘conseguenze inattese’ di azioni finalizzate ad altri obiettivi, mentre lo spostamento causato dall’azione repressiva delle istituzioni oppure da una guerra con un gruppo criminale rivale può essere visto anche come particolare comportamento adattivo che spinge a ricercare un nuovo ambiente quando quello originario diviene difficile o ostile (Sciarrone 1998, 2009, p. 155 e segg.).

Veniamo così all’altro versante delle spiegazioni della diffusione delle mafie, quello che enfatizza i fattori intenzionali. L’espansione territoriale è vista, in questa prospettiva, come esito di un agire strategico dei mafiosi. In questo ambito prende forma anche l’idea della ‘piovra’, che sul piano analitico è riconducibile all’ipotesi dell’esistenza di una strategia centralizzata di diffusione mafiosa. Una tesi che però non ha riscontri empirici e che non è congruente con le caratteristiche concrete del fenomeno mafioso (p. 152 e segg.). È dunque del tutto irrealistico ipotizzare una sorta di master plan delle cosche mafiose finalizzato alla conquista di nuovi territori. Nondimeno, è importante richiamare l’attenzione sulle strategie che – a seconda delle circostanze – individui, gruppi e organizzazioni mafiose mettono intenzionalmente in atto per estendere il loro campo di influenza o, semplicemente, il loro giro di affari. Lungo questa linea si muovono le analisi che descrivono l’espansione delle mafie in aree non tradizionali in termini di occupazione di nuovi territori. Un’interpretazione che recupera e precisa il concetto di ‘colonizzazione’, ampiamente usato per spiegare i processi espansivi delle mafie (Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia, Relazione sulle risultanze dell’attività del gruppo di lavoro incaricato di svolgere accertamenti su insediamenti e infiltrazioni di soggetti e organizzazioni di tipo mafioso in aree non tradizionali, 1994). Adottando questa ottica, bisogna però evitare il rischio di restare ancorati a una visione ‘mafiocentrica’, in cui è sempre la mafia che decide e agisce, quasi a prescindere da vincoli e opportunità, determinando esiti e situazioni. Dal nostro punto di vista, la colonizzazione va infatti considerata come l’esito di un processo in cui strategie degli attori e fattori di contesto si combinano e influenzano a vicenda. Se invece essa è intesa come strategia di un gruppo mafioso raffigurato al pari di un esercito che conquista un territorio in virtù della sua potenza (militare o economica che sia), la spiegazione finisce per essere simile a quella del contagio, ovvero quella dell’agente esterno che aggredisce un corpo sano, o al più vulnerabile.

Alcune ulteriori varianti di quest’ultimo tipo di interpretazioni sono quelle che descrivono la presenza di insediamenti mafiosi in aree non tradizionali come ‘trapianto’ o ‘clonazione’, presupponendo una replicazione dei modelli originari di azione e di organizzazione dei gruppi criminali nei nuovi contesti di espansione. L’ipotesi sottostante è forte: la mafia si riprodurrebbe in ogni luogo identica a se stessa, conservando di fatto inalterati i suoi tratti distintivi. La prospettiva resta così ancora mafiocentrica e la diffusione viene vista come un processo unidirezionale – perlopiù irreversibile – dalle aree di genesi storica a quelle non tradizionali. Si trascurano invece i rapporti di interdipendenza e di retroazione tra un contesto e l’altro, ma anche il fatto che l’espansione può retrocedere e, in non pochi casi, fallire.

La visione mafiocentrica sfocia nella ben nota tesi secondo la quale ‘tutto è mafia, quindi niente è mafia’. È una visione in cui tutto dipende da ciò che vuole e fa la mafia, rappresentata come attore onnipotente sia nelle aree di insediamento originario sia in quelle di nuova espansione. Una prospettiva che in realtà non aiuta a comprendere i processi di radicamento territoriale delle mafie, né quelli di diffusione. Questi ultimi sono piuttosto il risultato di una rete di causazione, in cui giocano contemporaneamente elementi sia intenzionali sia non intenzionali. A seconda delle circostanze possono prevalere gli uni o gli altri, ma essi si presentano sempre intrecciati e variamente combinati. Enfatizzare soltanto quelli non intenzionali fa perdere di vista la presenza di esplicite strategie di espansione. Viceversa, sottolineare soltanto l’agire strategico dei gruppi mafiosi non consente di tenere presente come questo sia spesso condizionato da effetti imprevisti che derivano da diverse concomitanze di azione e, insieme, dalle caratteristiche dei contesti in cui prendono forma e si dispiegano.

In questa ottica è possibile adottare uno schema analitico che cerca di prendere in esame sia i fattori di agenzia (il comportamento degli attori) sia i fattori di contesto, osservando come interagiscono e si connettono tra loro nel favorire o meno i processi di espansione mafiosa (Mafie del Nord, 2014; Sciarrone, Storti 2014). I fattori di contesto riguardano la struttura di vincoli e di opportunità che può condizionare l’azione dei mafiosi: possono essere distinti con riferimento alla dimensione socioeconomica, a quella culturale-relazionale e a quella politico-istituzionale. Nell’ambito dei fattori di agenzia è possibile individuare quelli intenzionali e quelli non intenzionali, tenendo presenti le competenze e le risorse di cui dispongono i mafiosi, ma anche i meccanismi attraverso cui si attivano nei processi di espansione territoriale, ovvero le reti sociali e la struttura organizzativa che caratterizza i gruppi criminali.

Vediamo più in dettaglio i diversi aspetti dello schema analitico, cominciando dai fattori di contesto. La dimensione socioeconomica richiama innanzitutto l’attenzione sulla posizione geografica e sul profilo demografico dei contesti interessati dalla diffusione di gruppi mafiosi. Come si è detto, la presenza delle mafie è fortemente differenziata sul piano territoriale e i processi di espansione hanno riguardato in primo luogo aree del Mezzogiorno contigue a quelle di genesi storica. L’idea che non ci siano territori immuni dal contatto mafioso è dunque utile per segnalare un rischio che, date alcune circostanze, può diventare concreto, ma non rispecchia la geografia degli effettivi insediamenti mafiosi. È importante piuttosto sottolineare che alcuni contesti sono più vulnerabili di altri. Rilevante è appunto la contiguità territoriale alle aree tradizionali, come mostrano, per es., le vicende relative alla criminalità organizzata presente in Puglia e in Basilicata, ma anche nel basso Lazio. Le modalità di infiltrazione e insediamento sono pertanto eterogenee a livello territoriale. Differenze significative si riscontrano in aree più distanti, per es. tra le regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est. Sembra contare inoltre la dimensione demografica: diverse ricerche hanno evidenziato che rispetto ai grandi centri urbani possono costituire un ambiente più favorevole per le mafie i comuni di medie dimensioni (Sciarrone 1998; Dalla Chiesa, Panzarasa 2012), spesso le città medio-grandi (come accade non solo nelle regioni del Nord, ma anche in quelle del Centro) o adiacenti ad aree metropolitane (come nel caso di Milano e Torino), oppure ancora in posizione strategica per il movimento di merci e persone (è il caso ad esempio dell’estremo Ponente ligure).

I gruppi mafiosi possono essere attratti da contesti caratterizzati da un buon livello di sviluppo e di dinamismo economico, che quindi possono offrire occasioni favorevoli per realizzare investimenti oppure per proporsi nel ruolo tradizionale di protettori e mediatori, cercando di fluidificare e garantire relazioni sociali e transazioni economiche. Al tempo stesso, essi sono in grado di ricavare vantaggi anche da situazioni di crisi economica, per es. offrendo risorse finanziarie a imprenditori con difficoltà di accesso al credito, oppure acquistando attività economiche dissestate o decotte al fine di realizzare operazioni di riciclaggio del denaro sporco. Alcuni settori economici sono più vulnerabili di altri: si tratta prevalentemente di attività sottoposte a forme di regolazione pubblica oppure dei comparti più tradizionali, contraddistinti da un basso livello tecnologico, con una forte presenza di unità produttive di piccola scala, e che richiedono capacità di stare sul territorio, come l’edilizia (A.M. Lavezzi, Economic structure and vulnerability to organised crime: evidence from Sicily, «Global crime», 2008, 9, 3, pp. 198-220). Sono questi gli ambiti in cui i mafiosi riescono a mettere meglio a frutto le loro risorse e competenze, ricavando vantaggi dalla capacità di inserirsi nei meccanismi di intermediazione che connettono mercato, politica e pubblica amministrazione.

Queste stesse risorse e competenze risultano ovviamente adeguate anche rispetto al campo dei traffici illeciti, tenendo presente che in moltissimi casi l’espansione mafiosa in aree non tradizionali prende avvio e si consolida attraverso attività e investimenti nei mercati illegali. Da questo punto di vista è anzi possibile individuare un percorso idealtipico della diffusione mafiosa, che inizia dalla partecipazione a specifiche attività illecite, che poi si estendono e si strutturano anche sul piano organizzativo. A questa fase può subentrare quella in cui i mafiosi offrono protezione per la buona riuscita di transizioni illecite svolte da altri soggetti criminali, ponendosi non solo come garanti delle stesse, ma spesso anche come finanziatori ricevendo in cambio una maggiore percentuale di utili. Un ulteriore importante passaggio avviene quando il loro ruolo è riconosciuto nei circuiti legali dell’economia e della politica, per es. quando gli imprenditori accettano beni e servizi illegali offerti dai mafiosi oppure sono essi stessi a richiederli per ottenere impropri vantaggi competitivi sul mercato. Una situazione che riguarda anche i politici che cercano il sostegno dei mafiosi nelle competizioni elettorali. Prende così forma l’area grigia delle collusioni e delle complicità, che può essere considerata la fase più matura del radicamento mafioso nel territorio.

Per quanto riguarda la dimensione culturale-relazionale, l’espansione mafiosa è più agevole in contesti caratterizzati da legalità debole (La Spina 2005) o, ancor più, dalla presenza esplicita di pratiche illegali, in particolare di scambi corrotti in campo economico e politico (A. Vannucci, Atlante della corruzione, 2012; cfr. anche Sciarrone, Storti 2014). Da questo punto di vista è rilevante la struttura dei ‘costi morali’ assegnati a determinati comportamenti, vale a dire i valori e i criteri di riconoscimento che circolano nelle cerchie sociali delle quali l’individuo fa parte o aspira a far parte, e che comunque sono per lui importanti in termini di identificazione o di orientamento all’azione (A. Pizzorno, La corruzione nel sistema politico, introduzione a Lo scambio occulto. Casi di corruzione politica in Italia, 1992). Le cerchie di riferimento sanciscono quindi il grado di approvazione/disapprovazione di un certo tipo di condotta: un abbassamento dei costi morali può favorire la diffusione di pratiche illegali e di relazioni di collusione. Per es., i legami con i mafiosi potrebbero non essere considerati inappropriati e pertanto non verrebbero sanzionati negativamente dal proprio gruppo di appartenenza. Altri fattori di contesto rilevanti riguardano il grado di attenzione e di reattività della società civile, in particolare la presenza di associazioni che si attivano e mobilitano contro il rischio di infiltrazioni mafiose. L’efficacia di queste ultime, come più in generale di tutta l’azione antimafia, dipende molto dal tipo di rappresentazioni sociali associate al fenomeno, vale a dire da come il problema è costruito socialmente e veicolato nel dibattito pubblico.

Sempre con riferimento al contesto, l’ultima dimensione da prendere in considerazione è quella politico-istituzionale. Data la natura e le specificità del fenomeno mafioso, contano molto gli assetti istituzionali e i processi di regolazione, soprattutto negli ambiti di raccordo tra economia e politica. Elevati livelli di opacità nel funzionamento delle istituzioni, insieme a orientamenti particolaristici nella gestione delle risorse pubbliche, costituiscono per es. ingredienti indispensabili per sviluppare relazioni di collusione e complicità. Rilevanti sono la qualità e le caratteristiche della pubblica amministrazione e del ceto politico locale, il quale frequentemente – anche nelle regioni del Centro-Nord, come documentano numerose inchieste giudiziarie – si è mostrato disponibile a intrecciare scambi occulti in occasione di competizioni elettorali. Cruciale è infine il versante dell’azione di contrasto, vale a dire l’efficacia delle forze dell’ordine e della magistratura.

Illustriamo adesso i principali fattori di agenzia, cominciando da quelli non intenzionali, già precedentemente richiamati. Troviamo innanzitutto i casi in cui i mafiosi lasciano l’area di origine in conseguenza di uno scontro con un gruppo rivale, quando sono perdenti in una guerra di mafia. È importante sottolineare che molto spesso lo spostamento in un altro territorio avviene in chiave difensiva, ovvero è dettato da ragioni di debolezza più che di forza. Si tratta di gruppi criminali che cercano un ambiente più favorevole rispetto a quello originario, dove rischiano di soccombere. Sono altrettanto diffusi i casi in cui singoli mafiosi o gruppi si trasferiscono altrove per sfuggire a una più incisiva azione repressiva da parte delle istituzioni. Una fattispecie di questi casi è stato l’invio al soggiorno obbligato, quando il trasferimento era imposto da una decisione dell’autorità giudiziaria. Si tratta di un tipo di provvedimento che ha suscitato numerose polemiche ed è stato modificato più volte sul piano normativo. In realtà, la sua applicazione è stata caratterizzata da elevati livelli di discrezionalità, in quanto congegnato come un dispositivo generico di tutela dell’ordine pubblico, creando di conseguenza anche una certa confusione sulla sua efficacia. In molti casi, infatti, i soggetti sottoposti a tale misura non sono stati inviati coattivamente in una determinata località: era loro esplicitamente prescritto soltanto il divieto di soggiorno nel luogo di origine, quindi hanno individuato essi stessi la meta di destinazione, tenendo conto spesso dell’esistenza di reti sociali su cui poter contare (Mafie del Nord, 2014). Il soggiorno obbligato non può dunque essere considerato una causa determinante dei processi di espansione mafiosa, al più esso può essere stato un fattore che, in combinazione con altri, ha potuto creare condizioni favorevoli per il loro sviluppo e, soprattutto, il loro consolidamento. Inoltre, a dispetto del nome e se si tiene conto del suo effettivo funzionamento, esso non può essere propriamente collocato nella sfera della non intenzionalità. D’altra parte gli stessi fattori non intenzionali risultano spesso intersecati con quelli intenzionali, ovvero con calcolate strategie di azione. Anche quando lo spostamento dal luogo di origine non è esplicitamente voluto, contano infatti molto le scelte degli attori mafiosi, che non di rado vengono adattate con una certa sapienza alla struttura delle opportunità offerte dal contesto.

Approfondiamo quindi il versante dei fattori intenzionali, che possono rispondere a logiche diverse. In molti casi, l’espansione territoriale è la conseguenza di una strategia economica, innanzitutto quando i mafiosi cercano di allargare il loro raggio di azione nel campo dei traffici illeciti. L’esempio più emblematico è quello del traffico di stupefacenti, ma ancora prima – negli anni Settanta – sono stati molto importanti i sequestri di persona, che per alcuni gruppi criminali hanno svolto una vera e propria funzione di accumulazione originaria di capitali, successivamente investiti in altre attività (Sciarrone 1998). L’ampliamento dei traffici illeciti non implica sempre e necessariamente un nuovo insediamento territoriale. È tuttavia un fattore che, in determinate circostanze, può favorirlo, soprattutto quando i proventi delle attività illegali sono reinvestiti nell’economia legale. Si realizza così il classico circuito che dai mercati illeciti arriva a quelli formalmente leciti. In alcuni casi le aree non tradizionali possono essere utilizzate solo per il riciclaggio di denaro sporco, ovvero per investire i profitti derivanti da attività svolte nel contesto di origine. Negli ultimi anni sono però in forte crescita i casi in cui i mafiosi operano direttamente nella sfera formalmente lecita dell’economia. L’espansione si compie così per via imprenditoriale: coincide per es. con l’estensione di campi di attività già avviate oppure con l’ingresso in nuovi settori economici. Come nelle aree di origine (Alleanze nell’ombra, 2011), anche nelle aree non tradizionali i mafiosi prediligono comunque quegli ambiti in cui hanno sempre svolto la loro attività (Transcrime, Gli investimenti delle mafie, 2013), nei quali possono mettere meglio a frutto le loro competenze e risorse.

È molto frequente che lo spostamento verso altre zone apra opportunità di ‘carriera’ a soggetti che occupano una posizione defilata o di livello inferiore nei ranghi dell’organizzazione criminale. Nelle aree non tradizionali può essere infatti relativamente più facile acquisire uno status più elevato all’interno del gruppo criminale di appartenenza. Molti individui che nelle regioni del Centro-Nord si presentano e vengono riconosciuti come esponenti di vertice di un’organizzazione mafiosa, assai difficilmente avrebbero potuto occupare ruoli apicali nell’area di origine, dovendosi qui confrontare con un numero molto più elevato di concorrenti. La scelta di trasferirsi altrove può dunque far parte di una strategia mirata a elevare il proprio status criminale; si cercano di cogliere opportunità per inserirsi in determinati traffici illeciti, con l’obiettivo non solo di migliorare le proprie condizioni economiche ma anche di incrementare quel tipo di reputazione che permette un’accelerazione della carriera mafiosa. Quest’ultima presenta infatti vincoli e opportunità diversi a seconda del contesto in cui si realizza: in definitiva, le aree di nuova espansione possono offrire possibilità di ascesa della gerarchia criminale a soggetti che in quelle di origine – per caratteristiche personali o per gli assetti di potere consolidati – sarebbero stati destinati probabilmente a restare in posizioni più subordinate (Mafie del Nord, 2014). Dinamiche simili possono riguardare non soltanto i singoli, ma anche interi gruppi mafiosi. È quanto accade, per es., quando il successo conseguito da un clan nel territorio di nuova espansione produce effetti anche negli assetti criminali del contesto di origine, accrescendone il potere e l’influenza in entrambe le aree.

La riuscita delle strategie di espansione dipende ovviamente anche dalle specifiche competenze di illegalità e dalle risorse di capitale sociale che caratterizzano gli elementi di base del profilo di un mafioso: l’uso specializzato della violenza, la capacità di costruire e manipolare relazioni sociali, le tradizionali funzioni di protezione e mediazione, ma anche la disponibilità di risorse finanziarie, l’offerta di servizi illeciti e l’abilità di inserirsi nei meccanismi degli scambi occulti in ambito sia economico sia politico. L’azione dei gruppi mafiosi è a sua volta agevolata e potenziata dall’esistenza di una struttura organizzativa e dalla possibilità di ricorrere a reti sociali di supporto. Come si è visto, la dimensione organizzativa è importante per cementare i legami di appartenenza, incentivare la cooperazione degli affiliati e favorire il coordinamento delle loro attività.

L’esistenza di un rete di traffici illeciti estesa e consolidata può costituire un importante fattore di attrazione, in grado di attivare nelle aree non tradizionali vere e proprie catene migratorie di soggetti criminali. L’insediamento di individui e gruppi mafiosi può essere inoltre favorito dalla presenza pregressa di parenti, amici, compaesani, sodali precedentemente immigrati, che possono svolgere funzioni di intermediazione e mettere a disposizione risorse e informazioni riguardo al contesto di approdo, facilitando l’inserimento economico e sociale dei nuovi arrivati (Sciarrone, Storti 2014). È però opportuno precisare che la crescita della presenza di gruppi mafiosi al Nord non si ravvisa in concomitanza dei grandi flussi degli anni Cinquanta e Sessanta, ma si manifesta soltanto successivamente, negli anni Settanta e Ottanta, quando giungono a maturazione fattori interni alla stessa società settentrionale. Si tratta in particolare, da un lato, dell’importanza che assume il traffico degli stupefacenti, dall’altro, dell’espansione della dimensione finanziaria e speculativa del capitalismo italiano. È allora che si sviluppa la congiunzione tra questo ‘capitalismo d’avventura’ e il capitale accumulato nel traffico di stupefacenti dai gruppi mafiosi (P. Arlacchi, Lo sviluppo della grande criminalità nell’Italia settentrionale negli anni ’70 e ’80: un’ipotesi interpretativa, in Atti del Convegno Mafia e grande criminalità: una questione nazionale, 1983, Torino 1984). Questi ultimi trovano al Nord favorevoli occasioni di investimento, potendosi avvalere di quelle competenze necessarie per valorizzare in tempi brevi la grande quantità di denaro di cui disponevano.

È dunque fuorviante generalizzare, assimilando nei vecchi flussi migratori dal Sud al Nord Italia anche i movimenti di individui e gruppi criminali (Sciarrone 1998; Dalla Chiesa, Panzarasa 2012). Non stupisce tuttavia che vi possano essere punti di contatto tra gli uni e gli altri, in quanto è del tutto plausibile la presenza di soggetti mafiosi all’interno di più ampie catene migratorie o il fatto che essi abbiano seguito gli stessi percorsi cercando di fare affidamento su consolidate reti di accoglienza e sostegno nel nuovo contesto di arrivo. Risultano comunque molto più rilevanti i flussi attivati specificamente da mafiosi che, immigrati per scelta o per necessità, hanno poi richiamato altri soggetti criminali nell’area di nuovo insediamento, costituendo (o ricostituendo) gruppi organizzati dediti ad attività delittuose. In molti casi, i membri di questi gruppi hanno cercato punti di riferimento tra gli immigrati meridionali, non tanto per godere di una sorta di solidarietà ‘etnica’, quanto per accreditarsi come mafiosi ed essere riconosciuti come tali. In sintesi, la correlazione fra percorsi migratori (movimenti di popolazione) e traiettorie criminali (movimenti di mafiosi) non permette di evidenziare un nesso causale lineare e può indurre a una sorta di fallacia ecologica, interpretando erroneamente a livello individuale una relazione osservata tra variabili macro, in questo caso specifico sovradeterminando la rilevanza di una presunta matrice culturale condivisa e trascurando quella delle scelte strategiche degli attori. D’altra parte non è casuale che, nei confronti dei propri compaesani e corregionali immigrati, i mafiosi si siano posti – anzi, in molti casi imposti – come mediatori e protettori, per es. controllando il reclutamento di manodopera in alcuni segmenti del mercato del lavoro (come è accaduto nell’edilizia nelle regioni del Nord-Ovest), accreditandosi sia tra la forza lavoro immigrata sia tra i datori di lavoro autoctoni (Sciarrone 1998; Mafie del Nord, 2014). La loro reputazione è stata così riconosciuta nella società locale, legittimandone il potere e l’influenza in diversi ambiti di azione. Proprio in questo modo, alcuni soggetti si sono consolidati come mafiosi al Nord, dove hanno acquisito le competenze appropriate e le hanno messe adeguatamente in pratica, ottenendo di essere riconosciuti come tali. Altri invece, immigrati al Nord per ragioni diverse, sono diventati mafiosi in un secondo momento, dopo essere stati reclutati e affiliati da un’organizzazione criminale già attiva nel territorio. Altri ancora, infine, sono stati chiamati direttamente dal Sud per ingrossare le fila dei gruppi presenti al Nord: alcuni di questi sono arrivati con una carriera criminale già consolidata alle spalle, altri l’hanno iniziata nel nuovo contesto di arrivo. In definitiva, per espandersi in aree non tradizionali e accrescere la propria consistenza organizzativa un gruppo mafioso non ha bisogno della presenza di un generico e presumibilmente ampio bacino di soggetti immigrati dalla stessa regione di origine, ma di una cerchia ben selezionata di individui che abbiano affinità e disposizioni adeguate per entrare a far parte dell’associazione criminale.

È comunque assai difficile che le mafie siano in grado di replicare pienamente nelle aree di nuova espansione i modelli di organizzazione e di insediamento tipici delle zone di origine. Appare infatti molto diverso il rapporto con il territorio: nelle aree non tradizionali è più complicato sottoporlo a forme pervasive di controllo mafioso, che si ravvisano infatti soltanto in zone circoscritte, interessate da presenze criminali di lunga data. Il controllo del territorio richiede una serie di condizioni e, soprattutto, si costruisce progressivamente nel lungo periodo. È inoltre differente anche il rapporto che i mafiosi – come singoli e come gruppo organizzato – tendono a instaurare con il nuovo contesto di influenza: il riferimento al territorio come criterio di appartenenza è più fluido e flessibile rispetto alle aree di insediamento tradizionale (Mafie del Nord, 2014).

L’espansione mafiosa è dunque un processo multidimensionale, caratterizzato dalla combinazione e interazione di più fattori di natura diversa. Infatti non si sviluppa in modo lineare e unidirezionale: tra Sud e Nord, tra aree di genesi storica delle mafie e aree di nuova espansione, si stabiliscono piuttosto rapporti di interdipendenza e di retroazione. È dunque rilevante tenere presente che la configurazione che assume il fenomeno nelle aree non tradizionali dipende anche dal tipo di legame che si stabilisce con il territorio di provenienza. I gruppi mafiosi possono mantenere connessioni strette e rapporti di dipendenza con le formazioni criminali originarie, ma anche emanciparsi da questi legami e acquisire una sostanziale autonomia. L’espansione può seguire quindi percorsi eterogenei e dare luogo a situazioni differenziate. Un ulteriore caso specifico è quello in cui il fenomeno emerge per via endogena in un territorio precedentemente immune. In termini idealtipici possiamo individuare quattro diversi modelli di insediamento delle mafie nelle aree non tradizionali: infiltrazione, radicamento, imitazione, ibridazione.

L’infiltrazione è l’esito di una presenza sul territorio che segue prevalentemente la logica degli affari. In questo caso è possibile identificare nelle zone di nuova diffusione soltanto alcune dimensioni delle organizzazioni mafiose, che tendono a operare soprattutto nel campo dei traffici illeciti oppure svolgono attività d’impresa formalmente legali circoscritte a determinati ambiti o settori. Il processo più compiuto di espansione è quello della colonizzazione che produce una situazione di radicamento, vale a dire un insediamento stabile e consolidato. In questo caso la mafia ha una presenza di lunga data sul territorio, rivelando gran parte dei suoi tratti distintivi: troviamo infatti in azione anche la logica dell’appartenenza, mentre il potere mafioso acquisisce una qualche forma di visibilità e di riconoscimento, stabilendo legami di collusione e complicità nell’area grigia dell’economia e della politica. Infiltrazione e radicamento non si escludono a vicenda, anzi in un’ottica processuale possiamo considerarli come fasi diverse del processo di espansione: si passa dalla mera presenza di mafiosi in traffici illeciti a un insediamento più stabile nel territorio, fino a processi di radicamento che possono sfociare in forme di controllo di settori di attività economica e di ingerenza nella vita politica locale. L’infiltrazione può quindi essere la fase che precede quella del radicamento, anche se quest’ultimo richiede una serie di condizioni specifiche per svilupparsi.

Gli altri due modelli di insediamento fanno riferimento alla presenza di formazioni mafiose tendenzialmente autonome rispetto alle organizzazioni attive nei contesti originari. Un primo caso è quello dell’imitazione, che si viene a realizzare attraverso processi di isomorfismo e di contraffazione/esibizione di un ‘logo’ mafioso (Gambetta 1992). Questo può accadere quando gruppi criminali autoctoni si dotano di una struttura organizzativa e di un apparato simbolico (per es. rituali di affiliazione), ispirandosi alle mafie tradizionali e, di fatto, imitandole. Da questo punto di vista, è esemplare il caso già ricordato della ‘sacra corona unita’ in Puglia. L’imitazione, oltre a riguardare gruppi autoctoni che riproducono modalità di azione e di organizzazione tipicamente mafiose, può interessare anche gruppi esterni che, pur non avendo un’esplicita caratterizzazione mafiosa, agiscono nel nuovo territorio imitando (e millantando) un’appartenenza mafiosa (Mafie del Nord, 2014).

Tabella 3 Tipi di mafia

L’ultimo modello è quello dell’ibridazione, che individua la situazione in cui un gruppo criminale si emancipa gradualmente dalla matrice originaria e acquisisce autonomia rispetto all’organizzazione di provenienza, valorizzando risorse, competenze e opportunità presenti nel contesto di nuova espansione. In questo caso emerge una vera e propria ‘nuova’ mafia, vale a dire un gruppo criminale che, pur mantenendo elementi di affinità rispetto a quello originario, non può essere considerato una sua diretta emanazione, in quanto se ne distacca progressivamente, adottando un modello autonomo di azione e di organizzazione. Tra la nuova mafia e quella originaria possono sussistere collegamenti e relazioni, che però assumono la forma di rapporti prevalentemente strumentali (affari e scambi di servizi) tra due entità indipendenti, senza cioè dare luogo a una configurazione organizzativa unitaria. Il caso già ricordato di ‘cosa nostra’ americana può essere considerato l’esito di un processo di ibridazione di questo tipo (Lupo 2008).

Per quanto riguarda la geografia degli insediamenti mafiosi nelle regioni centrosettentrionali, la presenza della ’ndrangheta è nettamente predominante in quelle del Nord-Ovest, mentre i clan di camorra sono più attivi in quelle del Centro e del Nord-Est (tab. 3). Tra le due mafie differiscono inoltre i modelli di diffusione: nella mafia calabrese tende a essere privilegiata l’espansione per via organizzativa, mentre nella camorra quella per via imprenditoriale. In quest’ultimo caso prevale infatti la logica degli affari, assecondata dall’orientamento al mercato che tradizionalmente caratterizza i gruppi camorristi.

Appare invece molto più contenuta la presenza nel Centro-Nord di organizzazioni criminali riconducibili a ‘cosa nostra’: la mafia siciliana sconta certamente gli effetti della forte azione repressiva che l’ha duramente colpita negli ultimi due decenni, ovvero subito dopo le stragi dei primi anni Novanta. Essa pare impegnata innanzitutto a difendersi dalle agenzie di contrasto e a cercare di mantenere le posizioni di potere nel territorio di origine, come peraltro testimoniano i ripetuti tentativi di riconfigurare la sua struttura organizzativa e operativa (Direzione nazionale antimafia, Relaziona annuale sulle attività svolte dal Procuratore nazionale antimafia e dalla Direzione nazionale antimafia nonché sulle dinamiche e strategie della criminalità organizzata di tipo mafioso nel periodo 1° luglio 2011-30 giugno 2012, 2012, p. 48). Attualmente la presenza di ‘cosa nostra’ nelle regioni del Centro-Nord sembra dunque ‘residuale’, anche se non mancano singoli e gruppi attivi in territori specifici e coinvolti anche in affari di una certa rilevanza. Non è peraltro da escludere che alcune famiglie possano privilegiare una diffusione di tipo finanziario piuttosto che di tipo territoriale.

Rispetto ai modelli di insediamento, nelle regioni del Nord-Ovest troviamo situazioni che più approssimano il modello del radicamento, mentre nelle altre aree sembra prevalente quello dell’infiltrazione. Peculiare il caso del Lazio, dove sono compresenti diversi modelli di diffusione e insediamento territoriale: infiltrazione e radicamento si combinano infatti anche con processi di ibridazione. Qui sono all’opera, peraltro, gruppi mafiosi di matrice diversa, ma anche formazioni criminali autoctone. In alcune aree, come per es. in Veneto, è possibile individuare anche dei meccanismi di imitazione, attraverso cui alcuni gruppi criminali cercano di accreditarsi e costruire una propria reputazione mafiosa nel nuovo contesto di arrivo (Mafie del Nord, 2014).

Una presenza riconducibile al modello dell’infiltrazione è maggiormente sensibile ai fattori di contesto relativi alla sfera economica, mentre una situazione più simile al radicamento richiede una strategia specificamente orientata a un insediamento stabile nel territorio, quindi chiama in causa anche fattori di tipo culturale, politico e istituzionale. Lo schema d’analisi delineato ha comunque un valore prevalentemente idealtipico. I casi concreti di espansione mafiosa sono infatti contraddistinti da un mix dei quattro tipi descritti, di cui uno risulta verosimilmente prevalente. È inoltre plausibile che la logica dell’inserimento da parte di attori mafiosi in un determinato territorio, combinata con le caratteristiche del contesto, dia luogo a configurazioni che mutano nel corso del tempo. L’iniziale infiltrazione nell’economia legale o illegale può quindi accompagnarsi – in un secondo momento – a un insediamento territoriale più stabile da parte dell’organizzazione mafiosa, assumendo quindi la sembianza del radicamento. Una situazione che a sua volta richiede una maggiore capacità di networking da parte della mafia, ovvero di allacciare rapporti di complicità, scambio e collusione con attori economici e politici. Non si tratta però di un percorso unilaterale ed evoluzionistico: vi sono processi di espansione ormai maturi che non vanno oltre la soglia dell’infiltrazione e casi in cui, dopo una prima fase di successo, l’espansione mafiosa retrocede (Sciarrone, Storti 2014). Uno di questi casi potrebbe essere quello di Bardonecchia in Piemonte, il primo comune del Nord sciolto per infiltrazioni mafiose nel 1995 (Sciarrone 1998), dove la presenza mafiosa sembra aver subito un forte arretramento nell’ultimo periodo, a conferma del fatto che l’espansione non è un fenomeno irreversibile.

È opportuno ribadire, in conclusione, che l’insediamento di un’organizzazione mafiosa in un nuovo territorio raggiunge il suo massimo successo quando si accompagna alla configurazione di un’area grigia di complicità e collusioni in uno o più campi dell’economia, della politica e delle istituzioni. Il potere mafioso trova infatti alimento da relazioni esterne, ovvero ricava da esse la forza e le risorse – materiali e simboliche – per rafforzarsi ed espandersi. Più che il controllo del territorio, è dunque la presenza dell’area grigia che indica la fase di maturità e di consolidamento delle organizzazioni mafiose, non solo nelle aree tradizionali ma anche in quelle non tradizionali. Ed è in questo modo che i mafiosi mettono a frutto e accrescono quelle risorse di capitale sociale che, insieme a un modello organizzativo basato su una combinazione di legami forti e deboli, costituiscono il fondamento della loro forza e della loro straordinaria capacità di riprodursi nel tempo e nello spazio.

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