La grande scienza. La biomedicina e le sue basi epistemologiche

Storia della Scienza (2003)

La grande scienza. La biomedicina e le sue basi epistemologiche

Gilberto Corbellini

La biomedicina e le sue basi epistemologiche

Dagli anni Settanta del Novecento la riflessione epistemologica sulla natura del sapere medico si sta confrontando con due serie di questioni che vanno dai rapporti tra i contenuti scientifici e gli scopi pratici della medicina, alla natura della spiegazione causale delle malattie, alle strategie di concettualizzazione della salute e della malattia.

Lo statuto epistemologico della medicina

Georges Canguilhem (1988) ha proposto una definizione della medicina che ne coglie la problematica natura epistemologica di sapere il cui scopo primario è prendersi cura dei problemi della salute del singolo malato o di una popolazione. Per conseguire con maggiore efficacia questo obiettivo però, essa cerca di accrescere il proprio grado di scientificità ricorrendo alle conoscenze e alle metodologie della ricerca di base la quale, per definizione, non è interessata alla singola persona o ai problemi di una particolare comunità bensì a fornire spiegazioni dei fenomeni patologici e clinici di portata generale. La medicina è, per Canguilhem, "une science appliquée ou une somme évolutive de sciences appliquées" (1988, p. 24). L'applicazione del metodo sperimentale e delle conoscenze scientifiche alla medicina ha prodotto storicamente nuove scienze di base, come l'immunologia alla fine dell'Ottocento, ma anche l'endocrinologia e la farmacologia. Inoltre la ricerca di rimedi per le malattie, attraverso l'applicazione delle scienze di base, è "una sperimentazione autentica".

Edmund Pellegrino e David Thomasma (1981) considerano invece i contenuti scientifici del sapere medico poco rilevanti al fine di comprendere la natura della medicina come pratica di guarigione: mettere tra parentesi la persona malata dal loro punto di vista significa negare la ragione per cui la medicina esiste. Ponendo l'accento sul carattere sociale della medicina, sul ruolo dei valori nelle scelte mediche, e assumendo l'irriducibilità di questi aspetti della medicina alla biologia si ottiene la tesi, abbastanza diffusa, che la medicina non è una scienza (Munson 1981).

Kenneth Schaffner (1993), alla luce di un modello di riduzione teorica che riconosce la possibilità di ricondurre le prestazioni cognitive e le componenti etico-sociali del comportamento umano a funzioni nervose, ha sviluppato un percorso per la filosofia della medicina che dovrebbe consentire di superare gli argomenti a sostegno del carattere non scientifico della medicina basati sulle tesi antiriduzionistiche. La sua strategia è quella di accogliere in prima istanza il modello biopsicosociale della medicina proposto da George Engel (1977) che mette in rilievo l'esistenza di livelli causali psicologici e sociali accanto a quelli definiti dalle scienze naturali nella determinazione dei fatti medici. Partendo da questa posizione egli sostiene, però, che l'articolazione ontologica ed epistemologica dei processi causali di cui tratta la medicina non esclude che le concettualizzazioni ai livelli più elevati di complessità, come gli aspetti psicologici o le valutazioni etiche, siano riconducibili a processi del cervello umano.

È vero che nell'esperienza clinica, che porta a conoscere e ad affrontare la malattia nel singolo paziente, opera un tipo di epistemologia diverso rispetto a quello che guida la costruzione della conoscenza della malattia come fenomeno biologico. Hubertus Nederbragt (2000) mostra che, nella sfera della conoscenza di base, la logica prevalente nei rapporti tra le discipline fondamentali della medicina è quella della interconnessione tra argomenti che si "sommano" - grazie all'apporto dei diversi ambiti di studio - per produrre "un edificio teorico coerente". Al contrario, a livello clinico il confronto tra gli argomenti che concorrono alla conoscenza della malattia nel singolo paziente avviene per 'competizione', nel senso che le conoscenze di base sono normalmente antagonizzate dalle altre dimensioni che condizionano le scelte cliniche, come l'esperienza personale del paziente, i rapporti sociali, i fattori economici e i valori morali. Anche se guidati da logiche diverse, i due livelli di conoscenza hanno tra loro lo stesso rapporto che sussiste tra un organo e l'organismo, con la conoscenza biomedica che è parte essenziale della conoscenza clinica, la quale ne definisce la funzione.

In realtà, i contenuti scientifici della medicina non sono proprio il prodotto di una collaborazione armonica tra gli approcci 'qualitativi' ed 'estrapolativi' alla malattia - ossia basati su modelli sperimentali e caratteristici delle ricerche biopatologiche e terapeutiche - e gli approcci 'quantitativi' e 'statistici' che studiano la malattia e le sue risposte ai trattamenti nei pazienti e che sono caratteristici dell'epidemiologia applicata alla sanità pubblica e alla clinica. I due approcci, in teoria, dovrebbero collaborare ma, poiché implicano differenti concezioni epistemologiche - che fanno riferimento a divergenti definizioni della malattia e della salute, nonché a concezioni diverse della causalità e del ruolo della conoscenza di base nella diagnosi clinica - di fatto alimentano due differenti filosofie della medicina.

Gli approcci 'biosperimentali', caratteristici delle indagini che vanno alla ricerca dell'eziopatogenesi delle malattie e cercano di concepire e dimostrare l'azione di un farmaco o di un trattamento, valorizzano, nel solco del programma della medicina scientifica enunciato da Claude Bernard (1865), l'indagine condotta in laboratorio sulla base di modelli sperimentali per identificare i fattori causali, esterni o interni, intesi come cause immediate o prossime della malattia in quanto tale, oppure per individuare sul piano applicativo l'obiettivo del trattamento o della prevenzione della malattia a livello della causa prossima o di un meccanismo causale definito. La tradizione biosperimentale è concentrata sulla malattia, spiegata in termini di processi fisiologici deviati rispetto al loro funzionamento tipico. Inoltre, essa è prevalentemente ispirata da una strategia 'riduzionistica', quantomeno sul piano metodologico, privilegiando un approccio analitico per determinare le proprietà e i nessi causali in gioco. In questa prospettiva, che assegna alle scienze di base il ruolo guida nella medicina, il medico che fa una diagnosi clinica procederebbe elaborando ipotesi a partire dai dati clinici e dalle sue conoscenze fisiopatologiche, mettendo quindi alla prova le ipotesi - come fa lo scienziato per scoprire leggi o trovare spiegazioni scientifiche - fino a trovare e chiarire la malattia di cui soffre il paziente.

Gli approcci statistici o 'epidemiologici' in medicina, per quanto riguarda le origini storiche, risalgono alla prima metà dell'Ottocento e sono stati rilanciati nel Novecento a partire dalle critiche metodologiche dei biometristi all'epistemologia del metodo sperimentale. La loro diffusione sistematica è avvenuta, comunque, dopo la Seconda guerra mondiale, con l'introduzione dei trial clinici per valutare l'efficacia dei farmaci e lo sviluppo di studi e metodologie in grado di stabilire un'associazione tra stati patologici e ipotetici fattori di rischio ambientali, ovvero di fornire una base obiettiva alle decisioni cliniche. Per definizione questi approcci non si interessano dei meccanismi funzionali che producono a livello immediato la fenomenologia medico-sanitaria osservata e, più che sulla malattia, pongono l'attenzione sulla salute; lo scopo degli studi epidemiologici non è infatti la spiegazione della malattia, quanto piuttosto l'identificazione di correlazioni tra fattori di rischio e malattie per sviluppare sistemi di prevenzione e promuovere la salute. In tal senso, essi sono stati applicati anche alla caratterizzazione dei determinanti sociali, economici e politici della salute e delle malattie. Gli approcci epidemiologici alla sanità pubblica si sono progressivamente riconosciuti in una teoria sociale della medicina o nel modello biopsicosociale (Engel 1977), vale a dire in una prospettiva olistica, tipica per esempio della teoria generale dei sistemi, o nelle critiche epistemologiche del riduzionismo (Vineis 1999).

Una prova del fatto che la medicina - per quanto riguarda le sue basi scientifiche - è oggi caratterizzata da due diverse filosofie della conoscenza medica emerge abbastanza chiaramente dal dibatto in corso sul significato dell'Evidence-based medicine (EBM). L'EBM, ovvero la medicina basata sulle prove di efficacia, che nell'ultimo decennio è stata proposta come un nuovo 'paradigma', fa riferimento alla filosofia degli approcci epidemiologici (Evidence-based Medicine Working Group, 1992) e assume come metodologia fondamentale per le scelte mediche le prove empiriche ricavate dai trial clinici e dalle metanalisi. Rispetto al 'vecchio' paradigma, che considerava sufficiente per un buon esercizio della pratica medica l'esperienza personale del medico e le conoscenze della fisiopatologia applicate ai problemi clinici, l'EBM ritiene necessaria anche la standardizzazione delle scelte sulla base di uno sforzo metodologico volto a rendere riproducibili le osservazioni e, soprattutto, non considera né necessarie né sufficienti le conoscenze fisiopatologiche per avere indicazioni da seguire nella pratica clinica.

Chi ritiene che la medicina debba anche spiegare le malattie facendo riferimento a meccanismi biologici, ma pure chi assegna alla statistica solo una funzione strumentale si chiede oggi se l'EBM non stia determinando una deformazione dell'epistemologia medica. Nel senso che i trial clinici e le modalità inferenziali utilizzate dall'epidemiologia clinica non possono essere considerati lo standard operativo per la medicina. A parte i problemi pratici, riguardanti la capacità dei medici di capire la validità e utilizzare i risultati degli studi clinici sperimentali, la metodologia statistica che oggi prevale in medicina sta diffondendo un'idea sbagliata del ragionamento scientifico: cioè, che la spiegazione biomedica sarebbe riducibile a una correlazione statisticamente significativa indipendentemente dal fatto che il risultato operi una selezione tra ipotesi esplicative alternative (Goodman 1999).

Spiegazione biomedica e ragionamenti clinici

La medicina è dunque un genere di impresa conoscitiva particolare. Pur utilizzando le conoscenze e i metodi della fisica, della chimica e della biologia, si distingue da esse non solo perché ha come scopo la cura e la prevenzione delle malattie nelle persone, ma anche per il fatto che le descrizioni e le spiegazioni che ne strutturano i ragionamenti sono tipicamente "verticali" (Blois 1988), ossia articolate gerarchicamente. La spiegazione e la diagnosi di una malattia possono infatti coinvolgere tutte le scienze naturali, ognuna con le sue modalità e differenti gradi di incertezza nel definire gli oggetti e i processi ai vari livelli di organizzazione. A ogni livello operano diverse entità concettuali e un particolare linguaggio descrittivo. Via via che si ascende dai livelli inferiori a quelli superiori aumentano l'incertezza e l'inesattezza nelle imputazioni causali. Ai livelli più bassi, dove si utilizzano i linguaggi della chimica e della fisica, i dati sono disponibili in forma numerica e la causalità può anche assumere la forma di equazioni. Ai livelli intermedi, quelli per esempio della fisiologia e della farmacologia, l'approccio quantitativo non sempre funziona e si cominciano a manifestare incertezze predittive che dipendono dalla natura stessa degli organismi viventi in quanto dotati di un programma genetico individuale. Quando si arriva al livello clinico i rapporti di causalità sono ancora più indefiniti, si utilizzano prevalentemente correlazioni statistiche per individuare possibili nessi causali e si deve essere pronti all'inatteso. Inoltre, entrano in gioco le componenti psicologiche, vale a dire le dimensioni soggettive dei sintomi e delle impressioni cliniche del medico, nonché le istanze etico-sociali. In tal senso, i problemi con cui ha a che fare il ragionamento medico sono caratterizzati dall'incertezza circa il modo di collegare tra loro tutti i dati empirici.

Le riflessioni epistemologiche sulla natura della spiegazione biomedica delle malattie convergono largamente sul fatto che questa difficilmente può essere ricondotta ai modelli nomologici privilegiati dalla tradizione logicista o fisicalista del neopositivismo. Banalmente si può dire che in medicina non esistono leggi del cancro o dell'infarto.

Schaffner (1986) ha inquadrato complessivamente l'epistemologia della medicina rielaborando la nozione della "medicina come scienza dei particolari" e riconoscendo l'origine di questa condizione nel fatto che, fra le entità di cui si occupa, prevalgono rapporti di analogia piuttosto che di identità e che i suoi principî e le sue generalizzazioni hanno un grado di corrispondenza non completo, e talvolta scarso, con le entità in questione. L'operazione prendeva le mosse dai diversi tentativi di caratterizzare le differenze tra le teorie fisiche e quelle biologiche, che lo stesso Schaffner (1980) aveva concretizzato nell'idea delle teorie biomediche come prevalentemente di "media portata" (middle range). Nel 1986 egli valorizzava euristicamente l'accezione del termine 'paradigma', inteso come "modello esemplificativo" (exemplar), utilizzata da Thomas Kuhn nel Poscritto del 1970 a The structure of scientific revolution per rappresentare il senso in cui avviene concretamente nella scienza l'apprendimento delle strategie di soluzione di problemi. Gli exemplar nel caso delle scienze biomediche sono gli organismi prototipo o i processi su cui sono state sviluppate descrizioni e spiegazioni che, per analogia, vengono riferite ad altri organismi, della stessa specie o di specie diversa, e ad altri processi. E proprio nelle scienze biomediche i modelli esemplificativi rappresentano l'origine e l'ossatura delle teorie esplicative, in cui "i principî fisiopatologici imprecisamente formulati costituiscono le forme biomediche delle generalizzazioni simboliche". Queste generalizzazioni articolano le similarità condivise o le analogie positive all'interno di una popolazione di organismi e qualche volta possono includere una più ampia varietà di fenomeni "sulla base di una larga esperienza con esemplari specifici e una modellizzazione analogica" che utilizza "un ragionamento largamente qualitativo e comparativo" (Schaffner 1986, p. 75).

Dallo studio del modo in cui sono strutturate le teorie in discipline biomediche come la fisiologia, l'immunologia, l'endocrinologia e la neuroscienza, per Schaffner è evidente che tali teorie sono costruite come serie di modelli temporali che si sovrappongono e interessano diversi livelli di organizzazione (overlapping interlevel temporal models). I modelli che entrano a far parte di queste teorie si somigliano, hanno un obiettivo limitato e si applicano direttamente a pochi casi puri. Inoltre sono tipicamente caratterizzati dal fatto di riferirsi a diversi livelli di organizzazione, che vanno dalle molecole alle cellule, ai tessuti, agli organi, agli organismi, fino alle popolazioni. La dimensione temporale dei modelli, ovvero l'andamento dei cambiamenti che avvengono nel tempo, può far riferimento a rapporti causali di tipo sia deterministico sia probabilistico, sia casuale sia misto. Il carattere probabilistico delle connessioni tra successivi stati di sviluppo nel modello non ha comunque a che fare con il fatto che non vi è completa corrispondenza tra il modello e la realtà, rispetto alla quale, nondimeno, esso rappresenta la conoscenza disponibile più prossima. Successivamente Schaffner (1993) ha sostenuto che le teorie di media portata forniscono un tipo di spiegazione particolare, che ha chiamato "spiegazione biomolecolare" (molecular biological explanation), dove non ci sono leggi come quelle che si trovano nelle spiegazioni fisiche ma solo generalizzazioni (per es., "l'enzima chinasi proteica agisce fosforilando le molecole"), che possono avere estensione variabile e che sono formulate in una terminologia caratteristicamente articolata su più livelli di organizzazione che fa riferimento, cioè, a diversi campi disciplinari.

Analizzando diversi casi storici, in particolare la scoperta dell'eziologia batterica delle ulcere dello stomaco, Paul Thagard (1999) ha egualmente concluso che la spiegazione scientifica delle malattia non utilizza modelli deduttivi, né fa riferimento a singole cause, ma neppure può essere definita, come tendono a fare gli epidemiologi, di tipo statistico. La statistica è importante per sviluppare la spiegazione di una malattia, poiché individua le correlazioni. In quanto tali, però, le correlazioni statistiche non hanno una forza esplicativa, poiché possono essere il risultato di cause alternative concorrenti. Per Thagard la conclusione che esiste una relazione causale e quindi esplicativa tra un fattore e una malattia dipende da numerose considerazioni di 'coerenza', incluso lo spettro completo di correlazioni spiegate, l'applicabilità di cause alternative e la disponibilità di un meccanismo per cui il fattore produce la malattia. Thagard (1999) definisce la spiegazione biomedica come la "concretizzazione di una rete causale". Per ogni malattia gli studi epidemiologici e la ricerca biologica stabiliscono un sistema di fattori causali implicato nella sua produzione. I nodi della rete sono connessi non semplicemente da probabilità condizionali (probabilità dell'effetto data la causa) ma da relazioni causali inferite sulla base di molteplici considerazioni, incluse correlazioni, cause alternative e meccanismi.

Questo per quanto riguarda la spiegazione scientifica della malattia. In realtà, per Schaffner, il ruolo degli exemplar è ulteriormente accentuato nelle scienze cliniche (ovvero nella pratica clinica). Qui è il paziente individuale l'oggetto della conoscenza e le diagnosi delle malattie sulla base delle quali vengono effettuate le scelte cliniche o sanitarie rappresentano le generalizzazioni. Il paziente è "l'esemplare clinico" di una o più malattie o di un processo patologico al quale il medico applica un personale patrimonio di generalizzazioni nosologiche strutturate e, ovviamente, le conoscenze di base. Nella diagnosi medica si procederebbe in pratica giustapponendo una teoria patologica - che è costruita come un insieme di modelli sovrapposti e mal definiti, ognuno dei quali spiega che cosa è 'sbagliato' nella fattispecie rispetto ai processi normali o sani - a un insieme di esemplari di pazienti individuali anch'essi sovrapposti e mal definiti. "Questa doppia cattiva definizione [smearedness] richiede tipicamente che il clinico lavori estensivamente con il ragionamento analogico e con principî fisiopatologici di connessioni qualitative o al meglio comparative" (Schaffner 1986, p. 76). Il punto di vista di Schaffner coglie, a livello epistemologico, un clima del tutto nuovo che a metà degli anni Ottanta si è andato affermando nel modo di studiare e concepire la logica della diagnosi clinica.

Fino a quel momento, l'idea prevalente tra i metodologi clinici, affermatasi come conseguenza della svolta scientifica della seconda metà dell'Ottocento, era che la diagnosi corrisponderebbe alla scoperta di un difetto strutturale o funzionale in un meccanismo biologico attraverso l'applicazione coerente delle conoscenze di base al contesto clinico (Feinstein 1973), ossia manipolando i contenuti di incertezza dei dati di partenza mediante la teoria della probabilità e la statistica (Wulff 1976). La tesi più diffusa era che i medici, nell'effettuare una diagnosi, utilizzerebbero un ragionamento ipotetico-deduttivo, poiché esso riflette la struttura del metodo scientifico (Kassirer 1984). Ovviamente la verifica delle ipotesi diagnostiche differisce dalla verifica delle ipotesi scientifiche, dal momento che il clinico opera sotto vincoli particolari che sono quelli dell'interesse e del benessere del paziente e non può perseguire la conoscenza come fine a sé stessa ma deve, a un certo punto, accontentarsi del risultato che gli consente di intraprendere il trattamento migliore.

Agli inizi degli anni Ottanta erano comunque disponibili i risultati di diversi studi empirici stimolati dall'interesse delle scienze dell'artificiale, e quindi delle scienze cognitive, per la 'modellizzazione' del ragionamento medico, in quanto dominio ricco di conoscenze, semanticamente complesse e dunque interessanti per migliorare la comprensione dei processi cognitivi e computazionali (Evans e Patel 1989). Le prime ricerche si concentrarono sugli aspetti generali del problem solving in medicina in termini di caratterizzazione di parametri in grado di definire l'efficacia delle strategie cognitive utilizzate per acquisire e manipolare i dati del paziente. Questi approcci, ispirati dalle idee di Allen Newell e Herbert Simon, consideravano ancora il ragionamento clinico come dotato di una struttura ipotetico-deduttiva e valutavano empiricamente il numero e la qualità delle ipotesi generate in rapporto all'accuratezza della diagnosi, ma senza entrare nel merito di come queste ipotesi emergano durante il processo cognitivo (Elstein et al. 1978).

Altre indagini empiriche, volte a cogliere e modellizzare la logica del ragionamento diagnostico, si sono invece ispirate alla tesi, ricavata dai modelli costruttivisti emersi in ambito psicopedagogico, che il ragionamento diagnostico non avrebbe una natura algoritmica che viene appresa e quindi applicata in modo sistematico con varianti dipendenti dall'esperienza, né avrebbe come obbiettivo primario quello di trovare un difetto nella macchina del corpo. Piuttosto si tratterebbe di un complesso di strategie di classificazione euristica dei dati riguardanti un paziente, che il medico cerca di far corrispondere a una specifica categoria diagnostica (Clancey 1988). In tal senso, il medico non si richiamerebbe tanto alle conoscenze di base, se non quando si trova di fronte ad anomalie o nei contesti terapeutici; sarebbero, cioè i 'novizi' a fare uso delle conoscenze di base, mentre gli esperti nello stabilire una diagnosi si farebbero guidare da esemplari e analogie, sviluppando una perizia che con il tempo dipende sempre meno dalla comprensione dei meccanismi fisiologici (Patel et al. 1994). Da questo tipo di approcci è altresì emerso che tra le osservazioni e le scoperte da cui prende inizio la diagnosi clinica e la diagnosi operano interpretazioni prediagnostiche o ipotesi provvisorie (facet), che sono frutto dell'esperienza individuale di soluzione di numerosi casi e che contestualizzano i dati all'interno di descrizioni patologiche generali o di descrizioni categoriali, che funzionano da richiamo per accedere alle ipotesi diagnostiche.

Nel contesto delle riflessioni epistemologiche sulle caratteristiche del ragionamento clinico è emersa la tesi che i giudizi medici sono 'borderline' e che le malattie, nonché le loro terapie, non dovrebbero essere associate alla loro definizione e applicazione in termini di condizioni necessarie e sufficienti ma, piuttosto, considerate concetti basati su 'somiglianze di famiglia', nel senso in cui le intende L. Wittgenstein (Minogue 1982). Questa tesi è ricorsa frequentemente nelle riflessioni epistemologiche sulla medicina, e lo stesso Schaffner (1986) vi si riconosce. Essa è stata peraltro interpretata anche nel senso che non esisterebbero criteri di demarcazione tali da rendere possibile stabilire se una particolare forma di concettualizzazione e spiegazione possa dirsi empiricamente fondata e quindi scientifica; questa tesi, quindi, è stata utilizzata per sostenere che la medicina non è una scienza naturale bensì una scienza umana (Vineis 1999).

In realtà, il fatto che in tutte le pratiche cognitive facciamo uso di concetti sfumati (più o meno) e che le spiegazioni e le classificazioni nelle scienze empiriche abbiano un carattere politetico (o polimorfo), ha a che fare con la natura non essenzialistica delle categorizzazioni umane (Rosch 1977). Inoltre, il fatto che queste funzionino sulla base di somiglianze di famiglia o di connotati di prototipicità e di centralità - come hanno mostrato anche diversi studi nel campo delle scienze cognitive - si spiega con le origini evolutive e le caratteristiche fisiologiche dei nostri apparati biologici di categorizzazione (Edelman 1987). Significativamente, Geoffrey Norman (2000) ha svolto di recente una riflessione sull'epistemologia del ragionamento clinico nella quale sottolinea proprio come gli studi filosofici, psicologici e neuroscientifici delle strategie di categorizzazione stiano convergendo sulla loro dipendenza dal contesto; se "la capacità di identificare regolarità risulta innata, queste abilità rispondono direttamente all'ambiente", per cui le categorizzazioni concettuali utilizzate dai medici nella loro pratica sono fortemente individualizzate. Il ragionamento clinico, quindi, funziona in modo diverso dai processi algoritmici implementati nel computer e, nel raccogliere e selezionare i dati da inserire nei sistemi decisionali computerizzati, intervengono strategie cognitive che interpretano i dati stessi.

Il concetto di malattia

Nel contesto della medicina sperimentale, fino al secondo dopoguerra, è stato scontato considerare malattia e salute come condizioni fra loro incompatibili, con la malattia quale elemento la cui assenza o presenza bastava a definire se l'organismo fosse o meno in salute. L'evoluzione scientifica della medicina aveva sollevato soprattutto il problema se le malattie fossero 'entità' o 'processi', ovvero se le definizioni della malattia riflettessero una realtà oggettiva o rappresentassero soltanto una maniera di organizzare intellettualmente una situazione complessa e cangiante. A seconda che le malattie fossero considerate entità individuali e la realtà patologica come qualcosa di completamente distinto dalla realtà fisiologica, vale a dire come invenzioni convenienti per caratterizzare deviazioni quantitative dei sistemi viventi dal funzionamento normale, si sono configurate nell'ambito della riflessione biomedica la posizione di tipo 'nominalista' (concetto fisiologico o funzionalistico della malattia) e la posizione 'essenzialistica' (concetto ontologico o essenzialistico della malattia). Il concetto nominalistico e quello essenzialistico di fatto hanno costantemente convissuto nella storia della medicina: mentre il primo riflette l'approccio della patologia dinamica o fisiopatologia, il secondo è stato importante nella tradizione nosologica. Nell'ambito degli sviluppi sperimentali della medicina, la microbiologia medica ha comunque rilanciato il concetto ontologico, facendo coincidere la definizione della malattia con l'agente causale specifico; negli ultimi decenni del Novecento invece questa funzione di concettualizzazione ontologica è stata assunta, nell'ambito della medicina molecolare, dal gene (alterato).

Nel 1946 l'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) metteva alla base della propria funzione politica una definizione 'positiva' di salute intesa come "uno stato di benessere fisico, psichico e sociale completo, e non semplicemente come assenza di malattia o infermità". Ciò implicava che si potesse essere più o meno in salute anche in assenza di condizioni riconoscibili come tali dalla patologia e che una condizione non direttamente patologica, come la povertà o l'assenza di diritti civili, potesse essere fonte di disagio e comunque concorrere a diminuire la salute. La definizione dell'OMS è stata spesso criticata per l'assoluta mancanza di concretezza e nella dichiarazione di Alma Ata del 1978 l'OMS stessa ha riformulato la definizione di salute come la condizione che permette lo svolgimento di un'attività lavorativa. Intorno al problema se sia possibile definire positivamente la salute si è svolto un ampio dibattito (Caplan 1993).

Sulla scia delle critiche storico-filosofiche mosse da Georges Canguilhem (1966) alla definizione fisiopatologica di malattia come deviazione quantitativa da una normalità funzionale statisticamente rappresentata, che sottolineavano come sul piano clinico e a livello dell'esperienza del singolo malato l'approccio della 'patologia oggettiva' fosse privo di senso, emergeva la tesi che alla definizione di una particolare condizione come malattia non concorrano tanto criteri obbiettivi o scientifici bensì i sistemi di valori prevalenti in un particolare contesto storico-culturale, nonché quelli individuali. Tale prospettiva veniva di fatto radicalizzata, e contestualizzata nelle chiavi filosofiche della fenomenologia e dell'esistenzialismo, dalle critiche espresse a partire dai primi anni Sessanta contro la psichiatria biologica, ovvero nei riguardi degli abusi delle strategie diagnostiche e delle terapie somatiche in psichiatria, a partire dalla messa in discussione delle definizioni cosiddette organicistiche della malattia mentale (Caplan 1993).

Gli approcci 'normativi' al problema della definizione di malattia e salute fondano quindi le loro analisi su considerazioni storico-mediche, sociologiche, psicologiche e politico-culturali, mostrando in generale come le categorizzazioni mediche siano state utilizzate arbitrariamente per connotare come patologiche condizioni quali il desiderio di libertà degli schiavi, la masturbazione, l'omosessualità e il dissenso politico (Engelhardt 1975). Da queste analisi è stata ricavata la tesi secondo la quale i concetti di salute e malattia sono 'relativi' e dipendenti dai contesti culturali, economici e ideologici. Tesi che i normativisti considerano valida per tutte le malattie, incluse quelle infettive, il diabete o l'infarto.

Alcune definizioni normative della salute e della malattia si rifanno al significato soggettivo della malattia, espresso dal termine inglese illness, mettendo per esempio l'accento sul fatto che nelle definizioni di salute e malattia quello che conta è il 'male' percepito dal paziente come associato alla disfunzione. In altri termini, non la deviazione dal funzionamento normale ma la perdita di capacità, il dolore, il rischio della vita e gli altri mali associati a una particolare disfunzione indurrebbero a valutare negativamente la deviazione dalla normalità funzionale (Culver e Gert 1982).

Sullo sfondo di riflessioni che definivano la salute come la condizione che rende possibili le relazioni umane e il compimento del potenziale umano individuale (Seedhouse 1986), è emerso un punto di vista che fa riferimento all'olismo e all'analisi ecologica e sociologica e che definisce la malattia e gli altri concetti medici negativi nei termini di quegli stati che verosimilmente possono ridurre la salute. Al centro di questo approccio c'è l'idea di 'benessere umano' e il concetto che l'essere umano è una persona attiva che vive in una rete di relazioni sociali. Le caratteristiche prese in esame sono le sensazioni di benessere e sofferenza e, quindi, la capacità di portare a termine le azioni necessarie o desiderate per condurre la propria esistenza quotidiana. Una persona è dunque in salute se nelle circostanze della vita comune è in grado di perseguire gli obiettivi che sono per lei vitali; per converso è malata se non è in grado di perseguire tali scopi, o può perseguirli solo in parte (Nordenfelt 1993).

Gli approcci normativi alla definizione dei concetti di salute e malattia esplorano anche diverse strategie che inquadrano le dimensioni, irriducibilmente valutative e socioculturalmente costruite, della medicina sulla base di caratterizzazioni delle ontologie mediche in cui viene negata la possibilità di una rigida demarcazione tra condizioni di salute e di malattia (Cherry 2000). Particolarmente radicale, per gli assunti costruttivisti e l'aspettativa di rifondare completamente la logica della medicina, appare l'approccio basato sulla teoria dei fuzzy set, elaborato da Kazem Sadegh-Zadeh (2000). Salute, infermità e malattia sarebbero caratteristicamente insiemi fuzzy, a cui una persona può appartenere in gradi diversi, e la logica fuzzy - che, com'è noto, funziona violando alcuni fondamentali principî della logica classica - applicata alla teoria medica definisce le malattie come "costrutti deontici" che emergono socialmente intorno a un "prototipo di condizione umana indesiderabile e carica di valori". Il grado di indesiderabilità del prototipo è la funzione di appartenenza come paziente all'insieme fuzzy e si stabilisce sulla base di rapporti di somiglianza, condizionando ovviamente anche la scelta di trattare medicalmente una determinata condizione.

Gli approcci normativi colgono senza dubbio dimensioni effettive della concettualizzazione della malattia. Tuttavia, in ambito medico-scientifico prevale l'idea che malattia e salute siano fatti obiettivi, riconducibili a definizioni empiriche; tale idea è stata a lungo perseguita cercando una definizione avalutativa. Più recentemente sono emersi però approcci che appaiono in grado di dar conto dello status particolare delle definizioni di salute e malattia, ovvero del fatto che esse comportano una dimensione valutativa, comunque empiricamente fondata nel modo di funzionare dei sistemi viventi.

Alla base della maggior parte degli approcci naturalistici alla definizione di salute e malattia vi è il concetto statistico di normalità, affermatosi nella medicina scientifica agli inizi del Novecento, che trova i suoi antichi retaggi nell'umoralismo ippocratico e le più recenti formulazioni nei concetti fisiologici di 'equilibrio' e 'omeostasi'. Da Claude Bernard in poi la definizione di malattia nei trattati di patologia e fisiopatologia ha ruotato intorno al concetto di deviazione quantitativa a livello di parametri funzionali che sono mantenuti stabili da appositi meccanismi fisiologici. Walter B. Cannon nel 1929 definì 'omeostasi' la condizione di stabilità dei parametri fisiologici fondamentali per la sopravvivenza, meccanismi che sono stati poi impropriamente chiamati omeostatici. Quando la deviazione non può essere compensata o i meccanismi non funzionano in maniera adeguata, l'organismo è incapace di adattarsi alle variazioni ambientali e si producono danni morfologici, biochimici e fisiologici.

La difficoltà di definire in modo assoluto quali siano i valori normali entro cui dovrebbero essere mantenuti i parametri fisiologici perché l'organismo continui a essere sano e la scoperta che il concetto di omeostasi non descrive adeguatamente il funzionamento o malfunzionamento di sistemi adattativi - che consentono per esempio di sviluppare le risposte immunitarie o di apprendere nuove risposte comportamentali - hanno stimolato l'elaborazione di una nuova definizione naturalistica della malattia, in aperta contrapposizione rispetto agli approcci normativi. Si tratta del criterio suggerito dal filosofo Christopher Boorse a metà degli anni Settanta, per cui salute e malattia possono essere definite biologicamente sulla base della corrispondenza o meno di una certa funzione con il ruolo adattativo che essa deve svolgere nell'organismo in base al progetto stabilito dall'evoluzione biologica. La salute per un organismo consiste nel fatto di funzionare in conformità al progetto naturale determinato dalla selezione naturale. Gli scopi che guidano l'evoluzione non hanno nulla a che fare con la morale, l'ideologia e i valori in generale, e la malattia può essere definita come la compromissione di funzioni tipiche di una particolare specie biologica, funzioni richieste per raggiungere gli scopi naturali stabiliti dalle istanze accoppiate della sopravvivenza e della riproduzione (Boorse 1975, 1977).

Un nuovo punto di vista sta emergendo dalle riflessioni sul significato che può assumere l'approccio evoluzionistico in medicina e considera di fatto la malattia e la salute come aspetti del fenotipo, riconoscendo la natura delle difficoltà che si incontrano nel darne una definizione esaustiva nel modo di funzionare dei meccanismi di adattamento, a livello non solo evolutivo ma anche somatico.

Per costruire una definizione naturalistica coerente della malattia e della salute bisognerebbe essere in grado di spiegare perché questi concetti sono naturalmente carichi di valori. Ciò può essere fatto ai due livelli che in biologia definiscono i processi di adattamento. Nel primo, l'approccio evoluzionistico ridefinisce la malattia in termini di conseguenze dovute all'incongruenza tra l'organismo individuale e qualche aspetto dell'ambiente, interno o esterno; tale incongruenza può manifestarsi attraverso la difficoltà di condurre agevolmente un'esistenza quotidiana o come una minaccia per la vita, per la capacità riproduttiva, oppure come fattore in grado di procurare un handicap residuo (Scriver 1984; Childs 1994). Alla base di questa definizione c'è la concezione popolazionistica dell'evoluzionismo neodarwiniano, che riconosce quale realtà ultima la variazione individuale, per cui il medico ha a che fare con casi individuali, cioè "persone particolari con geni ed esperienze uniche". In tale prospettiva le cause immediate e precipitanti delle malattie sono il risultato della 'convergenza' di predisposizioni biologiche e culturali incanalate nelle famiglie dall'ereditarietà dei geni e dalle abitudini.

Barton Childs ha caratterizzato la definizione evoluzionistica della malattia in antitesi rispetto alle categorizzazioni ontologiche o essenzialistiche, che la considerano un'entità specifica o assumono l'esistenza di modelli tipici (per es., malattie infettive ed ereditarie) di cui le malattie osservate nei pazienti sarebbero esemplari. Il punto di vista evoluzionistico si riconosce in una definizione nominalistica, storica e funzionale, per cui le malattie non sono entità ma deviazioni quantitative che dipendono da particolari qualità di ogni individuo. Le loro cause non sono quindi dannose in quanto tali ma producono diverse forme cliniche a seconda delle limitazioni delle capacità adattative individuali. Queste limitazioni possono interessare tutti, essere modulate da qualità particolari e dalle esperienze di ciascuna persona colpita, e le somiglianze tra le diverse forme cliniche dipendono da quanta genetica e quante esperienze sono condivise (Childs 1994). Il che già spiega in parte le difficoltà di dare una definizione obiettiva della malattia, anche in ambito biomedico.

La concezione evoluzionistica della malattia è quindi allo stesso tempo biologica e socio-culturale. In altri termini, essa tiene conto sia dei fattori evolutivi e funzionali, sia del peso dell'esperienza individuale in un determinato contesto socio-culturale. Per il momento, tuttavia, questi approcci rimangono nel vago per quanto riguarda la possibilità di definire i processi adattativi che a livello dell'esperienza individuale concorrono alla categorizzazione del disturbo funzionale.

Negli ultimi decenni la biologia funzionale o, meglio, lo studio di alcuni sistemi fisiologici complessi come il sistema immunitario e il sistema nervoso, ha prodotto nuovi riferimenti concettuali per spiegare le dinamiche fisiologiche da cui dipendono le proprietà adattative degli organismi. Si tratta di approcci che definiscono il fenotipo complesso, dotato di plasticità adattativa, come un sistema selettivo, lo sviluppo ontogenetico del quale sarebbe di fatto scandito da meccanismi di tipo darwiniano, in cui l'esito funzionale viene ottenuto attraverso la produzione spontanea di una variabilità di risposte anticipate, seguita dalla selezione dovuta alle interazioni con il contesto ambientale interno all'organismo o esterno a esso (Corbellini 1992). Dal punto di vista di una 'logica' darwiniana, applicata sia a livello della filogenesi sia sul piano dell'ontogenesi, gli adattamenti fisiologici ideali od ottimali cui fanno riferimento i concetti biostatistici della normalità di fatto non esistono e le risposte funzionali assumono un valore adattativo in rapporto alle predisposizioni e alle aspettative individuali. Per quanto riguarda il concetto di malattia e i rapporti tra dimensioni empiriche e normative, le conoscenze neurobiologiche e neuropsicologiche su come si strutturano a livello somatico i valori fisiologici e psicologici associati alle esperienze della salute (benessere) e della malattia cominciano a indicare quali sono le basi fisiologiche delle dimensioni soggettive e relative che salute e malattia possono assumere. Gerald Edelman ha fornito per esempio una convincente spiegazione 'fisiologica' del carattere 'relativo', in rapporto alle norme sociali, dell'idea di malattia mentale (Edelman 1989).

Conclusioni

La medicina appare oggi frazionata, mentre l'informazione continua a prodursi copiosamente. Se da un lato vi è una crescente necessità di rappresentare in un modo coerente l'interconnessione tra medicina e società, le due fondamentali tradizioni epistemologiche della medicina non stanno rispondendo a questa esigenza: l'approccio sperimentale tende a ignorare le dimensioni socio-culturali della malattia, mentre a livello degli approcci socio-epidemiologici si tende a sminuire il valore esplicativo del dato biologico. A livello della formazione medica, l'esperienza di apprendimento continua a creare una dissonanza cognitiva nello studente, in quanto gli studi preclinici insegnano solo cos'è la salute, dispensano nozioni e procedono dai dettagli molecolari verso l'integrazione fisiologica; gli studi clinici, al contrario, trattano soltanto della malattia, trasmettendo esperienze concrete o particolari e procedendo da una conoscenza generale verso una molecolare (storia clinica, esame fisico, esami di laboratorio e così via).

È difficile negare che alla medicina manchino oggi soprattutto idee esplicativamente ed euristicamente potenti ma, allo stesso tempo, anche epistemologicamente flessibili. Una mancanza che si avverte tanto più in un momento in cui gli sviluppi delle conoscenze e delle tecnologie genomiche e post-genomiche, insieme al potenziamento degli strumenti di immagazzinamento, elaborazione e trasferimento delle informazioni richiedono al medico non solo la capacità di accedere ai dati e alla letteratura, ma soprattutto quella di orientarsi selettivamente tra le informazioni e di interpretarle in relazione al contesto storico-sociale ed esistenziale pertinente rispetto a un problema medico.

Per rispondere alle nuove sfide la medicina dovrà probabilmente riconsiderare i propri riferimenti teorici e riflettere sul proprio statuto epistemologico nel senso di inquadrare l'approccio alla malattia e alle persone malate e sane in una prospettiva che sappia affrontare scientificamente la dimensione individuale delle condizioni di salute e malattia. Inoltre, l'insegnamento medico dovrebbe cercare di trasmettere un quadro di riferimento all'interno del quale possa integrarsi l'informazione fattuale per costruire strutture coerenti di conoscenza. Al di là delle strategie didattiche e delle integrazioni curricolari sin qui privilegiate per affrontare i problemi della formazione medica, ovvero per migliorare le performance cliniche e umane del medico, probabilmente in questo momento servirebbe un quadro di riferimento teorico che consentisse di insegnare in modo epistemologicamente coerente che la malattia è causata tanto dalla biologia quanto dai cambiamenti nell'organizzazione politico-economica e culturale della società e che, per affrontarla efficacemente, si devono utilizzare gli strumenti dimostrabilmente più adeguati verso qualsiasi sostanza causale accessibile all'intervento.

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