La grande scienza. Bioenergetica

Storia della Scienza (2003)

La grande scienza. Bioenergetica

Vaclav Smil

Bioenergetica

Il giorno in cui iniziai a scrivere questo capitolo la temperatura esterna nella maggior parte delle praterie canadesi era inferiore a −30 °C con punte di −40 °C, se si considerava il fattore raffreddamento dovuto al vento. Guardando però fuori dalla finestra della cucina mi accorsi che intorno alla mangiatoia appesa a una vecchia pianta rampicante si era radunato il consueto gruppo di piccoli uccelli: cince, picchi muratore pettobianco, fringuelli e gli ubiquitari passeri che cercavano di farsi largo per raggiungere i semi neri dei girasole. Questa scena così familiare è in realtà una delle più sorprendenti lezioni di bioenergetica, lo studio della fissazione, della conversione e dell'utilizzazione dell'energia da parte dei sistemi viventi. Quei piccoli volatili, la maggior parte dei quali pesa meno di 15 g, mantengono la temperatura corporea interna a 40 °C, tre gradi in più rispetto a quella dei grandi mammiferi. Ciò significa che durante i freddi inverni canadesi si stabilisce un gradiente di temperatura dell'ordine di 80 °C attraverso i tre centimetri circa di spessore del loro minuscolo corpo, ossia tra i loro cuori dal battito veloce e la punta delle loro piume arruffate.

Tutto ciò è straordinario, e tutto quello che gli uccelli devono fare è continuare a consumare i semi neri ricchi di olio e perciò di energia (i semi dei girasole rispetto a quelli dei cereali contengono circa 23 kJ/g, cioè il 50% in più di materiale digeribile ricco di energia) a una velocità che libera dal loro efficiente metabolismo enzimatico una quantità di calore superiore a quella persa per irraggiamento e convezione dai loro piccoli corpi. Per giungere a questa verità, all'apparenza tanto semplice, è stato necessario però molto tempo. La comprensione dell'equivalenza delle energie e del modo in cui funzionano il metabolismo animale o la fotosintesi vegetale e batterica è diventata possibile molto tempo dopo il calcolo dei tempi e dei luoghi delle eclissi solari.

Cenni storici

Julius Robert von Mayer (1814-1878), mentre lavorava come medico su una nave olandese diretta a Giava, aveva notato che il sangue dei marinai dei tropici aveva un colore più brillante. Aveva fornito una spiegazione corretta di tale fenomeno rilevando che nei climi più caldi il metabolismo basale richiedeva meno energia e di conseguenza meno ossigeno. Mayer considerava i muscoli come motori a combustione che ricevono energia dall'ossidazione del sangue; con i suoi calcoli dimostrò che l'energia chimica contenuta nel cibo è sufficiente a fornire l'energia meccanica necessaria per compiere il lavoro muscolare e per mantenere costante la temperatura corporea. Nel 1851 ciò lo condusse alla quantificazione dell'equivalente meccanico del calore e quindi alla formulazione della legge della conservazione dell'energia, che successivamente divenne nota come prima legge della termodinamica. In modo indipendente una quantificazione più accurata dell'equivalenza tra lavoro e calore si ebbe con gli studi di James P. Joule (1818-1889), la cui prima pubblicazione del 1850 indicava un valore che si discostava soltanto dell'1% da quello reale.

Poco dopo, William Thomson (lord Kelvin, 1824-1907) descrisse la tendenza universale verso la dissipazione dell'energia meccanica e Rudolf Clausius (1822-1888) formalizzò questa intuizione giungendo alla conclusione che il contenuto di energia dell'Universo è fisso e che la sua conversione si traduce in una inevitabile perdita di calore verso zone a energia inferiore: l'energia cerca una distribuzione uniforme e l'entropia dell'Universo tende al massimo. Questa seconda legge della termodinamica - la tendenza universale verso il disordine e la dissipazione del calore - divenne forse la più influente e fraintesa generalizzazione riguardante il Cosmo. Soltanto dopo il chiarimento di questi fondamenti universali la bioenergetica poté fornire un contributo specifico e duraturo in merito all'utilizzazione dell'energia negli esseri umani, nei mammiferi, negli organismi eterotrofi (che, non potendo sintetizzare le proprie sostanze nutritive, le devono assumere sotto forma di carboidrati, proteine e lipidi dai tessuti animali o vegetali) e negli organismi fotosintetici (autotrofi, in grado di produrre macromolecole organiche complesse da composti inorganici semplici).

La comprensione del metabolismo eterotrofo subì un naturale sviluppo grazie agli studi sulla nutrizione umana che conobbero una maggiore diffusione e sistematizzazione durante l'ultima decade del XIX secolo. I molti esperimenti calorimetrici condotti dagli scienziati europei e americani durante questo periodo identificarono i precisi equilibri energetici degli organismi viventi e, nel 1902, Max Rubner (1854-1932) poté offrire un'eccellente descrizione sistematica del metabolismo umano. Quest'ultima comprendeva quasi tutti i fondamenti attualmente conosciuti dell'energetica umana, incluse la determinazione dei valori di energia dei diversi alimenti, la distinzione tra l'assunzione di cibo e il consumo di energia, la comprensione che tutti i macronutrienti (carboidrati, proteine e lipidi) possono essere trasformati in lavoro (e quindi in calore), la correlazione tra le condizioni ambientali, le circostanze individuali e i tassi metabolici e tra il metabolismo basale e l'area della superficie corporea, insieme al riconoscimento degli effetti dinamici dell'ingestione di cibo (la digestione velocizza il metabolismo).

Progressi importanti nella bioenergetica teorica sono stati compiuti tra la due guerre. Nel 1925 Alfred Lotka (1880-1949) formulò la legge della massima energia, secondo la quale il fattore più importante per la crescita, la riproduzione, il mantenimento e l'irradiazione delle specie non è la migliore efficienza di conversione ma il maggior flusso di energia utile, cioè la massima potenza prodotta. Di conseguenza gli organismi e i sistemi viventi non convertono l'energia con la maggiore efficienza possibile ma piuttosto a tassi ottimizzati per la massima produzione di energia. Contemporaneamente agli studi di Lotka, Vladimir Ivanovich Vernadsky (1863-1945) introdusse il concetto fondamentale di biosfera, il sottile strato in cui si distribuisce la vita sulla Terra che penetra anche negli strati più profondi dell'idrosfera, in quelli più bassi dell'atmosfera e, come oggi sappiamo, persino a profondità considerevoli nella litosfera.

Nel suo libro pionieristico (pubblicato in Russia nel 1926 e in traduzione francese nel 1929), Vernadsky considerava la biosfera innanzitutto come un'entità attivata dalla radiazione solare, la cui materia raccoglie e ridistribuisce l'energia solare convertendola in energia libera capace di compiere lavoro sulla Terra. Di conseguenza "la biosfera è una creazione del Sole almeno quanto lo è dei processi terrestri". Negli scritti dell'ultimo periodo Vernadsky espresse in termini termodinamici la qualità essenziale della vita: "nella materia vivente i processi tendono all'aumento dell'energia libera della biosfera" mentre "tutti i processi non viventi, a eccezione del decadimento radioattivo, diminuiscono l'energia libera della biosfera". Questa distinzione riguardante l'entropia divenne una caratteristica fondamentale delle definizioni di vita biologica proposte per la prima volta da Ludwig von Bertalanffy (1901-1972) nel 1940 e successivamente da Edwin Schrödinger nel 1944.

Bertalanffy spiegò l'apparente contraddizione tra la seconda legge della termodinamica e la crescente complessità degli organismi viventi sottolineando come tutti i sistemi viventi, dalle cellule alle civiltà umane, siano sistemi aperti che riescono a mantenersi in uno stato improbabile di ordine perfetto e di organizzazione crescente in quanto oppongono una resistenza temporanea all'imperativo entropico importando enormi quantità di energia libera; per usare la famosa definizione di Schrödinger: la vita perdura prosperando sulla negentropia.

Altri progressi importanti verificatisi tra le due guerre nella comprensione della bioenergetica comprendono lo studio dell'efficienza dei trasferimenti energetici tra i livelli trofici e del pattern generale sottostante i diversi tassi di metabolismo basale. Alla fine degli anni Venti Charles Elton (1900-1991) fu il primo ecologo a riconoscere che ai livelli superiori delle reti alimentari il numero delle specie diminuisce mentre spesso aumentano le dimensioni corporee. Nel decennio successivo Evelyn Hutchinson (1903-1991) ridefinì in termini di produttività il principio stabilito da Elton come piramide di numeri. Il suo lavoro portò direttamente all'approccio trofico-dinamico utilizzato da Raymond Lindeman (1915-1942) per i flussi energetici negli ecosistemi. Lindeman è stato il primo biologo a quantificare in termini di efficienza progressiva (l'assimilazione dal livello n al livello n−1) l'inevitabile diminuzione di energia nei trasferimenti tra i livelli trofici successivi di un sistema lacustre. Oggi sappiamo che questa efficienza varia enormemente tra i diversi ecosistemi e i livelli trofici. Studi pionieristici quantitativi sui trasferimenti energetici in ecosistemi acquatici e terrestri rappresentativi sono stati compiuti dai fratelli Eugene (1913-2002) e Howard Odum (1924-2002) a partire dagli anni Cinquanta.

La parte di produzione fotosintetica disponibile realmente e consumata da tutti gli erbivori si trova in un intervallo compreso tra l'1 e il 2% in alcune foreste e praterie temperate e tra il 5 e il 10% nella maggior parte degli ecosistemi forestali; raggiunge un massimo del 25-40% in altre praterie e zone umide temperate, con valori estremi del 50-60% nelle ricche praterie tropicali. Quando la frazione dei trasferimenti energetici è limitata agli eterotrofi terrestri, raramente viene superato il valore del 10% in qualsiasi ecosistema di tipo temperato e, quando si considerano soltanto i vertebrati, tale valore si colloca appena intorno all'1%. Se valutiamo un ambito abbastanza ampio di conversioni metaboliche (tra il 40 e il 90% dell'energia ingerita) i possibili valori dell'efficienza di Lindeman a livello dei consumatori primari (escludendo i decompositori) sono quasi sempre compresi tra l'1 e il 15%.

All'inizio degli anni Trenta Max Kleiber (1893-1976) richiamò l'attenzione su una fondamentale relazione allometrica tra il tasso metabolico e la massa corporea degli eterotrofi. Nel 1945 Samuel Brody (1890-1956) pubblicò una monumentale sintesi della bioenergetica animale in cui analizzava e riassumeva un secolo di progressi scientifici. Rispetto a quanto verificatosi nel campo dell'energetica animale, fino a dopo la Seconda guerra mondiale ben poco era stato chiarito sulla fotosintesi: curiosamente si era arrivati a conoscere la struttura dell'atomo e a scomporlo prima di comprendere il modo in cui le piante verdi utilizzano l'acqua, l'anidride carbonica, i nutrienti e la radiazione solare per produrre nuova fitomassa. Con la generazione successiva alla Seconda guerra mondiale la bioenergetica progredì a livello sia molecolare sia globale. Per quanto riguarda il livello molecolare, il risultato più importante fu conseguito durante la prima parte degli anni Cinquanta da Melvin Calvin (1911-1997) e collaboratori, i quali riuscirono a spiegare la sequenza completa di riduzione fotosintetica che avviene nel ciclo del carbonio e che porta il nome di Calvin.

I contributi principali alla comprensione dei processi di conversione dell'energia a livello degli ecosistemi e dei principali biomi provennero dall'International Biological Programme tra il 1964 e il 1974, che ebbe tra gli obiettivi prioritari quello di studiare la produttività degli ecosistemi terrestri, d'acqua dolce e marini. Attraverso le numerose pubblicazioni che ne derivarono si è raggiunta una migliore conoscenza dei tassi di conversione e di utilizzazione dell'energia nei più importanti ecosistemi terrestri e delle loro variazioni. Durante gli ultimi tre decenni del XX sec. lo studio della bioenergetica globale ha grandemente beneficiato del lancio di satelliti sempre più sofisticati per l'osservazione della Terra, le cui possibili applicazioni vanno dalla mappatura dei cambiamenti che si verificano nelle aree di foresta tropicale pluviale al monitoraggio della densità della clorofilla marina.

Le vie metaboliche

Le due classi fondamentali in cui è suddiviso il metabolismo, autotrofismo ed eterotrofismo, contengono una varietà di affascinanti permutazioni. Combinando i termini che identificano le fonti di energia (foto e chemio) con quelli che si riferiscono ai donatori di elettroni (lito e organo), si è in grado di fornire descrizioni accurate di tutte le possibilità metaboliche. Gli organismi che ricavano energia dalla radiazione solare - capaci di convertire l'energia elettromagnetica nei legami fosfato ad alta energia dell'ATP (adenosintrifosfato) - sono detti fotoautotrofi. Quelli che sfruttano l'energia chimica (sia dei composti inorganici semplici sia delle macromolecole organiche complesse) sono detti chemioautotrofi. Gli organismi che ricavano gli elettroni dagli elementi chimici (idrogeno, zolfo) o dai composti inorganici semplici (acqua, acido solfidrico) sono litotrofi, mentre quelli che utilizzano substrati organici complessi sono organotrofi (per es., i batteri e i funghi che decompongono le proteine e la lignina della biomassa morta o gli erbivori che mangiano i carboidrati prodotti dalle piante).

Di conseguenza, tutti gli autotrofi fotosintetici (vegetali terrestri, alghe, fitoplancton, cianobatteri) che ricavano il carbonio dall'anidride carbonica atmosferica sono fotolitototrofi, analogamente ai solfobatteri verdi e purpurei, che invece dell'acqua utilizzano l'acido solfidrico come fonte di elettroni. I fotoorganotrofi richiedono energia solare ma utilizzano composti organici: i batteri purpurei non contenenti zolfo possono convertirsi a questa modalità dal fotolitotrofismo anaerobico diventando eterotrofi. La maggior parte dei batteri e tutti i funghi eterotrofi, così come tutti gli animali, è chemioorganotrofa e ottiene l'ATP da reazioni di ossidoriduzione. Gli organismi superiori usano a tal fine substrati organici complessi quali donatori di elettroni e fonti di carbonio, e l'ossigeno come accettore di elettroni. Si comportano allo stesso modo anche batteri comuni come Bacillus e Pseudomonas, ma molti batteri chemioorganotrofi utilizzano nitrati o solfati come accettori di elettroni.

Infine esistono i chemiolitotrofi, batteri il cui metabolismo si svolge nella completa assenza di luce e di materia organica: tutto ciò di cui hanno bisogno è la presenza di CO2 e di un accettore di elettroni (principalmente O2, però alcuni utilizzano CO2 o NO3), insieme a un elemento ossidabile (H2, Fe2+) o a composti inorganici (H2S, NH3, NO2). I batteri nitrificanti che ossidano l'ammoniaca a nitriti e i nitriti a nitrati, i solfobatteri che ossidano i composti solforati e gli archeobatteri metanogeni sono i chemiolitotrofi più importanti della biosfera. Il loro metabolismo è indispensabile per il funzionamento continuo dei cicli biogeochimici del carbonio, dell'azoto e dello zolfo.

Forse i chemiolitotrofi più insoliti sono i batteri che vivono in condizioni estreme, in prossimità delle sorgenti idrotermali dei fondali oceanici, e danno origine a ecosistemi bizzarri. Queste sorgenti furono scoperte per la prima volta nel 1977 vicino alle isole Galápagos; le immersioni successive con batiscafi rivelarono la presenza di emissioni sottomarine le cui temperature massime dell'acqua erano comprese tra 270 e 380 °C. L'H2S emesso dalle sorgenti è velenoso per tutti gli organismi superiori, ma i batteri chemioautotrofi lo ossidano a solfato in una reazione che rilascia energia utile alla loro crescita e forma la base di piramidi trofiche piuttosto complesse, comprendenti vermi tubicoli giganti, granchi e bivalvi. Le sorgenti abissali inoltre consentono la vita dei batteri metanogeni anaerobi, come Methanococcus jannaschii, il primo archeobatterio di cui nel 1996 è stato sequenziato completamente il genoma e che presenta una temperatura di crescita ottimale a 85 °C.

Dal punto di vista energetico c'è una caratteristica chiave condivisa da 'tutte' le forme di vita: l'utilizzazione dell'ATP per immagazzinare l'energia ricavata dalla scomposizione dei substrati nutritivi (catabolismo cellulare) e impiegarla nella biosintesi dei composti complessi (anabolismo cellulare), nella contrazione muscolare (locomozione) e nel trasporto attivo dei metaboliti. L'ATP, un fosfato organico che si forma dalla scomposizione del glucosio, è diventato la principale 'valuta' energetica della cellula a causa della sua energia libera intermedia di idrolisi (−31 kJ/mole): all'inizio della glicolisi questa molecola dona subito un gruppo fosfato per produrre glucosio-6-fosfato (con energia libera di soli −13,8 kJ/mole) o può essere facilmente formata dall'acido 1,3-difosfoglicerico con una reazione molto più esoergonica (−49,3 kJ/mole) in fasi successive del processo. Durante il primo stadio di queste reazioni enzimatiche il glucosio o il glicogeno sono convertiti in acido piruvico. In ambiente anaerobico questa via termina con la formazione di acido lattico (causando negli animali la ben nota sensazione di stanchezza muscolare) o di etanolo e CO2 (nella fermentazione batterica, compresa quella che trasforma l'uva in vino). In condizioni di disponibilità di ossigeno, la via prosegue con il ciclo degli acidi tricarbossilici che converte vari composti organici in CO2 trasferendo gli elettroni liberati, riducendo l'ossigeno ad acqua e producendo grandi quantità di ATP. Nelle cellule procariotiche il guadagno massimo di energia da questa complessa sequenza è pari a 38 moli di ATP per ciascuna mole di glucosio, un guadagno complessivo di energia libera di circa 2,8 MJ. Con la liberazione di 31 kJ/mole da ciascuna trasformazione di ATP in adenosindifosfato (ADP) l'efficienza complessiva dell'intera sequenza sarebbe di circa il 40%. Nelle cellule eucariotiche, in cui durante la trasformazione dell'ATP possono essere liberati fino a 50 kJ/mole, l'efficienza complessiva può superare il 60%. La degradazione degli acidi grassi ha circa la stessa efficienza, tuttavia, questi composti hanno una densità energetica molto più elevata di quella del glucosio.

Nelle cellule viventi la produzione e la degradazione continua di ATP mostrano un bilancio sorprendente se si considerano le masse totali. Gli esseri umani sintetizzano e degradano circa 3 grammi di ATP per grammo di peso corporeo secco, producendo e usando giornalmente una quantità di fosfato superiore al proprio peso corporeo. Questo turnover è meno impressionante se paragonato alla respirazione batterica, che può produrre fino a '7 chilogrammi' di ATP per grammo di massa batterica secca. L'elevata intensità del metabolismo eterotrofo fa sì che gli organismi viventi superino il Sole in produzione di potenza per unità di massa. Considerata l'enorme massa del Sole (1,99×1033 g), la sua immensa luminosità (3,9×1026 W) è ripartita in circa 200 nW/g di massa stellare. Di contro, il metabolismo giornaliero dei bambini (in media intorno ai 3 mW/g di peso corporeo) procede a una velocità 15.000 volte superiore, mentre la respirazione batterica raggiunge i 100 W/g, ossia 500 milioni di volte la velocità di liberazione dell'energia da parte del Sole. Le stelle hanno flussi totali di energia stupefacenti, tuttavia le conversioni energetiche guidate dall'ATP che avvengono negli organismi eterotrofi presentano un'intensità per unità di massa che non ha equivalenti.

La fotosintesi

Il processo che fornisce energia per la produzione di molecole organiche complesse a partire da composti inorganici semplici e ampiamente disponibili (acqua, anidride carbonica, macro e micronutrienti) è la conversione energetica più importante che si verifichi nella biosfera. I microrganismi primitivi dipendenti dall'energia idrotermale potevano sostenere soltanto tassi metabolici estremamente bassi. Attingendo alle riserve di idrogeno, virtualmente illimitate, contenute nell'acqua, l'evoluzione della fotosintesi, che scinde la molecola d'acqua producendo ossigeno, ha infine reso possibile la fissazione di più di 100 miliardi di tonnellate di carbonio all'anno.

L'equazione della fotosintesi comunemente utilizzata, e che prevede la sintesi di una molecola di glucosio a partire da sei molecole di CO2 e H2O, utilizzando soltanto 2,8 MJ di radiazione solare, è una semplificazione eccessiva non rispondente al vero. Una rappresentazione più realistica è data dall'equazione seguente: 106 CO2+90H2O+16NO3+PO4+nutrienti minerali+5,4 MJ di energia radiante =3,258 g di nuovo protoplasma (106 C, 180 H, 46 O, 16 N, 1 P e 815 g di scarti minerali)+154 O2+5,35 MJ di energia dispersa sotto forma di calore. Senza macro e micronutrienti non ci sarebbe alcuna nuova fitomassa, il volume della quale è costituito dalle sostanze nutritive fondamentali di cui hanno necessità tutti gli erbivori, ossia zuccheri complessi, acidi grassi e proteine.

Il processo comincia con l'assorbimento di radiazione solare tramite pigmenti sensibili alla luce (principalmente clorofille) di lunghezza d'onda compresa in due bande ristrette, una tra i 420 e i 450 nm (luce blu), l'altra tra 630 e 690 nm (luce rossa). Ciò significa che nella PAR (Photosynthetic active radiation, radiazione fotosinteticamente attiva) è compresa appena meno della metà della radiazione solare totale. La sintesi di fitomassa nel ciclo RPP (Reductive pentose phosphate, riducente del pentoso fosfato), una via metabolica costituita da molti passaggi enzimatici di carbossilazione, riduzione e rigenerazione, deve essere preceduta dalla formazione di ATP e nicotinammideadenindinucleotidefosfato (NADPH), i due composti che forniscono energia a tutte le reazioni biosintetiche. La sintesi delle tre molecole di ATP e delle due di NADPH necessarie per ridurre ciascuna molecola di CO2 richiede dieci quanti di radiazione solare di lunghezza d'onda intorno al picco di assorbimento della clorofilla, nella banda del rosso (680 nm). Il carbonio ottenuto dalla CO2 si combina con l'idrogeno dell'acqua e con i micronutrienti per produrre nuova fitomassa contenente circa 465 KJ/mole. Assumendo che la PAR rappresenti grosso modo il 45% della luce diretta, l'efficienza complessiva della fotosintesi sarebbe di circa il 12%, ma nessuna pianta si avvicina a questo massimo teorico.

La riflessione della luce dalle foglie e la sua trasmissione attraverso lo strato superiore della vegetazione riduce tale percentuale di circa un decimo. Il 20-25% della luce assorbita dalle clorofille è reirradiata come calore perché i pigmenti non possono immagazzinare la luce solare e le reazioni enzimatiche non possono procedere di pari passo con il flusso di energia in entrata. La respirazione dissipa il carbonio fissato con il metabolismo vegetale e con il mantenimento delle strutture di sostegno. I tassi respiratori per le singole specie sono determinati in primo luogo dalle loro vie fotosintetiche mentre quelli delle comunità o degli ecosistemi dipendono dallo stadio di crescita, andando da meno del 20% nella vegetazione giovane e in rapida crescita a oltre il 90% nelle foreste mature.

I valori più elevati di fotosintesi netta registrati sul breve termine in condizioni naturali da alcune piante altamente produttive e cresciute in condizioni ottimali sono compresi tra il 4 e il 5%. Per la maggior parte delle piante le percentuali sono ulteriormente limitate dalla scarsità di nutrienti, in particolare azoto, e di acqua. Le percentuali migliori per le formazioni naturali caratterizzate da elevata produttività (in particolare le zone umide) e per le piantagioni oscillano tra il 2 e il 3%; su scala più ampia, cioè negli ecosistemi, esse variano in un ambito compreso tra l'1,5% delle paludi tropicali e temperate e delle foreste temperate allo 0,1% soltanto delle praterie aride. La media globale sulle terre emerse non supera lo 0,12%, mentre negli oceani la fotosintesi, gravemente limitata dalla carenza dei nutrienti, è ancor meno efficiente, e arriva appena allo 0,06% della radiazione solare incidente. La maggior parte della nuova fitomassa viene immagazzinata nei monosaccaridi e nei loro polimeri, in particolare nella cellulosa e nella lignina (un polimero complesso derivante dalla polimerizzazione ossidativa di tre composti fenolici); lipidi a contenuto energetico più elevato sono di solito presenti soltanto nei semi.

Meno di un decennio dopo che Andrew Benson e Calvin chiarirono la sequenza di base del ciclo RPP della fotosintesi, Hal Hatch e Roger Slack scoprirono che molti vegetali all'inizio seguono una via diversa di fissazione del carbonio: a differenza del ciclo RPP, in cui la riduzione della CO2 produce acido fosfoglicerico - un composto a tre atomi di carbonio - queste piante sintetizzano dapprima ossalacetato nelle cellule del mesofillo. Tale acido a quattro atomi di carbonio viene prima ridotto a malato - un altro composto a quattro atomi di carbonio - e quindi spostato nelle cellule della guaina del fascio, dove è rigenerata la CO2, e il piruvato originatosi ritorna al mesofillo. La CO2 rigenerata entra quindi nel ciclo di Calvin e il suo carbonio viene incorporato nella nuova fitomassa. La canna da zucchero e il grano sono le più importanti piante coltivate con ciclo C4.

A causa dell'iniziale riduzione di CO2 a malato le piante C4 utilizzano l'acqua in modo molto più efficiente: esse necessitano di 450-600 moli di H2O per ciascuna mole di CO2 mentre questo valore per le piante C3 è intorno a 1.000, arrivando anche a 4.000. Un altro vantaggio critico della via C4 è la virtuale assenza di fotorespirazione. Questa è la ragione principale per la quale l'efficienza fotosintetica netta del ciclo di Hatch-Slack è sostanzialmente più elevata che nelle specie C3, fino al 70% sulla media dell'intera stagione di crescita. Le piante C4 presentano anche un altro vantaggio: mentre in quelle C3 la fotosintesi si satura con una radiazione solare intorno ai 300 W/m2 e procede in modo ottimale a 15-25 °C, le specie C4 non hanno saturazione per la luce e si comportano meglio a temperature comprese tra i 30 e i 45 °C. Le piante C4 perciò hanno un vantaggio competitivo nei climi assolati e caldi.

La produzione primaria lorda annua delle piante terrestri è nell'ordine dei 100 miliardi di tonnellate di carbonio (Gt C, gigatonnellate di carbonio) e nei migliori modelli disponibili di produzione primaria netta (cioè la produzione primaria lorda meno la respirazione delle piante) l'intervallo dei valori possibili è compreso tra 45 e 60 Gt C, con la maggior parte della fotosintesi attribuibile alle foreste tropicali e temperate. Le stime globali della produzione primaria netta negli oceani sono quasi identiche (35-50 Gt C) ma, a causa delle piccole dimensioni del fitoplancton e della sua breve vita, la fitomassa fissa dell'oceano è soltanto una piccolissima frazione di quella terrestre.

Mentre sulle terre emerse la maggior parte della produttività e dell'accumulo di biomassa si concentra nei grandi alberi, i produttori principali degli oceani sono rappresentati da minuscoli organismi unicellulari in balia delle correnti. In un ambito di dimensioni comprese tra meno di 2 e 200 μn di diametro sono incluse percentuali variabili di archeobatteri, eubatteri, cianobatteri e protisti eucarioti. Il cianobatterio unicellulare Prochlorococcus, scoperto soltanto nel 1988, è il più piccolo e insieme il più abbondante organismo fotosintetico che popoli gli oceani del globo, dove il suo contributo alla produzione primaria netta totale nelle acque povere di nutrienti è compreso tra il 30 e l'80%. Inoltre, mentre la lunghezza della vita media di tutte le piante terrestri è di circa 10 anni (o molti decenni per la maggior parte delle specie arboree) le cellule del fitoplancton vivono soltanto da 1 a 5 giorni.

Poiché i nutrienti affondano costantemente nelle profondità al di sotto della zona eufotica (lo strato più superficiale degli oceani, in cui penetra la radiazione solare e che nelle acque più chiare può avere uno spessore superiore ai 100 m), la fotosintesi in ambiente marino è spesso limitata dalla disponibilità di azoto; spesso vi è anche carenza di fosforo e di altri micronutrienti chiave, soprattutto ferro e silicio. Questo è il motivo per cui la superficie degli oceani aperti e gli strati d'acqua immediatamente sottostanti sono tra gli ambienti meno produttivi della Terra. Elevati rapporti tra superficie e volume e il lento affondamento delle cellule fitoplanctoniche attraverso lo strato eufotico sono ovvi adattamenti per massimizzare i tassi di assorbimento dei nutrienti. La produttività del fitoplancton può innalzarsi a valori molto elevati soltanto dove l'upwelling (la risalita dalle acque fredde oceaniche di profondità) arricchisce gli strati superficiali importando acqua fredda carica di nutrienti (al largo delle coste occidentali delle Americhe, dell'Africa, dell'India e intorno all'Antartide). Altre zone altamente produttive si associano ad acque costiere poco profonde, in particolare dove esse sono arricchite dai deflussi di nutrienti di origine continentale.

Il metabolismo animale

A dispetto della straordinaria diversità di dimensioni, forme, nicchie, modi di alimentazione e comportamenti, tutti i vertebrati e gli invertebrati, cioè tutti gli organismi che comunemente definiamo animali, condividono la stessa tipologia fondamentale di metabolismo. L'universalità delle proprietà chiave del metabolismo animale fu dimostrata per la prima volta nel 1932 da Max Kleiber nella forma di un semplice grafico su doppia scala logaritmica in cui il peso corporeo di diversi mammiferi era posto in funzione del loro BMR (Basal metabolic rate, tasso metabolico basale).

Sebbene piuttosto limitato, l'originario insieme di dati di Kleiber conteneva i BMR di mammiferi diversi, dai ratti ai manzi, con pesi corporei che coprivano tre ordini di grandezza. I BMR misurano il dispendio energetico a riposo in uno stato successivo ai processi di assorbimento (la digestione aumenta il metabolismo) e in ambienti termicamente neutri e, quindi, veicolano informazioni fondamentali sulle necessità nutrizionali degli animali, rendendo possibili affascinanti comparazioni intra e interspecifiche.

Kleiber era giunto alla conclusione che il BMR di animali diversi dipendesse dalla loro massa (w, espressa in kg) secondo la funzione 3,52 w0,74. L'esponente della funzione di Kleiber differiva dal valore 0,67, che era stato storicamente assunto come valido ritenendo che il BMR fosse una funzione diretta della superficie corporea. All'insieme originario di pochi dati vennero aggiunti i calcoli riguardanti altre specie e il grafico fu esteso a un ambito di pesi corporei compresi tra quello del topo e quello dell'elefante, ma l'esponente dell'equazione ricalcolata risultava sempre vicino a 0,75. Tre decenni dopo i suoi studi pionieristici, Kleiber optò per la regola dei 3/4, raccomandando per il BMR espresso in chilocalorie/giorno l'espressione 70 w0,75 oppure l'espressione 3,4 w0,75 quando il BMR era dato in watt. La curva log-log del coefficiente 3/4 di Kleiber è diventata una delle generalizzazioni più importanti e conosciute della bioenergetica.

Sono oggi disponibili centinaia di BMR per specie che vanno dagli organismi unicellulari alle balene e tutti, attraverso diciotto ordini di grandezza, confermano la legge del coefficiente 3/4 di Kleiber. Le pendenze per diversi gruppi di invertebrati variano da meno di 0,67 a più di 1,0 ma per la maggior parte sono sufficientemente vicine a 0,75. Mentre le pendenze dei BMR per i diversi gruppi di organismi generalmente si uniformano alla legge, le loro posizioni differiscono in modo sostanziale dai valori predetti dall'equazione originale. Come ci si può attendere, i BMR degli animali a sangue freddo sono soltanto una piccola frazione, 1/20-1/40, di quelli delle specie a sangue caldo di uguale peso e, tra questi ultimi, i marsupiali sono posizionati all'incirca un 30% al di sotto dei mammiferi euteri, mentre il moltiplicatore per i passeriformi è del 30% ca. al di sopra del valore per gli altri uccelli.

Singoli casi individuali illustrano i diversi modi di adattamento all'ambiente. Al fine di termoregolare i loro corpi nelle acque fredde, le foche e le balene hanno BMR pari al doppio di quelli degli altri animali della loro taglia, mentre i BMR specificatamente bassi dei mammiferi deserticoli riflettono un adattamento alle periodiche carenze di cibo e alla ricorrente o cronica scarsità d'acqua. E se non sorprende che i bradipi abbiano valori di BMR inferiori rispetto a quelli indicati dai loro pesi corporei, i maiali si discostano dai valori attesi ancora di più e, di conseguenza, diventano efficienti produttori di carne.

Occorre chiedersi perché l'inclinazione è secondo il coefficiente 3/4. Le spiegazioni pubblicate vanno dalla considerazione delle richieste meccaniche dei corpi animali ai vincoli geometrici e fisici della rete di vasi di cui necessitano i corpi viventi per distribuire le risorse e rimuovere le sostanze di rifiuto. Queste reti frattali che riempiono lo spazio impongono le proprietà strutturali e funzionali ai sistemi cardiovascolari e respiratori dei mammiferi e anche la distribuzione dei nutrienti attraverso lo xilema delle piante. Le loro proprietà richiedono che il metabolismo dell'intero organismo sia proporzionale alla potenza 3/4 della sua massa; la legge di Kleiber sarebbe applicabile quindi a tutte le forme di vita. Tuttavia altri scienziati sono giunti alla conclusione che questo pattern di proporzionalità riscontrabile trasversalmente in tutte le specie sia un semplice sottoprodotto della selezione evolutiva che modella le dimensioni corporee all'interno delle specie. La ricerca per dare una spiegazione alla legge del coefficiente 3/4 continua.

La termoregolazione negli animali

Gli animali condividono anche due limitazioni energetiche fondamentali. Innanzitutto, in quanto eterotrofi, devono nutrirsi di biomassa contenente tutte le sostanze nutritive essenziali per la crescita e la riproduzione e perciò sono o esclusivamente erbivori oppure carnivori od onnivori in vario grado. In secondo luogo, i limiti termici di tutta la vita macroscopica sono piuttosto ristretti perché le proteine corporee iniziano a denaturarsi quando la temperatura si innalza al di sopra dei 45 °C, mentre al di sotto di 0 °C l'acqua intracellulare congela e i cristalli di ghiaccio rompono le cellule. A questo punto, si pongono due quesiti importanti: in che modo gli animali riescano a sopravvivere in ambienti che vanno dai ghiacci polari battuti dal vento con minime invernali di −70 °C ai deserti subtropicali con temperature massime giornaliere di 50°C; come gli eterotrofi affrontino le oscillazioni giornaliere della temperatura che possono eccedere i 30 °C e che normalmente sono comprese tra i 10 e i 15 °C.

Ovviamente gli animali, in alternativa, non dispongono, come molti microrganismi, della possibilità di sopravvivere alle temperature estreme entrando in uno stato di vita latente, cioè simile alla morte (dopo una quasi completa disidratazione), non soltanto per settimane ma anche per anni, decenni e oltre. Uno dei fatti più affascinanti della bioenergetica è che l'evoluzione ha prodotto due risposte molto diverse alla sfida termica, entrambe di grande successo nella loro specificità. Tutti gli ectotermi, cioè tutti gli invertebrati (che per numero sono dominati ampiamente dagli artropodi, soprattutto insetti), i pesci, gli anfibi e i rettili regolano la loro temperatura corporea passivamente, scegliendo i microambienti opportuni. Le salamandre vivono bene con temperature di appena 10 °C, mentre le lucertole deserticole preferiscono temperature di 35-40 °C.

Gli ectotermi non necessitano di un buon isolamento del corpo e possono farcela anche con un metabolismo basale basso. La combinazione di questi due fattori però indica che la dimensione del corpo è il determinante critico della loro temperatura corporea e quindi dei loro periodi di attività. Gli ectotermi di maggiori dimensioni (anaconde, coccodrilli, varani di Comodo) possono mantenere la temperatura corporea all'interno di un ambito di valori relativamente ristretto e la loro considerevole inerzia termica fa sì che possano avere periodi più lunghi di attività giornaliera, mentre la loro massa corporea rende possibili ampi intervalli tra un pasto e il successivo. Per contro i minuscoli insetti non possono innalzare la loro temperatura al di sopra di quella ambientale pur essendo in grado di farla variare abbastanza facilmente muovendosi; se vogliono restare attivi, però, devono mangiare molto spesso.

Alcuni ectotermi, tuttavia, hanno modi per scendere al di sotto dei limiti di temperatura di cui abbiamo parlato o per superarli. Alcuni insetti possono diventare veri endotermi per brevi periodi prima di iniziare il volo, quando riscaldano i muscoli con il meccanismo del brivido. Alcune falene notturne possono raggiungere una temperatura toracica di 30 °C anche a temperature esterne vicine al punto di congelamento, ma tale risultato richiede una tale quantità di energia che questi insetti devono trascorrere più del 90% del tempo restando inattivi sotto strati isolanti di foglie e neve. Alcuni pesci antartici sopravvivono nelle acque più fredde della Terra sintetizzando almeno otto differenti glicopeptidi, composti antigelo che si adsorbono a minuscoli cristalli di ghiaccio inibendone la crescita nei tessuti corporei. Di conseguenza questi pesci possono nuotare in acque piene di ghiaccio a −2 °C. Le proteine antigelo (insieme a proteine che fanno da nuclei di cristallizzazione del ghiaccio iniziando la formazione di minuscoli cristalli extracellulari) vengono utilizzate anche da alcune tartarughe, anfibi e bruchi, che possono congelarsi conservando intatte le strutture intracellulari necessarie per la vita.

All'altro estremo dello spettro troviamo il verme Alvinella pompejana, una creatura dall'aspetto irsuto lunga 6 cm, che forma colonie ai lati delle sorgenti idrotermali attive dei fondali oceanici. Recenti misurazioni sulla East Pacific Rise hanno mostrato che la temperatura media all'interno dei tubi in cui questi vermi vivono era di 69°C, con frequenti punte massime di 81°C. Dato che la temperatura all'apertura del tubo è in media di 22 °C, in tutta la lunghezza del piccolo corpo dell'animale si viene a creare un impressionante gradiente di 60 °C. Alvinella pompejana è l'unico animale la cui tolleranza alle alte temperature si avvicina alla resistenza al calore mostrata dai microbi.

La grande quantità di ectotermi e la rilevante varietà delle loro nicchie prova che i loro adattamenti energetici sono stati un notevole successo dell'evoluzione. Tuttavia, i microambienti trasportabili e costanti degli endotermi (animali a sangue caldo) hanno fornito loro un forte margine competitivo negli ecosistemi favorevoli consentendone la vita anche nelle parti più inospitali della biosfera. L'endotermia, la condizione in cui la temperatura interna è mantenuta fra i 36 e i 40 °C nella maggior parte dei mammiferi e fra i 38 e i 42 °C negli uccelli, è un compromesso evolutivo che bilancia i benefici del mantenimento di una temperatura interna stabile su valori vicini a quelli dell'optimum biochimico con i rischi di dissipazione del calore e con i costi energetici del metabolismo e dei sistemi di isolamento termico.

Una termoregolazione a meno di 30 °C avrebbe richiesto una energia minore ma un raffreddamento per evaporazione molto più elevato. Con una temperatura della superficie corporea spesso inferiore a quella dell'aria circostante, non ci sarebbero state perdite di calore per conduzione o convezione e le alte velocità di evaporazione avrebbero aumentato i rischi di disidratazione, restringendo la diffusione degli endotermi ai soli ambienti aridi. Il raffreddamento causato dalla maggiore traspirazione non avrebbe funzionato con il notevole isolamento termico rappresentato dalla pelliccia e ciò avrebbe limitato la diffusione degli endotermi ai soli ambienti freddi. La minore temperatura interna, inoltre, avrebbe ridotto l'efficienza delle reazioni biochimiche. I piccoli endotermi sono più svantaggiati a causa della loro maggiore perdita di calore per convezione e della loro necessità di rapide risposte metaboliche a diminuzioni drastiche della temperatura.

Se un solo agosto freddo può essere fatale per un colibrì di 10 g, nessun animale ibernante che pesi più di 5 kg ha necessità di ridurre la propria temperatura corporea di più di qualche grado. Le piume e la pelliccia sono materiali isolanti eccezionali: anche a −30 °C la pelle dei mammiferi artici ha una temperatura paragonabile a quella di un uomo con vestiti adeguati. Per gli endotermi acquatici la situazione si complica in modo particolare, in quanto la velocità di conduzione termica dell'acqua è venti volte superiore a quella dell'aria. Uno spesso strato di grasso non è sufficiente per i mammiferi acquatici più piccoli: il loro metabolismo basale deve essere raddoppiato o triplicato rispetto a quello dei mammiferi terrestri di taglia simile e, di conseguenza, questi animali devono anche trovare e digerire una quantità di cibo fino a tre volte superiore.

Affrontare il problema del calore è altrettanto difficile: gli animali deserticoli sono esposti a una radiazione solare la cui potenza supera il loro metabolismo di un ordine di grandezza. La sudorazione e il respiro ansante costituiscono le due migliori risposte attive, entrambe le quali richiedono un'attenta gestione dell'equilibrio idrico. Molti animali deserticoli di piccole dimensioni sopravvivono con cibo secco senza assumere acqua liquida, evacuano urina e feci concentrate e si rifugiano in buche scavate nel terreno. I cammelli si alimentano con piante rinsecchite, tollerano lunghi periodi senza bere, possono perdere fino al 40% della propria massa corporea e rapidamente riacquistare la normale idratazione bevendo l'equivalente del 30% del proprio peso corporeo in 20-30 minuti.

Il legame tra endotermia e successo evolutivo di uccelli e mammiferi è ovvio. Disporre di un microambiente trasportabile pressoché costante ha richiesto molti adattamenti nell'alimentazione e nel comportamento per mantenere tassi metabolici molto elevati, ma negli ambienti favorevoli ciò ha conferito un evidente vantaggio competitivo aprendo alla colonizzazione da parte delle specie endotermiche anche le zone più inospitali della biosfera. Non vi è alcun dubbio che senza l'endotermia la nostra specie non avrebbe avuto successo: per la vita come noi la conosciamo l'ectotermia non sarebbe stata concepibile.

Energetica umana

Come negli altri mammiferi il BMR dell'uomo è proporzionale alla potenza 0,75 della massa corporea: in una donna del peso di 50 kg il BMR è di poco superiore ai 60 W e la sua richiesta energetica di cibo è paragonabile all'alimentazione elettrica richiesta da una lampadina di debole potenza. Variazioni complesse dei BMR sono determinate dalla taglia corporea, dalla composizione (ossia la parte dei tessuti che metabolizza, sempre inferiore nelle donne) e dall'età. La relazione tra il BMR e il peso corporeo è ben rilevata, per entrambi i sessi e per tutte le classi di età, da semplici equazioni lineari, il cui potere predittivo è alto però soltanto per i bambini e gli adolescenti. Per quanto concerne gli uomini di età compresa fra i 30 e i 60 anni, il gruppo che costituisce la maggior parte della popolazione economicamente attiva, la correlazione spiega soltanto un terzo circa della varianza. Queste equazioni, basate su misurazioni condotte nell'ambito delle popolazioni occidentali, hanno la tendenza a sovrastimare il BMR delle popolazioni dei Paesi asiatici e africani a basso reddito.

I BMR sono peraltro estremamente vari: una persona può vivere con la metà dell'energia introdotta con le sostanze alimentari di cui necessita un'altra e mantenersi lo stesso in salute. Pur mancando ancora una spiegazione esauriente di tale enorme variabilità individuale, sappiamo per certo che in termini relativi i reni sono gli organi metabolicamente più attivi, seguiti dal cuore, dal cervello e dal fegato. In termini assoluti, il fegato negli adulti e il cervello nei bambini utilizzano la parte più cospiscua del BMR (almeno un quinto). Il cervello di un neonato, che corrisponde a un decimo della massa corporea totale, richiede tipicamente più del 40% di BMR; anche negli adulti, quando i muscoli sono ben sviluppati, i quattro organi metabolicamente più attivi gravano per i due terzi sul BMR.

È noto inoltre l'andamento tipico del BMR nel corso della vita: comincia con un breve periodo in cui si mantiene a un valore massimo compreso tra 2,3 W/kg ca. (di peso corporeo) alla nascita e 2,7 W/kg ca. nei tre-sei mesi successivi, segue quindi un rapido decremento fino a circa la metà del valore massimo al diciottesimo anno di età, prima di stabilizzarsi nuovamente per i successivi quattro decenni. Il declino riprende intorno all'età di 60 anni per arrivare intorno a 1 W/kg a 70 anni. Il BMR non andrebbe confuso con le necessità minime per la sopravvivenza, poiché la risposta metabolica al cibo e l'energia necessaria per mantenere l'igiene personale basilare lo aumenterebbero anche nelle persone sedentarie di almeno un 15-20%.

L'adattamento energetico più notevole dell'uomo è forse la risposta al calore. L'organismo umano risponde anche al freddo, tramite la vasocostrizione: gli aborigeni australiani che vivevano nudi potevano dormire senza elevare il loro BMR riducendo l'afflusso sanguigno nella pelle e nelle estremità. Tale adattamento naturalmente è inadeguato nei climi freddi, dove si deve far ricorso a soluzioni artificiali (vestiti, ripari, fuoco). Ovviamente si cerca riparo anche nei climi caldi e ci si veste in maniera adeguata (oggi sempre di più cercando rifugio in luoghi dotati di aria condizionata) ma si fa affidamento anche sugli aggiustamenti particolarmente efficaci della nostra termoregolazione.

Le risposte iniziali al calore prevedono la dilatazione dei vasi sanguigni periferici e lo spostamento di altro sangue dalle vene interne a quelle più superficiali. Quindi, quando la temperatura della pelle si avvicina ai 35 °C, di solito iniziamo a sudare e, quando svolgiamo un lavoro pesante, questa risposta può essere considerevolmente più efficace che in altre specie di mammiferi. Un cavallo può traspirare a una velocità di 100 g/m2 all'ora e un cammello a 250 g/m2, mentre un uomo può arrivare a una media di 500 g/m2 all'ora. Senza sudare una persona perderebbe in media 12 W/m2 di superficie corporea, all'incirca la stessa quantità si perde con la respirazione e la diffusione attraverso la pelle (in totale appena 20 W/m2). Negli adulti invece la traspirazione di 500 g/m2 all'ora equivale a una perdita di calore compresa addirittura tra 550 e 625 W.

Gli individui con migliore acclimatazione possono traspirare fino a 1.100 g/m2 per ora, equivalenti a 1.390 W. Ciò è sufficiente per prevenire pericolosi aumenti della temperatura interna del corpo anche in individui sottoposti a lavoro intenso, ma in questo caso è necessaria un'adeguata reidratazione. Una parziale disidratazione temporanea è comune durante il lavoro intenso o le lunghe corse e non causa problemi finché il deficit idrico si risolve entro il giorno successivo. La capacità di sudare molto è codificata geneticamente ed è conservata anche dalle popolazioni che vivono da millenni in climi più freddi. Gli Europei, la cui risposta iniziale al calore elevato è un pericoloso innalzamento della temperatura interna e del battito cardiaco prossimo al massimo tollerabile, riescono a uguagliare la velocità di sudorazione di popolazioni ben acclimatate native dei tropici, nel giro di soli 10 giorni. La nostra abilità di far fronte al surriscaldamento sudando deve essere vista, insieme all'andatura bipede, alla mancanza di una pelliccia, al grande cervello e alla capacità di utilizzare un linguaggio simbolico, come uno dei tratti chiave che definiscono la nostra specie.

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