La filosofia dell'evidenza tra Husserl e Gentile

Croce e Gentile (2016)

La filosofia dell’evidenza tra Husserl e Gentile

Jonathan Salina

Nonostante le accuse di arretratezza mosse al pensiero gentiliano nel corso del Novecento, non sono mancati alcuni interpreti i quali, oltre a valorizzare la portata teorica dell’attualismo, hanno tentato di mostrarne le consonanze con alcune prospettive filosofiche tra le più rilevanti del 20° secolo. È il caso di Salvatore Natoli, che individua una consonanza dell’attualismo con temi avanzati, tra gli altri, da Ludwig Wittgenstein e Martin Heidegger, nell’ambito della supposta ‘perdita del soggetto’ teorizzata in diverse maniere da grandi pensatori del Novecento (Natoli 1989). È anche il caso, mediante tentativi più perentori e ‘faziosi’, di Antimo Negri, discepolo ‘spirituale’ di Gentile, che ha confrontato la filosofia del maestro con molte proposte contemporanee dal respiro continentale ben più ampio (oltre alla fenomenologia, l’ermeneutica e l’esistenzialismo), giungendo all’inusuale conclusione che il pensiero di Gentile abbia precorso molti temi di queste filosofie più celebri a livello europeo (Negri 1975 e 2002). In entrambi i casi, e molto in generale, il nome di Edmund Husserl è accostato a quello di Gentile a proposito della ‘coscienza assoluta’, nell’ambito della quale entrambi i pensatori avrebbero rinvenuto le determinazioni oggettuali della realtà.

Né Natoli né Negri, in ogni caso, sono i primi ad avere mostrato questo supposto parallelismo tra la meditazione di Gentile e certi filoni della filosofia tedesca del Novecento. Già Ernesto Grassi, in alcuni scritti pubblicati dagli anni Venti in poi, si riferiva, più o meno esplicitamente, a un’affinità di principio dell’attualismo con alcune svolte (tra cui quella dello stesso Heidegger) impresse all’impostazione della fenomenologia husserliana, che egli qualificava come ‘oggettivistica’ e ‘platonica’ (Grassi 1929 e 1930). Più recentemente, un altro tema che vorrebbe suggerire la consonanza di Gentile con importanti questioni del Novecento europeo è quello della tecnica. Tradizionalmente ritenuto ostile al progresso tecnico-scientifico in quanto avallato dalle certezze infondate della scienza naturalistica, Gentile starebbe ora emergendo come assertore della tecnica, in quanto filosofo radicale del divenire, che costituirebbe l’essenza stessa dell’avanzamento tecnico. È, questa, la tesi di Emanuele Severino (n. 1929), che vede Gentile procedere in una direzione più radicale sia di Husserl sia di Heidegger, e persino opposta rispetto a quella intrapresa dal secondo.

Tra queste proposte, si esamina qui l’accostamento alla prospettiva fenomenologica, considerata nel significato originale conferitole da Husserl, e, più in particolare, da intendersi in quanto filosofia dell’evidenza.

La critica: naturalismo, psicologismo, scetticismo

Le husserliane Logische Untersuchungen (1900-1901) si presentano, nel loro primo volume, i Prolegomena zur reinen Logik, come una critica radicale dell’approccio psicologistico alle formazioni logiche. Le argomentazioni apportate da Husserl si fondano principalmente sulla ‘validità essenziale’ della stessa idealità della logica, in contrapposizione al carattere empirico e contingente delle cosiddette verità di fatto, attinte dall’esperienza e oggetto della scienza della natura. L’insindacabile esistenza autonoma delle formazioni della logica, pertanto, sconfessa ogni pretesa di fondazione di quest’ultima su basi psicologiche o antropologiche. Su basi, vale a dire, che spieghino l’esistenza dei principi logici mediante il riferimento alla ‘costituzione mentale’ del soggetto individuale conoscente o mediante quello alla costituzione dell’uomo in quanto essere pensante e giudicante. Se il giudizio, attuato mediante i criteri logici, può essere considerato esclusiva competenza del soggetto giudicante, non altrettanto si può dire per i criteri medesimi, che vengono utilizzati proprio in quanto riconosciuti come validi al di fuori dell’atto giudicante e come ‘virtualmente’ validi in qualunque momento, al di là della presenza effettiva di soggetti giudicanti. Questo significa la necessità di distinguere tra l’apprensione dei principi logici e la loro effettiva sussistenza; connotabile in senso soggettivo la prima, mentre extrasoggettiva e autonoma da qualunque specificazione biologica o antropologica la seconda. Le Logische Untersuchungen sembrano situarsi a un polo opposto rispetto alla filosofia attualistica del Gentile maturo; ma anche rispetto a qualunque forma di idealismo di tradizione tedesca. Non è un caso, in effetti, che, dopo l’apparizione di quest’opera, Husserl sia stato da più parti, per così dire, etichettato con l’epiteto di ‘platonico’, in riferimento alla sua concezione delle ‘oggettività ideali’ come irriducibili a un qualsiasi piano soggettivo.

L’attualismo di Gentile avrebbe certamente negato validità a una simile teoria, secondo la considerazione che il piano del pensiero è assoluto, e che una supposta trascendenza di qualsivoglia idealità è identificabile solamente a causa di un’indebita presupposizione del soggetto come soggetto individuale, contrapposto a delle oggettualità esterne. Occorre tenere conto, tuttavia, dell’evoluzione della filosofia di Husserl (identificata, a un certo punto, proprio come una forma di rinascente idealismo), da un lato; e della sempre più attenta considerazione che, dall’altro, Gentile concederà al cosiddetto pensiero pensato nella sua speculazione matura. Ciò che qui importa in ogni caso rilevare è che la concezione husserliana dell’insindacabile evidenza delle strutture basilari della logica non è per nulla dissimile dall’idea gentiliana riguardo, principalmente, quanto concerne il versante critico dell’argomentazione. Innanzitutto, la supposta trascendenza delle idealità logiche viene affermata nelle Logische Untersuchungen non come un mero presupposto oggettivistico, bensì come una confutazione di ogni considerazione esclusivamente soggettiva del pensiero. In altre parole, la disquisizione di Husserl non si proponeva, in quel caso, di affrontare in maniera classica la problematica gnoseologica concernente l’interazione tra soggetto e oggetto; si proponeva, bensì, la fondazione (o, meglio, la ‘dimostrazione’) dell’assolutezza e della necessaria validità del ‘piano del pensiero’. Ove il pensiero (logico) non deve essere inteso come soggettivo o ‘umano’ (l’atto del giudicare), bensì come ‘assoluto’. Non, tuttavia, ‘assoluto’ idealisticamente in quanto totalità, bensì in quanto necessariamente sussistente e qualificato come autonomo.

Inoltre, bisogna tenere conto di ciò che l’accusa di psicologismo implicava, ossia le ulteriori accuse di relativismo e scetticismo. Ogni psicologismo, per Husserl, si configura come posizione relativistica in quanto, riducendo la conoscenza all’acquisizione soggettiva, finisce con il considerare lo statuto della logica un qualcosa di variabile a seconda dei ‘tipi antropologici’ che si trovino ad apprendere e utilizzare gli stessi principi logici. Questo relativismo, pertanto, sfociava ulteriormente in una posizione di tipo scettico: assumendo la conoscenza – persino nei suoi più radicati fondamenti logici – in quanto esclusivamente soggettiva, l’acquisizione di criteri di evidenza assoluti e insindacabili sarà da scartarsi recisamente. Il che, naturalmente, è proprio quello che Husserl, nei Prolegomena, tenta di confutare.

Gentile si pone sin dagli inizi in un altro ordine di idee. A lui interessa, innanzitutto, proprio la rifondazione del rapporto gnoseologico, mantenuto, nell’ambito di una prospettiva idealistica, in una struttura dialettico-triadica che conservi tanto il polo soggettivo quanto quello oggettivo. È a causa di queste diverse esigenze speculative che Gentile, a differenza di Husserl (giunto alla filosofia dalla matematica), non affronta la tematica della logica formale e della fondazione di essa, arrivando al massimo a dedicare, nel Sistema di logica come teoria del conoscere (1917-1923), uno spazio considerevole alla logica classica e aristotelica. Ciononostante, resta da notare che la nozione gentiliana di pensiero – sin dalle prime formulazioni dell’attualismo – appare connotata dall’affermazione irrefutabile della sua evidenza. Un’evidenza, per così dire, apodittica, e in ogni caso esente da qualsiasi esigenza di fondazione preliminare. Un’evidenza, soprattutto, svincolata da qualunque piano immediatamente soggettivo o antropologico e capace di contestare, con la sua sola autoaffermazione, le pretese di ogni scetticismo. Scriveva Gentile, già nel primo paragrafo dell’Atto del pensare come atto puro (1912):

Lo scettico […], quando sospende l’assenso, come il solo partito ragionevole che resti al suo pensiero, si ferma nella certezza inconcussa di questa ragionevolezza della sua sospensione, e vive, poiché continua a pensare, della fede in questo suo ritroso e vuoto pensiero (L’atto del pensare come atto puro, in Id., La riforma della dialettica hegeliana, 1913, 19232 , p. 195).

Affermazioni che intendono sottolineare la necessità che il pensiero porta con sé: quella della verità come affermazione di sé medesimo e della sua realtà assoluta.

Preme ora valutare la consonanza di questa critica con quella offerta da Husserl, per es. nei Prolegomena: «Che il concetto di teoria scettica sia intrinsecamente assurdo risulta senz’altro dalla definizione» (trad. it. Ricerche logiche, 1° vol., Prolegomeni a una logica pura, 1988, p. 128). E ancora, una decina di anni più tardi, ridiscutendo l’ipotesi scettica in Philosophie als strenge Wissenschaft (1911), scrive:

Potrebbe essere che alla fine i principi logici di non-contraddizione si trasformino nel loro contrario. Di conseguenza non avrebbero in sé alcuna validità nemmeno tutte le proposizioni ora espresse, nonché le stesse possibilità che abbiamo considerato e preteso come valide (trad. it. La filosofia come scienza rigorosa, 2005, p. 75).

Come si può notare, la critica husserliana, nella sua ‘dimostrazione per assurdo’ fondata sull’evidenza, è formalmente identica a quella offerta da Gentile. Alla luce della confutazione husserliana, si comprende ora meglio anche per quale ragione la ricaduta di ogni psicologismo logico nello scetticismo debba rappresentare per il suo assertore un completo fallimento. In effetti, negandosi la possibilità di una verità insindacabile, si finisce con il relativizzare – rendendola vana – questa stessa negazione, che è un’asserzione palesemente fondata sui principi basilari della logica (come quello di non contraddizione, che lo stesso Gentile rivaluterà nel Sistema di logica). La constatazione decisiva di Husserl è quella dell’insindacabilità e autonomia dei principi logici; quella di Gentile, la necessità e connaturale verità del pensiero, nel duplice senso di ‘pensiero vero’, ossia ‘reale’, e ‘pensiero che non può non pensare il vero’. Al di là, pertanto, delle molte differenze, a cominciare da quelle di ‘prospettiva’, la critica a scetticismo e psicologismo avvicina con chiarezza i due pensatori.

Lo stesso si deve dire della comune critica rivolta all’approccio dogmatico delle scienze naturalistiche, tra le quali sia Husserl, sia Gentile annoverano esplicitamente la psicologia. Un disteso esempio della critica husserliana è rintracciabile proprio in Philosophie als strenge Wissenschaft, ove il filosofo caratterizza la fenomenologia in relazione alle modalità in cui essa non si configura: quelle, per l’appunto, delle scienze oggettive e della psicologia, ma anche dello storicismo di matrice idealistica, bollato come ‘relativismo scettico’. L’errore fondamentale della scienza della natura, per come si è configurata sin dall’epoca della cosiddetta rivoluzione del Seicento, è per Husserl quello di permanere in una ‘ingenuità’ dogmatica, ponendosi essa come detentrice del corretto approccio in grado di giungere alla verità oggettiva riguardo la realtà delle cose, e presupponendo questa stessa realtà come un qualcosa di stabile e indubitabile. Nel fare questo, la scienza si confina però in una nozione molto ridotta di ‘realtà’: quella, per l’appunto, facente capo all’‘esperienza’ nel senso dell’empirismo, riconducibile in ultima istanza alla mera percezione sensoriale. Il che preclude la possibilità di scorgere che la nozione di evidenza possa e debba essere messa in atto indifferentemente per ogni datità, in quanto ‘manifestazione di presenza’. In questo senso, le cosiddette fantasie, immaginazioni e anche i ricordi possono divenire oggetto della fenomenologia, in quanto ‘vissuti di coscienza’ al pari degli oggetti della percezione sensibile, sia pure eideticamente differenti da essi. Compito della ‘scienza’ fenomenologica sarà proprio quello di determinare e descrivere queste differenze costitutive. Allo stesso modo, per Gentile, la scienza naturalistica erra nel ritenere indubitabile il proprio fondamento oggettivo e, al tempo stesso, nel presupporlo dogmaticamente. Ove tale presupposizione, per il filosofo, parte dalla constatazione di un’ovvia differenza tra il piano del soggetto (il singolo soggetto umano) e quello dell’oggetto (o, in generale, del mondo esterno). In questo modo, la scienza oggettiva ha potuto ritenere che l’oggetto fosse esclusivamente ‘considerabile’ dal soggetto, che avrebbe potuto svolgere tale osservazione in una condizione di assoluta sicurezza, essendo il suo polo di indagine stabile e immutabile, in sé del tutto indipendente dall’attività del soggetto e dalla conoscenza che esso avrebbe potuto averne (cfr. G. Gentile, Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916, in Id., Attualismo, 2014, pp. 98-99).

La psicologia esemplifica perfettamente, per Gentile, questo atteggiamento della scienza empirica: essa, infatti, prende come oggetto tematico la cosiddetta mente umana, vale a dire ciò che le altre scienze presuppongono come polo osservante nel rapporto dualistico tra coscienza e oggetto della coscienza, separato dalla prima. La psicologia presuppone questa coscienza allo stesso modo delle altre scienze; deve presupporla, proprio perché si propone di indagarla. In tal modo, però, commette un duplice errore: in primo luogo, ‘frammenta’ un piano – quello trascendentale – che si dà in origine come assolutamente unitario; in secondo luogo, facendo questo, riduce a ‘ente tra enti’ lo stesso inoggettivabile ambito globale delle oggettualità. Ciò che Gentile contesta, in ultima sede, è ogni tentativo di scindere l’unità della sintesi originaria costituita dal pensiero in atto, vale a dire la sola autoevidenza irrefutabile. Il nodo del parallelismo tra le posizioni critiche di Husserl e Gentile sta, pertanto, nel fatto che entrambe le filosofie si configurano, per così dire, come prive di presupposti. A questo proposito, le urgenze polemiche che le hanno contraddistinte nella loro articolazione – ma anche nella loro genesi – sono da ricondursi a una comune matrice concettuale.

Idealismo, coscienza, immanenza

La consonanza teoretica tra Gentile e Husserl non si limita all’aspetto critico. Anche dal punto di vista ‘propositivo’ alcune dottrine dei due filosofi sono assimilabili. Questo pur evitando di attribuire a Husserl l’impropria designazione di ‘idealista’ che, come è noto, gli venne rimproverata da alcuni ex allievi di Gottinga dopo la ‘svolta trascendentale’ palesata nel primo volume di Ideen. Di fatto, l’approccio della fenomenologia alla teoria della conoscenza si rivela estraneo alla classica disamina concernente il realismo e l’idealismo. Parafrasando Husserl, si potrebbe dire che essa comprende entrambe le posizioni: realista, per il suo tentativo di cogliere eideticamente le cose in sé stesse; idealista, per l’assoluta preminenza assegnata al ruolo della coscienza pura. D’altra parte, è risaputa l’avversione teorica di Husserl per l’idealismo classico tedesco e specialmente per il pensiero di Georg Wilhelm Friedrich Hegel, reo, a suo dire, di avere favorito un approccio ‘confuso’ alla filosofia e, con i suoi presupposti storicistici, lo sviluppo del relativismo teorico. D’altra parte, il fenomenologo maturo – dall’inizio del secondo decennio del Novecento – si pone al di fuori di un’ottica ontologica tradizionale, e lo fa ricorrendo non solo – come già aveva anticipato nelle Logische Untersuchungen – alla nozione di intuizione categoriale, ma anche alla cosiddetta riduzione trascendentale. Se la prima consente di attingere la ‘cosa’ esattamente come essa si offre, prescindendo da ogni specificazione arbitraria, la seconda riconduce alla coscienza pura, come intrascendibile orizzonte di manifestazione, ogni datità effettiva o possibile.

Abbiamo visto in che modo Gentile, da parte sua, criticasse l’argomentazione scettica. L’aveva fatto correlando ogni prodotto di pensiero alla sua matrice ultima e irriducibile: il Pensiero stesso nella sua inequivocabilità, che il più radicale degli scettici non avrebbe potuto negare. La strumentale ripresa husserliana del ‘dubbio cartesiano’ al fine di vagliare con sicurezza il valore di ogni assunzione o presunzione conduce a un identico risultato. In effetti, la riduzione trascendentale viene da Husserl operata sulla base della considerazione che la stessa ‘esistenza’ (in senso classico) degli enti possa essere messa in discussione. Per es., nulla ci impedisce di dubitare, con René Descartes, del fatto che gli oggetti a noi circostanti non siano altro che l’ingannevole creazione di un genio maligno. E, tuttavia, che gli oggetti esistano o meno, resta una certezza la constatazione che io abbia a che fare con essi, anche solo – come sto facendo – per dubitarne. Di conseguenza, il punto di partenza di una riflessione filosofica rigorosa non potrà che essere il piano coscienziale preso in una originaria assolutezza, ovvero come il correlato stabile di ogni, eventuale, oggettualità che in tale piano si manifesti. In un senso del tutto particolare, Husserl attinge in questo modo una posizione gnoseologica connotabile nei termini di un radicale immanentismo. Possiamo leggere nel primo volume di Ideen:

L’essere immanente è dunque indubitabilmente essere assoluto nel senso che per principio nulla “re” indiget ad existendum. D’altra parte, il mondo della res trascendente è assolutamente relativo alla coscienza, non come logicamente immaginata, ma come attuale (trad. it. Idee per una fenomenologia pura e per una filosofia fenomenologica, 1976, p. 107).

Il che significa che il piano coscienziale è del tutto unitario e, in un certo senso, ‘esaurisce’ il reale. Non nel senso che non si diano mediante esso dei ‘riferimenti’, ma nel senso che ciascuno di questi è comprensibile soltanto in correlazione all’orizzonte onnipervasivo fornito dal medesimo piano coscienziale.

Tuttavia va tenuto presente, a proposito del primo volume di Ideen, che a questo stadio del pensiero husserliano il carattere della riduzione trascendentale è sostanzialmente metodologico. Attraverso la riduzione, Husserl può compiutamente sospendere il giudizio riguardo l’esistenza fattuale di ogni realtà trascendente la coscienza. Può attuare, vale a dire, il procedimento noto come epochè. Riconducendo all’ambito coscienziale ogni datità esperita (ed esattamente nelle modalità in cui venga esperita), si rinuncia a esprimere dei giudizi riguardo l’esistenza di un qualcosa che lo trascenda, in quanto realmente esistente al di fuori di esso. Ciò che occorre rilevare, però, è che questa non è una recisa negazione dell’esistenza del mondo oggettivo. L’epochè risulta solamente una messa in parentesi del problema costituito dall’esistenza del mondo. Ciò significa che, potenzialmente, questa posizione viene affermata da Husserl in modo provvisorio e, soprattutto, con una valenza strumentale, ovvero per consentire di attingere i fenomeni al di fuori di qualsiasi elemento estraneo a essi.

Ben diversamente in Gentile, ove la riduzione di ogni realtà al piano assoluto della coscienzialità non avrà mai funzione meramente metodologica ma, al contrario, si qualificherà come strutturale e ontologica. Il che è ovviamente spiegabile con la prospettiva classicamente idealistica di Gentile, che, in virtù della tesi dell’identità di Pensiero attuale e realtà, intende il Pensiero in modo ontologicamente ‘pregnante’, senza neppure porsi il problema di una modalità di manifestazione del reale differente dall’esistenza. Che nulla trascenda il Pensiero è, per Gentile, un’evidenza; lo è altrettanto, tuttavia, che il Pensiero stesso, proprio per la constatazione precedente, esista insindacabilmente e si ponga perpetuamente come esistente. Per Gentile, il fatto che il solo Pensiero si affermi come ‘residuo’ di un ipotetico e radicale dubbio scettico confermerebbe il carattere di assoluta esistenza di cui esso gode, non potendosi concepire una realtà senza di esso (ma, poiché la realtà si concepisce, ovvero si pensa, esso deve esistere).

Precisata questa – non trascurabile – differenza tra le due prospettive, risultano tuttavia evidenti i punti di comunanza. Se, nell’Husserl del primo volume di Ideen, la riduzione trascendentale ha la funzione di evitare qualunque ‘presupposizione’ tematica che infici il puro piano dei fenomeni, in Gentile il piano trascendentale, attinto in una vera e propria ontologia, consente in uguale misura di edificare una ‘filosofia rigorosa’, che si fondi solo e soltanto sull’‘assolutamente evidente’. Di conseguenza, diventa agevole comprendere come sia proprio il carattere ‘eminente’ (ontologico o metodologico) da assegnare alla coscienza pura a distanziare questo Husserl da Gentile anche sul piano delle ‘analisi di dettaglio’. Intendendo, in effetti, il piano trascendentale come possibilità di manifestazione dei fenomeni, si comprende come l’attenzione, in Husserl, debba essere focalizzata proprio sulle datità, da tematizzarsi e descriversi in tutte le loro – virtualmente in(de)finite e pure chiaramente identificabili – specificazioni. Di qui, le numerosissime e continuamente progredienti analisi husserliane concernenti le particolari modalità di costituzione attiva e passiva di singole datità fenomeniche, ma anche dei loro ‘correlati’ e del loro ‘sfondo di apparizione’. Di qui, anche, la dottrina delle ‘ontologie regionali’: ripartizioni da intendersi non come semplicemente tematiche, bensì ‘esplicative’ di dati fenomenici riconducibili a un carattere generale. Di conseguenza, seguendo questo approccio di Husserl alla ricerca speculativa, si potrebbe dire che non esiste la fenomenologia ma che esistono le fenomenologie. E questo non perché il metodo fenomenologico non sia unitario, ma perché esso, proprio in quanto ‘universale’, può essere fruttuosamente declinato in ogni singolo ambito del sapere e della – cosiddetta – realtà. E, tuttavia, la consonanza tra le fasi conclusive del pensiero di Gentile e Husserl non manca di palesarsi e, ancora una volta, proprio sul piano della soggettività. Alla ‘soggettività trascendentale’ dell’Husserl di Die Krisis der europäischen Wissenschaften (1954), infatti, corrisponde in più di un carattere quella ‘intersoggettività trascendentale’ presa a oggetto, più che in altre opere, nell’ultimo scritto di Gentile, Genesi e struttura della società (1946). L’ultimo Husserl valorizza in modo particolare il piano trascendentale, giungendo a una posizione – più volte tacciata di diretto idealismo – sostenente l’unità e la cooperazione teleologica di ogni soggetto umano in una ‘vita comune’. Dal canto suo, Gentile termina pochi anni più tardi di delineare la propria nozione – già abbozzata sin dai Fondamenti della filosofia del diritto (1916) – di società trascendentale. Nozione mediante la quale il pensatore oscilla tra la rigorosa e intrascendibile posizione, offerta negli scritti teoretici precedenti, del pensiero attuale come coscienza assoluta, e una nozione – più affine a quella husserliana appena considerata – tendente a rivalutare la soggettività in quanto pluralità di individui umani, cooperanti al medesimo fine. Ove la teleologia husserliana della Krisis metteva in gioco la stessa caratterizzazione della civiltà occidentale, indicandone il rapporto intrinsecamente ‘aperto’ con la verità, Gentile arrivava a considerare lo Stato etico, espressione organica della società in tutte le sue manifestazioni, come la ‘teleologia immanente’ di questa soggettività costitutiva.

In Husserl, in ogni caso, il conseguimento di quest’ultima prospettiva non giungeva certo a revocare la centralità delle succitate analisi fenomenologiche ‘di dettaglio’, richiamandone, anzi, la necessità nella misura in cui esse ritrovassero la propria possibilità in un ambito più profondo rispetto a quello della ‘dimenticanza’, caratteristico della civiltà tecnico-scientifica. Questa ricchezza di specificazioni si viene inevitabilmente a perdere in una filosofia come quella di Gentile, che pretende di esaurire la realtà nella sua ‘struttura’, rarefacendo ai minimi termini (e molto rigorosamente in termini speculativi) il campo dell’esprimibile, e pagando tuttavia il prezzo della rinuncia a una caratterizzazione ‘aperta’ e ‘varia’ di questa stessa struttura. La ‘struttura’ del reale, in Gentile, è data dal movimento dialettico di soggetto e oggetto, cui fa eternamente capo la sintesi originaria del Pensiero in atto. Specificare in un’elencazione definita – sia pure variabile – i momenti dell’oggettivazione spirituale significherebbe, per il filosofo, parlare di queste specificazioni ‘ipostatizzate’ come di un qualcosa di ineliminabile dalla struttura dialettica. Significherebbe, vale a dire, confondere il piano del casuale e del contingente (appartenente nella sua sola ‘formalità’ al reale come Pensiero) con quello dell’evidente e del necessario, costituito dal Pensiero stesso. Per Gentile, parlare di ‘ontologia regionale’ sarebbe un controsenso, perché l’ontologia è unica, e consiste nell’autodelineazione dell’Atto.

Questi scarti di impostazione permettono di comprendere quale sia la differenza fondamentale tra gli obiettivi teorici della fenomenologia e quelli dell’idealismo attuale. Se la prima si propone, in contrapposizione alle ‘deduzioni causali’ di gran parte della tradizione filosofica, un approccio fondamentalmente descrittivo alla realtà, il secondo conserva un approccio giustificativo a essa, in quanto avverte l’esigenza di una deduzione categoriale nella quale il Pensiero identifichi la propria struttura di base.

Descrizione, determinazione, logica

Abbiamo già visto come sia Husserl sia Gentile pervengano a una posizione assoluta del piano trascendentale, la quale, per entrambi, non si risolve in una vuota indeterminatezza, ma implica il carattere determinato proprio dell’esperienza. Per Gentile è il carattere dialettico impresso dalla ‘sintesi originaria’ a rendere imprescindibile il momento oggettuale. In Husserl la nozione che permette di comprendere il raggiungimento ‘puro’ del dato è quella di intenzionalità, attinta dalla psicologia di Franz Brentano (1838-1917) sin dalle Logische Untersuchungen. Tale nozione, da un lato, riabilita nella stessa assolutezza della sfera coscienziale la possibilità di una trascendenza a essa intrinseca proprio in quanto fenomeno; dall’altro, consente di ‘riempire’ nuovamente quello ‘svuotamento del mondo’ operato dalla riduzione trascendentale, limitatamente, tuttavia, a una tematizzazione delle cose semplicemente ‘per come esse si danno’. Ora: la nozione di intenzionalità si fonda sulla necessità di due momenti. Il primo – definito da Husserl ‘noetico’ – è costituito dai processi o dalle attività direttamente riferibili alla coscienza immanente. Il secondo – quello ‘noematico’ – consiste nel riferimento alla componente oggettuale, intuita come ‘altra’ rispetto alla coscienza (sia pure, naturalmente, nell’ambito dell’intrascendibile orizzonte della coscienza pura). Si comprende come la tematica dell’oggetto (fenomenico) venga da Husserl declinata originalmente, ma non per questo espunta dalla tematizzazione della filosofia. Sia in Gentile, sia in Husserl, pertanto, è possibile constatare – stanti le differenze di cui sopra – la ‘necessità’ del momento oggettuale. Se in Gentile non si può parlare di ‘intenzionalità’ nei termini della fenomenologia, è tuttavia evidente che, se la coscienza, nella sua presa di consapevolezza, non comprendesse come ineliminabile il momento della determinazione, la celebre accusa di misticismo rivolta da Benedetto Croce all’attualismo coglierebbe certamente nel segno.

Ciò che importa comprendere ai fini del nostro raffronto è in che modo Gentile pervenga a tale ‘necessità’, dovendola intendere nel senso idealistico di ‘deduzione necessaria’. In un senso, pertanto, che pare a tutti gli effetti ontologico. Occorre porre attenzione, tuttavia, all’oggetto ultimo di tale ‘giustificazione’. Essa, in Gentile, si riduce a deduzione di quella categoria unica costituita dal Pensiero attuale, vale a dire alla comprensione dell’articolazione dialettica di questo. Comprensione che, stante l’unitarietà inscindibile del reale, è autocomprensione. Una presa di coscienza che il Pensiero attua, di conseguenza, riguardo la propria, duplice valenza, soggettiva e oggettiva. Sia il momento soggettivo, sia quello oggettivo, d’altronde, traggono l’uno dall’altro la propria ragion d’essere, essendo evidente che la realtà si dà in ‘concretizzazioni finite’ (oggetto) e che, tuttavia, in quanto totalità, non si esaurisce in quelle. Quest’ottica si traspone innegabilmente in una considerazione di carattere ontologico. Vale a dire: al livello dell’esplicitazione della necessità della categoria unica, la quale non si può ritenere in senso stretto una mera datità, essendo, bensì, il piano trascendentale attraverso il quale ogni datità si dispiega. Inoltre: al livello della pretesa (meglio: dell’assenza totale di dubbio a riguardo) concernente l’esistenza oggettiva, in senso tradizionale, della realtà, con il conseguente ‘corollario’ – che scaturisce, ancora una volta, dall’impossibilità di qualunque trascendenza radicale – dell’auto-produzione della realtà in quanto Pensiero.

L’esplicitazione della necessità della determinazione oggettuale in quanto posizione della coscienza assoluta si può pienamente comprendere, nel pensiero gentiliano, soltanto da un certo punto in poi. Nei primi scritti attualistici, la concretizzazione ‘pensata’ del Pensiero – il suo momento oggettivo – sembrava trattata alla stregua di un’‘apparenza’, di una manifestazione accidentale da considerarsi esclusivamente alla luce della verità costituita dal ‘pensiero pensante’. Il che significava sottoporre la teorizzazione al rischio di misconoscere un piano esperienziale determinato in maniera molteplice, conseguendo la sola connotazione onnipervasiva di esso in quanto orizzonte trascendentale. L’ampia trattazione del primo volume del Sistema di logica si propone come esplicito obiettivo il conferimento di uno statuto necessario al ‘pensato’, qualificandolo in quanto inevitabile prerogativa dell’Atto. Pensare senza ‘pensare qualcosa’, di fatto, significherebbe pensare il ‘vuoto’, ovvero pensare l’impensabile. Quindi: pensare il non-pensare, il che sempre significherebbe pensare, e pensare un oggetto. Approfondendo il proprio attualismo, dunque, Gentile tenta di rispondere all’esigenza di rendere quantomeno conto della specifica ‘forma necessaria’ entro la quale si possano inscrivere i mutevoli e contingenti ‘contenuti’ del piano esperienziale. Ciò senza mai determinare e descrivere con precisione questi stessi ‘contenuti’, costituenti soltanto genericamente una componente strutturale della forma monotriadica dell’Atto. Determinazioni e descrizioni, d’altro canto, non mancherà di apportare diffusamente Husserl. E, tuttavia, le affinità tra la prospettiva gentiliana e quella husserliana sono riscontrabili anche in quest’ambito. Alla matura concezione gentiliana della dialettica tra ‘pensiero astratto’ e ‘pensiero concreto’, si può dire faccia eco la bivalenza della logica husserliana, ripartita in ‘logica formale’ e ‘logica trascendentale’. Sia, per l’appunto, in Formale und transzendentale Logik (1929), sia nel postumo Erfahrung und Urteil (hrsg. L. Landgrebe, 1939), l’esigenza affermata da Husserl è quella di ricondurre le strutture della logica propriamente detta al piano della concretezza esperienziale da cui esse ricavano in ultima istanza il proprio senso. L’obiettivo di Husserl, in altri termini, è di collocare a un livello trascendentale, di pertinenza della fenomenologia in quanto considerazione diretta dell’esperienza, analisi che, nel corso dei secoli, si erano indebitamente situate sotto la supervisione di metodologie dogmatiche e foriere di presupposizioni infondate. È il caso – come visto – delle scienze naturali.

Tale demarcazione husserliana, a prima vista, può parere del tutto estranea alla prospettiva di Gentile. In quest’ultima, sarebbe insensato distinguere tra esperienza ‘predicativa’ e ‘antepredicativa’, perché farlo significherebbe ricondurre la logica da ontologia a mera metodologia, ovvero intenderla, come aveva fatto la tradizione precedente l’idealismo classico tedesco, in quanto ‘mezzo’ per pensare un reale già dato. Considerato il carattere totalizzante del pensiero, nella concezione idealistica gentiliana non si può parlare a rigore, pertanto, di un’‘esperienza antepredicativa’. Ogni realtà è un pensato, e ogni pensato è costitutivamente determinato dalla forma perenne e invariabile del Pensiero attuale. A ben considerare, però, emerge una comune esigenza, che scaturisce dall’affinità profonda delle due costruzioni teoriche. Quello che Husserl, esattamente come Gentile, mira a ottenere, infatti, è il riconoscimento dell’insufficienza di ogni logica che non attinga i propri fondamenti nell’esperienza diretta – e, pertanto, non comprenda la propria necessità di una chiarificazione filosofica (nel caso di Husserl, fenomenologica) rigorosa, che la sottragga alla propria ingenuità costitutiva. Sia Gentile, sia Husserl, in questo senso, considerano la logica in quanto ‘trascendentale’, vale a dire aprioricamente strutturata secondo le ‘costituzioni’ caratteristiche dell’esperienza stessa. Ciò che permette di istituire il parallelismo è la particolarità dell’idealismo gentiliano, che riduce a panlogismo l’articolata prospettiva sistematica hegeliana, instaurando in questo modo un piano trascendentale assolutamente unitario e privo di stratificazioni ‘verticali’ (cfr. G. Gentile, Filosofia dell’arte, in Id., L’attualismo, cit., pp. 1046-49). Husserl è decisamente lontano da quest’ordine di problemi, nel senso che è lontano dall’identificare realtà, logica e filosofia. Tuttavia, per il pensatore tedesco, come abbiamo visto, lo stesso piano esperienziale, considerato nella sua purezza mediante la riduzione trascendentale, risulta unitario e intrascendibile al pari di quello gentiliano. Come per Gentile i meccanismi del ‘pensiero’ vanno ricondotti alla struttura generale del piano trascendentale – il ‘pensiero concreto’ –, così per Husserl le ‘astrazioni’ della logica formale devono rintracciare i propri ‘fondamenti soggettivi’ e la propria ‘genesi’ nel contesto della globale esperienza antepredicativa.

Bibliografia

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