La laguna e le isole

Storia di Venezia (2002)

La laguna e le isole

Franco Mancuso

La comunità lagunare

Agli inizi degli anni Cinquanta, e per gran parte di quel decennio, la laguna e le isole, insieme con Chioggia e Venezia, presentano ancora vividamente i caratteri e la fisionomia di quella comunità lagunare che nel tempo aveva gradatamente preso corpo e che sembrava ben lungi dal doversi dissolvere. Venezia è all’apice del suo potenziale demografico (174.632 abitanti nel centro storico al censimento del 1951) e costituisce ancora il baricentro dell’intero sistema insediativo.

Le isole abitate — quelle della laguna, a nord di Venezia, Murano, Burano, Mazzorbo, Vignole e S. Erasmo, e quelle del litorale, Lido, S. Pietro in Volta e Pellestrina — contano nel loro insieme circa 38.000 abitanti, il 12% dell’intero comune; 27.000 ne conta Chioggia nella parte storica che si affaccia sulla laguna, e più di 7.000 Cavallino e Treporti. Le cinque isole ospedaliere sono ancora tutte in funzione, e quelle militari ancora presidiate.

I vasti spazi della laguna — 550 ettari nel loro insieme, più di un quinto del territorio su cui si estende la provincia di Venezia — vedono il quotidiano alternarsi delle maree senza ancora il tormento del moto ondoso che di lì a pochi anni comincerà a disgregarne i bordi, costruiti o naturali che siano, o il susseguirsi sempre più frequente delle acque alte, che presto diverrà dominante.

Le isole sono ben collegate da una rete di trasporti acquei anche più ramificata di quanto non sia oggi (linee lagunari fino a Chioggia), gestita dall’Azienda Comunale che nel frattempo sta provvedendo al rinnovo della flotta. Mestre, che ha poco più di 80.000 abitanti, gravita ancora sulla città insulare per molti servizi, ed è collegata a Venezia, attraverso il ponte automobilistico, da una rete ‘ecologica’ — le filovie — che è in grado di fornire una risposta adeguata a un pendolarismo del resto assai contenuto.

La crisi dell’apparato industriale di Venezia insulare non è ancora percepibile in tutta la sua gravità, malgrado le avvisaglie dell’Arsenale. Le prime dismissioni saranno quelle del Mulino Stucky (1954), ma risultano ancora attive molte aziende importanti, come la birreria Dreher, i cantieri C.N.O.M.V. (Cantieri Navali Officine Meccaniche di Venezia) e la Junghans alla Giudecca, la Linetti e la Saffa a Cannaregio, il Cotonificio Veneziano a S. Marta, la Manifattura Tabacchi a S. Croce, le Conterie a Murano. E lo stesso Arsenale, al momento della ripresa postbellica, occupa più di 5.000 addetti.

La Giudecca presenta ancora, più di ogni altra parte della città e della laguna, e per certi aspetti della stessa Murano, dove la tradizione vetraria sembra comunque riprendere quota alimentata da una subitanea ripresa della domanda interna, i caratteri vivi della ‘città industriale’, prima che i manufatti produttivi siano diventati archeologia, come è oggi. Vi sono attive non meno di venti aziende, talune di dimensione ragguardevole, e altre iniziative che da poco vi si erano indirizzate sembrano ancora lungi dal doversene allontanare: come la Scalera Film, rifugiatasi a Venezia negli ultimi anni del conflitto bellico a seguito dell’occupazione tedesca degli omonimi stabilimenti romani, che produrrà nelle sale appositamente costruite dietro il Mulino Stucky importanti opere cinematografiche, richiamandovi registi di grido: Jean Cocteau e Pierre Billon, che nel ’47 vi girano Ruy Blas; Orson Welles, nel ’52 alle prese con Otello; Luchino Visconti, nel ’54 con Senso; David Lean, nello stesso anno, con Summertime(1).

Subito dopo la Giudecca, nella più piccola S. Giorgio, ancora un’isola, la Fondazione Cini si avvia nel ’51 verso quella straordinaria avventura che ne farà nel giro di pochi anni una delle più prestigiose istituzioni culturali della città e del mondo intero.

Mentre poco oltre, in prossimità del Lido, l’ancor più minuscola S. Lazzaro è nuovamente punto di riferimento della nazione armena nel mondo, proseguendo nella propria tradizione culturale con una produzione tipografica ed editoriale in grado di stampare in trentasei lingue e dieci alfabeti diversi, relativi soprattutto all’area mediorientale.

Alla periferia della città insulare il Lido rilancia con efficacia la propria immagine turistica internazionale, emblematicamente rappresentata dalla riappropriazione del Palazzo del Cinema, dopo l’occupazione alleata che aveva costretto le prime manifestazioni postbelliche a rifugiarsi a Venezia (al cinema San Marco frettolosamente riattato nel 1946, e nel cortile di Palazzo Ducale nel 1947). La prima Mostra del cinema lidense del secondo dopoguerra è subito un clamoroso successo, con il Gran premio a Laurence Olivier per Hamlet, e premi internazionali, fra gli altri a Luchino Visconti per La terra trema. Venezia del resto non è da meno, con la contemporanea ripresa del Festival del teatro di prosa, l’Esposizione d’arte ai Giardini di Castello, e il Festival di musica contemporanea alla Fenice.

Fuori, i grandi spazi di acque, barene, terre emerse, canali sono ancora parte integrante di quella stessa comunità lagunare cui partecipano mestieri tradizionalmente poveri — pesca e agricoltura — con le loro varietà tecnologiche e tipologiche sostanzialmente intatte che pervadono fittamente il paesaggio anfibio; testimonianze di una cultura formatasi ed evolutasi nei tempi lunghi della civilizzazione lagunare, appresa e tramandata negli stessi luoghi in cui si era prodotta, e come tale saldamente legata ai caratteri del contesto ambientale.

Sicché, muovendoci lungo gli itinerari acquei che conducono da Murano a Burano e Treporti, da S. Pietro in Volta a Pellestrina e a Chioggia, e lungo i bordi della stessa Venezia, da Castello alla Giudecca, si percepiscono vividamente gli elementi visibili, olfattivi e sonori che compongono l’ancor solida organizzazione formale del paesaggio della pesca. Con la sua molteplicità di tecniche, imbarcazioni e attrezzi perfettamente corrispondenti a usi ritmati sull’alternarsi delle stagioni e sulle differenze dei luoghi, oltre che sulla ricca e molteplice varietà ittica(2).

Sul fronte opposto, Porto Marghera non sembra aver risentito grandemente del passaggio della guerra, almeno sul piano delle distruzioni fisiche, come del resto Venezia e le isole, a differenza di molte altre realtà urbane del paese. Anche se la ripresa produttiva non è facile, per le necessarie riparazioni agli impianti manomessi dai tedeschi in fuga e danneggiati dai bombardamenti aerei del ’44; e soprattutto per la mancanza di materie prime e combustibile, che si accompagna alla disfatta del sistema dei trasporti interni ed esterni all’area industriale e portuale vera e propria. Ma già nel 1949 darà occupazione a oltre 20.000 persone, più che nell’anteguerra(3).

Venezia e il suo intorno sembrano dunque avviarsi sulla strada di un pacato e fruttifero rilancio, non solo di immagine, incrinato unicamente dai primi sintomi di un incipiente dissesto demografico e dalle preoccupazioni per i segnali dell’esodo di importanti attività verso la terraferma. Che non sembra tuttavia ancora traumatico, e anzi per alcuni aspetti perfino salutare, come antidoto al sovraffollamento della città. Il «problema di Venezia» del resto, per come si affaccia alla ribalta del dibattito locale, e presto internazionale, si incentra ancora prevalentemente sull’urgenza del restauro edilizio e sulle modalità degli interventi, con una certa insistenza sulle problematiche dello sviluppo economico e con qualche prima sporadica uscita sui temi della salvaguardia ambientale(4).

Ma arrivano gli anni Sessanta, e l’alluvione del ’66 dà consistenza a un disagio ambientale fino ad allora appena avvertito, dimostrando con i fatti che il dissesto della laguna era già acutissimo.

Il disagio ambientale (la rottura dell’equilibrio)

Venne dunque la grande alluvione del novembre 1966. Una calamità che interessò l’Italia intera, ma che qui assunse dimensioni terrificanti, per un concomitante scatenarsi di acque meteoriche, lagunari e marine che alterò nel breve volgere di dodici ore il ciclo naturale delle maree. Sconvolgendo Venezia, che fu sommersa da 194 centimetri di acqua, e contemporaneamente ogni altro luogo, abitato e non, della laguna. Rompendo le difese dei murazzi in più punti e travolgendo le isole abitate del litorale, costringendo gli abitanti a trovare rifugio sulle imbarcazioni e sui tetti delle abitazioni, e poi all’evacuazione, alla ricerca di un ricovero in caserme, ospedali e scuole. Cancellando le colture tradizionali, gli orti e i frutteti delle isole e dei litorali dove ancora si praticava l’agricoltura.

L’evento fu significativo non tanto per aver messo in luce la responsabilità di singoli specifici interventi nel frattempo attuati o in via di realizzazione nella laguna: un tema sul quale si scontrarono immediatamente studiosi, politici e polemisti(5), e si applicarono centri di ricerca e istituzioni nazionali e internazionali(6); quanto piuttosto per aver posto l’attenzione su un carattere essenziale della laguna stessa, che in quei medesimi anni dimostrava di essere stato obliato: e cioè come la laguna fosse stata da sempre, e come fosse d’ora in poi da considerare, il risultato di uno straordinario equilibrio, sempre sul punto di alterarsi, fra le esigenze dinamiche delle comunità lagunari insediate — Venezia in primo piano — e il concomitante sovrapporsi delle azioni naturali. Un equilibrio evolutivo, un succedersi di stati di equilibrio, che non aveva impedito in passato la realizzazione di grandi opere lagunari: si pensi solo alla diversione dei fiumi, ai tagli, ai murazzi.

Questo equilibrio cominciò a incrinarsi quando i rapporti evolutivi tra ambiente e attività umane assunsero bruscamente i caratteri della discontinuità(7), alimentati, occorre dirlo, da eventi naturali incontrollabili e inattesi; quando esigenze di settore e ragioni di parte — l’urgenza della grande industria, della grande portualità, delle grandi infrastrutture territoriali — prevalsero sulla visione di insieme. L’equilibrio gradatamente si ruppe, e quell’idea di laguna come sistema, ove occorreva sapere che ogni intervento si sarebbe ripercosso secondo mille ramificazioni su tutto l’insieme, quel principio che per secoli aveva guidato le decisioni di governo e orientato le opere realizzatevi, bruscamente si offuscò.

Grandi eventi si compirono in un arco di tempo brevissimo in rapporto ai ritmi secolari della civilizzazione lagunare; soprattutto in quest’ultimo cinquantennio, con un’accelerazione non sopportabile da un sistema ambientale inadatto ai ritmi tumultuosi e alle discontinuità.

L’aggressione della terraferma

Lungo il bordo che separa la laguna dalla terraferma si realizzano fra gli anni Cinquanta e Sessanta interventi imponenti; opere che denunciano l’affermarsi di un modello culturale e gestionale della laguna come ambito adatto e disponibile a ogni sostanziale espansione della terraferma. Il modello aveva avuto una significativa anticipazione negli anni Trenta con Porto Marghera, e con le bonifiche realizzate nella parte più meridionale della laguna (sottobacino di Chioggia) e in misura minore in quella settentrionale (sottobacino di Lido) con la sottrazione concreta di quasi 4.000 ettari di aree barenose divenute terreni agricoli(8).

Nel secondo dopoguerra il disegno espansivo a favore dell’agricoltura gradatamente si arresta (i piccoli interventi di bonifica effettuati fra il ’45 e il ’57 riguardano nel loro insieme poco più di 300 ettari); mentre si profila un sempre più deciso interesse sia per l’espansione della zona industriale di Marghera, sia per la realizzazione di nuove cospicue infrastrutture territoriali.

Il processo riprende infatti con la realizzazione degli interramenti per l’ampliamento della zona industriale di Marghera (fra il 1950 e il 1953) — la cosiddetta seconda zona — che viene estesa fino al limite del naviglio Brenta con la copertura di circa 1.000 ettari di barene (il doppio di quelli che erano stati interessati fra le due guerre per la realizzazione della prima zona)(9).

Negli anni immediatamente successivi (dal ’65 al ’69) iniziano i lavori per l’interramento di nuove aree lagunari, conseguenti al progetto per un’ulteriore espansione in laguna della zona industriale di Marghera. Il piano prevedeva la copertura di 3.000 ettari di barene a sud di Fusina, e contemporaneamente l’escavo di un canale per il collegamento della zona con la bocca di porto di Malamocco. I lavori verranno interrotti nel 1969, ma nel frattempo viene realizzato l’interramento di quasi 1.300 ettari di barene, suddivisi in quattro casse di colmata, interessando il fronte verso la laguna dell’area prevista dal progetto del ’65 e interferendo quindi negativamente sull’interscambio fra la laguna viva e gli specchi d’acqua e le barene poste nell’area retrostante (cioè verso la terraferma).

Qualche anno prima si era posto mano alla realizzazione dell’aeroporto Marco Polo a Tessera, con l’interramento di 250 ettari di barene sul margine lagunare del canale Oselino. Quasi contemporaneamente la nuova strada Romea (da Marghera a Chioggia), realizzata dall’amministrazione provinciale di Venezia fra il 1965 e il 1968, viene proposta nel tratto meridionale con un nuovo tracciato che, attraversata l’area bonificata, irrompe bruscamente nel bacino lagunare con un terrapieno che emargina sostanzialmente una porzione di quasi 1.000 ettari di barene e specchi d’acqua.

Nell’insieme gli interramenti eseguiti lungo la gronda lagunare, sottraendo barene, acque e aree comunque comprese nel bacino di espansione della marea, interessano una superficie di 2.700 ettari (si consideri, per avere un’idea della loro entità, che Venezia, comprese Giudecca e S. Elena, ne interessa meno di 700).

Le modificazioni interne

Il processo espansivo della terraferma verso la laguna viene sostanzialmente fermato nel 1973, con l’emanazione della legge 171(10). Ma le conseguenze di altri fenomeni aggressivi subito si profilano sull’orizzonte della compagine lagunare, accomunati a effetti oramai manifestamente erosivi della sua fisicità. Occorre infatti ricordare che agli interramenti realizzati lungo la gronda corrispondono cospicue escavazioni per la realizzazione dei canali industriali, con ingenti alterazioni del fondo lagunare: 7.000 metri cubi dragati per i canali della seconda zona industriale, e ben 25.000 per il canale cosiddetto «dei petroli» (un canale lungo 18 chilometri, largo da 60 a 100 metri, con una profondità intorno ai 15 metri).

All’alterazione dei fondali, estesa alle aree contigue ai canali di grande navigazione, si somma l’erosione dei bordi, diffusa invece nei canali minori, conseguente all’aumento del traffico lagunare motorizzato indotto dall’espansione improvvisa e concomitante del turismo di massa e del tempo libero: un traffico ramificato, che interessa la laguna nel suo insieme e che si insinua nei canali minori, prodotto sia dai grandi battelli privati per il trasporto dei turisti da Venezia alle isole della laguna nord, o da e per l’aeroporto, sia dai piccoli ma veloci motoscafi e barchini delle giornate domenicali e festive che il sopraggiunto benessere induce a trascorrere alla scoperta dei più reconditi recessi lagunari.

È un traffico che si svolge oramai per una buona parte dell’anno, producendo un moto ondoso sempre più incontrollato che svolge un’azione disgregativa delle sponde tradizionalmente non arginate dei canali e degli specchi d’acqua lagunari. Energie del tutto sconosciute ai secolari dinamismi lagunari vengono repentinamente scaricate, con sempre maggior intensità e frequenza, lungo i bordi delle aree più fragili, dissolvendo fisicamente ciò che resta delle barene che delimitano i canali che collegano le isole, e queste con la terraferma, o che attraversano i grandi spazi acquei soprattutto della laguna nord(11).

Meno traumatico per la laguna nel suo insieme, perché sostanzialmente concentrato nei canali di grande navigazione e nelle aree a essi contermini, l’impatto esercitato dal traffico indotto dallo sviluppo portuale-industriale: anche se a esso consegue un sempre più intenso attraversamento del bacino lagunare da parte di navi di grande dimensione, al quale si somma quello del traffico crocieristico, in costante ascesa nell’ultimo decennio.

Il numero delle navi che toccano il porto di Venezia in cinquant’anni è più che raddoppiato; ma nel contempo è più che quadruplicata la stazza media dei natanti, con forte incremento di quelli adibiti al trasporto dei prodotti petroliferi, diretti verso il porto di S. Leonardo, la darsena realizzata lungo il canale dei petroli dove sostano le grandi navi per il trasferimento del greggio a Marghera e, mediante oleodotto, alle raffinerie di Mantova. Con il conseguente fortissimo incremento del rischio ambientale cui la laguna è sottoposta(12).

All’erosione delle sponde si assomma quella dei fondali. Ma qui le ragioni sono diverse, ancorché cronologicamente corrispondenti al repentino balzo in avanti del traffico motorizzato. Nel 1983, nell’ambito delle iniziative condotte dal Consorzio per lo sviluppo della pesca e dell’acquicoltura del Veneto, viene introdotta in laguna una particolare specie di vongola (Tapes Philippinarium), che dimostra immediatamente di potervisi acclimatare e proliferare con grande velocità e resistenza. Nel giro di pochissimi anni questo minuscolo bivalve, ricercatissimo prodotto alimentare, sconvolge il tradizionale rapporto della pesca lagunare con il proprio ambiente. Moderni armamentari per la raccolta intensiva dei nuovi abitatori del fondo di canali e specchi d’acqua lagunari — rasche, rusche, draghe vibranti, turbosoffianti — installati su 600 barchini condotti da più di 2.000 raccoglitori — metà dei quali abusivi — danno avvio a una sistematica subitanea — e lucrosissima — campagna di aratura dei fondali lagunari. L’incisione dei fondali per una profondità di non meno di 15 centimetri provoca la trasformazione della granulometria e il disturbo di tutte le comunità animali e vegetali; ma soprattutto la sollevazione e la dispersione in mare, attraverso le correnti di marea, di enormi quantità di sedimenti.

La conseguenza è che per la cattura dei molluschi è stato disperso in mare negli ultimi quindici anni, in media, un milione di metri cubi di sedimenti all’anno: una quantità pari alla somma di quelli perduti per altre cause attraverso le bocche di porto e di quelli dragati dai canali industriali e di grande navigazione(13).

Dunque, sempre più mare all’interno del perimetro lagunare. Un processo al quale hanno concorso pesantemente due ulteriori concomitanti fenomeni, che hanno origini diverse, ma che si sono affiancati ripercuotendosi pesantemente sulle trasformazioni fisiche che la laguna ha subito in questi ultimi cinquant’anni: subsidenza ed eustatismo, ovvero abbassamento del suolo e innalzamento del livello del mare.

Tutte le rilevazioni effettuate concordano nella stima di un progressivo aumento della differenza di livello fra suolo e mare, che ha portato Venezia, le isole che la circondano e le terre emerse della laguna a una quota più bassa di 24 centimetri, rispetto al livello del mare, di quanto non fosse all’inizio del XX secolo(14).

Emerge ancora una volta la responsabilità della terraferma, considerato che uno dei due fenomeni — l’abbassamento del suolo — ha visto a partire dagli anni Cinquanta una progressiva accentuazione, in concomitanza dell’altrettanto progressivo diffondersi dell’emungimento di acque dal sottosuolo, connesso ai fabbisogni degli impianti industriali. Ai quali va anche ascritta una grande responsabilità per l’inquinamento lagunare. Occorre infatti ricordare che tra il 1950 e il 1970 le industrie di Porto Marghera (stabilimenti chimici e siderurgici) hanno riversato direttamente in laguna i residui delle loro lavorazioni, e che nella stessa laguna si riversano a tutt’oggi gli scarichi di un bacino «scolante» che comprende parte delle province di Venezia, Padova e Treviso, al cui interno la popolazione residente — 1.400.000 persone — è più che raddoppiata in questa seconda metà di secolo; oltre a essersi intensamente sviluppata un’industrializzazione diffusa, e modernizzata l’agricoltura con l’impiego di concimi chimici.

Ma il quadro deve essere completato citando il contributo inquinante delle non poche discariche lagunari, ora abbandonate, ma intensamente utilizzate fino agli anni Settanta, e, se pure di minore impatto, quello degli scarichi urbani (Venezia e isole abitate) resi più aggressivi per la trasformazione delle caratteristiche dei reflui (e quantitativamente per lo sviluppo del carico antropico costituito dalle presenze turistiche). Con il risultato, fra gli altri, di aver contribuito alla contrazione della pesca tradizionale, resa sempre più difficile dall’eutrofizzazione delle acque(15) e di aver determinato la scomparsa delle fanerogame, privando la laguna di una pianta acquatica caratterizzata dalla presenza di radici che, infiltrandosi nei fondali, ne aumentano la consistenza opponendosi all’erosione.

La laguna si ritrova dunque, dopo cinquant’anni di azioni dissennate, con una forte riduzione del bacino espansivo della marea, con 60.000.000 di tonnellate di sedimenti persi in mare, con la scomparsa di 3.000 ettari di barene e con un aumento dei fondali lagunari pari a 35 centimetri. È una laguna che oppone sempre meno resistenza al mare, che anzi rischia di divenire null’altro che un piatto tratto di mare, perdendo ogni suo specifico connotato ambientale; uno spazio solcato da migliaia di natanti che nulla più hanno a che fare, per forme, materiali e sistemi di propulsione, con quelli che nel tempo la laguna stessa aveva generato, in una straordinaria varietà tipologica corrispondente alle diverse peculiarità d’uso e di contesto. Dove la marea, con sempre maggior frequenza, rischia di sommergere tutto ciò che incontra.

Le isole abbandonate (un patrimonio perduto)

Al crescente manifestarsi del disagio ambientale si affianca un fenomeno tutto interno alla compagine lagunare: la rarefazione delle funzioni specializzate di molte delle isole e la dismissione progressiva di importanti attività, conseguenti fondamentalmente alla disgregazione del sistema ospedaliero ospitato nelle isole più prossime a Venezia e alla progressiva smilitarizzazione delle postazioni lagunari.

Gli eventi che lo caratterizzano si susseguono lungo un arco di almeno quarant’anni — l’ultima dismissione in ordine di tempo riguarda l’isola de La Grazia, sede dell’ospedale specializzato per malattie infettive chiuso nel 1999 —, ma ogni volta sembrano ripresentarsi, salvo poche eccezioni, le medesime circostanze. Il mancato riuso delle compagini abbandonate genera infatti il degrado fisico delle isole, conseguente all’abbandono degli edifici, delle aree e delle sponde, aiutato dalla spoliazione efferata di arredi e materiali da costruzione(16).

Si interrompe allo stesso tempo il flusso delle interrelazioni che si erano istituite fra isole e città; si pensi solo al movimento delle persone che quotidianamente raggiungevano le isole ospedaliere, da Venezia e dalla terraferma, quando i ricoverati, intorno agli anni Sessanta, erano non meno di 2.500 e gli addetti più di un migliaio. Per non parlare delle attività legate alla manutenzione di edifici, strutture e attrezzature  e all’approvvigionamento sanitario; o a quello alimentare, anche se parzialmente temperato dalla produzione per il consumo interno presente nelle vaste aree agricole insulari (a Sacca Sessola, a S. Clemente e a La Grazia).

La disgregazione dell’arcipelago ospedaliero

La laguna era venuta ospitando un sistema decentrato di funzioni ospedaliere che, se pure criticabile a posteriori per un isolamento dalla città perseguito, piuttosto che inevitabile, aveva tuttavia raggiunto livelli elevati di intrinseca efficienza(17).

Una fitta rete di relazioni legava l’arcipelago ospedaliero con la città, emblematicamente rappresentata dal fatto che le principali strutture — S. Servolo, S. Clemente, Sacca Sessola, La Grazia — erano state servite fin dagli anni Trenta da un’apposita linea dei trasporti pubblici lagunari, con capolinea a S. Zaccaria e quindi con facili interscambi con le principali linee cittadine.

Il processo delle dismissioni inizia con Poveglia, la più decentrata rispetto a Venezia: l’ultima delle funzioni ospitate — convalescenziario per lungodegenti dell’Ospedale al Mare, dopo aver servito fino ai primi anni del dopoguerra come stazione sanitaria per la quarantena di passeggeri ed equipaggi provenienti da piroscafi contagiati — viene abbandonata nel 1968. Dieci anni dopo è la volta di Sacca Sessola e di S. Servolo, due fra le più consistenti presenze ospedaliere della laguna (ospedale pneumatologico la prima, psichiatrico la seconda).

Diversissime le storie, così come i processi di formazione. Relativamente recente Sacca Sessola, e però la più estesa delle isole ospedaliere (156 ettari), è debitrice a Venezia della modernizzazione produttiva e infrastrutturale dell’ultimo trentennio dell’Ottocento: si forma infatti nella seconda metà del secolo scorso con il deposito di materiali risultanti dagli scavi per la costruzione della Stazione marittima e viene destinata a deposito carbonifero, poi petrolifero. Ospita fin dagli inizi degli anni Dieci alcune strutture per la cura della tubercolosi (Ospedale S. Marco), ma vede la sua immagine riproporsi con tutta evidenza nella prima metà degli anni Trenta, quando viene realizzato il grande manufatto dell’Ospedale pneumatologico De Giovanni, inaugurato nel 1936. Nel frattempo era venuta assumendo una struttura insediativa complessa: al momento della sua dismissione appariva come una vera microcittà, con padiglioni per 600 posti letto, servizi e alloggi per il personale, una chiesa e un cinema, un parco con viali e giardini di quasi 10 ettari, cavane per il rimessaggio dei natanti, terreni coltivabili e un’azienda agricola in grado di assicurare la produzione di generi ortofrutticoli e di allevamento per una quota del consumo interno.

Concepita come ospedale di lunga degenza per malati tubercolari, inizia a perdere questa sua specifica funzione alla fine degli anni Quaranta, per l’impiego degli antibiotici nel trattamento delle malattie polmonari. Al momento della chiusura (1978) vi erano ricoverati ancora 300 pazienti, trasferiti all’Ospedale Civile di Venezia e nel sanatorio di Vittorio Veneto, o in altri ospedali della regione. L’ente ospedaliero abbandona l’isola nel 1980, e da allora si susseguono varie ipotesi di riuso: C.T.S. (Centro Turistico Studentesco, 1980); Centro Internazionale per l’Ambiente (con un’intesa fra Università di Ca’ Foscari e Università di California, 1984); Centro Studi di Scienze e Tecnologie Marine (Unesco/Unido, 1992). Ma nulla di concreto accade: nel 1999 fallisce l’asta indetta dalla U.L.S.S. (Unità Locale Socio Sanitaria) per la vendita (vi partecipa una sola società), e la salvaguardia dell’isola è ancora affidata alla solerzia di una famiglia di guardiani, che vi abita stabilmente. Fino all’acquisto, recentissimo, da parte di un gruppo turistico-immobiliare.

La dismissione de La Grazia, l’isola ospedaliera più vicina a Venezia, subito dietro alla Giudecca, è l’ultima in ordine di tempo (1999) fra quelle che interessano l’arcipelago veneziano. La sua vicenda si ricollega a quella di Sacca Sessola, anche se l’insediamento ha storia e origini assai più complesse. La Grazia inizia infatti anch’essa il suo percorso sanitario all’inizio del Novecento, come struttura destinata a ospitare persone affette da tubercolosi. Ma già nel ’14 si opta per un loro trasferimento a Sacca Sessola, dopo l’adattamento di alcuni dei manufatti dell’originario deposito.

Pochi anni dopo assume la configurazione di reparto per le malattie infettive, fino a quando, nel ’24, il Comune di Venezia cede l’isola agli Ospedali Riuniti. Ospita presto un numero rilevante di degenti (fino a 700 persone), con continui ammodernamenti delle strutture e delle attrezzature, e nel ’52 vi si apre un reparto all’avanguardia per la cura delle persone affette da poliomielite. Vi si curano il tifo e molte altre malattie infettive, registrando in anni più recenti un cambiamento del tipo di degenza, in rapporto alla progressiva diminuzione di quei tipi di malattia e all’insorgere di altre, come le epatiti e l’AIDS. Ciò che porta alla costruzione negli anni Ottanta di un reparto specializzato per accogliere persone affette da malattie infettive gravi e ad alta contagiosità. Ma la gestione di un complesso ospedaliero specializzato isolato dai servizi generali non appare più sostenibile, pur a fronte degli investimenti effettuati per l’ammodernamento delle strutture di cura e assistenza.

Al momento della sua dismissione il complesso presentava i caratteri di una struttura edilizia orizzontale costituita da edifici recenti e in buone condizioni, immersa nel verde, dotata di un comodo approdo per i mezzi dell’A.C.T.V. (Azienda Consorzio Trasporti Veneziano), ricca di orti e giardini nella parte orientale dell’isola; ma nulla era dato di riconoscervi della compagine conventuale seicentesca, succedutasi alle precedenti, spazzata via, dopo la distruzione della chiesa (1810), dallo scoppio della polveriera napoleonica (1849). Dal 1999 La Grazia è considerata come un bene cedibile dall’U.L.S.S. Da quello stesso anno è interrotto il collegamento acqueo con la rete dei trasporti pubblici.

Di più antico spessore storico la vicenda di S. Servolo; anche se territorialmente meno esteso (48 ettari), il complesso presentava ancora, al momento della dismissione, i caratteri dell’isola-convento, pur fortemente alterati dalle edificazioni susseguitesi a partire dalla metà del secolo XVIII: tuttavia ancora ben segnalati dall’emergenza dei due campanili e del volume della chiesa settecentesca, e dalla cortina del muro in mattoni lungo il perimetro dell’isola.

Struttura articolata e complessa, con un grande spazio non edificato, cresciuta per addizioni successive rispetto al nucleo settecentesco, S. Servolo è ospedale militare fin dal 1716, gestito dai Fatebenefratelli. Assume gradatamente la propria connotazione di manicomio a partire dal 1793, e definitivamente dal 1804, quando diviene centro manicomiale delle Provincie Venete. Destinazione che subito si rafforza, estendendo territorialmente il suo raggio d’azione come manicomio centrale per uomini e donne anche di Dalmazia e Tirolo. Complesso di vaste dimensioni (nel 1815 risultano esservi ricoverati 310 uomini e 260 donne), l’isola verrà raddoppiata in superficie nel 1825 e rimarrà per oltre cento anni l’unico manicomio di tutto il Veneto; sempre sovraffollato, tanto che nel 1873 si deciderà di trasferire le donne a S. Clemente(18).

Il dibattito sulla sua chiusura si avvia fin dalla fine degli anni Sessanta, alimentato dalla entrata in vigore della legge Mariotti (1968), ipotizzandone il riutilizzo da parte di fondazioni, università italiane e straniere, centri di studio, con possibilità di accogliere un turismo stagionale. I continui lavori susseguitisi dal 1940 al 1970 avevano del resto garantito una buona conservazione sia delle strutture edilizie che degli spazi aperti, tanto che la Provincia avvia subito — caso unico fra quelli considerati — le iniziative per insediarvi nuove attività. Nel 1968, dismessa la funzione manicomiale con il trasferimento dei ricoverati a Marocco (Mestre), Mogliano Veneto e S. Clemente, istituisce la Fondazione S. Servolo, «Istituto per le Ricerche e gli Studi sull’Emarginazione Sociale e Culturale». Avvia contestualmente un progetto per il restauro degli edifici e per il riuso dell’isola, accogliendo dapprima una scuola per la formazione di artigiani specializzati nella conservazione del patrimonio storico-architettonico e, dal 1994, la V.I.U. (Venice International University), un’istituzione cui partecipano i due atenei veneziani e università straniere, che vi organizza corsi e seminari di prestigio internazionale.

A differenza di quanto avviene per S. Servolo, S. Clemente, chiuso solo nel 1992, diventa immediatamente terra di nessuno, e subito preda di una sistematica dilapidazione. S. Clemente nasce come stabilimento manicomiale per porre rimedio al sovraffollamento di S. Servolo e per risolvere il problema della promiscuità dei sessi, ritenuta intollerabile. Scartata a metà Ottocento l’ipotesi di un decentramento in terraferma, e dopo soluzioni precarie e provvisorie in città, viene accettata la proposta di utilizzare l’isola di S. Clemente (1855), ritenuta la soluzione più appropriata. L’estensore della proposta, dopo aver visitato i più importanti manicomi d’Europa, lo aveva esplicitamente motivato:

Gli asili destinati a procurare la guarigione degli alienati sono ordinariamente fuori città, tanto per economiche considerazioni di primitive istituzioni e di mantenimento, quanto pelle vantaggiose condizioni di salubrità, d’estensione e di isolamento(19).

Dunque, un’altra isola, S. Clemente appunto, che viene riedificata ex novo abbattendo (con l’eccezione della chiesa) ciò che vi rimaneva dell’antico convento già agostiniano, camaldolese e quindi eremitano, e raddoppiata in superficie per ricavarne giardini e orti destinati alla produzione per il consumo interno. Al momento della dismissione (1997) si presentava quindi con un nucleo densamente edificato, compatto e serrato nella porzione nordorientale dell’isola, con ampi spazi scoperti sul fronte opposto frutto degli interramenti effettuati intorno al 1860.

Con la sua chiusura si conclude quel drammatico itinerario che, iniziato in pieno clima illuministico con S. Servolo, aveva visto negli anni Sessanta l’impegno della psichiatria più avanzata contro metodi di cura basati sulla segregazione, massimamente ed esplicitamente rappresentati appunto a Venezia dalle «isole della follia»(20). Ma che aveva anche tentato, proprio qui a S. Clemente, una strada non convenzionale, alimentata dalla convinzione che l’applicazione dei principi di un auspicato rinnovamento terapeutico — «la malattia mentale nasce dalla comunità, e lì va curata» — non dovessero comportare la smobilitazione tout court delle strutture manicomiali, quanto piuttosto una loro radicale trasformazione, ramificandosi nel territorio con tutti i prolungamenti atti a reinserire il malato nella comunità.

Lo si era tentato a S. Clemente tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli anni Ottanta da parte di un gruppo sparuto di operatori non a caso legati all’esperienza di Franco Basaglia, decisi a rimanere all’interno dell’ospedale. Muovendosi su più livelli, come scrive Domenico Casagrande, uno dei protagonisti di quella straordinaria stagione:

La comunicazione all’interno è facilitata dall’apertura di un centro sociale, di un ristorante ad uso interno, dalla nascita di Radio S. Clemente. L’ergoterapia viene sostituita dalla organizzazione del lavoro rappresentata dalla cooperativa Libertà. Si intensificano i rapporti con l’esterno, gli ospiti escono in città e si riappropriano di luoghi del loro passato, più o meno recente, frequentando una scuola popolare di rialfabetizzazione o le 150 ore per ottenere un diploma di scuola media; inoltre partecipano a spettacoli esterni o si allestiscono spettacoli all’interno, con la partecipazione della cittadinanza. Nasce la figura dell’infermiere giornaliero. Si aprono spazi personalizzati per i pazienti, sono abolite le richieste di permesso per uscire dal reparto, si possono scrivere e ricevere lettere senza censura, vengono installate cabine per telefoni pubblici. Tutti hanno la possibilità di un proprio armadietto, da vecchi reparti si ricavano alcuni appartamentini e per alcuni si realizza la possibilità di una propria cameretta. L’isola manicomio crea percorsi di vita; lo spazio ospedale psichiatrico riacquista una funzione di cura, da cui scaturiscono percorsi che rompono l’isolamento e che tendono a sfociare in una integrazione nel territorio(21).

L’operazione sembra potersi affermare, e nel 1980 l’amministrazione provinciale pubblica uno studio comprendente un progetto per il riuso dell’isola orientato a questi principi. Scrive Franca Ongaro Basaglia nella presentazione del progetto(22):

Non si tratta di una ipotesi velleitaria e artificiosa di ristrutturazione dell’isola, una volta svuotata di quello che troppo velocemente viene chiamato il residuo manicomiale, quanto di un intervento, che, tenendo conto del persistere del manicomio, e volendo proprio in esso incidere, tende ad accerchiarlo frantumandone la compattezza e l’impenetrabilità attraverso la presenza di attività urbane capaci di attrarre nell’isola un’utenza diversa da quella manicomiale.

Ma nulla si è più fatto di quell’auspicato indispensabile riuso. L’ospedale psichiatrico di S. Clemente chiude il 22 aprile 1992, e l’isola diviene preda di un dilapidamento più efferato di quanto, nel cuore degli anni Novanta, si fosse potuto minimamente immaginare.

Si infittiscono è vero, in quest’ultimo scorcio di secolo, progetti e ipotesi di riuso: per la stessa isola di S. Clemente, acquistata recentemente da un gruppo immobiliare già operante a Venezia per crearvi un grande centro turistico-alberghiero; per Sacca Sessola, anch’essa recentemente acquistata dalla C.I.T. (Compagnia Italiana Turismo) per realizzarvi un centro turistico-congressuale, con il recupero degli edifici, il restauro del parco, e strutture ricettive e per la ricerca; e per Poveglia, ancora di proprietà del demanio, con un progetto elaborato dal C.T.S. per accogliervi un polo turistico-ricettivo di risonanza internazionale, con strutture di servizio, oltre che di accoglienza, e la riqualificazione del verde e degli edifici esistenti.

Prevale dunque la privatizzazione, mentre il turismo appare come l’ineluttabile prospettiva, presentandosi con modelli di riuso sostanzialmente ripetitivi. Delle cinque isole ospedaliere abbandonate, solo per S. Servolo si è realizzato un progetto di riciclo concreto e appropriato. L’«invito alle isole», lanciato dall’assessorato all’urbanistica del Comune di Venezia nel 1984, al di là degli immediati consensi, non sembra aver ancora generato interventi concreti(23).

La smilitarizzazione della laguna

Alla dismissione delle attività ospedaliere si affianca il progressivo abbandono delle postazioni militari che nel tempo si erano venute consolidando nella laguna.

Alla fine della guerra l’apparato difensivo lagunare appariva imponente, quanto oramai pressoché inutile: poteva contare infatti su un centinaio di punti fortificati e presidiati, di cui almeno sessanta all’interno della laguna(24), avendo gradatamente assunto la consistenza della più grande piazzaforte militare che l’Italia avesse mai avuto (insieme a Roma e Verona).

Il sistema ereditato dalla Repubblica di Venezia, costituito dai cinque forti posti a guardia delle bocche di porto — due al Lido (S. Andrea e S. Nicolò), due a Malamocco (Alberoni e S. Pietro in Volta), e uno a Chioggia (S. Felice) — da quello interno di Brondolo (S. Michele) e dai 5 ottagoni lagunari (Caroman, S. Pietro in Volta, Alberoni, Campana e Poveglia), si era venuto infatti rafforzando sia con la trasformazione napoleonica in polveriere di quasi tutte le isole conventuali (1806), sia con la realizzazione di nuove opere lungo la gronda e sui litorali (la cosiddetta torre di Massimiliano a S. Erasmo, il Forte di Tre Porti, il Forte di Malamocco, il ridotto di S. Nicolò, le otto batterie di laguna; oltre a Forte Marghera e ai forti di terraferma).

Una rete così capillare non aveva evidentemente più alcuna necessità difensiva, né logistica. Inizia così la fase delle dismissioni, sostanzialmente alimentata dalla progressiva perdita di importanza delle funzioni difensive nell’alto Adriatico, segnatamente a Venezia, al mutare delle condizioni geopolitiche generali. È un processo che si muove al di fuori di un disegno di insieme, e che non si è a tutt’oggi ancora concluso. Vi si possono riconoscere tuttavia alcune modalità, con ripercussioni di volta in volta significative sul destino delle isole abbandonate.

La prima di queste modalità si caratterizza attraverso la cessione a privati, fra gli anni Cinquanta e Sessanta, di alcune isole minori: il ridotto di Crevan, l’ottagono di Alberoni, le batterie di Trezze, Tessera, Carbonera, Buel del Lovo. È l’operazione che garantisce il più delle volte la sopravvivenza delle strutture, sia per il dispiego di investimenti, talvolta anche significativi, che i proprietari ripetutamente vi indirizzano per assicurar loro le necessarie manutenzioni, sia per il presidio che le garantisce dai rischi di spoliazione. Come per il ridotto di Crevan. Ma non per Madonna del Monte, che giorno dopo giorno si avvia a un lento e inesorabile disfacimento.

Una seconda modalità, più o meno corrispondente alla medesima fase storica della precedente, vede il repentino abbandono delle strutture: S. Angelo della Polvere, deposito di munizioni, nel 1955; Madonna del Monte, deposito di polveri, nel 1958; S. Spirito e S. Giacomo in Paludo, depositi di munizioni, nel 1967. Lo stesso accade per S. Secondo e S. Giorgio in Alga, che risultavano però non più utilizzate per scopi militari già dagli inizi del secolo.

Alcune restano di proprietà del demanio, come S. Angelo della Polvere, S. Giacomo in Paludo e gli ottagoni di Ca’ Roman e S. Pietro; altre vengono cedute al Comune di Venezia, come S. Spirito e S. Giorgio in Alga(25): ma per tutte il mancato presidio e l’assenza degli interventi di manutenzione, che la presenza militare in qualche modo garantiva, portano a un graduale disfacimento degli edifici e delle opere di conterminazione, oltre che all’interramento dei canali di accesso. Un’azione che viene accelerata dalla progressiva dilapidazione da parte di chiunque fosse interessato a utilizzare i materiali edilizi — tegole, mattoni, elementi in pietra, travi in legno, ma anche talvolta preziose vere da pozzo e importanti apparati decorativi — di cui i manufatti erano ricchi.

Una terza modalità vede la presenza di associazioni che operano in regime di volontariato, e che fortunosamente approfittano delle dismissioni per utilizzare le strutture abbandonate, garantendone la sopravvivenza attraverso azioni di presidio ed essenziali interventi di manutenzione. È il caso dei due ex Lazzaretti e del Forte di Mazzorbo.

Il Lazzaretto Nuovo, utilizzato negli ultimi tempi come deposito di munizioni, viene abbandonato nel 1975; è dato però in concessione, pur rimanendo in proprietà del demanio dello Stato, a un’associazione che opera in regime di volontariato — l’Ekos Club — che provvede agli essenziali interventi di manutenzione, assicurandovi un servizio di sorveglianza. Alla quale dieci anni dopo si affianca l’Archeoclub, che utilizza l’isola come base d’appoggio per le proprie attività, dedite prevalentemente all’esplorazione dell’archeologia lagunare, organizzandovi campi di studio di livello internazionale in collaborazione con la Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici di Venezia e la Soprintendenza archeologica del Veneto(26).

Al momento dell’abbandono (1975) presentava ancora ben conservato il muro di cinta in mattoni, vero palinsesto di antiche tecniche murarie lagunari, e, insieme a edifici minori, il grande manufatto cinquecentesco del cosiddetto «Teson Grando»(27). Che presto vedrà un provvidenziale intervento di restauro da parte della Soprintendenza, sostenuto da un finanziamento europeo; mentre sull’isola, più recentemente (1998) sono stati avviati dal magistrato alle Acque alcuni interventi per la ricostruzione delle sponde e il miglioramento dell’accesso (nuovo pontile di attracco, rifacimento della darsena, drenaggio dei fondali nella zona di approdo).

Il Lazzaretto Vecchio, prossimo al Lido, viene abbandonato nel 1966. Al momento della dismissione — attualmente l’isola è data dal demanio civile in disponibilità alla Soprintendenza per i beni archeologici — presentava ancora le tracce della sua antica funzione, con l’edificazione perimetrale continua sui lati più lunghi e su quello verso il Lido, e trame edilizie interne atte a definire gli spazi per l’espurgo differenziato delle merci infestate. La sua sopravvivenza fisica è dovuta alla volontaristica e costante vigilanza di un gruppo zoofilo, che fin dalla dismissione ne ha ottenuto l’uso e vi ospita un numero rilevante di animali randagi(28). Mentre più di recente sembra affacciarsi l’ipotesi di un suo utilizzo per realizzarvi il Museo nazionale di archeologia della laguna.

Vi è infine il caso del piccolo Forte di Mazzorbo, propaggine orientale dell’isola dei Laghi; realizzato nel 1838 per il controllo dei canali di Dese, Burano e S. Giacomo, con una riedificazione nel 1908 per la realizzazione della batteria, era stato trasformato nei primi anni del dopoguerra in colonia estiva e aveva ospitato successivamente alcune famiglie di sfollati. Abbandonato dai militari, è passato in concessione nel 1981 al Comune di Venezia, e dato in uso ai boy-scouts, che ne hanno reso utilizzabile l’intera area esterna. In attesa che altri interventi, da più parte auspicati in questo ultimo decennio, ne rendano agibile l’intero complesso(29).

Resta da accennare alla compagine insulare formata dal Forte di S. Andrea, dall’Idroscalo delle Vignole e dall’isola della Certosa, sulla quale si è invece venuto concentrando il residuo interesse dell’apparato militare per la laguna. Costituito dalla saldatura di tre entità insulari distinte mediante la costruzione di successive casse di colmata nel corso del secolo XIX e nella prima metà del XX, questo insieme è teatro di una dismissione reiteratamente annunciata, ma lungi ancora dall’essersi integralmente compiuta; esso vede in ogni caso il distacco dell’isola della Certosa, ceduta al Comune nel 1996 per la parte più antica, e più recentemente (1998) per quella originata dai successivi imbonimenti.

Dismessa dalle funzioni militari nel 1968, la Certosa aveva ospitato nel periodo bellico un importante stabilimento per la produzione di munizioni, arrivando a impiegarvi più di mille persone. Dal ’46 al ’54 vi si assiste alla progressiva dismissione dello stabilimento pirotecnico, i cui manufatti verranno impiegati fino ai primi anni Sessanta come polveriera e deposito di munizioni.

Al momento della dismissione contava su una diffusa edificazione, conseguente alle molteplici funzioni militari ospitate. Ma nulla più restava dello straordinario complesso conventuale, uno dei più prestigiosi della laguna per la copiosità delle opere d’arte ospitate, oltre che per la qualità dei manufatti architettonici, travolto dalla furia devastatrice della militarizzazione napoleonica.

Vicinissima a Venezia — a poco più di 300 metri dalla riva nordorientale; — S. Elena è ora interessata da opere e interventi che tendono a reinserirla nella realtà cittadina: un parco pubblico, un’area archeologica (sul sedime dell’antico convento), servizi di foresteria, attrezzature per la cantieristica minore. Mentre il magistrato alle Acque vi sta realizzando il ripristino del muro perimetrale, il dragaggio di un canale di accesso con la formazione di una nuova barena a lato del canale stesso, e il consolidamento della banchina preesistente da utilizzare come pontile, in previsione di un servizio di collegamento pubblico(30).

S. Andrea e la parte delle Vignole interessata dalla presenza dell’Idroscalo restano invece ancora sotto la giurisdizione dell’autorità militare, che a più riprese vi ha concentrato opere e interventi, soprattutto dopo la creazione da parte del Ministero della Difesa (1951) di una nuova specialità di truppe anfibie della fanteria, i Lagunari: il complesso di S. Andrea-Vignole offre infatti la disponibilità dell’Idroscalo, il vasto bacino longitudinale scavato come siluripedio nell’isola delle Vignole fin dalla fine dell’Ottocento, già adibito a scalo idrovolanti anche per i trasporti civili e usato per l’ormeggio delle motosiluranti della Marina militare. Il comando si insedia nella vicina caserma Pepe, a S. Nicolò del Lido, l’antica sede dei fanti da mar della Repubblica veneta, mentre l’area logistica e le attrezzature per i mezzi da sbarco vengono per l’appunto concentrate nelle adiacenze dell’Idroscalo(31).

Il complesso, già attrezzato, viene ulteriormente potenziato fra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, con lavori di sistemazione delle vie di terra, la costruzione di un cantiere per il rimessaggio e la riparazione dei mezzi da sbarco, e nuove case caserma (la cui edificazione si conclude nel 1995).

Nel frattempo si pone mano (1964), sia pure con grandi ritardi e grazie a una forte mobilitazione delle forze culturali e politiche della città, al restauro del Forte di S. Andrea, la grande opera sammicheliana che fin dall’inizio del Novecento aveva manifestato segni di degrado, divenuti sempre più palesi con il cedimento e lo sprofondamento (1950) di una parte cospicua della struttura muraria sul fronte verso la laguna interessato dalle forti correnti di marea indotte dall’allargamento della bocca di porto del Lido e dal passaggio di navi di grandi dimensioni(32).

Ma l’avventura dei Lagunari, che con la loro diffusa e cordiale presenza avevano messo solide radici nel tessuto sociale veneziano, stemperando l’impronta militare con la loro immagine familiare e consuetudinaria a chi vive in questa città sostanzialmente anfibia, sembra avviarsi a un lento declino: i mutamenti geopolitici derivanti dall’apertura delle cortine verso i paesi dell’Est europeo rendono sempre meno importante il presidio della laguna di Venezia: cambia il modello di difesa, e viene meno la necessità di un corpo anfibio; il concomitante ridimensionamento del bilancio della Difesa induce alla concentrazione in terraferma del corpo dei Lagunari, in un’unica grande caserma, rinunciando al dislocamento nelle tre aree di Lido, Vignole e Malcontenta. È il momento della dismissione della caserma Pepe (1999), e sembra sempre di più approssimarsi quello di S. Andrea-Vignole.

Le isole abitate (una resistenza accanita)

A fronte di questo quadro così negativo — con la perdita di importanti funzioni da parte delle isole più vicine a Venezia e il rischio della progressiva disgregazione dei caratteri ambientali della laguna — appare persino incredibile che le isole abitate, Murano, Burano, Mazzorbo, Vignole e S. Erasmo nella laguna nord, Lido, S. Pietro in Volta e Pellestrina sul litorale, mantengano con accanimento una loro cospicua vitalità, tutt’altro che marginale rispetto al più complessivo sistema insediativo e produttivo lagunare. Una vitalità testimoniata sia dal numero dei residenti, che si dimostra ancora elevato pur partecipando al progressivo declino demografico di Venezia, sia dalla presenza di peculiari attività economiche che persistono pur al cospetto delle difficili condizioni insulari, e in non pochi casi appaiono persino rinnovarsi.

Nell’insieme delle isole lagunari abitate vivono infatti (dicembre 1999) 32.876 persone. Nel 1951 il primo censimento postbellico ve ne aveva contate 37.946 (comprese le 1.460 censite come residenti nelle cinque isole ospedaliere e nel ridotto militare di Vignole-Idroscalo). Il declino demografico vi appare quindi tutt’altro che clamoroso, soprattutto se lo si confronta con quello di Venezia storica, che passa, nello stesso arco di tempo, da 174.632 a 66.945 abitanti (v. Tab. 1).

Tab. 1. La popolazione residente a Venezia e nelle isole lagunari nei Censimenti ISTAT del dopoguerra

(i dati del 1999 sono dell’Ufficio statistica del Comune di Venezia)   1951 1961 1971 1981 1991 1999   Venezia (centro storico) 174.632 137.566 108.947 93.598 74.635 66.945   Lido-Malamocco-Alberoni 14.052 18.734 20.877 20.923 19.154 (a) 18.505   Pellestrina-S. Pietro in Volta 6.249 6.096 5.221 5.289 4.830 4.561   Burano 6.776 6.000 5.295 4.729 3.824 3.373   Murano 7.595 7.884 6.966 6.247 5.473 5.143   S. Erasmo (comprese Vignole

e Vignole-Idroscalo) 1.224 1.069 1.045 999 876 822   Torcello-Mazzorbo 621 587 452 466 457 429   S. Francesco del Deserto 14 18 12 13 13 10   La Certosa 45 9           S. Lazzaro degli Armeni 26 19 23 31 10 22   S. Maria delle Grazie 23 15 11 (b)       S. Servolo 151 371 256 (b) 4     S. Clemente 978 883 597 (b) 140 11   Lazzaretto Vecchio 25             Sacca Sessola 125 66 19         Poveglia 42 211 (c)

Note: ‑(a) questo dato comprende 104 residenti in case sparse, distribuiti su tutto il litorale; (b) nel 1981 i dati sono accorpati con Venezia (centro storico); (c) considerata nel 1961 «nucleo speciale» con funzione di casa di cura.

Se le isole sembrano resistere con più forza alle ragioni che determinano la contrazione della popolazione di Venezia, ciò è sicuramente debitore all’accrescimento demografico del Lido, che riconferma incisivamente nel dopoguerra la sua originaria vocazione residenziale; ma anche al minor decremento demografico rispetto a Venezia delle più importanti comunità lagunari: come Murano, dove dal ’51 al ’99 è del 32%, contro il 62% di Venezia storica; o Pellestrina e S. Pietro in Volta, dove è del 29%; per non parlare di Mazzorbo, che pur nella sua piccola dimensione rafforza sensibilmente la propria identità residenziale.

Più di trentamila persone si accaniscono dunque ad abitare nella laguna. Insieme alle quali vanno considerate quelle che, pur non vivendo i disagi di una condizione strettamente insulare, fanno parte a pieno titolo dell’ambito lagunare: i residenti al Cavallino, l’ampia penisola che si estende lungo il tratto nordorientale del litorale, e che con quelli di Treporti nel 1999 sono 11.836 (con un netto incremento rispetto ai 7.322 del 1951); e gli abitanti del centro storico di Chioggia, la parte più propriamente ‘lagunare’ della città, che se pure diminuiscono nell’arco di tempo che stiamo considerando (passando dai 27.100 circa del 1951 ai 14.400 del 1999), apportano un loro solido contributo al contingente demografico che gravita sulla laguna (non molto distante oramai, in termini complessivi, da quello di Venezia storica).

Le isole dimostrano dunque di aver mantenuto nell’arco degli ultimi cinquant’anni una discreta vitalità abitativa: tutt’altro che scontata, condizionati come si è dal clamoroso decadimento demografico di Venezia, e portati a credere che nella periferia dell’arcipelago veneziano il fenomeno non dovesse essere stato diverso, e anzi avesse potuto assumere connotati ancor più vistosi. Le isole preservano al contrario le loro specifiche identità più di quanto non sia avvenuto in ogni città o periferia della terraferma veneziana. E perpetuano un’immagine che appare ancora assai poco compromessa, rispetto a quanto accade a Venezia, dall’omologazione comportamentale e dalla devastazione ambientale e culturale determinata dal turismo di massa.

Il sostegno abitativo e la modernizzazione del trasporto pubblico

A questa vitalità contribuisce non poco il sostegno abitativo esercitato dal comparto pubblico: negli anni dal ’46 al ’95 il Comune realizza nelle isole lagunari abitate e nell’estuario 547 abitazioni e 371 ne realizza l’A.T.E.R. (Azienda Territoriale per l’Edilizia Residenziale, ex I.A.C.P., Istituto Autonomo Case Popolari). Se si confronta questo dato con il comparto abitativo realizzato nello stesso arco di tempo nella Venezia insulare (1.128 abitazioni dal Comune e 558 dall’A.T.E.R.), ne emerge uno sforzo davvero notevole: significa infatti che il 35% delle abitazioni realizzate ex novo è andato alle isole (mentre la popolazione ne rappresentava nel 1951 solo il 21%, e ne rappresenta nel 1999 il 30%; v. Tab. 2).

Tab. 2. Epoca di costruzione delle abitazioni pubbliche a Venezia (al 1995)               1946-1960 1961-1970 1971-1980 Dopo il 1980 Totale Ente gestore: Comune                       Città storica 459 79 29 561 1.128 Isole, estuario 172 19 22 334 547             Ente gestore:  A.T.E.R. (ex I.A.C.P.)                       Città storica 316 202 2 38 558 Isole, estuario 152 86 16 117 371             Ente gestore: Comune e A.T.E.R.                       Città storica 775 281 31 599   1.686 Isole, estuario 324 105 38   451 918             Fonte: Comune di Venezia, Osservatorio casa, Venezia 1995.

Con il risultato che, alla data del 1995, il patrimonio residenziale pubblico gestito nelle isole da Comune e A.T.E.R. (incluso quello realizzato prima della guerra, e quindi sostanzialmente a Venezia e in terraferma) comprende 1.275 alloggi, contro i 3.656 di Venezia. Rispettivamente l’11,79% e il 33,80% del totale del Comune (la parte riguardante la terraferma è infatti pari al 54,41%, v. Tab. 3).

Tab. 3. Il patrimonio residenziale pubblico (Comune di Venezia e I.A.C.P.) nelle isole e a Venezia nel 1995                   Comune I.A.C.P. Totale     nr. % nr. % nr. %                   Isole, estuario 688 16,65 587 8,78 1.275 11,79   Città storica 1.455 35,21 2.201 32,93 3.656 33,80   Lido-Malamocco-Alberoni 151 3,65 274 4,10 425 3,93   Pellestrina-S. Pietro in Volta 87 2,11 40 0,60 127 1,17   Murano 221 5,23 160 2,39 381 3,52   Burano 79 1,91 69 1,03 148 1,37   Cavallino-Treporti 150 3,63 44 0,66 194 1,79   Terraferma 1.989 48,14 3.896 58,29 5.885 54,41   Comune di Venezia 4.132 100 6.684 100 10.816 100                   Fonte: Comune di Venezia, Osservatorio casa, Venezia 1995.

Al sostegno abitativo si affianca la progressiva modernizzazione della rete dei trasporti pubblici, indispensabile per garantire la permanenza stessa del sistema insediativo lagunare. Una rete che viene ripristinata prestissimo, anche se all’indomani della guerra presentava condizioni drammatiche. Nelle ultime fasi del conflitto la precarietà del servizio si era manifestata infatti con preoccupante progressione, sia per il sempre più difficile approvvigionamento dei materiali per la manutenzione dei natanti (oltre che del combustibile), sia per la requisizione dei battelli di tonnellaggio maggiore da parte della Marina militare.

Alla ripresa, fra requisizioni e perdite la flotta si era ridotta a sole 28 unità (rispetto alle 105 del 1940), spesso non in condizioni di funzionare. L’assoluta necessità di garantire gli essenziali collegamenti delle isole con Venezia induce a interventi immediati (il recupero dei battelli affondati, il rientro di quelli trasferiti altrove, la restituzione di quelli requisiti), effettuati nei cantieri dell’A.C.N.I.L. (Azienda Comunale per la Navigazione Interna Lagunare) allora ubicati alla Giudecca.

Con la costruzione di nuovi battelli (26 fra il ’49 e il ’51) si avvia la ricomposizione della flotta, consentendo la riorganizzazione completa delle linee. Nel 1950 tutte le isole risultano capillarmente collegate con Venezia: il Lido da tre delle linee urbane (la 1, la 2 e la 4), e da due linee speciali (la 8 per S. Nicolò e la 10 per Punta Sabbioni); Murano dalla circolare appena istituita (linea 3) e dalla diretta (linea 7), oltre che dalla linea 9, che si estende fino a Burano, Torcello e Treporti, e dalla linea 11, che arriva a Vignole e S. Erasmo; Pellestrina e S. Pietro in Volta sono collegate dalla linea 12, che si estende fino a Chioggia; S. Servolo, S. Clemente, Sacca Sessola, La Grazia dalla linea 6 (Ospedali), che garantisce ben dodici corse di andata e ritorno al giorno. La linea 14 (Ferry) consente infine il trasporto di automobili e passeggeri fra piazzale Roma e il Lido, mentre altre linee minori estendono la rete dei collegamenti urbani (linee 5 e 11 con la Giudecca).

Nel 1954 vengono definitivamente eliminati i vaporetti con propulsione a carbone, sostituiti da motori diesel: nello stesso anno la flotta risulta composta di 106 unità, con una capacità di trasporto di quasi 30.000 passeggeri. Nel 1957 si attiva il trasporto misto lagunare e automobilistico fra Venezia, Pellestrina e Chioggia, utilizzando le linee filoviarie del Lido (attivate nel 1941, otto anni dopo il collegamento di Venezia con Mestre), a loro volta prolungate nell’immediato dopoguerra fino ad Alberoni e all’Ospedale al Mare (le filovie scompaiono definitivamente nel 1966, sostituite da autobus)(33).

Il vaporetto — con il motoscafo nella sua dimensione minore e la motonave in quella maggiore — si afferma in modo sempre più evidente, più di quanto fosse avvenuto nell’anteguerra, come protagonista essenziale della comunità veneziana: mezzo di trasporto anzitutto, ma anche luogo e momento di socializzazione, prolungamento reale ed efficace di ogni realtà insediativa lagunare.

Le isole abitate del litorale

L’isola che fin dall’inizio della meccanizzazione dei trasporti lagunari risulta più efficacemente collegata a Venezia è il Lido (il primo battello a vapore compie il tragitto da riva degli Schiavoni a S. Maria Elisabetta il 18 giugno 1858). Fattosi nel frattempo importante stazione turistico-balneare di livello internazionale, il Lido attrae, a partire dal secondo dopoguerra, la maggior quantità di investimenti pubblici nel settore della residenza, in ragione di questa sua oramai consolidata vocazione, ma anche della molteplicità di attività e funzioni che è venuto ospitando. L’attenzione pubblica al tema della residenza vi si era del resto manifestata fin dall’istituzione dell’I.A.C.P., con la realizzazione, fra il 1915 e il 1922, della cosiddetta «città giardino», un quartiere che si richiamava, già nella formulazione del bando di concorso lanciato dall’Istituto, alle coeve esperienze anglosassoni(34).

Gli interventi riprendono nell’immediato secondo dopoguerra con l’urbanizzazione delle aree di proprietà del Comune a Ca’ Bianca, a ridosso della preesistente «città giardino», lottizzate e vendute a dipendenti comunali e a cooperative edilizie, oltre che a singoli cittadini (vi sorgono case dei dipendenti dell’A.C.N.I.L. e della Società Adriatica di Navigazione, e abitazioni per profughi istriani). Cui fanno seguito altre più cospicue realizzazioni di abitazioni pubbliche in quella stessa direzione — le cosiddette «case bianche» e «case rosse» — contribuendo decisamente all’espansione dell’insediamento nella direzione di Malamocco.

La vocazione residenziale lidense è assecondata dalla disponibilità di vaste aree edificabili, identificate come tali negli strumenti urbanistici comunali dei primi anni Sessanta, e nelle quali si riversa un’intensa attività edilizia, sia pubblica che privata (le nuove abitazioni realizzate dal 1946 sono quasi cinque volte rispetto a quelle costruite fra le due guerre). Con l’inevitabile sacrificio di preziose testimonianze di valore ambientale, caratteristiche del sistema litoraneo orticolo e dunoso.

Superata la fase della intensa militarizzazione conseguente all’occupazione tedesca, che aveva portato all’interdizione degli accessi alla spiaggia e all’occupazione di molte ville sul lungomare, il Lido aveva assistito a quella alleata, certamente meno traumatica, e tutt’altro che in contrasto con la sua vocazione turistico-balneare: trasformato in un luogo attraente e desiderato per lo svago e il riposo dei soldati americani (oltre che canadesi, polacchi, inglesi), con l’insperata riapertura degli alberghi, il Casinò riadattato per ospitare una sorta di casa del soldato («Churchill Roosevelt Club»), il Palazzo del Cinema come «Allied Theater», l’uso esclusivo dei campi del Golf Club e del Tennis Club e la costruzione del Luna Park di fronte alla spiaggia ribattezzata per l’occasione «Coney Island Beach»(35).

Il Lido si avvia contemporaneamente a un rapidissimo sviluppo demografico (gli abitanti dell’isola passano, con Malamocco e Alberoni, dai 14.052 del 1951 ai 18.734  del 1961, superando i 20.000 nel 1971) sostenuto sia dalla ripresa del turismo internazionale, sia dalla presenza di attività specializzate di vasto richiamo occupazionale, come le Officine Aeronavali.

Destinate a una repentina quanto inevitabile dismissione, connessa con il trasferimento a Tessera dell’aeroporto Nicelli, le Aeronavali hanno rappresentato nella storia recente del Lido una realtà di grande rilevanza economica e sociale, sviluppandosi in stretta compenetrazione, funzionale e di luogo, con l’aeroporto. Aperto intorno alla metà degli anni Venti — il volo inaugurale Venezia-Vienna è del 1926, mentre l’anno successivo si effettua il primo collegamento aereo con Roma — il Nicelli è fra gli anni Trenta e Quaranta il secondo aeroporto italiano, con 40 voli giornalieri fra partenze e arrivi (nel 1938 vi si inaugura la nuova aerostazione, oggi ancora esistente, edificio di buon valore architettonico).

Lo scalo ospita nell’anteguerra un’importante base per la manutenzione degli aeroplani, con più di 500 addetti (nel 1940), provenienti soprattutto dalla zona di Castello: operai e tecnici dotati di un’alta competenza professionale, maturata in quella straordinaria fucina che da sempre era stato l’Arsenale. Durante la guerra le Officine espandono le proprie attività (fra il ’42 e il ’43 gli addetti raggiungono la cifra record di 1.200 unità), acquisendo la manutenzione dei velivoli civili di Ala Littoria e di quelli militari della Regia Aeronautica, comprendendovi gli idrovolanti attivi nel vicino Idroscalo di S. Andrea.

La ripresa postbellica eredita ciò che resta del complesso Nicelli-Officine dopo lo smantellamento della base aeronautica effettuato dai tedeschi, che vede il trasferimento di tutti i macchinari ancora utilizzabili in Germania e la distruzione completa delle strutture. A una provvisoria riattivazione delle piste da parte degli alleati (aprile 1945), fa seguito la liquidazione dell’Ala Italiana (1947), la società che dal 1935, con la denominazione di Ala Littoria, aveva assunto la gestione dello scalo lidense.

È però anche l’avvio di una nuova fase delle Officine, che riprendono, con la denominazione definitiva di Officine Aeronavali (1949), l’attività di manutenzione di aeroplani e mezzi di terra, costruendo anche natanti e specializzandosi nella realizzazione di attrezzature aeroportuali. Lo stabilimento viene ricostruito nel 1949 (occupa allora 279 addetti) e assiste al rilancio delle attività aeronautiche lidensi, confermate dalla riapertura dell’aeroporto civile (alle Officine si fa manutenzione e revisione di aerei dell’Aeronautica militare italiana, e trasformazione di velivoli civili non solo italiani, impegnando il personale, altamente specializzato in missioni operative in altri scali italiani e all’estero).

Ma la repentina evoluzione tecnologica della navigazione aerea, con l’avvento dei motori a turboelica e a reazione, rende inservibile la pista del Nicelli(36). La decisione di spostare l’aeroporto veneziano in terraferma, sul fronte opposto del bordo lagunare, appare inevitabile. Nell’agosto del 1965 vengono ultimati i raccordi di accesso alla pista del Marco Polo. Nello stesso anno viene collaudata la nuova aviorimessa delle Aeronavali di Tessera. Inizia così la migrazione dal Lido di tutto il personale. Fino a che, nel 1968, lo stabilimento lidense viene definitivamente abbandonato(37).

Non lontana dalle Officine e dall’aeroporto, un’altra importante struttura lidense si avvia verso una lenta e inevitabile dismissione. È l’Ospedale al Mare, storica testimonianza di quell’igienismo progressista e illuminato che aveva trovato un fertile terreno di crescita nell’ambiente lagunare e balneare, travolta da una logica razionalizzatrice per molti aspetti simile a quella che aveva portato allo smantellamento di parti dell’arcipelago ospedaliero veneziano, e segnatamente di Sacca Sessola.

Si compie, con le dismissioni in atto, l’epilogo di una storia singolare, le cui origini sono strettamente connesse con la nascita e lo sviluppo del Lido medesimo, fin da quando si era posto mano alla creazione dell’Ospizio marino veneto (1868) per ospitarvi fanciulli poveri affetti da scrofola, una delle più terribili manifestazioni della tubercolosi. Allontanato nel 1921 da un luogo — le Quattro Fontane — che nel frattempo era divenuto troppo celebre e altolocato per sopportare la presenza di una siffatta struttura assistenziale, viene trasferito in una posizione più periferica — la Favorita — e gradatamente accresciuto nelle funzioni e nelle strutture, in linea con le convinzioni d’epoca circa le virtù terapeutiche dell’ambiente marino nella profilassi e nella cura della tubercolosi(38).

L’Ospizio — la denominazione di Ospedale al Mare verrà assunta solo nel 1936 — assiste a uno sviluppo intensivo degli investimenti fra il ’26 e il ’32, con l’ampliamento dell’area e la realizzazione di nuovi padiglioni da parte di istituzioni e comitati, anche non veneziani, che vedono nella struttura lidense la miglior opportunità di cura per una malattia che si era enormemente diffusa in Italia negli anni immediatamente successivi al primo conflitto bellico(39).

Prende corpo nel giro di pochi anni una sorta di piccola città composta di più di 30 edifici, con viali, giardini, padiglioni, chiesa, teatro, servizi collettivi, bagni, cucine e lavanderie centralizzate, attrezzature di prim’ordine, aperta su un fronte spiaggia di 450 metri.

A partire dagli anni Cinquanta l’Ospedale al Mare si arricchisce di servizi assistenziali destinati alla cura dei malati acuti, pur conservando, e anzi potenziandole ulteriormente, le specializzazioni acquisite nel campo della climatologia. Agli effetti assistenziali ha una zona di influenza ben definita: il Lido, le isole, S. Elena e parte di Castello; è però allo stesso tempo un istituto di elezione, frequentato da una clientela che proviene da un hinterland nazionale e internazionale in virtù della qualità dell’assistenza erogata, dell’efficienza dell’organizzazione sanitaria e alberghiera, dell’ottima équipe dei sanitari; oltre che della sua incantevole ubicazione (lo ‘stato di salute’ dell’ospedale lidense è del resto testimoniato dal numero crescente dei ricoveri, che passano dai 4.550 nel 1952 ai 10.336 nel 1957).

Gli anni Sessanta vedono il potenziamento di questa duplice configurazione, con l’acquisizione di nuovi terreni verso S. Nicolò e la predisposizione di un progetto generale (per 1.000 posti letto) che prevede il trasferimento di tutti i reparti in due nuovi complessi — uno sul fronte mare per le cure climatoterapeutiche, e uno verso terra per i malati acuti — da realizzarsi anche in vista del progettato trasferimento a S. Giobbe (cioè sul lato opposto della città) dell’Ospedale Civile di Venezia.

Nel decennio successivo si porrà mano alla costruzione del cosiddetto «monoblocco», rimanendo tuttavia in funzione i vecchi padiglioni. Ma la stagione delle grandi dismissioni ospedaliere si avvicina: fra gli anni Settanta e Ottanta inizia la disattivazione progressiva delle divisioni e dei servizi, perseguita del resto dalla pianificazione sociosanitaria avviata dalla Regione Veneto.

Nell’84 i posti letto effettivi si erano ridotti a 660 (erano 1.400 nel 1956), da ridursi ulteriormente a 427 per effetto del piano sociosanitario di quello stesso anno; nel 1999 saranno appena 149.

Scompare così una struttura prestigiosa ed efficientissima, dotata di attrezzature di prim’ordine, che aveva garantito un servizio di alto profilo alla città e al suo circondario, svolgendo allo stesso tempo un ruolo essenziale nell’economia e nella società lidense e acquisendo gradatamente un riconoscimento nazionale e internazionale(40).

Anche se sul fronte opposto, cioè verso la laguna, un buon riscontro internazionale, pur in un campo diverso, sembra riscuoterlo il «Master europeo in diritti umani e democratizzazione», ospitato in questi ultimi anni nell’ex convento di S. Nicolò: al quale potrebbero presto affiancarsi i locali dell’ex caserma Pepe recentemente dismessa, fornendo strutture cui è interessata l’O.S.C.E. (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione Europea).

Pellestrina e S. Pietro in Volta prolungano la presenza abitativa nelle isole-litorale più meridionali, manifestando una sorprendente capacità di resistenza in rapporto ai disagi che la grande alluvione del ’66 vi aveva provocato. E al contrario perpetuandovi un’identità sociale ed economica strettamente legata alla presenza del mare e della laguna. Alla quale partecipa, oltre alla tradizionale attività peschereccia, la presenza di una cantieristica che si è evoluta negli scorsi decenni con innovazioni tecnologiche e produttive inimmaginabili in rapporto alle condizioni strettamente insulari in cui si è trovata a operare.

Di minor portata gli interventi del settore delle abitazioni realizzati da Comune e A.T.E.R. (solo 69 abitazioni fra S. Pietro in Volta e Pellestrina, dal ’46 al ’99; v. Tab. 4).

Tab. 4. Alloggi realizzati da A.T.E.R. e Comune nelle isole dal secondo dopoguerra                           Fino al 1947 1948-1960 1961-1980 1981-1999 Totale               A.T.E.R. Comune A.T.E.R. Comune A.T.E.R. Comune A.T.E.R. Comune A.T.E.R.(1) Comune(2) (1)+(2)                         Murano 4 53 22 73 19 55 78 185 119 304 Mazzorbo – – – – – – 36 – 36 – 36 Burano 12 13 34 16 12 25 62 87 Pellestrina – – 29 14 11 – – 15 40 29 69 Lido 184 28 8 50 14 132 262 154 416 S. Erasmo – – – – – – – 11 – 11 11                         Totale 200 – 123 78 134 49 91 248 548 375 923                         Fonte: Comune di Venezia, Assessorato all’urbanistica, Venezia 1999.

Qui del resto la dimensione demografica è molto più contenuta rispetto al Lido (4.540 abitanti nelle due isole nel 1999), anche se il comparto produttivo ha mantenuto una vitalità non irrilevante: anche nel settore della pesca (v. Tab. 5), sia pure con quelle trasformazioni strutturali cui più sopra si è accennato così negative nei confronti dell’integrità ambientale e socio-culturale della laguna. Ma soprattutto in quello della cantieristica, dove a fronte della progressiva contrazione delle strutture artigianali minori, squeri e cantieri dediti alla costruzione e alla manutenzione delle imbarcazioni per la pesca, è emersa gradatamente la dimensione industriale del cantiere navale De Poli.

L’azienda nasce nel secolo precedente (1880) con una struttura artigianale a conduzione familiare, e si specializza dapprima nella costruzione di imbarcazioni in legno per il trasporto di pietre (dall’Istria) e legnami (dai paesi balcanici). All’inizio degli anni Cinquanta intraprende la scelta decisiva di riconvertire le tecniche costruttive abbandonando il legno a favore dell’acciaio. Lo sviluppo dell’azienda è sostenuto inizialmente da commesse dell’A.C.T.V. (che negli anni Settanta coprono il 90% del fatturato) per la produzione di battelli e motonavi per il trasporto pubblico lagunare. Ma il cantiere riesce a diversificare (a partire dagli anni Ottanta) la produzione su scala più ampia, acquisendo commesse pubbliche e private sempre più consistenti e prestigiose, con una produzione specializzata di navi ad alto contenuto tecnologico (chimichiere e gasiere) e di motonavi e navi traghetto di grandi dimensioni (1.000 passeggeri). Il progressivo aumento della manodopera impiegata oggi vede la presenza di circa 100 addetti (e 600 nell’indotto) che nell’esiguo spazio di terra fra mare e laguna operano in un clima di sempre più elevata specializzazione: forse l’ultimo effetto di quella stessa ‘onda lunga’ dell’Arsenale, secolare fucina di innovazione tecnologica, che qualche decennio prima aveva alimentato, poco distante, i successi delle Aeronavali.

Le isole abitate della laguna nord

Burano, Torcello e Mazzorbo, topograficamente legate anche se storicamente e funzionalmente diverse, manifestano vicende demografiche peculiari: nel loro insieme presentano (al 1999) un contingente di 3.802 abitanti (contro i 7.397 del ’51), e dunque con una cospicua perdita complessiva. Che però è dovuta soprattutto al forte decremento assoluto di Burano (3.373 abitanti nel ’99, contro i 6.776 del ’51).

Anche a Torcello il declino demografico è assai elevato, pur essendo quantitativamente modesto rispetto all’insieme (127 abitanti nel ’51, e solo 29 nel ’93); l’isola del resto, con la decadenza della funzione agricola, soprattutto nel settore orticolo, si indirizza in questo dopoguerra verso una specializzazione turistica caratterizzata da una frequentazione quotidiana che non determina sul luogo significative occasioni di lavoro, e dunque di residenza. Anche se vi si ampliano importanti occasioni di visita — come il Museo, presente fin dal 1870 — e recenti campagne di scavo ne estendono significativamente l’interesse archeologico.

Il depauperamento demografico di Burano non travolge tuttavia l’originaria vocazione peschereccia dell’isola, al cui esercizio si applicano (stima del 1999) non meno di 100 persone. La pesca del resto, che qui viene esercitata perpetuando molte delle tecniche tradizionali, è ancora ben testimoniata dalla permanenza, lungo i bordi dell’isola e nei suoi canali interni, di molte imbarcazioni da pesca (un censimento dell’A.S.A.P. [Azienda Sviluppo Acquacultura Pesca] ne conta ben 110), più che in ogni altra località lagunare (v. Tab. 5).

Tab. 5. Imbarcazioni e addetti nei porti pescherecci lagunari               Imbarcazioni da pesca ormeggiate Addetti         con reti da traino con draghe con attrezzi da posta Totale               Punta Sabbioni 4 6 20 30 60 Burano 12 6 110 128 154 S. Pietro in Volta 2 30 30 62 134 Pellestrina 15 54 30 99 204 Chioggia 500 96 140 736 2.000 Canali della laguna centrale       105 170             Fonte: A.S.A.P.

Scarso a Burano il contributo abitativo pubblico (87 abitazioni costruite fra il ’45 e il ’99), anche in ragione della scarsità di suolo edificabile. Che invece trova un fertile campo di applicazione nella vicina Mazzorbo, dove negli anni Ottanta prende corpo una straordinaria sperimentazione urbanistica e architettonica: un piccolo quartiere costruito ex novo su progetto di Giancarlo De Carlo, che rende manifestamente visibile come un’attenta e intelligente interpretazione del contesto morfologico e abitativo lagunare, segnatamente riferito a Burano, possa dar luogo a un intervento colto e raffinato, ben abitato e perfettamente inserito in un ambiente così peculiare(41).

Alla forte contrazione delle colture orticole di Mazzorbo e Torcello si contrappone accanitamente S. Erasmo, dove operano ancora (1995) 56 aziende, specializzate soprattutto nella produzione del carciofo. Aziende piccole e piccolissime, a prevalente conduzione familiare, che non hanno rinunciato a mantenervi l’antica consuetudine agricolo-orticola dell’estuario pur a fronte dell’accentuazione dei fenomeni dell’acqua alta (l’alluvione del ’66 indusse qui, ma soprattutto nelle più estese aree agricole di Treporti e Chioggia, a un radicale cambiamento delle colture, con l’eliminazione di fatto di quelle arboree).

L’isola è strenuamente presidiata da più di 700 abitanti (761 al 1999; ma erano 1.060 nel ’51); non pochi hanno dovuto abbandonarla in conseguenza della crisi delle vicine vetrerie di Murano, presso le quali trovano occupazione, ma molti di coloro che sono rimasti, nel succedersi di due generazioni, hanno mantenuto un forte legame con la terra (oltre alle 56 aziende isolane del 1955 occorre considerarne infatti almeno altre 30 condotte con la formula del part-time), dalla quale ricavano prodotti di elevata qualità, indirizzandosi verso l’impiego di metodi biologici. Attendendo un futuro nel quale il sostegno abitativo si faccia più efficace (sono solo 11 le abitazioni realizzate dal Comune dal ’45 ad oggi), e si ponga mano alla valorizzazione, in questi ultimi anni da più parti invocata, delle strutture difensive ancora esistenti, che ne testimoniano l’antica condizione di isola-litorale (fra le quali vi è la cosiddetta torre di Massimiliano, dismessa alla fine degli anni Settanta, un mirabile manufatto di epoca austriaca, per il quale hanno avanzato richiesta di concessione diverse associazioni che operano in regime di volontariato)(42).

Murano, più prossima a Venezia, vede in quest’ultimo cinquantennio una conferma della originaria vocazione industriale. Una vocazione che ha radici lontane, ma che fra Otto e Novecento si era rafforzata con l’introduzione di strutture produttive di dimensione industriale, favorite anche dalla estensione fisica che l’isola nello stesso tempo acquisiva con bonifiche e sacche (Sacca Serenella, 8 ettari, verrà completata nel 1948, e Sacca S. Mattia, 15 ettari, negli anni successivi).

Forte di questa precisa eredità Murano sembra registrare nel dopoguerra un promettente sviluppo demografico (7.884 abitanti al censimento del 1961, contro i 7.595 di quello del 1951). Per avviarsi tuttavia subito dopo a una se pur graduale inversione di tendenza (6.966 abitanti nel 1971, fino ai 5.143 del 1999).

Quell’originaria vocazione produttiva che ne aveva fatto nel tempo la capitale mondiale della produzione vetraria non viene tuttavia smentita, tanto da consentire oggi a 1.500 persone un impiego nelle vetrerie muranesi (una recente ricerca della Fondazione E.N.I. Enrico Mattei ha stimato il distretto produttivo di Murano come il più importante in assoluto nel Comune di Venezia, con 2.303 addetti alla produzione materiale su 6.349 residenti; una percentuale pari al 42%, contro una media del Comune del 14%)(43).

Anche a Murano il sostegno abitativo è stato cospicuo (1.200 nuove abitazioni costruite dopo il ’45, 304 delle quali da Comune e A.T.E.R.), favorito da una discreta disponibilità di suoli, e alimentato dalla permanenza delle attività industriali e artigianali. Che vedono, nella fase dell’immediata ripresa postbellica, una più netta diversificazione produttiva, con una cinquantina di aziende specializzate nella produzione del vetro artistico, e una ventina nella produzione di «vetro comune» (vetri da tavola, per l’industria e la farmaceutica).

La produzione di vetro industriale, alimentata inizialmente dall’espansione della domanda interna, subisce tuttavia una repentina diminuzione: a metà degli anni Cinquanta viene sostanzialmente abbandonata, a favore di quella del vetro artistico (la Cristalleria di Murano — ex Franchetti — che alla fine degli anni Quaranta impiegava 600 lavoratori, e che ne ha solo 60 nel ’67, chiude emblematicamente, proprio nel 1967, il ciclo della produzione industriale).

Anche il settore della produzione ‘artistica’ subisce un progressivo ridimensionamento, cui contribuisce il trasferimento di molte aziende nella terraferma veneziana, soprattutto nel Noalese e nel Mirese, con la perdita di parecchie centinaia di posti di lavoro; nello stesso periodo diminuisce sensibilmente la percentuale degli addetti alle aziende insulari che risiedono a Murano, con un forte sviluppo del pendolarismo(44).

Pur nella progressiva diminuzione degli addetti, avvenuta in maniera più drastica durante gli anni Settanta, la produzione vetraria gradatamente si assesta. La necessità di ampliare gli orizzonti della commercializzazione dei prodotti vetrari muranensi dà luogo negli ultimi anni alla nascita di consorzi, per sostenere le aziende garantendo e promuovendo la qualità delle loro produzioni soprattutto sui mercati internazionali (il Consorzio Veneziavetro dal 1975, e il Consorzio Promovetro dal 1985, impegnato per il riconoscimento di un marchio unico per il vetro di Murano, e l’apertura di una scuola di specializzazione per maestri vetrai). Al contempo si avviano iniziative tese alla sperimentazione produttiva e merceologica cui si applica, dal 1956, la Stazione sperimentale del vetro, l’unico ente in Italia che si occupa istituzionalmente di problemi tecnici e scientifici di tutta l’industria vetraria.

Intanto cominciano a rendersi disponibili gli spazi delle ex Conterie, il grande stabilimento vetrario ottocentesco che chiude i battenti nel 1993; acquistato dal Comune due anni dopo, è in via di trasformazione per accogliervi nuove attività artigianali, abitazioni e alloggi per studenti, strutture ricettive e servizi per la collettività(45).

A nord di Venezia, non lontano da Burano, vi è ciò che rimane dell’antica compagine conventuale: S. Francesco del Deserto, che insieme a S. Lazzaro degli Armeni costituisce quanto è sopravvissuto alla devastazione napoleonica. Ma mentre S. Francesco, convento cappuccino, resta sostanzialmente ciò che era, con la sua comunità di 10 anime, S. Lazzaro rilancia ripetutamente nell’arco di questi cinquant’anni la propria immagine di isola rifugio, ma anche di centro propulsore della comunità armena internazionale. Sviluppatosi come luogo per l’elaborazione, la conservazione e la diffusione della cultura armena nel mondo, la comunità mechitarista di S. Lazzaro avvia nell’immediato dopoguerra (1947) un programma di ampliamento del monastero, comprensivo di una cospicua estensione del territorio insulare, rinnovando all’interno le proprie strutture di accoglienza e di produzione (la prestigiosa tipografia, attiva fin dal 1789, chiuderà nel 1992, tuttavia è presente la Casa Editrice Armena).

Nel 1967 vi era stata riordinata la raccolta dei manoscritti, in un edificio appositamente costruito su disegno dell’architetto Anton Isbenian; mentre un progetto del 1997, attualmente in corso, mira alla creazione di strutture in grado di accogliere la presenza di studiosi laici accanto a quella riservata ai padri, ai novizi e ai professi(46).

La salvaguardia annunciata (una sfida di inizio millennio)

Negli ultimi dieci anni del XX secolo la salvaguardia fisica della laguna, ripetutamente annunciata, sembra essersi finalmente avviata. Interventi concreti si succedono con sempre maggior frequenza nell’ambito lagunare, e studi e proposte per le opere più cospicue — come quelle per la regolamentazione delle bocche di porto — sono più che mai all’attenzione del dibattito nazionale e internazionale, oltre che occasioni di conflitto fra forze politiche contrapposte.

Alle spalle di questa stagione eminentemente operativa c’è un lungo e fitto itinerario di provvedimenti legislativi e finanziari, che vede sia la mobilitazione partecipe del governo rispetto alla questione Venezia, sia l’attivazione di appositi organismi e strutture per la gestione dei controlli e delle operazioni da farsi.

L’origine di questo itinerario va fatta risalire cronologicamente al 1973, l’anno dell’approvazione da parte del Parlamento della nuova legge speciale per Venezia: un testo subito oggetto di critiche e osservazioni, come si è visto; ma in ogni caso fondamentale, e carico di conseguenze, sia perché esclude categoricamente la possibilità di realizzare ulteriori opere di imbonimento in laguna, sia perché attribuisce alle competenze dello Stato la

regolazione dei livelli marini in laguna, finalizzata a porre gli insediamenti urbani al riparo dalle acque alte [...] mediante opere che in nessun caso possano rendere impossibile o compromettere il mantenimento dell’unità e continuità fisica della laguna(47).

Due anni dopo, il testo degli indirizzi, emanato dal Consiglio dei ministri, ribadisce il principio della conservazione dell’equilibrio idrogeologico della laguna, incentivando le azioni per l’apertura delle casse di colmata della terza zona industriale e, con queste, delle valli da pesca arginate. Avvia inoltre le iniziative per un apposito appalto-concorso internazionale per la progettazione e l’esecuzione delle opere necessarie alla conservazione dell’equilibrio idrogeologico della laguna di Venezia e all’abbattimento delle acque alte nei centri storici insulari(48).

Dunque progetti concreti, oltre che idee e principi generali, anche se ancora lontani dal proporre soluzioni accettabili; e come tali oggetto di successivi approfondimenti e rielaborazioni. Fino alla seconda metà degli anni Ottanta, quando i primi interventi cominciano a prendere corpo, sostenuti e concretamente avviati dalle strutture messe in campo da una nuova legge dello Stato (è la legge 798 del 1984),

che pone definitivamente tra gli obiettivi fondamentali di competenza nazionale il riequilibrio idrogeologico della laguna, l’arresto e l’inversione del processo di degrado del bacino lagunare, l’eliminazione delle cause che l’hanno provocato, l’attenuazione dei livelli delle maree in laguna, la difesa, attraverso interventi localizzati, dei centri abitati e la difesa dalle acque alte eccezionali anche mediante opere mobili alle bocche di porto per la regolazione delle maree. Il principio cardine della legge è quello dell’unitarietà e della continuità fisica tra Venezia ed il bacino lagunare, fra difesa della città e riequilibrio della laguna, attuabile con interventi sottoposti a specifici criteri in base ai quali le opere devono essere in ogni caso prima sperimentabili e poi reversibili, graduabili e flessibili, seguendo e confermando, così, dopo oltre un secolo e mezzo, ciò che i Savi alle Acque della Serenissima Repubblica Veneta avevano già attuato, con notevole esperienza e lungimiranza, per secoli(49).

Sul piano operativo la legge avvia l’istituzione del Consorzio Venezia Nuova, costituito da un pool di imprese nazionali, indicato come concessionario dello Stato per la realizzazione concreta degli interventi; mentre i compiti di indirizzo, coordinamento e controllo della globalità delle attività sono affidati a un apposito comitato — il cosiddetto «Comitatone» — nel quale sono rappresentate tutte le istituzioni e gli enti competenti(50).

La sequenza delle iniziative messe in campo è fitta e articolata, e si muove secondo gli obiettivi contenuti in un Piano generale degli interventi definito nel 1991 dal Comitatone, con linee di azione distinte, ma in reciproca relazione.

Sul fronte mare le opere tendono al rinforzo del cordone litoraneo, per una estensione di 60 km (dalla foce del Piave a quella dell’Adige), intervenendo con la costruzione di spiagge artificiali, l’ampliamento di quelle erose, il rinforzo delle scogliere e il restauro delle difese storiche. Altre opere vengono nel contempo effettuate per la ristrutturazione e il consolidamento delle dighe sulle tre bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia.

Sul litorale si opera inoltre per la difesa degli abitati dall’acqua alta. Malamocco è difeso dagli allagamenti (fino a quota 173 cm) con la costruzione di nuove rive sul fronte laguna e l’installazione di paratoie sui tre canali che attraversano l’abitato. S. Pietro in Volta e Pellestrina, con difese e nuove rive sul lato laguna (rispettivamente fino a quota 183 e 177 cm). Treporti, sul litorale di Cavallino, viene difeso a quote variabili da 130 a 180 cm. Altri cospicui interventi per il consolidamento delle rive si effettuano sul bacino del Lusenzo, proteggendo Chioggia (a +187) e Sottomarina (a +155), e a Murano, Mazzorbo e Torcello, oltre che nelle isole di Lazzaretto Nuovo, la Certosa e S. Servolo.

In corrispondenza di Valle Figheri si sta effettuando un intervento pilota, che ne consentirà l’apertura in caso di maree eccezionali. Anche se sembra superata l’idea di un intervento generalizzato a tutto l’insieme delle valli da pesca: occorre infatti ricordare che le valli, con i loro 9.000 ettari di superficie impegnata (un sesto dell’intera area lagunare), hanno costituito in questi ultimi cinquant’anni un importante presidio ecologico lungo il bordo lagunare più critico, quello cioè verso la terraferma(51).

Nei grandi spazi acquei del bacino lagunare si interviene al ripristino e alla ricostruzione delle barene, ingredienti fondamentali dell’ecosistema lagunare, utilizzando i materiali provenienti dal dragaggio dei canali lagunari, composti da sabbie e limi; con l’obiettivo di favorire il ricambio idrico, di moderare l’azione del vento e di limitare la perdita di sedimenti in mare. Verso la terraferma si è posto mano nel frattempo alla riapertura delle casse di colmata della terza zona industriale, creandovi canali e ghebi che assicurano il ricambio idrico alle zone retrostanti e vi ripropongono la fisionomia delle aree umide.

Verso Mestre, alla radice del ponte translagunare, il Comune procede con la realizzazione del grande parco pubblico di S. Giuliano, preludio al recupero civile di Forte Marghera, pur nelle mille difficoltà dovute alla presenza di terreni fortemente inquinati dagli scarichi delle attività industriali(52). Più a sud, la Provincia ha realizzato l’apertura di varchi di maggior ampiezza nel tratto lagunare della strada Romea, aumentando l’interscambio con gli specchi d’acqua e le barene retrostanti.

Altre importanti iniziative si stanno conducendo sul versante del disinquinamento: opere per l’arresto della dispersione dalle discariche lagunari, sperimentazione di tecniche di risanamento dei fondali con il trapianto di piante acquatiche (fanerogame), impianti di fitodepurazione lungo i margini di terraferma, accompagnando gli interventi diretti con provvedimenti specifici per il controllo all’origine della qualità degli scarichi.

Restano ancora sul piano delle idee le iniziative per l’allontanamento del traffico petrolifero dalla laguna di Venezia, pur con gli approfondimenti progettuali nel frattempo effettuati(53). Così come restano ancora sulla carta i provvedimenti per il controllo del traffico motorizzato — e dunque per l’abbattimento del moto ondoso — anche se recentemente riproposti dalla bozza di piano (Variante al P.R.G. per la Laguna e le isole minori, 1999), avanzata dal Comune di Venezia; e incessantemente invocati sia da agguerrite, quanto finora perdenti, associazioni ambientaliste, sia da chi ha a cuore una fruizione della laguna — vogando, o percorrendola a vela — sempre più problematica per la presenza appunto del moto ondoso.

La laguna sembra essere comunque divenuta negli ultimi dieci anni un grande laboratorio di sperimentazione. Restano, sullo sfondo, non pochi dubbi per la ripetitività tipologica e l’omologazione morfologica degli interventi, che rischiano di contrastare con le specificità dei diversissimi contesti lagunari; ed emergono alcune preoccupazioni per il contrapporsi di una subitanea artificializzazione — nei luoghi dove si interviene, e in particolare lungo le rive e sui margini dei canali e degli specchi d’acqua — a una materializzazione delle linee fra terra e acqua che aveva preso corpo nei tempi lunghi delle dinamiche naturalistiche con il concorso di una molteplicità di azioni biologiche complesse.

E resta il quesito, oramai all’attenzione del più ampio osservatorio nazionale e internazionale, se la chiusura delle bocche di porto mediante barriere mobili debba assumere la configurazione dell’oramai celeberrimo Mose(54), o se altre possano essere le soluzioni specifiche; o altre ancora, piuttosto che la chiusura delle bocche, le iniziative da intraprendere per proteggere la laguna, Venezia e le isole dagli eventi oramai ineluttabili delle maree eccezionali.

Sul Mose pesano le critiche per gli altissimi costi di realizzazione, e per quelli ancor più elevati della manutenzione, di una struttura mobile che si vuole interamente sommersa perché sia poco impattante; oltre alle perplessità circa la sua efficacia nel tempo, a fronte di eventuali e imprevedibili — e incontrollabili a livello locale — futuri aumenti dell’eustatismo.

Il «laboratorio laguna», oltre che sugli interventi reali, si esercita dunque sul confronto di opinioni, alla luce di studi e verifiche che si susseguono incessantemente, alimentati dalle posizioni antagoniste di gruppi politici, di ambientalisti, di conservatori e progressisti.

La laguna, nel frattempo, rivela altre straordinarie realtà. L’intenso lavorio di questi ultimi dieci anni, fra velme, barene, rive e canali, sta riportando alla luce un patrimonio sommerso che vi testimonia una diffusa presenza antropica di epoca romana; prendono corpo dunque le intuizioni di quanti da tempo lo avevano sostenuto, e si rafforzano i risultati di quanti hanno cercato di testarne sul campo la veridicità(55). La laguna abitata dimostra di essere una delle aree archeologiche più importanti del paese, con oltre 250 siti di grande valore e importanza presenti in tutto il bacino. Dove la storia di questo ultimo scampolo di millennio si salda, inaspettatamente, con quella delle sue origini.

  • Ringrazio Ruben Baiocco per aver collaborato attivamente alla raccolta e alla sistemazione della documentazione necessaria per la stesura del testo, con la redazione di schede informative sulle isole della laguna di Venezia. Si ringraziano inoltre, per le testimonianze fornite e i documenti originali messici a disposizione, il dott. Lorenzo Bonometto, il prof. Giancarlo Bottecchia, il dott. Domenico Casagrande, l’arch. Ambra Dina, il prof. Franco Franco, il prof. Bruno Gagliardi, il gen. Nereo Neri, il prof. Giorgio Pecorai, l’arch. Anna Renzini, l’ing. Franco Schenkel, il gen. Sandro Schiavi, il dott. Franco Sernagiotto, il prof. Giovanni Battista Stefinlongo, l’arch. Mariolina Toniolo, la dott.ssa Daniela Zamburlin.

1. Sui caratteri industriali della Giudecca v. Venezia, città industriale, Venezia 1980; sulle vicende della Scalera Film, Giuseppe Ghigi, Il sogno di ‘Cinevillaggio’. Le attività produttive dal 1942 al 1956, in L’immagine e il mito di Venezia nel cinema, a cura di Roberto Ellero, Venezia 1983, pp. 203-220 (pp. 203-229).

2. Franco Vallerani, Il naviglio lagunare e la pesca, in La laguna di Venezia, a cura di Giovanni Caniato-Eugenio Turri-Michele Zanetti, Verona 1995, pp. 273-291.

3. V. Cesco Chinello, Classe, movimento, organizzazione. Le lotte operaie a Marghera/Venezia: i percorsi di una crisi. 1945-55, Milano 1984.

4. V. in partic. gli Atti del Convegno per la conservazione e difesa della laguna e della città di Venezia, a cura dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 1960, e Comune di Venezia-Fondazione «Giorgio Cini», Atti del convegno internazionale ‘Il problema di Venezia’, Venezia 1964.

5. V. in partic. il dibattito fra Dorigo e Montanelli, in Wladimiro Dorigo, Una laguna di chiacchiere, Venezia 1972.

6. Unesco, Rapporto su Venezia, Milano 1969.

7. Sui concetti di discontinuità ed equilibrio in rapporto all’ambiente lagunare, v. soprattutto Lorenzo Bonometto, Le problematiche naturalistiche nella progettazione e nella gestione degli interventi sulla laguna, Venezia 1997.

8. Il testo più esauriente sugli interventi e sulle trasformazioni nella laguna di Venezia, corredato fra l’altro di materiale illustrativo di prim’ordine, è ancora quello di Paolo Rosa Salva, Trasformazioni ambientali ed alterazioni nella laguna veneta, «Urbanistica», 1974, nr. 62, pp. 5-44. Da questo scritto sono tratti molti dei dati di seguito citati.

9. L’espansione dell’industria sulla laguna procede nel dopoguerra con un sostanziale sostegno dello Stato e degli enti locali, ufficializzato sia negli statuti dei tre consorzi istituiti per la gestione dell’operazione (il primo nel 1954, il secondo nel 1958, il terzo nel 1963) sia nelle planimetrie e nelle norme dei piani che altrettanto fittamente si succedono (nel 1958 quello per la seconda zona, nel 1962 quello del Comune di Venezia che la recepisce in toto, nello stesso anno quello del Comune di Mira che prevede l’ulteriore espansione a sud dell’area industriale, recepito a sua volta nel 1962 dal piano intercomunale, e confermato nel 1965 quello della terza zona). Sulla formazione di Porto Marghera v. Franco Mancuso, La vicenda urbanistica, in Porto Marghera: le immagini, la storia, 1900-1985, catalogo della mostra, Torino 1985, pp. 15-27.

10. È la legge 16 aprile 1973, nr. 171, che ha come titolo Interventi per la salvaguardia di Venezia. L’arresto dello sviluppo industriale in laguna fu subito oggetto di aspre critiche e intense polemiche. V. al proposito Wladimiro Dorigo, Una legge contro Venezia. Natura, storia, interessi nella questione della città e della laguna, Roma 1973.

11. Un’indagine svolta recentemente (1998) per conto della Provincia di Venezia rivela che nei week-end estivi il numero totale dei passaggi (in un giorno) è pari a 30.428; il traffico prevalente è di tipo diportistico (77%), seguito dal trasporto di persone (20%). Le imbarcazioni provenienti dalla terraferma sono almeno 1.900, ed entrano in laguna nord dai fiumi Dese e Sile (38%) e da Treporti (19%), e in laguna centrale da Fusina-Marghera (22%). La stazione più intensamente percorsa è quella di Murano Navagero (con 2.261 passaggi), seguita da Mazzorbo con 2.177, e Punta Sabbioni con 2.090. V. Il traffico acqueo nella Laguna di Venezia, a cura di Fabio Carrera, Venezia 1999.

12. Il traffico petrolifero interessa il 20% delle navi che giungono a Venezia. Le stime del Consorzio Venezia Nuova indicano in 4.000 gli attraversamenti lagunari (in un anno) di natanti con carichi petroliferi; essi trasportano più di 10 milioni di tonnellate di greggio all’anno.

13. Stime riportate nel Piano per la gestione delle risorse alieutiche della Laguna della Provincia di Venezia, Venezia 1999.

14. L’eustatismo, legato alle modifiche climatiche del globo terrestre, ha portato nel XX secolo a un aumento del livello del mare di 11 cm; l’abbassamento del suolo è stato di 4 cm per ragioni dovute a componenti naturali, e di 9 cm per cause derivanti dallo sfruttamento delle risorse idriche; quest’ultimo fenomeno si è interrotto negli anni Settanta.

15. Sulla situazione della pesca in laguna v. Vasco Boatto-Edi Defrancesco, L’economia ittica in provincia di Venezia: dalla produzione al consumo, Loreggia 1994, e Patrizia Torricelli-Mauro Bon-Luca Mizzan, Aspetti naturalistici della laguna e laguna come risorsa, Venezia 1997.

16. Un valido contributo all’attenzione per il degrado e lo stato di abbandono delle isole venne dato nel 1978 dalla mostra organizzata a Venezia dai fratelli Crovato, corredata da una documentazione fotografica inedita e sconvolgente. Giorgio Crovato-Maurizio Crovato, Le isole abbandonate della laguna. Come erano e come sono, catalogo della mostra, Padova 1978.

17. La memoria della salute. Venezia e il suo ospedale dal XVI al XX secolo, a cura di Nelli Elena Vanzan Marchini, Venezia 1985; Nelli Elena Vanzan Marchini, La grande fabbrica della salute, «Provincia di Venezia», 1984, pp. 64-66.

18. Sulle trasformazioni ottocentesche dell’isola e sul progetto di riuso, v. Restauro del complesso monumentale di S. Servolo, «Provincia di Venezia», 1984, pp. 1 ss.

19. Pietro Beroaldi, Sul nuovo manicomio centrale femminile nell’isola di S. Clemente, Vicenza 1855. Il progetto del complesso manicomiale fu redatto dall’ingegnere civile Domenico Graziussi. I lavori cominciarono nel 1858, e terminarono quindici anni dopo.

20. L’archivio della follia: il manicomio di San Servolo e la nascita di una Fondazione: antologia di testi e documenti, a cura di Mario Galzigna-Hrayr Terzian, Venezia 1980; v. anche Salvatore Achille Russo, Appunti sulla storia recente della psichiatria veneziana 1969-1976, in Follia come crimine, i manicomi del Veneto, «Materiali Veneti», 7, 1977, pp. 91-112.

21. Domenico Casagrande, Dall’isola alla città: una esperienza di superamento dell’istituzione manicomiale, dattiloscritto (1993). Domenico Casagrande è stato collaboratore di Franco Basaglia e ha gestito il piano di decentramento dell’assistenza psichiatrica nella città di Venezia.

22. San Clemente. Progetto per un’isola, a cura di Giovanna Cecconello-Carlo Giuliani-Michele Sgobba, Venezia 1980. Sulla nascita del manicomio femminile v. Willms Wiebke, San Clemente, storia di un’isola veneziana: uno dei primi manicomi femminili in Europa, Venezia 1993.

23. Comune di Venezia, Invito alle isole, Venezia 1984.

24. Giovanni Battista Stefinlongo, Il giardino del Doge. I giardini del popolo. Studi sul restauro urbano e sul recupero e riuso delle isole e delle fortificazioni della laguna di Venezia, Chioggia 1998 (v. in partic. La piazza forte militare marittima a forti staccati della laguna di Venezia).

25. L’isola di S. Giorgio in Alga venne interessata nel 1975 da un progetto della Biennale, che vi organizzò una serie di spettacoli teatrali. L’iniziativa rimase isolata, e le attrezzature e gli arredi trasportati per l’occasione nell’isola furono subito dopo trafugati.

26. Archeoclub è un’associazione nazionale, con sede centrale a Roma. La sezione veneziana, attiva dal 1985, pubblica dal 1990 un bollettino trimestrale, «Archeo Venezia», con le informazioni ai soci sulle attività dell’associazione, ospitando saggi e articoli sulla laguna e le isole. L’impegno dell’Archeoclub per l’isola del Lazzaretto Nuovo inizia nell’87, all’interno di un progetto denominato «Per la rinascita di un’isola», condotto in collaborazione con l’Ekos Club, con la Soprintendenza per i beni ambientali e architettonici di Venezia e con la Soprintendenza archeologica del Veneto.

27. G.B. Stefinlongo, Il giardino del Doge; v. anche Lorenzo Bonometto-Giovanni Zambon, Il Lazzaretto Nuovo, «Quaderni di Documentazione», 1986, nr. 10, p. 55.

28. La Lega nazionale per la difesa del cane ha in concessione l’isola dal 1982. La presenza dei cani ha scongiurato il destino, comune ad altre isole abbandonate, di essere depredata dei materiali edilizi esistenti. Nel periodo precedente era stata utilizzata allo stesso scopo da un volontario lidense, che l’aveva adottata dopo aver tentato un’analoga iniziativa a S. Spirito. Vi è un’altra associazione per la difesa degli animali, la Dingo, che opera un continuo monitoraggio delle isole della laguna, luoghi prescelti per l’abbandono dei gatti; aveva istituito un gattile nell’isola di S. Clemente, abbandonato però nel 1999 dopo la vendita del complesso.

29. V. Giovanni Battista Stefinlongo, Il Forte di Mazzorbo e l’area di gronda dell’Isola dei Laghi, Venezia 1996. Un’iniziativa degna di nota è anche quella che interessa S. Giacomo in Paludo, dove un’altra associazione volontaristica — la V.A.S. (Verdi Ambiente Società) — si sta impegnando per il recupero dell’isola, in un progetto che prevede la realizzazione di un centro per l’ambiente, con laboratori e spazi per attività didattiche, convegni e incontri, facilitato dal possibile allacciamento con la linea del trasporto lagunare che collega Venezia con Burano.

30. L’isola della Certosa è interessata da un’iniziativa comunitaria — il cosiddetto «Progetto Konver» — che garantisce il finanziamento di una parte degli interventi previsti dal progetto di recupero approntato dal Comune nel 1994 (v. Comune di Venezia, Progetto Konver 1994-1997, Venezia 1995). Alle iniziative per la salvaguardia e il rilancio dell’isola partecipa attivamente il Comitato Certosa e S. Andrea, costituitosi nel 1985, attivo su molti fronti e, sul piano operativo, animatore di provvidenziali interventi di recupero ambientale del Forte di S. Andrea e delle sue adiacenze, che ora consentono di apprezzarne lo straordinario valore monumentale.

31. Il comando settore forze lagunari, insieme con il battaglione costiero lagunare Marghera, viene riconosciuto ufficialmente il 15 dicembre 1951. Nel 1955 nasce, con sede a S. Andrea e con personale della Marina militare, il gruppo mezzi da sbarco. Per una ricostruzione storica della presenza dei Lagunari a Venezia v. Rosario Mangione, Venezia e le truppe anfibie, Venezia 1991. Una buona catalogazione degli edifici militari nella laguna è stata effettuata da Pietro Frosini e Nereo Neri in Gli edifici militari veneziani. Invito alla riscoperta di un patrimonio, dattiloscritto (1976).

32. Pietro Marchesi, Il Forte di Sant’Andrea a Venezia, Venezia 1978.

33. Informazioni e dati sono tratti da Giampaolo Salbe, Storia dei trasporti pubblici di Venezia-Mestre-Lido, Cortona 1985. Sullo stesso argomento v. anche Francesco Ogliari-Achille Rastelli, Navi in città: storia del trasporto urbano nella laguna veneta e nel circostante territorio, Milano 1988.

34. Laura De Carli-Michele Zoggia, Tipologie edilizie e qualità architettonica, in Edilizia popolare a Venezia. Storia, politiche, realizzazioni dell’Istituto Autonomo per le Case Popolari della Provincia di Venezia, a cura di Elia Barbiani, Milano 1983, pp. 112-140.

35. Il comando alleato responsabile del «Rest Camp» lidense pubblicava un bollettino intitolato «Adriatic Breeze», con due rubriche, dedicate rispettivamente a Venezia («Seeing Venice») e al Lido («Today on the Lido»), con le principali informazioni riguardanti gli spettacoli e gli eventi in programma. V. Giancarlo Garello, Un G.I. al Lido, «Lido di Oggi, Lido di Allora», 12, 1998, nr. 14, pp. 62-74.

36. Il Comune di Venezia aveva peraltro studiato fin dagli anni Cinquanta un progetto per l’allungamento della pista, e anche provveduto a realizzare alcune delle opere a mare, per consentire lo spostamento della linea dell’arenile. L’aeroporto Nicelli è oggi sede dell’Aeroclub G. Ancillotto. Classificato come aeroporto turistico internazionale, attende un rilancio legato alle caratteristiche del Lido, anche per la possibilità di funzionare come base per le operazioni di protezione civile. Di ciò si occupa il Consorzio Nicelli recentemente costituito per iniziativa del Comune di Venezia, della Camera di commercio, dell’Azienda Promozione Turistica e dell’Aeroclub.

37. Per la ricostruzione delle vicende delle Aeronavali v. le preziose testimonianze raccolte da Giorgio Pecorai, «Lido di Oggi, Lido di Allora», 7, 1993, nr. 9; 8, 1994, nr. 10; 10, 1996, nr. 12; in partic. gli articoli a firma di Giuliano Caprani.

38. Alle fonti del piacere. La civiltà termale e balneare fra cura e svago, a cura di Nelli Elena Vanzan Marchini, Milano 1998, e La memoria della salute. Per un’analisi storica sulle origini dell’ospedale e sulle sue trasformazioni recenti, v. anche i documenti raccolti in «Lido di Oggi, Lido di Allora», 5, 1991, nr. 6 e 9, 1995, nr. 11.

39. Lo testimonia la denominazione ufficiale assunta dai padiglioni: padiglione Verona, padiglione Vicenza, padiglione Belluno, padiglione Friuli, padiglione Venezia, padiglione Cassa di Risparmio, padiglione Principe di Piemonte, padiglione V.E. Marzotto-Valdagno, padiglione Lanificio Rossi-Schio.

40. L’Ospedale al Mare, classificato nel 1939 come ospedale «specializzato di 1a categoria», era stato qualificato come ospedale «generale di 1a categoria» nel 1958. Si avvaleva di attrezzature mediche e scientifiche di alta specializzazione, richiamando l’attenzione di analoghe istituzioni operanti in molti altri paesi. Dal ’47 all’80 pubblicava una rivista, «Archivio dell’Ospedale al Mare», con i risultati della ricerca scientifica condotta dalle équipes medico-sanitarie che operavano al suo interno, in particolare sugli effetti dei fattori climatici sull’organismo umano. Disponeva di una biblioteca medica, di un istituto bioclimatologico, di un osservatorio meteorologico e di molti altri servizi aperti anche all’esterno.

41. Giancarlo De Carlo, Tra Acqua e Aria. Un progetto per l’isola di Mazzorbo nella laguna veneta, a cura di Connie Etra Occhialini, Genova 1989.

42. Sulle trasformazioni dell’isola in rapporto ai suoi caratteri naturalistici v. Lorenzo Bonometto, Sant’Erasmo, analisi naturalistica dell’isola finalizzata alla pianificazione territoriale, Venezia 1997.

43. Maurizio Rispoli-Andrea Stocchetto-Francesco Di Cesare, La produzione materiale nel Comune di Venezia, pt. I, Venezia 1997.

44. Mariapia Miani-Daniele Resini-Francesca Lamon, L’arte dei maestri vetrai di Murano, Treviso 1984.

45. Per gli interventi sulle ex Conterie il Comune di Venezia ha stipulato nel 1997 un accordo di programma con la Regione Veneto e il Ministero dei Lavori pubblici, e nel 1998 ha bandito un concorso nazionale di progettazione.

46. San Lazzaro degli Armeni. L’isola, il monastero, il restauro, a cura di Michela Maguolo-Massimiliano Bandera, Venezia 1999.

47. V. n. 10; la legge 171 aveva previsto la formazione obbligatoria di un piano comprensoriale, esteso al territorio dei sedici comuni gravitanti sulla laguna. Gli studi preliminari si fecero, e il piano fu redatto (e adottato dal consiglio di comprensorio nel gennaio 1980). Ma la molteplicità dei conflitti, politici e di interesse, scaturiti dalle sue previsioni ne decretò la rapida archiviazione. Un successivo piano ambientale per la laguna fu redatto fra gli anni Ottanta e Novanta da parte della Regione Veneto, con la denominazione di P.A.L.A.V., definitivamente approvato nel 1995. V. Comprensorio dei Comuni della Laguna e dell’Entroterra di Venezia, Proposta di Piano Comprensoriale, Venezia 1979, e P.A.L.A.V., Piano di Area della Laguna e dell’Area Veneziana, a cura della Regione Veneto, Verona 1999.

48. Il concorso, indetto nel 1976, non dette alcun esito concreto, perché nessuno dei progetti presentati fu dichiarato idoneo. I progetti furono comunque acquistati dal Ministero dei Lavori pubblici, che diede l’incarico a un gruppo di esperti di studiare una nuova soluzione. Una buona sintesi di questo studio, terminato nel 1981, è contenuta nel fascicolo Difesa della laguna di Venezia dalle acque alte, pubblicato in occasione della mostra degli elaborati tenutasi a Venezia nel 1981. Su questa stessa vicenda v. anche Comune di Venezia, La salvaguardia fisica della laguna. Dieci anni di impegno per Venezia, Venezia 1983.

49. Giampaolo Rallo, Guida alla natura nella Laguna Veneta, Padova 1999.

50. Il Consorzio Venezia Nuova svolge anche un’intensa attività editoriale e di divulgazione, pubblicando i risultati di studi e ricerche inerenti le tematiche su cui è impegnato. Un resoconto esauriente degli interventi programmati e di quelli realizzati viene sistematicamente presentato nel periodico «Quaderni Trimestrali», giunto all’ottavo anno di vita.

51. Le valli da pesca sono 10 nella laguna sud, e 16 nella laguna nord e nord-est; non hanno subito trasformazioni di rilievo dal dopoguerra a oggi (salvo che per S. Cristina, con la ricostruzione delle arginature distrutte dall’alluvione del ’66). Sulla struttura e la funzionalità delle valli v. Vasco Boatto-Walter Signora, Le valli da pesca della laguna di Venezia, Padova 1985. Per un’analisi di dettaglio, Antonio Fabris, Valle Figheri. Storia di una valle salsa da pesca della laguna veneta, Venezia 1991.

52. La realizzazione del parco è finanziata con i fondi della legge speciale. La sua realizzazione è conseguente a un concorso internazionale di progettazione, bandito dal Comune nel 1991. Una sintesi dei progetti presentati al concorso è contenuta nel catalogo pubblicato dal Comune di Venezia-Assessorato all’Urbanistica, Un parco per San Giuliano, Concorso Internazionale, Venezia 1992.

53. Le prime proposte ufficiali per l’allontanamento del traffico petrolifero dalla laguna risalgono alla legge 171/1973. A esse hanno fatto seguito vari studi e proposte, confluiti in un progetto redatto dal magistrato alle Acque-Consorzio Venezia Nuova nel 1992, e aggiornato quattro anni dopo. Un recente pronunciamento del Comitatone (1997) prevede specificamente la chiusura del terminal di Marghera dell’oleodotto che alimenta la raffineria di Mantova.

54. Mose è acronimo di Modulo sperimentale elettromeccanico. Un modello-prototipo delle paratie è stato sperimentato in laguna a metà degli anni Novanta, mentre il progetto nel suo insieme è stato sottoposto a una procedura di studi di impatto ambientale, e a due successive valutazioni di compatibilità ambientale (una favorevole e una contraria).

55. Wladimiro Dorigo, Venezia, origini. Fondamenti, ipotesi, metodi, I-III, Milano 1983; dello stesso autore v. anche Fra il dolce e il salso: origini e sviluppi della civiltà lagunare, in La laguna di Venezia, a cura di Giovanni Caniato-Eugenio Turri-Michele Zanetti, Verona 1995, pp. 137-192. Un resoconto esauriente sugli ultimi ritrovamenti è quello di Ernesto Canal, Le Venezie sommerse, quarant’anni di archeologia lagunare, ibid., pp. 193-226.

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