La dieta mediterranea: realtà, mito, invenzione

L'Italia e le sue Regioni (2015)

La dieta mediterranea: realtà, mito, invenzione

Vito Teti

Paradossi di un modello alimentare

L’espressione dieta mediterranea è nata con riferimento alla situazione alimentare del Mezzogiorno d’Italia e di alcune aree del Mediterraneo in ambito medico-nutrizionista tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta. Nel 1948 uno studio condotto a Creta per conto della Rockfeller foundation (Allbaug 1953; Fischler 1996) aveva gettato le basi per la costruzione di un regime alimentare mediterraneo efficace per prevenire determinate malattie. La promozione di un ‘regime mediterraneo’, contrapposto ai modelli alimentari di tipo ‘continentale’ dei Paesi industrializzati occidentali, si era affermato con le indagini del biologo e fisiologo Ancel Keys che, a partire dal 1952, mise in relazione consumi alimentari ‒ in particolare l’eccesso di grassi animali ‒ e fattori di rischio di aterosclerosi in sette Paesi. Grazie a ricerche condotte a partire dal 1957 in Grecia, a Creta e nel Mezzogiorno d’Italia (a Nicotera in Calabria e a Pioppi, frazione di Pollica, nel Cilento), Keys e altri studiosi, tra i quali un ruolo centrale ebbe Flaminio Fidanza, segnalarono come il tradizionale modello alimentare svolgesse una funzione preventiva per le malattie cardiovascolari. La formulazione di un ‘ideale culinario’ comune a tutti i Paesi del Mediterraneo, a cui si fa riferimento come a una realtà indiscutibile, apparve in diversi libri di cucina a partire dai primi anni Cinquanta, per passare poi nel linguaggio comune attraverso i media e la pubblicità.

Anche le ricerche effettuate da Euratom nel 1962 a Montescaglioso, Pomarico, Bernalda e Policoro (Matera) individuarono una tipologia alimentare che si può ritenere paradigmatica della dieta mediterranea. Biologi, nutrizionisti, medici che si ispiravano a Keys, segnalarono, a partire da allora, come un’alimentazione mediterranea ‒ ricca di cereali, legumi, frutta e verdura, con una significativa presenza di pesce fresco e pasta, con una percentuale bassa di prodotti di origine animale come formaggi e uova, ma povera di grassi saturi, con olio di oliva come principale condimento ‒ fosse la più adatta a contrastare malattie degenerative, legate a modelli di vita delle società industriali avanzate, in maniera particolare le affezioni cardiovascolari, il diabete, il cancro. La dieta mediterranea veniva presentata e proposta come un modello nutrizionale con cui combattere le malattie del benessere (obesità, diabete, ipertensione, ipercolesterolemia) che in quegli anni si stavano diffondendo negli Stati Uniti.

Il modello indicato come ‘tipicamente mediterraneo’ fa riferimento, a volte in maniera rituale e assertiva, alla frugalità, alla sobrietà, all’equilibrio di una tradizione mai ben precisata e una sorta di dietetica che nel passato si sarebbe affermata in maniera uniforme dappertutto.

Nel periodo in cui veniva costruito il modello della dieta mediterranea le popolazioni conoscevano ancora situazioni di disagio alimentare e si apprestavano a fare scelte che le avrebbero allontanate da un regime considerato precario e insufficiente. Massimo Cresta, uno dei maggiori studiosi dell’alimentazione nelle regioni meridionali e dei Paesi africani analizza i consumi alimentari a Rofrano nel Cilento, in un periodo che va dal 1954 al 1995. Il lavoro svolto sul territorio da Cresta e dai vari medici e collaboratori durante il primo anno venne filmato dall’Istituto Luce che ne realizzò un prezioso documentario (Inchiesta alimentare a Rofrano, 1954, regia di Virgilio Tosi) oggi fortunatamente fruibile in rete. Nelle sue numerose monografie, frutto di ricerche compiute con studiosi di varie discipline (Eugenio Cialfa, Gabriella Barberini, Pierluigi Calandra, Piero Passarello, Francesco Vecchi e altri), Cresta esamina, dunque, con riferimento alla prima metà del Novecento e agli anni Cinquanta, le relazioni tra malessere alimentare e sociale, condizioni ambientali, anomalie dello sviluppo, situazione biologica degli individui. Così commenta a conclusione di una rilevazione sistematica e continuata nell’arco di quarant’anni, i risultati di certe indagini, probabilmente, troppo enfatizzate e pubblicizzate: «Quanta delusione per i nutrizionisti di oggi, cultori della “dieta mediterranea”, pensare che la “dieta del Mediterraneo” che si consumava in “terre come il Cilento” non era a base di olio di oliva e di frumento, ma di castagne, granturco, e grasso di maiale» (M. Cresta, Va camminannu cu’ l’uocchi spierti. Una breve storia dell’alimentazione e di altre cose di una comunità montana del Cilento. Rofrano 1954-1995, 1995, pp. 9-10).

Diverse ricognizioni sui consumi alimentari condotte dall’Istituto nazionale della nutrizione alla fine degli anni Novanta hanno contribuito a mostrare come i meridionali si fossero allontanati dalle precedenti abitudini, e avessero abbandonato, nonostante i revival e le mitizzazioni in voga, quella dieta mediterranea che veniva promossa e proposta in vari modi. Dagli anni Sessanta, nelle regioni meridionali era aumentato significativamente il consumo di carne, pesce, grassi, zuccheri, mentre era diminuito il consumo di pane, pasta, cereali, verdure, olio. Il fenomeno riguardava i piccoli centri delle zone interne, ma soprattutto l’ambiente urbano, dove i ricercatori segnalavano un ‘grave processo di involuzione’ della dieta mediterranea.

Gli studiosi – soprattutto medici, biologi, nutrizionisti – hanno sottolineato i risvolti positivi (dietetici, psicologici, sociali e culturali) di tali trasformazioni. La statura media dei meridionali ha ormai raggiunto gli standard americani, grazie anche a un migliore regime alimentare, coagente in maniera efficace con importanti mutamenti igienico-sanitari, tra cui la scomparsa del parassitismo intestinale, che ancora negli anni Cinquanta colpiva e segnava una percentuale elevata della popolazione infantile.

L’uscita da condizioni di sofferenza e di fame ha comportato anche alcuni risvolti negativi e preoccupanti. I migliorati consumi alimentari, l’invecchiamento della popolazione, la diminuita attività fisica degli individui sono stati la causa, da un punto di vista nutrizionale, di uno squilibrio tra bisogni e apporti energetici, con gravi conseguenze per la salute. La scomparsa del tradizionale equilibrio e l’abbandono di un antico stile di vita hanno contribuito a creare situazioni di difficoltà metaboliche nell’organismo dell’uomo della sponda nord del Mediterraneo (The road of food habits in the Mediterranean area between biology and culture, 1998). Poiché il peso corporeo degli individui è aumentato più della statura si è verificata una condizione di sovrappeso, prima quasi inesistente ed eccezionale. L’obesità è diventata quindi uno dei principali problemi di natura alimentare, a causa delle malattie a essa collegabili. Si sono manifestate altre sindromi della ‘malattia del benessere’ e di una ‘malnutrizione per eccesso’: il diabete, la maggiore facilità a contrarre infezioni, l’aterosclerosi, le retinopatie, la patologia renale, la neuropatia diabetica e le ulcere ai piedi. La dieta mediterranea, in questo quadro di nuovi malesseri e patologie, è stata sempre più promossa come una medicina con cui combattere le malattie del benessere.

Nel 2004 Keys è stato insignito della Medaglia al merito alla salute pubblica dello Stato italiano. Nel 2010 l’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization) ha proclamato la dieta mediterranea patrimonio immateriale culturale dell’umanità. Una ricerca condotta dal Ministero della Salute dal 2008 al 2010 ha registrato come in Campania, nell’area dei comuni di Pompei, Scafati, Castellammare di Stabia, Torre Annunziata, ci fosse un elevato numero (probabilmente il più alto in Italia) di ragazzi e ragazze di età compresa tra i 9 e gli 11 anni con problemi di sovrappeso e di obesità. Si sono individuati come responsabili: un regime alimentare scorretto, le modalità non equilibrate di preparazione e di consumo di alimenti e bevande, orari e scansioni disordinate nell’assunzione dei pasti, consumo molto elevato di prodotti e alimenti industriali con esagerato apporto calorico e basso contenuto proteico. A questi fattori bisogna aggiungere la scarsa attività motoria, una vita sedentaria dovuta anche a una sorta di rapporto costante con televisione, videogiochi, Internet, e scarsa propensione alla pratica di attività sportive.

Il concatenarsi di questi elementi, che determinano sovrappeso e obesità, soprattutto tra i ceti meno abbienti, rappresenta un rischio fortissimo per l’insorgenza di patologie e gravi scompensi salutari durante tutto l’arco della vita. I costi individuali sono elevatissimi, e quelli sociali insostenibili, in quanto le diverse patologie che ne conseguono (diabete, ictus ecc.) incidono notevolmente sulla spesa sanitaria della regione. L’allarme per il problema è forte tra nutrizionisti e medici e numerose sono le iniziative per contrastare questa tendenza che, paradossalmente, si registra proprio nella regione che è la patria della dieta mediterranea e in un’area in cui vengono prodotti tutti gli elementi costitutivi della piramide della dieta alimentare.

Anche la Calabria, che è la regione che contende alla Campania una sorta di copyright della dieta mediterranea, naviga nelle acque turbolente delle malattie da benessere alimentare e da pratiche proprie delle società opulente, come veniva segnalato già alla fine del secolo scorso. Sui quotidiani e sulle riviste nazionali accanto ad articoli in cui viene esaltata la cucina siciliana famosa in tutto il mondo per i suoi ingredienti genuini e i suoi prodotti biologici, basilari per la dieta mediterranea, se ne trovano altri in cui si lancia l’allarme per l’obesità che nell’isola colpisce i più giovani. Videogiochi, poco movimento e sport, vita sedentaria, merendine e merenda abbondante, scarso consumo di frutta e verdura vengono considerati responsabili del fatto che il 41% dei più giovani siciliani sono in eccesso di peso.

Le conclusioni di biologi, medici, dietologi, che affrontano il problema dell’obesità e delle malattie cardiovascolari e circolatorie presenti al Sud, portano all’idea che, negli ultimi decenni, le popolazioni si sarebbero allontanate da una dieta mediterranea tradizionale, praticata fin dall’antichità. Una tesi che si vuole svolgere in questo saggio è che gli attuali comportamenti alimentari non costituiscono alcun tradimento di una dieta mediterranea, che non ha molti fondamenti nella realtà del passato e che appare una costruzione mitica grazie alla quale proporre un modello mai esistito, esaltato e indicato come una sorta di panacea. Questo non vuol dire sminuire o sottovalutare le culture e le pratiche alimentari del passato, ma al contrario significa segnalarne la complessità e la ricchezza, l’articolazione e la dinamicità, anche le valenze dietetiche, simboliche e rituali.

La dieta mediterranea: modello ideale e realtà

Il modello attuale della dieta mediterranea non corrisponde alla realtà storica di nessuna area geografica del Mediterraneo. Ancora nella prima metà del Novecento e fino agli anni Cinquanta le popolazioni meridionali presentavano un regime alimentare a base di pane di mais, patate, pomodori, peperoni, legumi, e per il condimento usavano il grasso di maiale. La ‘trinità mediterranea’ (olio, grano e vino) restava un’eredità pesante, che caratterizzava, però, la cucina dei ricchi e soltanto i sogni dei ceti popolari. Il condimento con il ‘grasso porcino’ ebbe quasi dovunque una significativa e non breve fortuna. In molte zone interne e montane del Sud i contadini poveri consumavano grasso di maiale e mangiavano ‘erbe mal condite’ ancora dopo la Seconda guerra mondiale. In Abruzzo, Molise, Campania e Calabria ancora nei primi anni del Novecento venivano segnalati sia olii mal confezionati o avariati sia grasso di maiale rancido. La pasta, a eccezione di quella fatta in casa nelle feste, ancora all’inizio degli anni Cinquanta rappresentava un genere di lusso.

All’inizio del Novecento Alfredo Niceforo (1876-1960), il maggiore divulgatore della teoria dell’inferiorità razziale dei meridionali, segnalava come la popolazione di tutta l’Italia mangiasse meno e peggio degli anglosassoni, in particolare come fosse all’ultimo posto rispetto alle altre popolazioni europee per il consumo della carne.

Niceforo, come gli altri studiosi dell’epoca, considerava la carne la sostanza alimentare per eccellenza e il basso consumo di essa la causa della depressione fisica e psicologica delle popolazioni latine. Il consumo della carne era massimo al Nord e minimo al Sud. Le numerose indagini statistiche da lui citate (in particolare quelle di Enrico Raseri del 1879) mostravano come nel 1879 il consumo annuo di carne per individuo fosse al Nord di kg 17,9, al Centro di kg 17,3, al Sud di kg 6,4, in Sicilia di kg 5, in Sardegna di kg 12,2. Lo stesso enorme dislivello veniva riscontrato nel consumo delle uova e anche in quello dei cereali, oltre che dello zucchero e del caffè, simboli di un maggiore benessere: al Sud si consumava un po’ più di frumento e in misura più o meno uguale legumi freschi e secchi. La popolazione del Sud era essenzialmente vegetariana, mentre quella del Nord era principalmente carnivora. Questa era una delle ragioni (e dei segni) della statura media o piccola, dell’aspetto emaciato, dello scarso sviluppo muscolare, del difetto di energia, della tendenza all’ozio, della depressione e dell’infelicità dei meridionali (A. Niceforo, Italiani del Nord e italiani del Sud, 1901, pp. 163-211).

All’epoca, gli studiosi anglosassoni ed europei di scienza dell’alimentazione si basavano sul valore dietetico della carne ed erano lontani, in un’Europa che usciva appena e non dappertutto dalla fame, dal mitizzare un’alimentazione considerata inadeguata e carente dei principi nutritivi. Le due Italie erano dissimili e diverse anche per le due distinte alimentazioni e, naturalmente, il Sud era inferiore anche nei consumi e nei modelli alimentari e tale sarebbe rimasto fino a tutti gli anni Sessanta (E. Cialfa, Calabria: il problema alimentare nel quadro delle condizioni agricole, economiche e sociali, 1968).

Nel Mezzogiorno continentale e nelle isole esistevano, tuttavia, anche notevoli differenze nelle disponibilità e nei consumi. Nel 1968 Eugenio Cialfa trovava che la Calabria avesse una disponibilità inferiore a quella della media nazionale e anche di altre regioni meridionali per il consumo di cereali minori, frutta fresca e uova, carne bovina e altre carni, pesce fresco e pesce conservato, uova, latte bovino, formaggio, zucchero e vino (Calabria, cit., p. 161). Le opere di scrittori come Matilde Serao, Giovanni Verga, Grazia Deledda, Corrado Alvaro, Saverio Strati o Ignazio Silone, la letteratura orale con i suoi canti e proverbi, le memorie raccolte ancora negli anni Settanta rivelano come la diversità di consumi rifletta differenze di ordine sociale (Teti 1976). La prima grande contrapposizione alimentare (con risvolti a livello sociale, culturale e mentale) era quella, segnalata già all’inizio dell‘Ottocento dai relatori della statistica murattiana, tra ceti poveri «mangiatori di pane nero» e ricchi «mangiatori di pane bianco» (M.R. Storchi, L’alimentazione nel Regno di Napoli attraverso i dati della statistica murattiana, in Studi sul Regno di Napoli nel decennio francese (1806-1815), 1985, pp. 145-61). Per le categorie più disagiate il consumo di pane di grano restava una sorta di miraggio, un sogno realizzato poche volte nel corso della vita. Abituale era il ricorso a granaglie, a cereali minori, soprattutto mais (a partire dalla metà del 17° sec.), a misture di legumi, lupini, castagne e, in tempi di carestie e di gravi difficoltà, erbe selvatiche e ghiande. L’altra grande opposizione era quella tra i ceti popolari ‘mangiatori di erbe’ e i ceti benestanti ‘mangiatori di carne’ (Teti 1999, 20072). Ancora all’inizio dell’Ottocento gli osservatori potevano confermare questo stesso dato che resterà sostanzialmente inalterato fino alla prima metà del Novecento. L’altra grande differenza era data dal consumo del pesce. Da una parte i ricchi che avevano accesso al pesce fresco, dall’altra i poveri che consumavano pesce conservato, salato o essiccato. Soprattutto nelle zone interne e nei piccoli centri, dove il pesce fresco non arrivava quasi mai, e baccalà e stoccafisso, sarde e aringhe si affermarono come alimenti eccezionali e festivi. Il notevole consumo di pesce conservato in una ricca e fantasiosa cucina del territorio è una conquista piuttosto recente, rientra in una ‘riscoperta’ da parte delle élites di quella che un tempo costituiva una cucina povera. Come in altre parti d’Europa, il pesce fresco richiama immagini di ricchezza, mentre quello conservato è considerato un surrogato della carne (M. Montanari, La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, 1993). I ricchi consumano in misura assai maggiore, rispetto ai lavoratori della terra, anche uova, salumi, latticini, pasta, olio e vino. La diversità sociale emerge dalla quantità di cibo consumato: mangiare in abbondanza resta ancora in anni recenti segno di ricchezza e di potere. Per i ceti popolari non c’è molta somiglianza tra il misero vitto quotidiano dei poveri e la cucina sfarzosa degli aristocratici. Si affacciano almeno due diverse ‘pratiche alimentari mediterranee’, ma la realtà è più complessa e articolata: bisogna considerare che uno stile alimentare non è dato soltanto da ciò che una popolazione mangia, ma anche da ciò che non mangia (per scelta o per necessità), da ciò che vorrebbe consumare e non può farlo per indisponibilità dei prodotti desiderati.

Significative sono le differenze legate all’ambiente geografico, alla produzione e alle forme di insediamento. Gli abitanti dei centri costieri hanno avuto una discreta disponibilità di pesce, che difficilmente, per difficoltà di trasporto, arrivava nelle zone interne. Accanto alle diverse zone cerealicole, dipendenti da ragioni di ordine climatico e di produttività, vi erano distinzioni significative tra prodotti delle zone montane, collinari e marine. Fino agli anni Cinquanta gli abitanti dei centri urbani hanno avuto maggiore disponibilità di frumento, carne fresca, pesce fresco, pasta, vino rispetto agli abitanti dei paesi e delle campagne, che spesso si sono nutriti soltanto con quanto prodotto direttamente o reperito nelle comunità e nelle zone di residenza.

L’alimentazione variava in base ai diversi periodi dell’anno. In inverno si consumavano maggiormente il pane di mais, o di orzo o di castagna o misture di cereali minori. D’estate era più accessibile il pane di grano. L’inverno, periodo di vuoto produttivo, era il più infelice dal punto di vista alimentare. Questo dato conferma come risultino forzate e tendenziose le invenzioni delle tante ‘gastronomie regionali’. Anche all’interno delle categorie sociali dell’universo popolare tradizionale (contadini, piccoli proprietari, mezzadri, coloni, braccianti, pastori, artigiani, pescatori) si registravano a volte disponibilità alimentari, tecniche culinarie, ritualità notevolmente differenziate. Pratiche alimentari diverse erano legate ai lavori stagionali, alle relazioni sociali, alle possibilità familiari, al calendario religioso, alle feste, talvolta al gusto individuale.

La fame e l’abbondanza

Il mito non riflette la realtà. Il dato emerge anche dagli stessi inventori della dieta mediterranea. A Nicotera i rilevatori del gruppo guidato da Keys, che pesavano quotidianamente le pietanze consumate ogni giorno dalle famiglie individuate per l’indagine, trovavano spesso donne di casa che dichiaravano: «Stasira non pensu ‘ca mangiamu» e molti bambini si strofinavano gli occhi lucidi, singhiozzavano e dicevano di non avere mangiato, si lamentavano: «Avimu fami» (così Salvatore Reggio riportava una testimonianza del professor Mario Mancini, in Camera di Commercio di Vibo Valentia, La dieta mediterranea. Nicotera il modello italiano di riferimento, 2011, pp. 28-31). Mentre i rilevatori elaboravano la dieta mediterranea, i contadini che non avevano nulla da mangiare provavano difficoltà, disagio e vergogna a vedersi osservati mentre consumavano un povero pasto e invitavano le persone a passare l’indomani. Le inchieste e le indagini di inizio anni Cinquanta collocano il Mezzogiorno d’Italia in quella geografia della fame che viene tracciata a livello mondiale. In Tibi e Tascia Saverio Strati ha raccontato i desideri e i sogni alimentari di un bambino: «Però io vorrei diventare uno di loro [un ricco], questo sì. Mangerei tanto da spaccare: carne, uova, mangerei; salsicce, galline, mangerei: capretti, cacio, prosciutto, mangerei: e berrei vino montonico e greco [...]» (1959, p. 219).

Il Mediterraneo «non è mai stato un paradiso offerto gratuitamente al diletto dell’umanità. Qui tutto ha dovuto essere costruito, spesso più faticosamente che altrove». Nelle cattive annate i campagnoli sono scheletrici per la fame e le carestie ricorrenti ‘fanno da battistrada alle malattie, dalla malaria alla peste, che nel Mediterraneo è il flagello di Dio’ (Braudel 1992, pp. 19-29).

Fonti di vario genere hanno ricondotto o collegato alla fame patologie fisiche e psicologiche delle popolazioni meridionali e ancora: natimortalità, mortalità infantile, bassa statura, comportamenti, mentalità degli individui. La ‘fame’ denota una condizione reale e a volte psicologica e narra di insoddisfazione, precarietà, incertezza, paura. Lo scarso consumo di carne, latte, uova, formaggio, pane di grano e vino veniva vissuto come dato di inferiorità ed emarginazione. La fame ha come contrappunto reale o desiderato l’abbondanza. Non esiste una sola fame e non esiste una sola abbondanza.

Scrittori e viaggiatori dell’Ottocento e del Novecento osservavano sulle tavole dei ricchi: carni, eccellenti insalate, pesce cucinato in vari modi, cacciagione, frutta, vini, salumi, formaggi, dolci. Nicola Misasi, Silone, Alvaro registrarono l’invidia dei poveri per la cucina dei ricchi: il loro attendere avanzi, sentire odori e profumi, vedere per la prima volta carne, pane bianco, caffè nelle case dei baroni. L’abbondanza per i ceti popolari, quando presente, appariva limitata, precaria, eccezionale, legata a circostanze favorevoli, a poche zone realmente felici, a feste e cerimonie, che tuttavia prefiguravano una diversa quotidianità. ‘Fare festa’ e ‘mangiare bene e in abbondanza’ erano la stessa cosa. In tutte le regioni meridionali il digiuno della vigilia di Natale, pur con varianti alimentari e rituali talvolta significativi, consisteva abitualmente in un pasto a base di pesce fresco o conservato, paste variamente preparate con farina e uova, verdure, insalate, prodotti sottolio o sottaceto, olive, frutta fresca (arance, mandarini, mele, pere, popone, melagrane, fichi d’india) o secca (castagne, noci, nocciole, mandorle, arachidi, fichi secchi e infornati, uva passa) dolci a base di farina, miele, zucchero, mandorle, mostarda e canditi, zeppole, torroni, vino. Le portate erano, a seconda delle diverse zone, sette, nove, tredici, venticinque. La motivazione fornita è di tipo magico-religiosa: nove come i mesi di gestazione della vergine.

In Puglia, più che altrove, si registrava un grande consumo di pesce fresco (ostriche, frutti di mare, orate, sarde, merluzzi, cefali, seppie, calamaretti, e soprattutto il capitone che arrivava dai laghi) e di pesce conservato (acciughe, sarde salate, tonno all’olio, anguille marinate, baccalà), ma anche di pasta fatta in casa, carne di animali minuti (agnelli, tacchini, polli), frutta fresca o conservata e dolci. I piatti variavano da località a località e non mancavano situazioni di penuria. Anche in Abruzzo vi era una notevole presenza di pesce: il ‘mangiare di magro’ consisteva in minestre di maccheroni conditi con sarde e alici, cavoli, zuppa di ceci o di fagioli, pesci e frutti di mare, capitoni, baccalà, chiocciole, fritture, frutta fresca e secca e dolci. A carnevale nei paesi calabresi, al pari di altre aree meridionali, i ‛mascherati’ rappresentavano e recitavano le farse nelle vie, nelle piazze, nelle case degli amici per mangiare carne, polpette, frittole, sanguinaccio e maccheroni conditi con il ragù ottenuto con la carne del maiale. Dovunque nel Mezzogiorno il ‘grasso’ Carnevale che muore per aver troppo mangiato e bevuto viene rappresentato, osannato, pianto. Il desiderio di morire per stravizi alimentari riflette la paura e l’angoscia di poter morire per fame. In molte località tra il Natale e l’Epifania (o anche a carnevale e a Pasqua) gli ‘strinari’ andavano a cantare e suonare davanti alle case degli amici, auguravano felicità e prosperità, e chiedevano prima garbatamente e poi in maniera insistita, carni fresche e insaccati di maiale, formaggio, fichi e frutta secca, dolci preparati con farina, uova e miele, vino. Il ‘banchetto’ di san Giuseppe, organizzato dappertutto nel Mezzogiorno e in Sicilia, da famiglie facoltose e caritatevoli, vedeva la partecipazione delle persone più bisognose, che raffiguravano la Madonna, Giuseppe e il Bambinello. I padroni, dopo aver cucinato, servivano a tavola quanti vivevano una condizione di miseria e di fame quotidiana. Attraverso la sacra rappresentazione si realizzava un ribaltamento della quotidianità alimentare e degli abituali rapporti e ruoli sociali. L’esposizione di madie con cibi lungo il percorso della processione nelle vie principali dei paesi ha dato origine ancora in epoca recente a veri e propri assalti da parte dei poveri affamati. Le tavolate devozionali nelle case, nelle strade, in piazza, sulla spiaggia rispondevano a un’esigenza drammatica e comunitaria con valore propiziatorio.

Tali rituali, al centro dei quali c’era il culto degli antenati e che riportavano a lontane feste di inizio anno o di passaggio, raccontano il particolare legame tra vivi e defunti che si stabiliva in diversi giorni dell’anno, quando i morti ‘tornano’ per chiedere acqua, pane, cibi ai familiari. Un’importanza alimentare fondamentale svolgevano i numerosi pellegrinaggi che avevano luogo nell’Italia meridionale. Il viaggio religioso rappresenta così uno spostamento eccezionale in una sorta di ‘altrove alimentare’.

Ancora oggi, nel secondo decennio del 21° sec., i banchetti a base di carne di capra, capretto, agnello e di pasta fatta in casa, accompagnati da comportamenti devozionali, da canti, da balli, vengono ripetuti e rinnovati da nuovi soggetti (soprattutto gli emigrati) con motivazioni e modalità diverse dal passato. Nei luoghi di pellegrinaggio fino a qualche decennio fa venivano scannati, scuoiati, arrostiti, bolliti numerosi ovini. Il sangue che sgorgava dagli animali macellati veniva generalmente versato nei corsi d’acqua in prossimità della chiesa o del santuario e si dispiegava come augurio di vita, rinascita, fertilità. Il rituale, al pari di tanti altri osservati in luoghi di pellegrinaggio presenti al Sud e in Grecia, conservava memoria della ‘cucina del sacrificio’ presente nel mondo magnogreco (La cuisine du sacrifice en pays grec, 1979; trad. it. 1982). Non solo la montagna, ma anche il mare era luogo di feste, riti, abbondanze e propiziazioni alimentari. A Taranto, il primo giorno di Quaresima, a mezza Quaresima e il lunedì di Pasqua, molte famiglie fino a qualche decennio fa portavano in barca le loro provviste, percorrevano un lungo tratto di mare e giunte in località caratteristiche mangiavano oltre a quanto portato da casa, una grande quantità di ostriche e di cozze, bevevano, cantavano e ballavano fino a tardi e poi tornavano in barca in città.

Anche le cerimonie familiari e di gruppo, legate al ciclo della vita, si presentavano quasi sempre con caratteri alimentari eccezionali. Il banchetto nuziale, con numerose varianti nelle diverse zone del Mezzogiorno, prevedeva: paste comprate o fatte in casa, maccheroni fatti in casa conditi con molto formaggio e ragù di carne (molto spesso di ovini o di maiale); carni e interiora di animali minuti variamente cucinate (bollite, arrostite, soffritte), salsicce, minestre, insalate, formaggi (caciocavallo), frittate di vario tipo, frutta secca o fresca, dolci di varie forme a base di farina, uova, miele, zucchero, confetti, vino e liquori preparati in casa, di diverso colore (verde, rosso, giallo e bianco) rosolio, anice, caffè. Anche il lutto costituiva in tutto il Sud occasione per cambiare registro alimentare. Il consolo (o riconsolo), che nelle parlate locali allude sempre a un consolare o confortare le persone colpite da un lutto, consisteva nell’invio da parte dei vicini, degli amici e dei parenti di cibi e bevande (in genere pollo in brodo, maccheroni con ragù, insalate, pane, vino, caffè), nel momento critico in cui la vita ordinaria veniva sospesa, non si poteva accendere il fuoco e nemmeno cucinare. Nei paesi lucani il consolo si ripeteva fino a otto giorni: i cibi dovevano essere consumati in casa del defunto, non potevano essere restituiti né buttati.

Durante la mietitura i proprietari terrieri fornivano ai lavoratori un vitto relativamente abbondante e qualitativamente buono. Dovunque nelle regioni meridionali dai due o tre pasti ordinari si passò a quattro o cinque pasti sostanziosi. Per gli evidenti legami tra nutrizione, capacità lavorativa, resa produttiva, ai capofamiglia venivano, talvolta, lasciati i ‘migliori bocconi’. La mietitura e altri lavori stagionali attestavano come nella società tradizionale, fatica e festa fossero inseparabili. I pasti davano luogo a una festa alimentare che allontanava dal mangiare quotidiano. Nella mietitura e in altre attività di coltivazione, raccolta e trasformazione dei prodotti (semina, vendemmia, raccolta delle olive, molitura ecc.), il cibo assumeva significati cerimoniali e simbolici. Si realizzava un ‘gioco propiziatorio’ e augurale in cui nessuna delle due parti voleva fare ‘brutta figura’: i proprietari nell’offrire, i mietitori nel mangiare. Un cerimoniale che ricorda anche il modello di comportamento aristocratico del pranzo all’ospite di riguardo; e che rivela aspetti di ostentazione e di potere, che finivano con il ribadire la diversità di ruolo e sociale degli ‘attori’ in campo.

L’abbondanza, eccezionalmente raggiunta, veniva, pertanto, esibita e ostentata per sottolineare il desiderio popolare di fuggire dalle penurie quotidiane. Come ‘l’ultima cena’ preludeva a una morte e a una rinascita, così il mangiare in maniera esagerata e a lungo ‘come se’ fosse ‘l’ultima volta’ aveva una funzione di esorcismo della penuria di ogni giorno e tendeva a nuove mangiate. Nella festa veniva praticata una sorta di ‘controdieta’, in cui si scaricavano momentaneamente le privazioni quotidiane e venivano praticate tutte le trasgressioni alimentari possibili. L’uguaglianza alimentare nella festa restava, tuttavia, un’aspirazione, un desiderio, una tensione. Anche il piacere alimentare era condizionato dalla consapevolezza che le mangiate erano eccezionali e limitate e che domani si sarebbe tornati alla norma. La festa diventava ulteriore occasione di ‘infelicità’, in quanto evidenziava maggiormente la propria condizione rispetto a quella dei ‘contenti’ che avevano da mangiare. Molte volte si cantava per nascondere una triste condizione. Dietro la maschera dell’allegria si nascondevano i volti delle persone denutrite. Una sorta di controdieta che male si concilia con il modello della dieta mediterranea. Braudel riassume: «Anche i banchetti contadini, quei famosi pranzi festivi che in tutte le campagne del mondo fanno periodicamente dimenticare la mediocrità quotidiana, non sono assolutamente paragonabili, quando si svolgono in Olanda o in Germania, a quelli che hanno luogo, per esempio in Italia», dove anche le feste si svolgono «all’insegna della sobrietà, cioè del razionamento volontario» (Braudel 1992, pp. 29-30).

Equilibrio, sobrietà e frugalità

Fin dall’antichità l’uomo del Mediterraneo ha cercato di realizzare il proprio ‘equilibrio vitale’, riuscendoci con difficoltà, e non sempre, a costo di dura fatica e grandi sacrifici – come ricorda Braudel – a partire dalla triade ulivo-vite-grano (Braudel 1992). La combinazione di numerosi prodotti e miscugli di vario genere (come nel caso della panificazione) o l’uso di avanzi e scarti ha costituito indubbiamente una peculiarità alimentare delle popolazioni delle regioni meridionali, che spesso hanno rivelato una grande fantasia e un’inventiva cucinarie anche in condizioni di precarietà e difficoltà. Oltre agli apporti nutritivi provenienti dalla produzione agricola, bisogna ricordare quelli forniti da pastorizia e pesca, dall’ambiente naturale (erbe selvatiche, piante aromatiche, funghi), dalle attività connesse ai traffici e ai commerci (si pensi all’importanza del pesce salato e affumicato, per non dire del sale e dello zucchero). Tuttavia gli alimenti provenienti dalle diverse attività produttive e lavorative non erano mai disponibili a tutti e contemporaneamente. Soltanto i ricchi e i ceti benestanti, ancora nella prima metà del Novecento, potevano avere accesso a prodotti diversi, locali o importati.

La biologia delle popolazioni del Mediterraneo è stata condizionata da una cultura parsimoniosa sia nella ricerca sia nel consumo del cibo. Un’alimentazione equilibrata e con diversi ingredienti era un ideale da raggiungere: il frutto della fatica incessante dell’uomo che doveva fare i conti con le limitazioni e le difficoltà dell’ambiente. L’equilibrio delle società tradizionali del Mediterraneo resta quasi sempre un desiderio da realizzare: «Siamo in presenza di una vita difficile, spesso precaria, il cui equilibrio in definitiva si compie regolarmente a danno dell’uomo, condannandolo senza remissione alla sobrietà. Per qualche ora o qualche giorno di bagordi, il limite dello stretto necessario si impone per anni e per intere esistenze» (Braudel 1992, p. 28) .

Molti osservatori insistono sul ‘modello della parsimonia’ e sui comportamenti moderati, sia nel mangiare sia nel bere, dei contadini. Immagini, ora realistiche ora edulcorate, dei meridionali frugali, parchi, laboriosi, sani, resistenti alla fatica venivano proposte e rinnovate come un cliché fino a tutto il Novecento. L’ideologia ruralista fascista riproponeva, in maniera strumentale, il motivo romantico e ottocentesco del contadino buon lavoratore, frugale, parsimonioso, in un periodo in cui la vita dei ceti popolari conosceva disagi e difficoltà maggiori rispetto al passato. Tali immagini, per quanto stereotipate, restituiscono la portata di comportamenti reali, che tuttavia, anche dalle descrizioni degli osservatori, risultavano esito di necessità più che di scelta. I lavoratori della terra, ancora in anni recenti, non mangiavano poco perché sobri e frugali, apparivano sobri e frugali perché non sempre avevano molto da mangiare. La sobrietà dell’uomo del Mediterraneo, che ha fondato un particolare equilibrio vitale, è stata una ‘scelta obbligata’, si è costituita all’insegna di un razionamento necessario, non sempre desiderato.

Non a caso, gli ‘americani’ emigrati che tornarono in Italia tra fine Ottocento e inizio Novecento ribaltarono quel modello di sobrietà e frugalità che, prima di partire, aveva contraddistinto la loro vita quasi come una scelta culturale. La sobrietà e la frugalità generalizzate non erano un carattere costitutivo, quasi ‘naturale’ e astorico, del modello alimentare delle regioni meridionali: tali qualità parevano legate a una cultura alimentare e a uno stile di vita consolidatisi nel corso di una lunga e controversa storia. Ricerca ed esigenza biologico-culturale di equilibrio, disponibilità ambientali, parsimonia alimentare, culture alimentari interagiscono dunque, si rinviano, si influenzano e costituiscono la specificità dello stile alimentare mediterraneo.

Disponibilità, pratiche e culture alimentari

In tutti i paesi del Mezzogiorno la produzione, la preparazione, il consumo del pane erano accompagnati da riti, gesti, preghiere, formule di propiziazione augurali e di ‘ringraziamento’. Il pane doveva stare appoggiato sulla tavola dalla ‘parte piana’, poiché la ‘parte tonda’ raffigurava il volto del Signore, ed era un atto di dispregio alla grazia di Dio capovolgerla. Portare con sé sempre qualcosa da mangiare è stato considerato un tratto distintivo dei meridionali. Avere il comodo, la comodità, vicino a casa, nell’orto, avere a portata di mano ortaggi, essenze e aromi, rivelavano un rapporto affettivo con il cibo, erano scelte pratiche legate ad ansie e a premure antiche. Se c’era poco da mangiare quotidianamente, ancora meno c’era da conservare. Nella società tradizionale niente andava buttato; tutto doveva essere consumato: i cibi ordinari, il pane, la frutta, il grasso del maiale. Gli avanzi da cucina, quando c’erano, venivano consumati nei giorni successivi. La frutta veniva contata sugli alberi o nei cassoni: si era previdenti per tempi peggiori. Tutto in caso di necessità diventava ‘buono da mangiare’.

Tuttavia, in presenza di disponibilità eccedenti il fabbisogno familiare e quotidiano veniva elaborata una cultura della conservazione dipendente dalle produzioni stagionali. I cibi secchi, salati, affumicati, acidi, fermentati, i cibi conservati con olio, sale, aceto, zucchero, acqua, limone, peperoncino raccontano lo sforzo e la tendenza ad attenuare la stretta dipendenza dalle disponibilità stagionali e a fare in modo che niente andasse sprecato. La ‘sacralità’ del cibo nella società tradizionale era legata a necessità e a inadeguate disponibilità alimentari, ma si configura come un tratto caratterizzante uno stile di vita affermatosi nel corso di una lunga storia, esito di scelte e di necessità, che realizzavano un equilibrio sostanziale. Il piacere del mangiare coincideva con la contentezza, la felicità e la salute. I cibi ‘buoni buoni’ sono quelli che fanno stare ‘bene bene’. Le donne, che partecipavano anche alla vita produttiva, conoscevano le virtù medicamentose e magiche di erbe, piante aromatiche, prodotti della terra e preparavano filtri, unguenti, miscugli per ragioni terapeutiche. La mescolanza di alimenti, sapori, odori, colori è un tratto costitutivo delle pratiche cucinarie, colte (si potrebbe citare una tradizione di mescolanze e di prescrizioni dietetiche che va da Pitagora ai medici della Scuola salernitana fino a giungere all’utopia alimentare di Tommaso Campanella) e popolari, dall’antichità ai nostri giorni.

Di miscugli, mescolanze, combinazioni alimentari si ha eco nelle cucine popolari in epoca moderna e contemporanea. Il proverbio lucano «pane e figli, cento miscugli» ricorda che il pane veniva fatto con gli ingredienti più diversi: cereali, erbe, legumi, ghiande. Queste soluzioni pure dettate da necessità rivelano la fantasia combinatoria di prodotti e di colori che contribuivano a risolvere la fame di pane delle popolazioni.

‘Mille’ sono le minestre e le insalate per la cui preparazione si affermava la fantasia combinatoria dei ceti popolari. Mescolare a tavola era un rito magico, religioso, sacrale, fondante, un gesto creativo. La vita nelle società tradizionali dipendeva dalla combinazione, fatta in maniera attenta e sapiente, di prodotti, alimenti, sapori, colori. In questo contesto ‘buono da mangiare’ significava anche bello da vedere, da toccare, da manipolare, da creare. I colori del cibo, la loro varietà, vivacità, mescolanza, simbologia hanno giocato un ruolo fondamentale per il formarsi e l’affermarsi del modello alimentare meridionale. I cibi dai diversi colori venivano esposti, mostrati, ‘esibiti’ nelle case, a tavola, nelle strade e nelle piazze (in occasione di feste, riti, sagre), nelle botteghe, nei mercati.

Nei vicoli e nelle strade di Napoli venivano esposte e vendute numerose varietà di frutta e verdure. Dall’oste venivano venduti ‘preparati’ accessibili ai ceti popolari: le zucchine e le melanzane a scapece, le fette di pastinache gialle (la spiritosa) bollite e condite con una salsa molto piccante. Davanti ai ‘bassi’, alle botteghe, alle osterie, alle friggitorie, ai banchetti ambulanti venivano cucinati, venduti e consumati dai passanti: i maccheroni bolliti in caldaie installate all’aria aperta e conditi con pomodoro e cacio piccante; la pizza con pomodoro, aglio, mozzarella, alice salata; la fragaglia (pesciolini fritti e sistemati in un cartoccio); i panzerotti (frittelline con pezzi di carciofo, o con torsolo di cavolo, o pezzetti di alici); castagne lesse sbucciate, nel cui brodo rossastro veniva bagnato il pane; spighe di granturco bollite con un ‘calderottino’ trascinato su un carroccio; pezzi di polipi bolliti nell’acqua di mare e conditi con peperoncino piccante; le lumache (maruzze) nel cui brodo veniva inumidito un biscotto; ritagli di grasso di maiale e pezzi di coratella, cipolline e frammenti di seppie deposti dall’oste con attenzione sul pane del compratore. Un vero «trionfo del mangiare» all’aperto, alla «luce del sole», «in viaggio», nelle strade, negli spazi urbani che si ritrovano, sia pure in forme meno vistose ed esibite, anche nelle città di provincia e nei più piccoli e appartati paesi delle regioni meridionali (M. Serao, Il ventre di Napoli, 1884, con introduzione di G. Infusino 1973, pp. 24-29).

Bisogna ricordare anche la geografia dei luoghi del mangiare. La cucina, il focolare, il forno, i ripostigli e la ‘buffetta’, le sedie, il ‘tripode’, le caldaie, le pentole, i cassoni della casa contadina rivelano un’organizzazione degli spazi in rapporto alla produzione, al consumo, alla conservazione dei prodotti. Spazi produttivi, spazi abitativi, spazi della preparazione, consumazione, conservazione degli alimenti costituiscono un unicum territoriale, sociale, culturale. Il pasto caldo e principale veniva consumato la sera, al ritorno dai campi, d’estate, magari, all’aperto, d’inverno attorno alla ‘piccola tavola’, vicino al caminetto o al braciere. I componenti del nucleo familiare mangiavano nello stesso recipiente di terracotta e bevevano nelle stessa brocca. L’attuale ‘canonizzazione’ del tempo gastronomico, i modi di stare a tavola e di consumare il cibo non rispecchiano i comportamenti del passato. L’anta ricorda l’abitudine di mangiare all’aperto, all’ombra, sotto il pergolato o sotto gli alberi. All’aperto (in campagna, nell’orto, nella ruga, nel vicolo, davanti all’abitazione) si cucinava, si esponeva il cibo, spesso si mangiava, si essiccavano i prodotti appesi ai muri, si curavano nelle graste, nei vasi, dei balconi le piante di basilico, prezzemolo, sedano, peperoncino, si conservavano la notte gli avanzi sulle mensole di tavola. Il cibo come elemento decorativo, estetico, teatrale. Il cibo esposto, mostrato, ‘esibito’ nelle case, a tavola, nelle strade e nelle piazze (in occasione di feste, riti, sagre), nelle botteghe, nei mercati è un altro dato della cultura alimentare del Mezzogiorno.

Mangiare bene e stare bene significa anche ‘mangiare insieme’ agli altri. Chi mangia da solo scoppia, schiatta o si affoga; chi non ha niente mangia da solo: così numerosi proverbi di area meridionale che attestano la triste condizione di coloro che mangiano da soli per ingordigia o per vergogna. Dividere il pane o il cibo significava fondare e rendere sacri unioni, legami, rapporti. Alvaro, in numerosi suoi saggi e tante opere di narrativa, oltre che nelle note di viaggio, ha saputo restituire il senso sacrale del mangiare insieme dei calabresi e la religione dell’acqua delle popolazioni del Mediterraneo (Teti 1999, 20072; Storia dell’acqua, 2003). Il folclore narra lo struggente desiderio dei vivi di mangiare e bere con i loro defunti; prevede circostanze, come le feste, in cui i morti fanno ritorno. Il mangiare unisce la ‘metastorica famiglia contadina’, di cui fanno parte i ‘fratelli assenti’. Il mangiare crea unioni e legami anche tra ‘rimasti’ e ‘partiti’, i ‘nuovi defunti’ di un universo in movimento.

Importanza estrema veniva data alla dimensione carnevalesca, alla convivialità, al piacere di stare a tavola, di conversare, di conoscersi, al ‘far da mangiare’. Tutta l’Italia contadina e il proletariato urbano sembrano aver dedicato in passato poco tempo e poca cura alla preparazione del cibo. In realtà la donna era impegnata in una serie interminabile di attività all’interno della famiglia, l’unità produttiva spesso autosufficiente. La donna partecipava ai lavori agricoli, coltivava l’orto, ne vendeva i prodotti; andava a raccogliere erbe nei campi, funghi, castagne, ghiande; si occupava della raccolta delle ulive e degli scambi alimentari; preparava il pane, la pasta, le conserve di pomodori, le marmellate, i prodotti in salamoia, sottolio o sottaceto; lavorava e conservava le carni del maiale; si occupava nella preparazione dei salami della fasi della conservazione e del controllo in base alle necessità.

Le molteplici e complesse attività e la limitata disponibilità dei beni riducevano il tempo del far da mangiare. La cucina popolare era, tuttavia, arte che richiedeva un notevole apprendimento e una costante pratica, tanto che l’abilità e la fantasia delle donne nel trattare e preparare gli alimenti erano considerate buone doti. Le donne si occupavano, direttamente o come coadiuvanti, dei pasti dei ‘signori’ e in tal modo apprendevano abitudini e tecniche, che in qualche modo divenivano patrimonio popolare. Altre volte trasmettevano la loro saggezza alimentare, che dava come risultato una cucina migliore di quella dei ricchi. Esisteva una gratificazione femminile, da non mitizzare e da non rimpiangere, legata alla consapevolezza di partecipare, in maniera decisiva, al sostentamento della famiglia, di dare da mangiare agli uomini e ai figli, di essere considerate ‘brave cuoche’. Ha avuto una certa rilevanza anche la cucina che gli uomini praticavano in occasioni conviviali alle quali le donne non partecipavano. Il saper ‘far da mangiare’ degli uomini veniva apprezzato e considerato soltanto se esercitato fuori dalla dimensione domestica o allorquando la donna era assente o impedita. Da ricordare le mangiate e le bevute degli uomini nelle cantine, nelle taverne, nelle baracche delle fiere, nelle grotte, dove si conservava il vino.

Il ‘far da mangiare’ si traduceva spesso nel ‘dar da mangiare’, nell’offrire, nel servire le pietanze. Esisteva un linguaggio complesso dell’offerta, del dare, dell’invitare, del servire il cibo alle persone, agli ospiti, ai poveri, ai santi, al Bambino Gesù, alla Sacra famiglia, ai defunti, alle anime del purgatorio, che andrebbe attentamente esplorato e decifrato.

Nel donare gli alimenti entravano in gioco il sentimento della vergogna e quello dell’onore, tanto importanti nelle società e nelle culture tradizionali del Meridione e del Mediterraneo. A tavola bisognava ‘fare bella figura’ o almeno non ‘fare brutta figura’. Si passava dalla vergogna dei meno abbienti nel rivelare la loro miseria, all’ostentazione e all’esibizione del cibo da parte dei benestanti. I poveri che, il giorno di san Giuseppe, giravano per cercare minestra si nascondevano o si ‘annullavano’: sfumavano la loro miseria all’interno di un rito comunitario e collettivo, in cui svolgevano un ruolo riconosciuto.

Era brutto non avere qualcosa da offrire a un inatteso visitatore. Le donne andavano alla ricerca di un pane, di un biscotto, di un bicchiere di vino, di frutta secca, pur di poter offrire qualcosa e di non dover dire: «non abbiamo niente». Salami, formaggi, sottaceti, sottoli, frutta secca vengono conservati ancora oggi in caso di visite. Se non si fa riferimento a questo sostrato culturale, non si comprendono le odierne tavolate preparate per gli ospiti, le interminabili pietanze che gli emigrati servono ai loro invitati, le insistenze, rivolte agli ospiti, a mangiare e a prendere sempre qualcosa. Dietro i rituali e i comportamenti alimentari odierni, resiste ancora la memoria di un tempo in cui ogni bene era necessario.

Quando si faceva il pane veniva mandato il panetto ai poveri; anche del maiale si davano le parti a familiari e vicini, che poi ricambiavano. Lo scambio del lievito e la carità ai poveri; il banchetto di s. Giuseppe e il cibo offerto ai ‘mascherati’: la reciprocità del dono non cancellava la bellezza della vicinanza che si stabiliva nei momenti di bisogno.

Il motivo su cui è necessario ancora indugiare è la ‘lentezza’ delle pratiche alimentari. La preparazione del sugo poteva durare l’arco di una mattinata. Bisognava ‘smorzare’, mangiare qualcosa nel corso della giornata. Era consigliata una piccola sosta, dopo il pasto meridiano.

La lentezza del tagliare il pane e del masticare, dell’offrire, del rito della convivialità rivelava una sorta di fantasia sulla vita. Non bisogna però mitizzare. Braudel ricorda come il mondo mediterraneo, dove «ogni volta bisogna affrettarsi, approfittare delle ultime piogge di primavera o delle prime autunnali, dei primi o degli ultimi giorni buoni. Tutta la vita agricola, e quindi il meglio della vita mediterranea, si svolge sotto il segno della fretta: la paura dell’inverno è là, bisogna riempire cantine e granai […].» (Braudel 1986, p.226).La lentezza a tavola e nella vita e lo slow food sono esigenze e conquiste del presente. Nel passato dominavano fretta e velocità nel mangiare: i banchetti interminabili appartengono ai sogni più che alla vita reale degli uomini del passato (Teti 2013, pp.25-29).

Continuità, mobilità, innovazione

L’idea di una dieta mediterranea perenne, senza mutamenti, chiusa, non racconta una realtà storica. L’alimentazione delle regioni meridionali è riflesso, esito e testimonianza di arrivi, passaggi, incontri, commistioni, fluttuazioni, andirivieni alimentari, intensi dialoghi con tutto il mondo mediterraneo, l’Oriente, l’Europa continentale e, da ultimo, le Americhe. A parte il grano, il vino, l’olio tutto il resto è arrivato infatti dall’esterno a partire dall’antichità e quanto viene definito oggi come ‘prodotto locale’ e ‘tradizionale’ quasi sempre è giunto dall’esterno ed è di recente elaborazione.

Nel Medioevo il contrasto tra ‘dieta monastica’ vegetariana e banchetti sfarzosi dei ricchi a base di carne, nonché il diffonfersi di una sempre maggiore varietà di prodotti (melanzana, agrumi, canna da zucchero, ecc.) costituirono fattori di mobilità rispetto ai periodi precedenti. In epoca moderna l’introduzione e l’affermarsi dei nuovi prodotti ‘americani’ (mais, patate, pomodori, peperoni e peperoncino, diverse varietà di fagioli) determinarono importanti innovazioni di abitudini, comportamenti, pratiche alimentari, nonché nel gusto e nella mentalità. I nuovi prodotti giocarono un ruolo decisivo per l’affermarsi dal Seicento all’Ottocento di quelle che verranno indicate come cucine ‘tipiche’, ‘locali’, ‘tradizionali’. I prodotti americani si combinarono tra loro rendendo possibile un raccordo tra cucina quotidiana e cucina festiva, cucina popolare e cucina delle élites.

La diffusione dei nuovi prodotti si verificava in un periodo di più generali e significativi mutamenti alimentari. A partire dalla fine del Quattrocento l’intera Europa, dopo un periodo di relativo benessere alimentare conobbe la ‘fame di carne’ che permase fino alla fine dell’Ottocento e, in alcuni casi, come nelle regioni del Sud d’Italia, fino agli anni Cinquanta del 20° secolo. L’‘impoverimento’ della dieta dei contadini, con profondi risvolti psicologici e culturali, il passaggio a partire dal Quattrocento, da una dieta a base di ‘foglie e carne’ a una dieta prevalentemente erbivora e basata sul consumo di cereali minori è stato individuato e segnalato a Napoli e in Sicilia e in tutte le province meridionali.

Concomitante con la diminuzione della razione di carne fresca e bovina è aumentato quasi dappertutto in Europa il consumo di carne affumicata o salata, di animali minuti, di interiora e frattaglie. Fino ad anni recenti si è fatto un notevole uso di testine, budella, trippa, interiora, frattaglie preparate con pomodoro e peperoncino. Molti spezzatini (con carni, interiora, sangue) di animali minuti che caratterizzano le ‘cucine regionali‘ e che vengono fatti risalire a un tempo mitico, hanno un’origine relativamente recente.

La progressiva meridionalizzazione dei prodotti americani e l’introduzione di carni e di pesce conservati si combinarono con la diffusione della pasta industriale che si verificò nel Mezzogiorno d’Italia a partire dal 16° sec., grazie a una innovazione tecnologica come l’introduzione del torchio. La pasta, diffusasi in maniera progressiva e inarrestabile accanto o in sostituzione del pane, alla fine del Settecento era il principio organizzativo delle cucine che si andavano affermando in quel periodo. La pasta insieme alla carne con il ragù di pomodoro concretizzava i sogni e i desideri dei ceti popolari. La pasta, con l’olio o con il pomodoro, si combinava con verdure, ortaggi, legumi e diventava protagonista di nuovi mille miscugli, sapori e colori. Anche la pizza al pomodoro a fine Ottocento diventò il pasto della povera gente e veniva venduta nelle strade e nelle piazze di Napoli e di altri centri campani.

Quello che viene presentato come uno stravolgimento immediato è invece un processo lento e costante, in cui continuità e innovazioni si mettono in gioco. D’altra parte lo stravolgimento degli antichi regimi non è stato improvviso, ma si è trattato di una storia cominciata secoli prima. Jack Goody (1982) con le sue analisi antropologiche e storico-comparative e, soprattutto, gli storici francesi degli «Annales» – Fernand Braudel (1902-1985), Maurice Aymard, Jean-Louis Flandrin (1931-2001) e gli studiosi italiani contemporanei (Massimo Montanari, Alberto Capatti, Alberto De Bernardi), seguendo percorsi diversi, hanno in qualche modo suggerito la possibilità di considerare il passaggio dalla ‘tradizione’ alla ‘modernità’ non come una rottura epocale, con effetti traumatici, ma come una serie di lenti mutamenti già presenti in società tradizionali come quelle meridionali. Le recenti ‘grandi trasformazioni’ vanno inserite in un lungo e complesso processo storico, iniziato almeno nel Quattrocento. La modernizzazione alimentare, intesa come indipendenza dalla produzione annuale e rottura del circolo clima-carestia-fame, è cominciata lentamente e senza grandi squilibri sulle sponde del Mediterraneo. I piatti ‘tradizionali’ non risalgono a un tempo lontano o a un passato immemorabile, ma si sono affermati tra il 17° e il 19° secolo. Le specializzazioni orticole, frutticole, di prodotti animali si diffusero nel corso dell’Ottocento grazie al mercato, divenendo famose fuori dal luogo di produzione.

A metà Ottocento la Calabria era quotata nei mercati regionali per le patate della Sila, i finocchi di Reggio, le cipolle rosse e dolci di Tropea; ed era nota anche per il tonno, i salumi, i fichi secchi, le uve candite, il bergamotto della provincia di Reggio, il cedro della zona di Diamante. La Basilicata era famosa per le salsicce (la luganica che risale all’antichità), i formaggi, alcune varietà di frutta (pesche, albicocche), i peperoni dolci (zafarani). Della Puglia venivano apprezzati i sedani della provincia di Foggia, gli agli di Otranto e Brindisi (esportati anche in Grecia e Albania), i peperoni di Spinazzola e del Barese, le fave e i fagioli bianchi della Terra d’Otranto (Lecce), i crostacei marini e terrestri (lumache, cozze, granchi). La Campania si distingueva per le carote di Nocera e Salerno, i cocomeri dei due Principati (province di Salerno e Avellino o di Terra di Lavoro (Caserta), i pomodori, le paste della costiera amalfitana, le mozzarelle, la pizza. L’Abruzzo era famoso per le bietole rosse, i salami, i formaggi. In questo periodo si verificarono, grazie anche al progressivo inserimento dei prodotti americani (patate, pomodori, peperoni, peperoncino, alcune varietà di zucche e di fagioli) le mille specializzazioni locali di insalate, minestre, sughi, ragù, ripieni, soffritti, insaccati.

Nel Nuovo mondo i meridionali emigrati familiarizzarono lentamente con la carne, le uova, il latte, i formaggi, i liquori, il caffè; molti di essi diventarono mangiamaccheroni proprio in America a contatto con nuove disponibilità, tra cui la farina di grano. E così realizzarono ‘rotture alimentari’ sognate da tempo nel loro mondo d’origine.

L’acqua: ‘fondo di cucina’ e cardine dell’equilibrio alimentare tradizionale

«Qui abbiamo un Dio, che quando piove ci porta a mare, e quando non piove secca il mondo. Questo anno non ha piovuto da sei mesi e siamo tutti disoccupati e in miseria». Un contadino di Rossano con queste parole faceva cogliere a Francesco Saverio Nitti all’inizio del Novecento, la centralità e la sacralità dell’acqua nell’universo mediterraneo e nel Sud d’Italia (Scritti sulla questione meridionale, 4° vol., Inchiesta sulle condizioni dei contadini in Basilicata e in Calabria,1910, a cura di P. Villani, A. Massafra, 1968, pp. 85-86). La vita, la mentalità, la ritualità, la cultura delle popolazioni erano strettamente legate alla bizzarria del clima, ai forti estremi di due sole contrapposte stagioni, all’alternarsi di lunghi periodi di piogge torrenziali e di non meno lunghi periodi di siccità. Fin dall’antichità l’acqua veniva segnalata come elemento vitale e costitutivo della produzione e dell’alimentazione del Mediterraneo. Talete di Mileto (6° sec. a.C.) vedeva nell’acqua l’archè, il principio, e per Pindaro (5° sec. a.C.) il bene più prezioso era l’acqua, mentre Anassagora scriveva che ‘tutto scorre, tutto è acqua’.

Il ‘fondo’ delle cucine rurali, talvolta unico per molti preparati, era l’acqua. Il termine acqua dà il nome a fondamentali preparati e piatti di diverse regioni italiane. In molte province meridionali, come si è visto, l’‘acqua-sale’, o un pane variamente ammorbidito e bagnato, era un alimento base delle classi popolari. Nel folclore meridionale il vino, che fa bene alla salute e allunga la vita, veniva contrapposto all’acqua che fa male e accorcia gli anni. La ‘superiorità’ del vino sembra legata alla scarsezza di acqua potabile, alle infezioni che le ‘acque putride’ spesso provocavano. La letteratura orale ha registrato, del resto, diverse norme e indicazioni sulla ‘buona acqua’, fornendo un elenco delle sue virtù terapeutiche. Nonostante la presenza di eccellenti acque, dovunque nel Mezzogiorno d’Italia in epoca moderna e contemporanea si segnala ripetutamente la difficoltà delle popolazioni a reperire acqua potabile, quasi sempre lontana dall’abitato. Dappertutto, nei piccoli centri e nella città, anche a Napoli, sussiste questo problema. Gli abitanti del Sud abitano terre che navigano sulle acque, ma hanno avuto difficoltà a raggiungere le acque potabili. Il paesaggio tradizionale è popolato da garzoni, giovani, bambine che vanno ‘ad acqua’ per la famiglia o per i signori. La donna che cammina con l’orcio sulla testa è forse una delle figure più emblematiche di questa area geografica.

Esiste tra i popoli del Mediterraneo una ‘religione dell’acqua’, un atteggiamento sacrale forse più forte e sofferto di quello che si riscontra nella produzione e preparazione del pane. I defunti che tornano, in occasioni previste e rituali, rivelano un’insopprimibile nostalgia dell’acqua e della vita: i familiari preparano per loro cibi e un bicchiere d’acqua. Alvaro ha narrato la tirannia e la sacralità delle acque nell’universo tradizionale. La pioggia è metafora di ‘diluvio’, dispersione, ‘fuga senza fine’. Nello stesso tempo l’acqua per gli emigrati, gli sradicati, gli erranti, è ‘elemento innocente’ che purifica ‘tutto il passato’ (C. Alvaro, L’uomo è forte, 1938). Il ritorno all’origine e all’«innocenza perduta» avviene attraverso il graduale riconoscimento e la lenta riappropriazione del paesaggio, dei prodotti della terra, dell’acqua. L’acqua rappresenta l’elemento della nostalgia, della memoria, della malinconia di coloro che sono partiti e di coloro che sono rimasti. I meridionali hanno «cercato mondo anche per l’acqua». L’acqua con i suoi movimenti sembra riassumere il destino di un «popolo migrante» (Storia dell’acqua, 2003, nuova ed. 2013, pp. 28-30).

La grassezza e la magrezza

L’obesità diffusa attualmente tra le popolazioni meridionali viene spiegata dai nutrizionisti come l’esito del rovesciamento e del tradimento della dieta mediterranea. Questa conclusione presuppone che gli individui del passato avessero una sorta di predilezione per la magrezza e ritenessero la grassezza una malattia o qualcosa di negativo. Non è così. ‘Grasso è bello’: è questo il motivo, presente nelle società tradizionali del Sud e del Mediterraneo, come documentano la letteratura colta e le fonti di tradizione orale. Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli (1945) ricorda gli apprezzamenti che gli rivolge la donna presso cui trova alloggio e che lo aiutava a farsi il bagno: «Quanto sei bello, – diceva –, quanto sei bello grasso». L’essere grasso, commenta lo scrittore è qui il «primo segno della bellezza, come nei paesi d’oriente; forse perché per raggiungere la grassezza, impossibile ai contadini denutriti, è necessario essere Signori e potenti» (ed. 1984, pp. 132-33). Diversi autori hanno ricordato come nelle province del Meridione d’Italia, nel mondo mediterraneo, nelle società tradizionali (anche in quelle del resto d’Italia e d’Europa) e primitive la grassezza venisse considerata segno di benessere, ricchezza, bellezza, prestanza fisica e potere sociale.

Ne Il previtocciolo (1971) di Luca Asprea, ambientato in un paese della provincia di Reggio Calabria durante il periodo fascista, diversi personaggi si presentano con i tratti somatici delle persone che hanno accesso a una buona alimentazione. Altezza, robustezza, temperamento impetuoso, spirito aggressivo e combattivo sono i caratteri somatici e psicologici della ‘bellezza molto rara’ della mamma che sembra incarnare l’immagine di una Grande madre del Mediterraneo. Il padre del narratore è grosso, robusto, agile e alto, bello, desiderato dalle donne. Se i ricchi signori appaiono in tutta la loro opulenza: ben nutriti, di buon colorito, grassi, robusti, generalmente alti, belli e i loro tratti fisici sono assunti a segno di potere e ingordigia; gli appartenenti ai ceti popolari entrano in scena denutriti, in preda all’ossessione della fame, deboli, magri, debilitati nel fisico, psicologicamente labili, desiderosi di buon cibo.

Nel 1928 Umberto Zanotti Bianco, durante una visita ad Africo, di cui racconterà nel suo libro Tra la perduta gente (1946), trovò popolazioni che mangiavano un pane fatto «con il mischio che produce il territorio, cioè con farina di lenticchie, di cicerchie e d’orzo, dal gusto acido e amaro». Nessun consumo di carne, scarsissimi i grassi, pochi i legumi, mediocre il consumo del formaggio di capra. La gente disgraziata lamentava di mangiare le ortiche come gli eremiti e le ghiande come i maialini. In quell’anno contro 41 nati vi furono 41 morti di cui 25 sotto i quattro anni. La maggior parte dei bimbi che aveva veduto mostravano le «stigmate della fame!» (pp. 13-44).

Nell’ancienne régime il problema quotidiano dei contadini è stato «mangiare o non mangiare» e pertanto per loro, come attestano le produzioni letterarie folcloriche (soprattutto le fiabe), «essere grassi significava essere belli» (R. Darnton, The great cat massacre and other episodes in French cultural history, 1984; trad. it. 1988, pp. 46-47). La bellezza veniva riportata al buon nutrimento, come ricorda un proverbio lucano: «Tanne sì chiamata ronna bella, quannu’ ài pane e bin’a la fischella». Le donne robuste nelle regioni meridionali mostravano maggiore resistenza alla fatica e costituivano un ‘buon partito’.

Anche in molte società primitive la grassezza equivaleva a forza ed era un valore perché significava capacità lavorativa. I Guayaki del Paraguay avevano orrore della magrezza, segno di cattiva salute, e per questo preferivano le donne grasse. Una donna «dalle ossa secche» non aveva la forza necessaria per «marciare nella foresta, con il paniere sul dorso, sormontato da due o tre coati, il bambino nel portaneonati e un tizzone in mano; una donna magra non va proprio bene, è uno spettacolo avvilente» (Clastres l980, p. l33).

Non mancano nelle culture popolari tradizionali concezioni che associano la grassezza alla malattia. Dice un proverbio: «A grassia eni menza malatia». Anche la cultura delle élites ha dovuto, del resto, fare i conti con forme di grassezza che indicavano la presenza di malattie. È il caso della gotta, che colpisce le giunture delle estremità degli arti, soprattutto il pollice dei piedi, per il deposito di acidi urici a seguito di disfunzioni renali. Dall’antichità agli albori dell’era industriale la gotta ha mietuto vittime illustri: filosofi, scrittori, poeti, aristocratici, persone che del buon mangiare, dell’abbondanza, dei piaceri della tavola facevano una pratica di vita. Anche la gotta costituiva status symbol. Vi era una sorta di ‘etica’e di ‘gloria’ della gotta: il paziente, ostentava e combatteva con tenacia la sua malattia, non rinunciava alla sua vita di ricco e di gaudente.

Nel passato sono rintracciabili concezioni colte che indicano nella magrezza un modello alimentare, estetico e dietetico. Il ‘corpo magro’ per gruppi marginali, come pitagorici, orfici, santi italo-greci, era sicuramente segno di ‘purezza’, di ‘santità’, di ‘beatitudine’. I grandi mangiatori dell’epoca cavalleresca non erano necessariamente dei grassoni e addirittura praticavano diete dimagranti non tanto per ragioni di salute, quanto per motivi estetici (M. Montanari, Convivio. Storia e cultura dei piaceri della tavola dall’antichità al Medioevo, 1989; Teti 1999, 20072). Si tratta, tuttavia, di comportamenti minoritari, oppositivi ai modelli dominanti, e come tali disapprovati dalla maggioranza.

Il valore della magrezza, collegato a quello della rapidità, dell’efficienza, della produttività, si affermò nel corso del Settecento, a opera di gruppi sociali in ascesa, che affermavano nuove ideologie e nuove forme di organizzazione economiche e politiche. Nel suo libro Physiologie du goût (1826) Jean Anthelme Brillat-Savarin si sofferma a lungo e dettagliatamente sull’obesità e sulla magrezza, considerate in maniera totalmente diversa da quanto avveniva nel ‘vecchio ordine’. La causa dell’obesità, un problema degli individui usciti da un regime alimentare di sopravvivenza o vegetariano, consiste, principalmente, in una «naturale predisposizione» delle persone all’obesità (il loro apparato digerente elabora una quantità maggiore di grasso), nel consumo dei farinacei e dei cereali, che sono alla base dell’alimentazione giornaliera, nell’effetto «della fecola più rapido e sicuro quando ad essa si unisce lo zucchero», e in quello della fecola veicolata da bevande come la birra, «nell’abitudine di dormire più del necessario e nella mancanza di esercizio fisico» e, per finire, negli «eccessi del bere e del mangiare» (R. Barthes, Lecture de Brillat-Savarin, in Physiologie du goût avec une lecture de Roland Barthes, 1975; trad. it., Brillat-Savarin letto da Roland Barthes, 1978, pp. 152-54).

L’obesità, segno di bellezza e di salute o viceversa di malattie, resta sempre un problema di coloro che possono scegliere le pietanze e le bevande, in quantità e in qualità. Nel passato non è stato mai un problema dei poveri, alle prese con la quotidiana sopravvivenza. I testi poetici popolari (canti, proverbi, racconti, farse di Carnevale) rivelano la loro irritazione nei confronti di quanti avevano quotidianamente la possibilità di mangiare a scasciapanza, a crepapancia. Nel mondo tradizionale la grassezza rappresenta modello di bellezza e di buona salute, ma pochi possono realizzarlo e non potendo raggiungerlo lo deridono.

Il folclore rivela lo scarso apprezzamento per il ‘magro’, le erbe, le zucche, le cipolle, considerate poco nutrienti. I testi di tradizione orale ironizzano sul ‘mangiare vegetariano’ cui si è obbligati, manifestano il rifiuto dell’ideologia ecclesiastica del digiuno e delle astinenze. La prescrizione religiosa del digiuno e delle erbe appare spesso come razionalizzazione delle scarse disponibilità alimentari e di uno stato di precarietà persistente.

L’eccezionale voluttà dei contadini è il risvolto di una quotidianità alimentare di fame di carne e di pane bianco. In Calabria (1931) Alvaro ricorda il brigante Nino Martino, che aveva scelto la montagna anche per poter mangiare pane bianco e per avere companatico e, rievocando il mito popolare del brigante, conclude: «Quanti di noi hanno sognato su queste parole: partire, vedere, conoscere. Dalle più antiche nostalgie della libertà, della montagna, della foresta, dello stare meglio, nacque l’emigrazione» (Calabria, nuova ed. con prefazione di L. Bigiaretti, 1990, pp. 36-37).

Sarà l’America a realizzare quello che la montagna aveva fatto soltanto sognare. L’America può essere considerata un ‘paese di cuccagna’ raggiunto, un carnevale realizzato. Difatti, soprattutto negli Stati Uniti, per i contadini meridionali vegetariani si è compiuta una rottura secolare sul piano dietetico, culturale e della mentalità: nel giro di una generazione gli emigrati furono i soggetti di un mutamento antropologico. Nei primi decenni del Novecento gli osservatori segnalavano la grande diversità, dal punto di vista fisico, della statura, dell’aspetto, tra i giovani italoamericani, che si alimentavano ormai con burro, latte, carne e cibi tipici della cucina italiana, e i loro genitori che erano cresciuti in Italia. Gli emigrati nel Canada e negli Stati Uniti tentavano di mangiare alla maniera tradizionale: la cucina del paese di origine diventava per loro luogo della memoria, della nostalgia e elemento di una nuova identità. La loro nostalgia non riguardava la fame sofferta nel paese d’origine, ma odori, sapori, colori, legami e affetti che il cibo evocava. A contatto con nuove disponibilità e tradizioni alimentari, gli emigrati affermarono, negarono, trasformarono le loro antiche abitudini. Carne, uova, caffè, pesce, pane bianco liquori fanno la loro comparsa nella dieta dei ‘ritornati’ e dei ‘rimasti’. Questo profondo mutamento, pure parziale e controverso, avvenne tra le resistenze, l’ironia, le preoccupazioni dei ceti dominanti, che vedevano nell’emigrazione la fine di antichi privilegi.

Se, nel corso dell’Ottocento, gli osservatori esterni e interni avevano consolidato l’immagine del contadino parco, sobrio, frugale e buon lavoratore, tra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, nel giro di pochi anni, comparve la figura dell’‘americano’ che rovesciò le antiche immagini delle classi dominanti e affermò anche nuovi consumi e modelli alimentari. Contro i «lussi alimentari» degli «americani», che comprano la carne e il pesce e non si accontentano più di pane di mais o di vecce, si elevano le proteste dei proprietari terrieri (L. De Nobili, L’emigrazione, in D. Taruffi, L. De Nobili, C. Lori, La questione agraria e l’emigrazione in Calabria, 1908, p. 778).

I ‘ritornati’ ostentavano un benessere conquistato a caro prezzo e si presentavano con il fisico robusto e con un buon colorito. La grassezza era il segno del loro nuovo status economico e sociale, dell’essere e sentirsi ormai appartenenti a una «nuova classe» diversa da quella dei cafoni da cui provenivano e da quella dei signori a cui guardavano con invidia e risentimento. Alvaro racconta come l’emigrato si presentasse con nuovi tratti antropologici, con un portamento e un aspetto che rivelano un nuovo status economico e una mutata condizione alimentare, la raffigurazione di chi «aveva mangiato a sufficienza» (C. Alvaro, 75 racconti, 1955, p. 486).

Dìaita, digiuno, dieta mediterranea

È possibile misurare gli elementi di continuità e di distanza della dieta mediterranea da una tradizione alimentare che non si presta a generiche mitizzazioni e a ricostruzioni astoriche. Certo il modello della dieta mediterranea, pure generico e inventato, non è avulso dalla storia, dalle tradizioni e dalle culture alimentari del Mediterraneo.

Il termine dìaita negli autori greci (Pindaro, Erodoto, Tucidide, Ippocrate, Plutarco) indica, oltre che un regime alimentare, ‘genere di vita’, ‘modo di vivere’, ‘tenore di vita’. Sofocle nell’Edipo a Colono adopera diaita nell’accezione di ‘vitto e alloggio’. L’idea di ‘dimora’ o ‘residenza’ è presente in Aristofane e in Plutarco. Il trattato ippocratico Sulla dieta (6° sec.) rivela come già nell’antichità fosse evidente il legame tra alimentazione e salute. Cibi e bevande vengono classificati, infatti, sulla base delle loro proprietà nutritive e salutari. Dei diversi prodotti vengono indicate le proprietà naturali (il clima delle regione di provenienza e la freschezza) e ‘artificiali’, vale a dire la modalità di cottura e anche le tecniche di conservazione. Nel trattato vengono stabiliti anche i diversi regimi stagionali adatti ai diversi individui. La dieta, non solo alimentare, ma anche l’attività fisica e il riposo servono a evitare l’insorgere delle malattie e sono pratiche consentite solo a chi è libero dalle occupazioni quotidiane e dalla necessità di guadagnarsi la vita. Il trattato ippocratico influenzerà le concezioni delle epoche successive: da quelle presenti in autori romani (Cicerone, Plinio il Giovane, Svetonio, Petronio) fino a Galeno (2° sec. d.C.) e ai trattati medici e alimentari dell’alto e basso Medioevo.

Nei formulari medico-alimentari di epoche successive, in particolare nel Regimen sanitatis salernitanum (o Flos medicinae Salerni), poemetto in versi, databile intorno all’11°-12° sec., esistente probabilmente già nel 9° sec., il termine diaeta conserva le antiche accezioni e fa riferimento alle qualità nutritive e terapeutiche dei cibi e delle bevande, alle ‘regole di sanità’, basate sull’idea di una corrispondenza uomo e ambiente e sulla concezione che il cibo costituisce la base per una vita sana e per prevenire le malattie.

Numerosi trattati medievali (De observatione ciborum, De ordine ciborum inter edendum servando [...] disputatio, De ciborum bene se habentium propriorum qualitatibus, De ratione [...] ciborum) stabiliscono l’assioma che il «cibo è la prima medicina» (Montanari, Convivio, cit., p. 206). Questa concezione resterà ancora vigente, con integrazioni e adattamenti, in età moderna, come attestano le concezioni dietetiche e mediche di Campanella. Il proverbio calabrese «’A dieta ogni mali quieta», ancora piuttosto diffuso, conferma l’idea della dieta come ars salutaris. Ma la dieta desiderata dai ceti popolari non è quella indicata dai vari regimina sanitatis. Dice un proverbio ancora molto diffuso in Calabria: «Pìnnuli ’e cucina e sciruppu ’e cantina».

Quando era possibile i ceti popolari realizzavano una sorta di ‘controdieta’ a base di cibi buoni e abbondanti. Anche la recente ideologia delle diete (in cui viene inserita la dieta mediterranea) incontra facili ironie, in quanto considerata una sorta di invenzione che continua le ideologie dei digiuni e delle astinenze.

Il termine dieta, non di rado, è usato con un’accezione negativa. La dieta viene vissuta come una sorta di truffa per persone comunque ammalate. D’altra parte è a livello più generale della società di massa che la parola dieta ha subito uno slittamento di significato: anche nel linguaggio corrente non designa più un regime alimentare quotidiano e una regola di vita, ma la limitazione, la sottrazione del cibo. Nella società attuale il ‘piacere’ continua a spaventare anche per paure sotterranee che la scarsezza o altre forme di privazioni alimentari possano sempre tornare (Teti 2007).

La polemica popolare contro le diete, imposte dall’alto e viste come una sorta di moderno digiuno, si combina con la critica cólta di una dietetica generalizzata, intesa come astinenza autoimposta, mortificazione del corpo, solitudine alimentare. La dietetica che ossessiona la società americana viene presentata da Jean Baudrillard (1929-2007) come un rito di una nuova popolazione primitiva, che si sente minacciata ed è in attesa di una punizione divina. La mania delle diete appare quasi annunciazione e preparazione di un tempo in cui il cibo potrebbe tornare a mancare.

La dieta mediterranea: modello, invenzione, erosione

La costruzione della dieta mediterranea ha coinciso con il progressivo inserimento dei meridionali e degli italiani nella società americana. Le comunità di immigrati italiani negli Stati Uniti hanno giocato, probabilmente, un certo ruolo nel portare alla ribalta le abitudini alimentari riscontrate nei paesi di origine. Negli anni Cinquanta si verificò, infatti, il passaggio dal rifiuto per gli usi alimentari degli emigrati, all’apprezzamento per la cucina italiana, indicata come modello di frugalità. Il tutto in un più generale mutamento d’immagine degli italoamericani negli Stati Uniti. Se alla fine dell’Ottocento ‘mangiare spaghetti’ costituiva spunto per ingiurie ed esclusioni di tipo etnico, a partire dagli anni Cinquanta del 20° sec. l’alimentazione degli italiani venne associata alla buona cucina e alla ‘civiltà a tavola’, all’interno di un più vasto riconoscimento dell’arte e della civiltà italiane.

Altri studiosi hanno individuato nella dieta mediterranea una sorta di invenzione puritana. Le norme alimentari non ubbidirebbero soltanto a valutazioni di tipo scientifico ma anche a ragioni di ordine morale e ideologico. L’idea della dieta mediterranea si baserebbe sul mito di una sorta di «eternità» e su un modello ideale quasi religioso e morale di ascesi, frugalità e semplicità. La dieta mediterranea sarebbe una ‘norma morale ideale’, una sorta di utopia (Fischler 1996).

In realtà la costruzione della dieta mediterranea ha anticipato di oltre vent’anni il mito della ‘dietetica generalizzata’, affermatosi negli Stati Uniti con forti componenti ‘punitive’ e ‘penitenziali’, con esasperate speranze salutiste e manie igieniste, con ansie e paure da fine del mondo. Non bisogna dimenticare anche i grandi interessi economici che ruotano attorno alla promozione acritica della dieta mediterranea e dei cosidetti prodotti tipici, tradizionali, genuini. Claude Fischler segnala come la riunione sull’alimentazione mediterranea svoltasi a Boston nel 1993, organizzata dalla Harvard medical school e sotto gli auspici della Oldways preservation trust, sia stata finanziata dai produttori di olio d’oliva e di vini californiani e dagli importatori americani di prodotti alimentari greci. Quando dalle ricerche e dall’interesse dei nutrizionisti passa nel linguaggio dei media, della pubblicità e delle multinazionali alimentari, la dieta mediterranea assume contorni mitici e astorici, diventa una sorta di regime alimentare tradizionale, unico, immutabile, diffuso allo stesso modo nelle diverse zone del Mediterraneo. L’idea di dieta mediterranea, nelle sue formulazioni più ingenue, non distingue, affatto, tra le disponibilità e le pratiche alimentare dei Paesi della sponda nord del Mediterraneo e quelli della sponda sud e, d’altro canto, crea distinzioni forzate e inesistenti tra i regimi alimentari delle diverse aree d’Italia, che presentano più somiglianze che differenze. La stessa tradizione alimentare delle popolazioni del Sud viene usata e interpretata in maniera tendenziosa e pregiudiziale dallo sguardo esterno. Certe descrizioni sono l’esito di un più generale e diffuso atteggiamento antimeridionale. Viaggiatori stranieri consideravano, con i loro riferimenti dietetici, la cucina del Sud rozza, grossolana, immangiabile, al più interessante in una prospettiva archeologica.

Antropologi, biologi, medici di epoca positivista (si pensi al già citato Niceforo) vedevano proprio nella sobrietà forzata dei ceti meridionali, nello scarso consumo di carne e altri prodotti nutritivi, una delle ragioni (accanto a quelle più squisitamente razziali) dell’inferiorità e dell’arretratezza delle popolazioni, che lamentavano l’assenza della carne, del pesce, delle uova, della pasta dalle loro possibilità alimentari. Il modello di riferimento dietetico era quello dei Paesi dell’Europa del Nord, più industrializzati e sviluppati. Un secolo dopo quei caratteri di privazione e di astinenza obbligata vengono considerati quasi come un vantaggio e una fortuna. Pratiche alimentari liquidate come primitive e semplici diventano punto di riferimento per contrastare nuovi stili e nuovi modelli della società di consumo.

La purezza, la genuinità, la stagionalità, la naturalezza, la freschezza sono oggetto di rimpianto e di un auspicato ritorno a un passato mitizzato e ogni novità viene vista negli aspetti negativi. Il paradosso è che l’erosione della dieta mediterranea non avviene perché le popolazioni si allontanano da un modello ideale basato su vegetarianismo, frugalità, sobrietà, ma perché realizzano invece altri aspetti presenti nella loro cultura alimentare: il sogno dell’abbondanza e del piacere alimentare, il desiderio di buoni cibi. In realtà la tradizione che si recupera non è quella della fame, ma quella delle fantasie alimentari che hanno spinto alla fuga le popolazioni. L’asserzione di ‘mangiare alla maniera tradizionale’, quando in realtà si mangia come avveniva nei sogni della popolazione, significa la fine degli antichi regimi alimentari miseri e scadenti.

Naturalmente la critica e la decostruzione della dieta mediterranea si fondano sull’esigenza di restituire storicità, mobilità, contraddizioni, articolazioni a tradizioni alimentari che si sono affermate nel corso di una lunga storia. Sarebbe errato sottovalutare e cancellare le peculiarità e le specificità, le potenzialità e le bellezze, delle abitudini alimentari delle popolazioni del Sud e del Mediterraneo. Dopo numerosi incontri condotti con studiosi di diverse discipline e autori di indagini sulle culture alimentari del Mediterraneo per far riconoscere dall’UNESCO la dieta mediterranea come patrimonio dell’umanità, si è posto il problema di non ridurre questo stile alimentare a mitologia e a leggenda, bensì di cogliere la sua dimensione storica, la mobilità e il carattere aperto all’innovazione, individuare somiglianze e differenze nei diversi contesti ambientali e sociali, sottolineare le valenze antropologiche, dietetiche, simboliche, rituali, conviviali in esso contenute.

Dieta mediterranea e culture alimentari mediterranee

Se è sterile il rimpianto di un buon tempo antico alimentare mai esistito, è importante comprendere che i miti e i sogni del passato hanno agito in profondità per l’affermarsi, in presenza di diverse disponibilità, di nuovi stili alimentari e di nuove patologie a essi connessi. Gli antropologi e anche gli storici hanno privilegiato, pure con profonde differenze interpretative, la ‘stabilità’ e l’‘ordine’ rispetto all’innovazione e al disordine: Claude Lévi-Strauss (1009-2009) e Mary Douglas (1921-2007) sono più vicini di quanto non sembrino rivelare le loro opere più famose. Marvin Harris (1927-2001), attento ai condizionamenti ambientali e materiali, alle trasformazioni storiche, ha considerato il cambiamento nella società attuale una sorta di salto, una vera e propria mutazione. Harris condivide una sorta di interpretazione romantica, sostanzialmente nostalgica, tra due stati dell’alimentazione, uno premoderno, a base naturale, e uno moderno, sostanzialmente artificiale. Bisogna individuare elementi di continuità e di rottura, senza eccessive nostalgie a sfondo apocalittico e senza esaltazioni sterili del benessere odierno. Bisogna leggere con maggiore problematicità, in termini meno apocalittici, quella che viene indicata come una vera e propria catastrofe alimentare. In realtà, il passaggio dalla ‘tradizione’ alla ‘modernità’ non va visto come una rottura epocale e non va considerato soltanto nei suoi effetti traumatici.

Quanti, con atteggiamento neoromantico, sottolineano esclusivamente i guasti e gli squilibri del presente, dimenticano che anche in passato l’‘equilibrio’ era un modello da raggiungere per popolazioni oppresse da situazioni di penuria e di scarsezza, che, insieme a disperate condizioni igieniche, a malaria, a fatiche estenuanti rendevano l’esistenza precaria. All’interno di una storia alimentare faticosa e problematica, anche le caratteristiche biologiche delle popolazioni sono il risultato di una lunga e peculiare evoluzione, l’espressione di fenomeni selettivi verificatisi anche in funzione delle scarse disponibilità alimentari e di una sobrietà obbligata.

Il modello dell’equilibrio (del rapporto individuo, ambiente, alimentazione, salute, benessere psicologico), che in passato veniva eroso quando i consumi scendevano al di sotto dei bisogni nutritivi, si è ormai spezzato nei Paesi industrializzati avanzati. La fine del tradizionale equilibrio si accompagna a più generali ‘squilibri’. Sempre più pressanti sono ormai le sollecitazioni al consumo di alimenti non già sulla base di effettivi bisogni biologici, ma sulla base di bisogni culturali, derivati, indotti dalle mode, dalle industrie alimentari, da una società basata sui consumi e gli sprechi. Le mutazioni alimentari, l’affermarsi di consumi indotti e non necessari, la scomparsa dell’antico equilibrio e di concezioni in cui il ‘mangiare’ era sempre legato allo ‘star bene’ o alla sopravvivenza, hanno creato negli uomini del Mediterraneo situazioni di difficoltà metaboliche, nuove forme di sofferenza e di patologie alimentari.

L’erosione non dipende soltanto da scelte recenti ed esterne, ma dal complesso legame delle popolazioni con un passato dai tanti volti, che ha portato a scelte per nulla semplici, lineari, definitive, contraddittorie e aperte. L’eccesso di consumi di carne e di grassi nel presente, forse si pone in relazione con secolari privazioni. Sono ancora in molti a mangiare in abbondanza, a ingrassare volutamente, quasi per scongiurare i tempi della fame e dei digiuni obbligati, per cancellare un passato affollato da corpi scarni, deboli, ammalati. Al centro di tutto il consumo eccessivo della carne quasi a saziare una fame e un desiderio atavici.

Le culture alimentari del passato, in un certo senso, avevano al loro interno le ‘ragioni’ (si pensi al sogno dell’abbondanza e all’utopia di una cucina ricca) di una loro possibile erosione e disgregazione in contesti ambientali, economici e sociali profondamente mutati.

La stessa obesità che interessa oggi le popolazioni povere non è spiegabile soltanto come ‘malattia’ legata agli eccessi alimentari; per molti aspetti «non è altro che una forma di fame mascherata» (Harris 1990; trad. it. 1991, p. 110). All’antica paura della fame è subentrata la paura per imbrogli, menzogne, mistificazioni alimentari.

Gli americani hanno individuato la ‘paura dell’obesità’ (fear of obesity) che sostituisce l’antica paura della magrezza e della fame. La grassezza non rappresenta come nel passato uno status sociale desiderabile e invidiabile. Il corpo grasso non è più di moda e, anzi, viene percepito negativamente, ma l’obesità è frutto di una storia alimentare più antica e non soltanto delle abitudini alimentari del presente. Le popolazioni povere, che mangiavano quasi esclusivamente per vivere, non hanno mai avuto problemi di obesità. I sottoalimentati delle società tradizionali che incontravano molte difficoltà per nutrirsi avevano poche possibilità d’ingrassare. Anche per questa ragione la grassezza ha costituito un modello per persone che quotidianamente, con fatica e difficoltà, trovavano il cibo per nutrirsi in maniera soddisfacente.

Se in passato i poveri erano i soggetti più esposti a condizioni di sottonutrizione, oggi, per difetti fisiologici ereditari, sono i più esposti ai rischi e ai problemi della ipernutrizione o di una inadeguata alimentazione.

Antropologi e nutrizionisti suggeriscono che le popolazioni povere e denutrite per sopravvivere facciano ricorso a strategie biologiche, che consentano loro di accumulare, nei periodi di maggiore disponibilità alimentare, le sostanze energetiche in forma di grasso. La capacità di trasformare le calorie del cibo consumato in grasso è una eredità biologica degli uomini delle società preindustriali. È stato individuato il ‘gene dell’economia’ che stimola una produzione di insulina, grazie alla quale si verifica la trasformazione delle calorie del cibo in depositi di grasso. L’iperinsulinismo permetterebbe, in altri termini, agli individui di accumulare grassi utilizzabili nelle situazioni di necessità, nei momenti di più intensa e dura attività lavorativa. Nel passato l’iperinsulinismo non creava problemi alle popolazioni povere che conoscevano l’alternanza di periodi di ‘fame’ o di scarsezza alimentare e di periodi di maggiore disponibilità alimentare, di periodi di duri lavori, durante i quali erano richieste notevoli energie, e di periodi meno faticosi. Ma nelle popolazioni che non conoscono più privazioni alimentari e che non mangiano più soltanto per sopravvivere, il ‘gene dell’economia’ favorisce un continuo deposito di grassi che determina l’obesità. Le popolazioni e i ceti sociali che hanno maggiori disponibilità alimentari e che consumano con frequenza cibi calorici tendono più facilmente all’obesità, per quella predisposizione biologica condivisa da tutti gli uomini delle società preindustriali in cui i beni alimentari non sono stati mai eccedenti (Teti 1999, 20072). In molte popolazioni la maggiore frequenza di diabete si manifesta inizialmente con l’obesità, che conferma la difficoltà di utilizzare gli zuccheri in persone iperalimentate. Harris con la consueta ironia nei confronti delle teorie culturologiche, ha osservato che mangiare troppo non è un difetto del carattere né un desiderio di tornare all’utero materno o un surrogato del sesso o una rivincita sulla povertà. Al contrario è un «difetto fisiologico ereditario del corpo umano, una debolezza che la selezione naturale non è stata capace di eliminare [...]» (1990; trad. it. 1991, p. 115). Anche in un contesto socioeconomico diverso da quello del passato, «i poveri continuano ad essere più bassi dei ricchi» e anche più grassi. Negli Stati Uniti i poveri, a torto ritenuti responsabili della loro obesità, sono grassi perché ignari dei meccanismi della nutrizione, delle conseguenze dannose dell’obesità, e perché impossibilitati, per ragioni economiche e lavorative, a praticare aerobica e sport. Harris, in altri termini, individua anche ragioni culturali e sociali dell’obesità, da intendere oggi come indizio di nuova povertà e nuovi fallimenti (Teti 1999, 20072, pp. 116-17).

Nelle regioni meridionali si riscontra che gli attuali comportamenti alimentari delle popolazioni, gli eccessi che allontanano dall’antico equilibrio mediterraneo, l’affermarsi di nuove malattie da benessere trovano una ragione in complesse vicende di storia alimentare, sociale, culturale di quelle regioni. L’antico mito della grassezza e il terrore antico della fame e della magrezza sono in parte all’origine delle attuali scelte alimentari e dietetiche delle popolazioni. La fame è allora la responsabile della magrezza dei poveri di ieri e dell’obesità di quelli di oggi.

Una patria alimentare di riferimento

Nata come costruzione puritana e moralistica anglosassone, come modello da opporre alle abitudini delle società opulente e obese, la dieta mediterranea si alimenta nel Vecchio mondo di un fondo di antiamericanismo. La riproposta delle cucine regionali assume i contorni di un rifiuto dei prodotti della globalizzazione. Da più parti vengono segnalati i rischi sociali, culturali, mentali legati all’erosione dell’antico equilibrio e all’omologazione che va realizzando un’alimentazione standardizzata e mondiale.

Goody (1982), che, come si è già accennato, ha studiato l’alimentazione nella prospettiva di lunga durata e su larga scala, ha ricostruito il formarsi e il diffondersi di una dieta omogenea, con alla base prodotti industriali e standardizzati. Pur rilevando le nuove distanze alimentari e culturali che si affermano tra élite e ceti popolari, nazioni ricche e nazioni povere, Goody descrive anche i profondi cambiamenti (in diverse direzioni e con sfaccettature che potremmo definire positive e negative) che la cucina internazionale ha provocato nelle cucine tradizionali e locali.

Ernesto De Martino (1908-1965), ancora prima, aveva segnalato come il passaggio dalla fame alle nuove e diffuse disponibilità alimentari non dovesse essere considerato in maniera unidirezionale come miglioramento, ma fosse denso di nuovi rischi e di inedite minacce per le società moderne. L’etnologo ricorda che se la fame è una minaccia, anche mangiare da soli è una minaccia. Il pane come cibo che «nutre si può perdere anche quando si spegne la sua valorizzazione di cibo da mangiarsi in comune». È necessario «mangiare insieme, ritrovare il pane del banchetto, e comunicare, attraverso il suo diretto significato umano che accenna a contadini e a fornai, con la comunità intera da trasformare e davanti a cui testimoniare» (De Martino 1977, pp. 615-16).

Gli uomini dell’universo contadino, come ricordava Pier Paolo Pasolini (1922-1975), non vivevano un’età dell’oro, ma un’età del pane. Erano consumatori di beni estremamente necessari. E questo, forse, rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre i beni superflui rendono superflua la vita (Teti 2007).

Baudrillard parla della «solitudine alimentare» come segno della «solitudine esistenziale» che vivono gli abitanti di New York, capitale di una moderna primitività. Una solitudine che non assomiglia a nessun’altra: quella dell’uomo che si prepara pubblicamente il pasto, su un muretto, sul cofano di un’automobile, lungo una cancellata, solo. Uno spettacolo che si vede dappertutto, più triste della miseria, perché più triste del mendicante è l’uomo che mangia solo in pubblico. «Niente di più contraddittorio rispetto alle leggi dell’uomo o dell’animale, perché le bestie hanno sempre la dignità di spartire o di contendersi il cibo. Colui che mangia solo è già morto» (Baudrillard 1987, p. 18).

Fischler segnala che nelle società industriali si è affermata una «modernità alimentare» che, in una condizione di quasi permanente abbondanza, sta sconvolgendo o addirittura rovesciando il rapporto dell’uomo con il suo cibo. La «gastronomia» si è rovesciata in «gastro-anomia» (Fischler 1979; trad. it. 1981, pp. 189-210).

Nella società odierna insieme alle disponibilità e ai consumi alimentari, sono mutati profondamente spazi e tempi, ritualità e sacralità del mangiare; sono mutati i tradizionali equilibri fra il campo e l’orto, il mercato e la cucina domestica, il secolare legame tra terra, produzione, individui, consumi e culture alimentari. Le risposte a questi problemi sono state spesso retoricamente nostalgiche e consumistiche.

Un vero e proprio trionfo di prodotti regionali, ‘tipici’, ‘locali’, ‘tradizionali’ viene organizzato in quasi tutti i paesi, nel corso di sagre, feste religiose e manifestazioni turistiche e culturali. Nessun prodotto o piatto viene dimenticato dalle iniziative di un «nuovo folklore alimentare». Anni addietro si è parlato di «sagra-invenzione» per indicare il fenomeno che caratterizza la riscoperta di una presunta cucina del passato sia nei paesi che nei centri urbani (Teti 2007, pp. 304-305).

Per esaltare inventiva e fantasia alimentari del passato si dimentica la scarsezza a cui erano legate. Non è possibile assegnare agli uomini di ieri la nostra buona, genuina, fresca e sana cucina, ammesso che sia davvero tale. Le attuali specializzazioni alimentari e le loro molteplici mescolanze costituiscono, difatti, un ribaltamento della dieta tradizionale e un suo superamento. La riscoperta, il revival, la nostalgia del cibo «tradizionale» vanno compresi all’interno del vasto e ambiguo interesse per la civiltà contadina, il folkcore, le radici, che ha segnato profondamente la storia culturale e sociale dell’Italia e dei Paesi occidentali nell’ultimo trentennio. Le culture agropastorali, prima cancellate dalla modernità, vengono mitizzate quando sono ormai scomparse o hanno subìto un irreversibile processo di erosione.

Un’alimentazione legata a particolari disponibilità viene idealizzata quando non esiste più, si è trasformata radicalmente, è diventata altro da quello che era. Come il folclore in genere, l’ «autentico folklore alimentare», una volta estinto, non ha alcuna possibilità di rinascere. Tutto ciò che viene proposto all’insegna del ‘tipico’, del ‘caratteristico’, del ‘casalingo’ ha quasi sempre risvolti kitsch, strapaesani, lacrimevoli, strumentali (P. Camporesi, La terra e la luna. Dai riti agrari ai fast food. Un viaggio nel ventre dell’Italia, 1995). La convinzione di ‘mangiare alla maniera tradizionale’ non fa che occultare la fine di antiche abitudini, legate ad altre disponibilità, ad altre tecniche cucinarie e conserviere. Se la retorica della tipicità e la mitizzazione della tradizione non servono a recuperare il passato, sono, tuttavia, utili per conoscere le forme popolari di autopercezione e autorappresentazione alimentare dell’oggi. Per quanto banalizzazione ed estrapolazione di saperi e pratiche più vasti, la tipicità può essere, tuttavia, anticamera di nuove forme di consapevolezza, può rivelare il bisogno di un legame con il passato, l’insoddisfazione per modelli percepiti come esterni o estranei.

Chi cerca il prodotto ‘tipico’ non sempre fa operazione folcloristica, ma si misura con la propria storia, la propria cultura, la propria sensibilità; propone in qualche modo la fedeltà a un antico sistema, che comunque rivela ancora una certa continuità con il passato, nonostante le aggressioni esterne e interne. I prodotti tipici rivelano il bisogno di un equilibrio alimentare, magari da inventare o da reinventare, e rappresentano anche un fatto economico rilevante, che merita altra attenzione.

Appare riduttivo indicare nella ‘tipicità’ soltanto un impoverimento delle culture locali, una modernizzazione degradante. Essa consente incontri e aperture, in quanto eccezionale zona di traduzione da una cultura all’altra. La ricerca della tipicità o della ‘cucina del territorio’ può essere legata al bisogno di un nuovo senso dei luoghi e un nuovo bisogno di appaesamento. A condizione che il riferimento alle cucine locali non diventi scimmiottamento, invenzione superficiale della tradizione, pretesa di ripristinare la ‘vera cucina di una volta’. La ricerca dei prodotti tipici e locali può assumere valenze oppositive a modelli alimentari esterni. Le persone anziane di cui sono state raccolte le biografie alimentari negli ultimi trent’anni di studio, da un lato esorcizzano un passato di fame e privazione, dall’altro rimpiangono un’alimentazione a base di prodotti buoni, genuini, non sofisticati. Un atteggiamento solo apparentemente contraddittorio: gli anziani in realtà rifiutano sia la fame di un tempo, sia i prodotti ‘non buoni’, ‘nocivi’, artefatti, ‘avvelenati’ proposti da tante industrie alimentari. La ‘nostalgia alimentare’ si afferma anche con una forte carica oppositiva, non è banale fuga nel passato, ma critica dell’ordine dominante nel presente (Teti 1999, 20072).

Non tutto il passato è morto, anche se ovviamente si è modificato. Il passato può essere salvaguardato per fornire modi alternativi di vedere le cose e per fornire nuovi valori per il futuro. Il passato può essere riscattato come contenitore di potenzialità diverse, non realizzate ma suscettibili di future realizzazioni.

In questa prospettiva, anche l’invenzione della dieta mediterranea, improponibile nelle formulazioni più retoriche ed edulcorate, può essere importante per affermare nuove forme di consapevolezza e nuovi modelli alimentari. Nonostante l’impostazione tecnocratica, che si basa su una razionalità economica, data al problema alimentare, negli ultimi anni si va affermando anche tra le popolazioni una diversa sensibilità e l’insofferenza per abitudini che rompono l’antico equilibrio, senza tenere conto di una cultura, di uno stile di vita, di una biologia affermatesi nel corso dei secoli. Non è un caso che questa consapevolezza sia maggiore in molti paesi del Mezzogiorno d’Italia, dove storicamente l’alimentazione è stata vista strettamente connessa alla salute. Il problema è che alla consapevolezza non seguono scelte e comportamenti coerenti, probabilmente anche per un errato modo di comprendere il passato e di cogliere il senso delle attuali trasformazioni.

Un antidoto alle ‘piccole patrie’ alimentari e all’omologazione globale

De Martino come antidoto all’etnocentrismo dogmatico dell’Occidente coloniale e al relativismo culturale che impedisce ogni confronto, ha proposto la prospettiva di un etnocentrismo critico, che sappia assumere la storia della propria cultura come unità delle storie culturali aliene, ma anche come consapevolezza dei propri limiti e necessità di messa in discussione delle proprie categorie. Lo studioso ricorda che «alla base della vita culturale del nostro tempo sta l’esigenza di ricordare una “patria” e di mediare, attraverso la concretezza di questa esperienza, il proprio rapporto col “mondo”» (De Martino 1977, pp. 396-97).

Non bisogna amalgamare e confondere cosmopolitismo e mondialismo, né si può chiamare cosmopolitismo «il fatto di mangiare cuscus, tacos, riso alla cantonese, di indossare sete cinesi, di ascoltare musica orientale e di tingersi i capelli con l’henné» (Bruckner 1990; trad. it. 1994, pp. 192-93). Il vero cosmopolitismo non è una ‘poltiglia babelica’, non pratica l’arte di sorvolare sopra tutte le cime del mondo, non raccoglie un tratto qui e uno là, è radicato nella memoria, fa riferimento a una patria di nascita o comunque a una o due patrie di elezione. Occorre uscire dalla ricattatoria alternativa mondialismo-localismo, tradizionalismo-modernismo.

Bisogna abbandonare la concezione di una cucina tradizionale, unica, genuina, locale, tipica, esclusiva, basata sul mito del ‘buon tempo antico’ alimentare che in realtà non è mai esistito, e sottrarsi al mito di una cucina mondiale, che non esiste se non come negazione di tutte le specializzazioni alimentari locali, affermazione della fine dell’arte culinaria, della gastronomia, del piacere e della ritualità alimentari.

La globalizzazione con cui bisogna fare i conti non può passare attraverso il tentativo di eliminare e cancellare le ‘patrie’, i luoghi, le appartenenze. È necessario affermare invece la necessità di una ‘patria alimentare’ per non perdersi e non smarrirsi in una cultura omologante e massificata: la necessità di considerare il proprio presente, a partire dalla propria storia.

Bisogna affermare un nuovo modo di guardare e di guardarsi. Spetta alle popolazioni del Mediterraneo delle due sponde rapportarsi al loro passato alimentare, senza mitizzazioni (come dimenticare la fame del passato?), senza esclusivismi e chiusure. Forse, allora, occorre porsi nell’ottica di non rassegnarsi a che la valutazione delle cucine tradizionali venga portata avanti dai centri della modernità alimentare, che esprimono un’ideologia esterna e vogliono annullare tutte le tradizioni possibili all’interno di processi di standardizzazione e globalizzazione. L’espressione ‘mangiare meridiano’, riferita al modello alimentare meridionale, alle culture alimentari del Mezzogiorno d’Italia, vuole appunto, senza cedere ad apologie del buon tempo andato e senza affermare superiorità rispetto ad altri modelli e sistemi, sottolineare la memoria di quel tempo. Avere ascoltato molte storie di fame non consente di poter avere rimpianto per un mondo scomparso. Ma tutto ciò non deve impedire di criticare, con cognizione di causa, il presente così com’è.

L’attuale opposizione alla retorica della dieta, intruglio di solitudine, fretta e cibo pessimo, è una forma di resistenza all’affermazione di un mondo che sembra preparare la propria catastrofe; è affermazione di saperi, sapori, colori, miscugli locali negati con pretesti igienico-sanitari, che spesso ubbidiscono alla logica del profitto e agli interessi delle grandi industrie alimentari.

In una società che non dipende esclusivamente, e per fortuna, dalla produzione stagionale non è importante mangiare sempre e comunque: è importante sapere cosa si mangia, come, quando e con chi si mangia. Fischler ha notato, a proposito dell’alimentazione mediterranea, che il francese saveur e l’italiano sapore derivano da sapere. Una identità alimentare mediterranea non si può giustificare ‘razionalmente’ né per la naturalezza, né in base a concezioni dietetiche, nemmeno in base a motivazioni ideologiche o moralistiche. Si tratta di una identità da costruire sulla base di una diversa nozione di qualità, sull’attenzione posta alle particolarità e alle specificità alimentari, sul valore assegnato a funzioni centrali dell’alimentazione come la socialità e la comunicazione (Fischler 1996). L’‘etnocentrismo alimentare critico’ parte dalla consapevolezza che non tutto quello che viene dal passato possa essere negato o conservato e non tutto quello che viene dall’esterno può essere rifiutato o, viceversa, accolto e accettato. L’ideologia del fast food non viene criticata in quanto modello moderno o esterno, ma perché non è legata a un luogo in particolare, ma a tutti i luoghi e, pertanto, a nessun luogo, al nonluogo, inteso come spazio che non è identitario, non relazionale non storico e che non integra in sé i luoghi antichi.

Rispetto al ‘non mangiare’, alla ‘non cucina’ e alla ‘gastro-anomia’ dei nonluoghi della surmodernità si suggerisce la costruzione di un mangiare e di un nuovo sentimento dei luoghi basati sulla ricerca dell’equilibrio, della salute, del benessere, della socialità, dello stare insieme (Teti 1999; Teti 2007).

Una ‘patria alimentare’ di riferimento è una costruzione insieme critica e affettiva, fatta di ragione e sentimento, necessaria per affermare il valore delle biodiversità, senza cadere in retoriche localistiche e nemmeno in un relativismo assoluto, che equipara tutti i cibi e i non cibi e annulla tutte le diversità. Occorre scongiurare il rischio di cadere in un modello alimentare unico, esclusivo, omologante. Significa comprendere il carattere storico, mobile, controverso di una dieta mediterranea da realizzare, con la consapevolezza che non esistono isole scampate alla modernità e che la dieta non consiste soltanto in quantità di elementi nutritivi raccomandati, ma va legata a un più generale stile di vita e a nuovi modelli di produzione e di consumo.

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Un ringraziamento particolare a Maurice Aymard, Igor de Garine, Diego Carpitella, Massimo Cresta, Luigi M. Lombardi Satriani, Emilio Sereni, Piero Camporesi, Carlo Cannella, Alberto M. Cirese, Sandro Onofri, i cui lavori hanno contribuito a ispirare questo saggio. Altrettanto preziose sono state le ricerche di tanti studiosi dell’ICAF, tra cui Françoise Aubaile-Sallenave, Ottavio Cavalcanti, F. Xavier Medina, Helen Macbeth, Isabel González Turmo, Ricardo Avila e Manuela Valegao.