La Fontaine, Jean de

Enciclopedia dei ragazzi (2006)

La Fontaine, Jean de

Ermanno Detti

Favole per riflettere sull’uomo

Il poeta francese Jean de La Fontaine, vissuto nel Seicento, è ancora oggi famoso soprattutto per le sue Favole, divenute un classico della letteratura. Ispirate spesso da quelle di Esopo e di Fedro, le Favole hanno come protagonisti gli animali, che simboleggiano i difetti, i vizi e le virtù dell’umanità: la tartaruga la lentezza e la saggezza, la lepre la velocità e la superficialità, e via dicendo. È dunque la commedia umana che La Fontaine vuole rappresentare attraverso queste piccole maschere, figurine tratteggiate con fine e garbata ironia

I due cani e l’asino

Due cani vedono un asino in mezzo a un fiume. La povera bestia forse è morta e sta per essere portata via dalla corrente. I due cani pensano a come poterla divorare. Semplice, si dicono, berremo tutta l’acqua prima che porti via l’asino, e dopo così potremo mangiarcelo tranquillamente. Non è però facile bere tutta l’acqua di un fiume, anzi è impossibile perché dalla sorgente giunge sempre nuova acqua. Così i cani, a forza di bere, scoppiano. Questa è una favola narrata in versi dal poeta francese Jean de La Fontaine.

La favola non finisce qui. Il poeta stesso ci spiega, in versi successivi, il significato della storia. L’uomo ambizioso, quando si prefigge uno scopo, crede che niente gli sia impossibile. La brama di gloria e di ricchezza gli offusca la mente e lo spinge a cercare in tutti i modi di realizzare i suoi progetti. Tutto questo, però, gli fa perdere la pace, e si affanna comportandosi proprio come i cani che volevano bere tutta l’acqua. Gli ci vorrebbero otto mani, gli ci vorrebbero tante vite lunghe come quella di Noè. Concentrati esclusivamente a raggiungere i propri fini, gli uomini ambiziosi anziché aiutare i loro simili in difficoltà pensano solo a come spartirsene i resti. Chiusi nel loro egoismo, non conoscono il significato della solidarietà, e si dimostrano stupidi e ingordi. Vivono una vita da miseri, da cani randagi, e come i cani della favola finiscono con lo scoppiare.

La vita e il carattere del poeta

Jean de La Fontaine visse nella Francia del Seicento, il secolo di Luigi XIV, il Re Sole. A quel tempo per fare carriera, o comunque per poter accedere a cariche importanti, bisognava avere l’appoggio dei nobili o del clero. Il nostro poeta, invece, pur essendo un borghese, non dovette faticare molto perché le porte del successo gli si aprissero.

Nato a Château-Thierry nel 1621, aveva studiato con poco entusiasmo teologia. Riuscì a ricoprire la carica di ispettore delle acque e delle foreste, carica che gli era stata lasciata in eredità dal padre, secondo la consuetudine del tempo.

Nel 1658 si trasferì a Parigi, dove venne presentato da alcuni amici al sovrintendente alle Finanze Nicolas Fouquet, dal quale ottenne una pensione che gli permise di dedicarsi con maggiore assiduità ai suoi studi. Iniziò quindi a scrivere poemi, commedie per il teatro, romanzi e racconti soprattutto in versi. Sfortunatamente Fouquet dovette dimettersi e La Fontaine perse il suo protettore. Fece allora appello alla generosità di Luigi XIV, il quale però ignorò le sue richieste. Tuttavia nel 1664, grazie ai molti amici e amiche potenti da cui era circondato, tra cui il duca di Bouillon e la moglie, nipote del potentissimo cardinale Mazzarino, riuscì a diventare gentiluomo al servizio della duchessa d’Orléans.

Da quel momento si offrì al poeta l’opportunità di instaurare relazioni con l’alta società e con gli altri grandi scrittori francesi dell’epoca, come Molière e Racine. Nel 1665 uscirono le opere che lo avrebbero reso famoso, cioè i primi libri dei Contes et nouvelles («Racconti e novelle») che destarono molto entusiasmo.

Nel 1668 pubblicò i primi sei libri delle Favole, nel 1679 gli altri cinque, l’ultimo nel 1694. In totale dodici libri, cui si aggiunsero altre raccolte di racconti e novelle. Il poeta morì a Parigi nel 1695.

Nelle favole lo specchio della società e una riflessione sull’uomo

Durante la sua vita, La Fontaine si piegò con molta grazia e con molta cortesia alle richieste e alle esigenze del suo mondo. Per questo fu considerato un po’ un fanciullone ingenuo. Nella realtà il poeta francese era una persona sensibile, dotata di una fine, garbata ironia e di un acuto spirito di osservazione, capace di apprezzare le gioie della vita.

Trascorse una vita sostanzialmente tranquilla, priva di eventi drammatici: fu aiutato da amici e da potenti, i contemporanei riconobbero il valore delle sue opere, alle quali arrise il successo. Per questa ragione potrebbe stupirci la visione pessimistica della vita che spesso traspare dalla morale delle sue favole.

Nelle opere di La Fontaine dunque non cogliamo un riflesso della sua esperienza personale: il loro orizzonte è più ampio, in quanto esse ambiscono offrirci un quadro della società francese dell’epoca ma anche della vita umana in generale.

Un pessimismo nutrito di precedenti illustri

Le favole che La Fontaine racconta non sono originali, ma sono riprese dall’antica tradizione favolistica: dalle opere del greco Esopo e del latino Fedro, dai romanzi e dai racconti pieni di allusioni e metafore di origine medievale, dalle leg;gende di origine orientale. La Fontaine ha un rapporto molto stretto con la letteratura classica, precedente e contemporanea: interpreta i grandi autori e intreccia quasi un dialogo con essi. Anche i suoi romanzi non sono quasi mai originali: per esempio il romanzo Gli amori di Psiche e Cupido (1669) è ripreso dalla mitologia, mentre molte commedie teatrali sono imitazioni di Molière o di altri.

Nelle favole gli animali rappresentano tutte le caratteristiche degli uomini di ogni epoca e, in particolare, del mondo in cui il poeta vive. Egli osserva con bonaria arguzia i vizi umani e li rappresenta metaforicamente nei comportamenti animali: i re sono superbi e prepotenti come il leone, coloro che vivono a corte sono furbi e subdoli come la volpe, molti nobili sono feroci come i lupi e così via.

Nei vari animali e nelle loro caratteristiche naturali secondo La Fontaine troviamo preti, nobili, borghesi, avari, ipocriti, stupidi. Tutti costoro sono metaforicamente rappresentati nelle favole del corvo e della volpe, del gatto e della volpe, della lepre e della rana, della rana e del bue...

Le favole di La Fontaine hanno la freschezza della sincerità e della genuinità. Questo dà all’opera nel suo insieme un calore e un incanto particolari. I versi sono fluidi e spesso liberi e irregolari, ma è proprio questo apparente ‘anarchismo’ che permette al poeta di dispiegare il suo stile nitido, fluido ed elegante, assecondando la sua fervida fantasia libera da schemi altrui.

La fortuna della favola

Come spesso accade ai grandi poeti e ai grandi scrittori, anche La Fontaine è ricordato soprattutto per un’opera in particolare, ossia le Favole, divenute ben presto un classico per i ragazzi. D’altra parte il poeta stesso dedicò l’opera al Delfino, figlio del re Luigi XIV e di Maria Teresa, che all’epoca aveva sette anni.

Il grande filosofo francese Jean-Jacques Rousseau considerò invece le favole di La Fontaine inadatte ai ragazzi perché troppo filosofiche. Egli non comprese che le favole costituiscono quasi un teatrino, un mondo a sé stante dove gli animali sono maschere degli uomini, e che in questo mondo i ragazzi si perdono e si immergono con gusto.

Oggi su un punto potremmo concordare con Rousseau: la morale che La Fontaine esplicita alla fine di ogni favola ci infastidisce, perché toglie al lettore la libertà di darne egli stesso un’interpretazione.

Insomma, preferiremmo che a comprendere il significato della favola fosse il lettore stesso, senza bisogno di quella lezioncina esplicativa che nuoce un po’ alla freschezza complessiva della favola.

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