La civiltà islamica: scienze della vita. La tradizione galenica

Storia della Scienza (2002)

La civilta islamica: scienze della vita. La tradizione galenica

Gotthard Strohmaier

La tradizione galenica

La letteratura medica del Medioevo arabo-islamico è una continuazione diretta di quella greca; riflette quindi una tradizione medica che merita la qualifica di 'scientifica' ed esclude in larga misura quegli elementi magici e demonologici che inficiavano la medicina popolare. È tipico del pensiero greco il tentativo di ricondurre i fenomeni visibili ad alcuni elementi semplici che ne costituiscono il fondamento e che solo l'intelletto è in grado di cogliere. Nella medicina come nell'astronomia e in altri campi del sapere, la realtà è quindi pensata attraverso modelli. Nel caso dell'astronomia, per esempio, i movimenti irregolari dei pianeti, particolarmente complicati, erano ricostruiti a partire da quelli circolari semplici e uniformi di sfere immaginarie; questa ipotesi rendeva possibile la previsione dei fenomeni astronomici. Nel campo della medicina, invece, nonostante le differenze teoriche e le conseguenti polemiche fra scuole rivali legate ai diversi indirizzi filosofici (atomismo, stoicismo, scetticismo e aristotelismo), fu universalmente condiviso un modello di salute intesa come equilibrio fra estremi.

Nella Tarda Antichità nelle regioni occidentali dell'Impero romano predominava la scuola medica metodica, vicina all'atomismo, le cui dottrine si trovavano esposte nel trattato latino Celeres et tardae passiones di Celio Aureliano (V sec. d.C.). Nelle regioni orientali dell'Impero si affermò invece come principale autorità Galeno (130-200 ca.), il quale, forse a causa del suo carattere litigioso, pur essendo divenuto medico personale dell'imperatore Marco Aurelio, non era stato in grado di fondare alcuna scuola a Roma, cosicché il suo pensiero non ha lasciato traccia alcuna nella letteratura latina medievale più antica. Nell'Impero bizantino e nel mondo islamico, invece, i medici costituivano un'unica setta galenica grazie alla Scuola di Alessandria che nel 529, dopo la chiusura della Scuola di Atene, rimase il principale centro per l'insegnamento accademico.

La dottrina galenica e la Scuola alessandrina

La ragione per cui Galeno divenne la principale autorità medica è da ricercarsi nella sua filosofia della Natura, che si riallaccia alle dottrine di Aristotele pur rielaborandole criticamente. Al pari di quest'ultimo, anch'egli postulava le quattro qualità ‒ caldo, freddo, umido e secco ‒ che costituivano i quattro elementi: il fuoco caldo e secco, l'aria calda e umida, l'acqua fredda e umida, la terra fredda e secca. Questi a loro volta davano luogo alle sostanze omeomere, ossia formate da parti simili, considerate prive di una struttura interna. In un trattatello dedicato alle differenze delle parti omeomere del corpo, giuntoci soltanto in traduzione araba, Galeno enumera circa 45 sostanze di questo genere. Nel mondo inorganico erano inclusi in questa categoria le pietre e i metalli, nel corpo degli esseri viventi la sostanza delle ossa, delle fibre muscolari, delle membrane, dei nervi, del corpo vitreo e del cristallino dell'occhio.

Il prestigio di Galeno presso i maestri alessandrini era dovuto anche ai suoi contributi originali nell'ambito della logica o di singoli problemi di fisica, come il processo della visione. Così il commentatore cristiano di Aristotele, Giovanni Filopono, elogia Galeno in quanto, oltre a essere un medico insigne, si era distinto nel campo della filosofia naturale. Inoltre, sia gli autori cristiani sia quelli neoplatonici della Scuola alessandrina gradivano il rifiuto dell'atomismo espresso da Galeno nel De elementis ex Hippocrate. Il finalismo che si riscontra nell'organizzazione del corpo avrebbe dimostrato, secondo Galeno, che esso non è opera del cieco caso ma di un artefice che, pur non essendo il Creatore onnipotente, agisce con intenzionalità. Nel De usu partium corporis humani, il cui contenuto fu riassunto da Giovanni Filopono in un breve commentario che ci è giunto solo in traduzione araba, Galeno arriva a considerare la propria anatomia come fondamento di una 'teologia esatta'.

Lo schematismo della dottrina dei quattro elementi si ritrova nella dottrina galenica dei quattro umori del corpo: il sangue caldo e umido, il flegma freddo e umido, la bile gialla, calda e secca, e la bile nera, fredda e secca. Tali umori, che si formano a partire dagli alimenti, si trasformano a loro volta nelle sostanze omeomere del corpo. La salute, secondo un'impostazione tipicamente greca, consisteva nell'equilibrio armonico degli umori e il compito del medico era quello di ripristinare l'equilibrio alterato dalla malattia. Per raggiungere questo scopo si poteva eliminare la quantità in eccesso di un dato umore, somministrando un purgante o praticando un salasso. Proprio perché il suo uso era avallato dall'autorità di Galeno, la flebotomia venne però praticata, sia nella medicina araba sia nell'antica medicina europea da essa derivata, in modo indiscriminato e spesso dannoso per il paziente. L'equilibrio degli umori poteva essere ripristinato anche mediante la somministrazione di medicamenti. Galeno registrò un'enorme quantità di questi rimedi, ricavati perlopiù dalle piante, che venivano divisi in caldi, freddi, umidi e secchi, e li ordinò secondo una scala di quattro gradi di efficacia. Le sostanze definite 'semplici' erano somministrate soprattutto attraverso farmaci composti. Poiché tra questi vi erano anche quei rimedi dimostrati efficaci nella pratica, l'intera teoria riceveva costantemente nuove conferme.

Galeno aveva ripreso anche gli studi anatomici dell'antica Scuola alessandrina, proseguendoli a Roma con l'esecuzione pubblica di dissezioni su animali, pratica di cui difese il valore contro altre scuole mediche che ne negavano l'utilità. Ne scaturì un conflitto con i peripatetici ortodossi in merito alla funzione del cuore e del cervello. Mentre Aristotele aveva attribuito al cervello solo il ruolo di apparato periferico preposto al raffreddamento del sangue, Galeno, in base alla vivisezione compiuta su scimmie e su altri animali, nonché alle manifestazioni che risultavano dalla resezione dei nervi, riuscì a dimostrare che il cervello è il centro del sistema nervoso e, di conseguenza, il punto di partenza della percezione e dei movimenti volontari. La controversia iniziò a Roma dove, come racconta lo stesso Galeno, gli si oppose un certo Alessandro di Damasco, che con tutta probabilità è da identificare con Alessandro di Afrodisia, il commentatore di Aristotele assai stimato anche nel mondo islamico; proseguita poi ad Alessandria, come attestano alcuni luoghi dei commentari a Ippocrate, essa si riaccese con rinnovata veemenza in epoca successiva tra i medici e i filosofi arabi; proprio i più importanti tra questi ultimi, al-Fārābī, Avicenna e Averroè, non volendo attribuire alcun errore ad Aristotele, si prodigarono per dimostrare l'incompetenza di Galeno nelle questioni di filosofia naturale.

Ciononostante, Galeno si affermò nel mondo islamico come maestro del pensiero razionale e causale anche al di fuori della cerchia medica. I funzionari di corte fecero tradurre in arabo i suoi scritti. ῾Alī ibn Riḍwān (m. 460/1068), medico personale al Cairo del califfo fatimide al-Mustanṣir, nel suo scritto Maqāla fī'l-taṭarruq bi-'l-ṭibb ilā 'l-sa῾āda (Trattato sul raggiungimento della felicità attraverso la professione medica), riaffermò le priorità stabilite dagli antichi alessandrini, dichiarando che Galeno aveva emendato la medicina dagli errori che i malevoli sofisti vi avevano introdotto nell'epoca successiva a Ippocrate. Per questa ragione secondo ῾Alī ibn Riḍwān si sarebbero dovute leggere solo le opere di Galeno e, al di fuori di lui, unicamente quelle degli autori raccomandati da Galeno stesso. Tra questi era citato con favore un suo contemporaneo più anziano, Rufo di Efeso (I sec. d.C.), un insigne clinico cui non si può attribuire alcuna scuola particolare. Anche di questo autore furono tradotti in arabo vari scritti: sull'itterizia, sull'amnesia, sulla melancolia, sulla dietetica, sul vino, sul latte, sui veleni, sulla cura del lattante e sulle malattie infantili; di essi però, contrariamente a quanto è accaduto per il Corpus galenico, ci sono giunti purtroppo solamente frammenti.

Prima della conquista della città a opera degli Arabi, avvenuta nel 646, la Scuola galenica di Alessandria aveva potuto estendere la sua influenza sia su Bisanzio sia sui territori del Vicino Oriente abitati dai Siri cristiani; e quanto fosse grande la venerazione dei medici siri per il loro maestro Galeno è attestato dal seguente episodio. Allorché il califfo abbaside Hārūn al-Rašīd (148-193/766-809) si trovò a intraprendere una spedizione in Asia Minore, il suo medico personale Ǧibrīl ibn Baḫtīšū῾ espresse il desiderio di visitare Smirne, nell'errata convinzione che essa fosse la città natale di Galeno. Il califfo però, che non vedeva alcuna necessità militare di proseguire l'avanzata, non esaudì tale richiesta e negò al medico anche l'autorizzazione a proseguire da solo, nel timore che potesse cadere prigioniero. Si giunse allora a una soluzione di compromesso: Ǧibrīl si sarebbe potuto allontanare scortato da cinquecento cavalieri ma i costi della spedizione sarebbero stati a suo carico. Giunto a Smirne, Ǧibrīl poté felicemente identificare nella casa più bella della città l'abitazione di Galeno, ammirandone la struttura architettonica conforme ai principî dell'igiene, e mentre i soldati saccheggiavano le provviste di carne e di vino della città, egli consumò un pasto in quella casa, istituendo una sorta di comunione mistica con il suo maestro.

I testi delle lezioni e i commentari basati sugli appunti degli studenti compilati ad Alessandria furono tramandati sia nei territori di lingua greca sia in quelli di lingua siriaca. Il Corpus galenico, al pari di quello aristotelico, fu conservato in proporzione pressoché identica in entrambe le lingue. Maggiori discrepanze sussistono riguardo ad altri autori, soprattutto i più recenti, come Stefano di Alessandria, i cui commentari a Ippocrate ci sono giunti solamente in greco, forse perché, essendo stato chiamato presso l'Università di Costantinopoli, aveva lasciato la città poco prima della conquista araba. Gli scritti di Galeno, assai estesi e infarciti di digressioni e di polemiche, erano poco adatti come lettura per principianti o per i medici pratici, i quali avevano bisogno di testi di rapida consultazione per risolvere specifici problemi. La situazione dei medici era dunque molto diversa da quella degli astronomi, che con l'Almagesto di Tolomeo (II sec. d.C.) avevano a disposizione un manuale già pronto per l'uso. Un primo, rudimentale passo in questa direzione si ebbe soltanto con la raccolta, a opera dei maestri alessandrini, di sedici scritti galenici (i cosiddetti 'sedici libri'), da leggersi in una successione prestabilita. Come riferisce il grande traduttore e medico nestoriano Ḥunayn ibn Isḥāq (m. 260 o 267/873 o 876), si cominciava con il De sectis ad eos qui introducuntur e ciò testimonia in quale misura le dispute puramente teoriche gravassero sull'insegnamento, in quanto le scuole degli empirici e dei metodici, che sono il bersaglio polemico di questo scritto, da tempo avevano cessato di esistere. La raccolta comprendeva poi i seguenti scritti, nell'ordine in cui sono elencati: Ars medica, De pulsibus ad tirones, Ad Glauconem de methodo medendi, De ossibus ad tirones, De musculorum dissectione ad tirones, De nervorum dissectione, De venarum arteriarumque dissectione, De elementis ex Hippocrate, De temperamentis, De facultatibus naturalibus, un libro sulle cause e sui sintomi delle malattie che riassumeva varie opere, il De locis affectis, un ampio trattato sul polso, anch'esso compilato sulla base di diversi testi, il De differentiis febrium e infine il De crisibus. Per delimitare ulteriormente la materia furono inoltre approntati alcuni compendi di questi scritti. Essi si ritrovano unicamente nella tradizione araba, mentre mancano in quella bizantina, sicché probabilmente furono compilati soltanto dopo la conquista araba e la rottura dei rapporti con Bisanzio che ne conseguì; la loro esistenza dimostra che l'insegnamento della medicina ad Alessandria proseguì ancora per qualche tempo dopo la conquista.

Traduzioni e rielaborazioni arabe della tradizione galenica

Gli sforzi tesi a compendiare e a sistematizzare la dottrina galenica continuarono ininterrotti nella medicina araba e trovarono il loro coronamento in al-Qānūn fī 'l-ṭibb (Canone della medicina, noto anche come Canon medicinae o Liber canonis totius medicinae) di Avicenna. I medici arabi serbarono una vivida memoria storica di questo processo. Si può menzionare a tale riguardo la prefazione del Kitāb al-Malakī (Libro regio) di al-Maǧūsī, un manuale sapientemente strutturato della seconda metà del X sec., il cui successo fu superato solo dal Canone di Avicenna. In questo testo al-Maǧūsī descrive l'opera dei suoi predecessori mettendone in evidenza le manchevolezze, a partire da Ippocrate e Galeno. Il primo, afferma al-Maǧūsī, è stato l'iniziatore dell'arte medica ma ha espresso le sue teorie in modo eccessivamente stringato e oscuro, cosicché si è costretti a ricorrere sempre a un commentario. Galeno, per contro, con i suoi numerosi trattati è caduto nell'estremo opposto e i suoi scritti sono pieni di estese divagazioni e di ripetizioni, dovute peraltro al fatto che ai suoi tempi egli doveva confutare i sofisti. Non esiste dunque un testo di Galeno che offra una summa dell'intera medicina. Il primo a compiere un tentativo di questo tipo sarebbe stato Oribasio, con opere che al-Maǧūsī giudica lacunose: una compilazione di scritti degli antichi medici greci in settanta libri dedicata all'imperatore Giuliano l'Apostata (m. 363 d.C.) e due piccoli compendi dedicati a un certo Eunapio e al figlio di questi, Eustazio. Di tutti questi testi dunque al-Maǧūsī aveva a disposizione una traduzione in arabo e lo stesso vale per i sette libri di Paolo di Egina (615-690), che egli cita dopo aver trattato di Oribasio e che a suo avviso contengono molte nozioni preziose per chi pratica la medicina. Paolo di Egina, del resto, si trovava ad Alessandria nel 646, allorché la città fu occupata dagli Arabi e la sua opera ci è giunta nella versione originale greca. Gli altri autori menzionati da al-Maǧūsī non ebbero alcuna influenza sulla medicina bizantina e appartengono soltanto alla tradizione orientale.

Di un certo presbitero Ahrūn (attivo nel 630 ca.), menzionato da al-Maǧūsī, possiamo solo ipotizzare che il nome greco fosse Aaron. Il fatto che questi scrivesse ancora in greco è attestato dall'esistenza di una traduzione del suo testo in siriaco a opera di un certo Gōsiōs. Ahrūn godeva di una qualche notorietà nel mondo arabo, poiché il poeta satirico al-Ḥakam ibn ῾Abdal, vissuto in Iraq nel VII sec., afferma che egli era in grado di guarire persino 'l'alito cattivo'. Al-Maǧūsī gli rimprovera di essersi espresso in modo troppo succinto, senza fornire alcuna spiegazione, e criticava altresì una cattiva traduzione araba che il medico ebreo Māsarǧawayh (VII-VIII sec.) aveva dato della sua opera e che avrebbe indotto Ḥunayn a darne una migliore. Di origine greca era anche Yūḥannā ibn Sarābiyūn, o Iohannes, figlio di Serapione (il suo kunnāš, compilazione, è databile intorno all'873), al quale al-Maǧūsī rimprovera di avere trascurato la chirurgia, nonché numerose malattie e i loro sintomi. Privo di sistematicità è considerato da al-Maǧūsī anche il testo di un certo Masīḥ (Masīḥ al-Ḥakam), vissuto sotto il califfo Hārūn al-Rašīd. L'ultimo predecessore menzionato da al-Maǧūsī è al-Rāzī (251-313/865-925), il cui Kitāb al-ṭibb al-manṣūrī (Libro di medicina dedicato ad al-Manṣūr, Liber Almansoris) viene criticato da al-Maǧūsī perché, pur contenendo tutte le nozioni più importanti, risulta eccessivamente sintetico. Una seconda opera di al-Rāzī, il Kitāb al-Ḥāwī fī 'l-ṭibb (Libro comprensivo sulla medicina), tradotto in latino con il titolo di Continens o Liber continens, secondo al-Maǧūsī raccoglie disordinatamente un'ingente quantità di materiale, costituito in parte da citazioni di autori antichi e in parte da alcune osservazioni cliniche; da altre fonti sappiamo che questo testo è stato pubblicato postumo sulla base degli appunti lasciati dal maestro.

Al-Maǧūsī rappresenta questi sviluppi come un processo privo di cesure dai Greci fino ai Musulmani, senza attribuire alcuna importanza ai passaggi da una lingua all'altra. Il ruolo dei Siri è però messo in luce dal fatto che in arabo per designare questo genere letterario, corrispondente alle 'sinossi' o 'pandette' greche, entrò nell'uso il termine kunnāš (compilazione, come già detto, o raccolta di scritti), derivato dal siriaco kūnāšā, che è già impiegato per i settanta libri di Oribasio. Fatta eccezione per l'opera di straordinario valore di al-Rāzī, le compilazioni degli autori menzionati da al-Maǧūsī, e di cui egli aveva a disposizione le traduzioni, si sono conservate solamente in citazioni arabe e sono state soppiantate con successo dallo stesso Libro regio e dal Canone di Avicenna. L'opera di Oribasio e di Paolo di Egina, per contro, ci è giunta nella versione greca integrale; con questi autori, infatti, l'opera di compilazione e di sistematizzazione realizzata a Bisanzio era giunta al termine. Forse intenzionalmente al-Maǧūsī non fa menzione del Firdaws al-ḥikma fī 'l-ṭibb (Il paradiso della saggezza in medicina) di ῾Alī ibn Rabban al-ṭabarī (m. 241/855 ca.). L'autore, un cristiano convertito all'Islam e, come al-Maǧūsī, originario della Persia, mescola materiale ippocratico e galenico con elementi magici tratti dalla medicina popolare della propria patria. Seguendo una prassi tipica della prima fase della medicina araba che sarà abbandonata in epoca successiva, al-Ṭabarī pone in appendice alla propria opera un capitolo sulla medicina indiana.

Il Libro regio di al-Maǧūsī fu attaccato con veemenza da Hibat Allāh ibn Ǧumay῾ al-Isrā᾽īlī (m. 594/1198), medico ebreo al servizio del sultano Saladino (Ṣalāḥ al-Dīn, 532-589/1138-1193), il quale lo accusò di aver contribuito al declino in cui versava all'epoca la medicina; a suo parere, infatti, coloro che la praticavano si accontentavano della comoda lettura di questo scritto anziché studiare le opere originali di Galeno. Fu quindi grazie alle prese di posizione di Ibn Ǧumay῾ e di quanti la pensavano come lui che, accanto ai manuali, si conservarono in gran numero anche i testi galenici tradotti alla scuola di Ḥunayn. L'esortazione ad fontes si ritrova dunque già nella cultura araba, assai prima che nel Rinascimento europeo. Tuttavia l'accusa di Ibn Ǧumay῾ risulta errata poiché il Libro regio, che divenne noto nella Scuola medica di Salerno grazie alla rielaborazione latina di Costantino l'Africano (m. 1087), favorì il progresso della medicina in quella scuola, anziché ostacolarlo. Il problema infatti non risiedeva tanto nell'uso di manuali, quanto nella mancata acquisizione di nuove conoscenze che rendesse indispensabile la compilazione di opere aggiornate; fenomeno, questo, che si era verificato all'epoca di Ibn Ǧumay῾ sia nel mondo islamico sia a Bisanzio dove, secondo quanto egli afferma, sotto l'influsso del cristianesimo l'arte medica era morta definitivamente. Ben diversa era stata la situazione nel IX e nel X sec., l'epoca di massima fioritura del califfato abbaside. Al fervere delle attività di traduzione e al tentativo di fornire sempre nuovi compendi generali, che erano già di per sé segno di una grande vivacità intellettuale, si accompagnava una ricca letteratura che in parte si limitava a sistematizzare il pensiero greco, seppure secondo nuove prospettive, in parte però si sforzava di percorrere nuove strade e di discutere criticamente la tradizione.

Le due voluminose opere di farmacologia di Galeno, il De compositione medicamentorum secundum locos ‒ che classifica i composti in base alla loro azione sulle parti del corpo malate ‒ e il De compositione medicamentorum per genera ‒ che li raggruppa in base al metodo di preparazione, distinguendo tra polveri, clisteri, pillole, supposte, suffumigi, pomate, gargarismi, cataplasmi, impacchi, ecc. ‒ divennero la base di una ricca letteratura farmacopeica in lingua araba. Per designare questo genere letterario entrò nell'uso il termine aqrabāḏīn, derivato dal greco graphídion (piccolo scritto). Uno dei primi ricettari arabi risale a Sābūr ibn Sahl (m. 255/868), un medico cristiano attivo presso l'ospedale della città persiana di Jundishapur e in seguito chiamato alla corte di Baghdad. Nel suo aqrabāḏīn, le singole ricette, in alcuni casi assai complicate, sono associate talvolta ai nomi altisonanti dei presunti inventori, tra cui si trovano, accanto a Galeno e ad altri medici greci, anche il filosofo Democrito, nonché re persiani e autori indiani. La struttura dell'opera è primitiva come quella di un ricettario di cucina, sin nella formula introduttiva: "Si prenda […]". Uno sviluppo alquanto singolare della farmacologia si ebbe con il filosofo al-Kindī (m. dopo il 256/870), il quale ritenne di poter estendere ai composti l'artificiosa dottrina galenica dei quattro gradi riguardante i rimedi semplici. Ne risultava una complicata matematica: nella ricetta i componenti caldi, freddi, secchi e umidi si potenziavano reciprocamente e la semplice progressione aritmetica dei quattro gradi galenici si trasformava così in una progressione geometrica nella proporzione di 2, 4, 8 e 16. È riconoscibile qui un fenomeno piuttosto tipico della ricezione della scienza greca da parte degli autori arabi, i quali credettero di poter costruire audaci edifici teorici senza rendersi conto di quanto il terreno fosse instabile e insicuro. Lo stesso Galeno si era saggiamente astenuto dall'applicare la propria teoria dei gradi ai rimedi composti, rinunciando altresì alla pretesa di fornire un calcolo esatto.

Un immane lavoro di traduzione delle opere di Galeno fu compiuto da Ḥunayn, il quale ebbe anche il merito di rendere accessibile a fini pedagogici le dottrine galeniche. Nello stile che all'epoca si preferiva, consistente nell'articolare il discorso in una serie di domande e risposte, Ḥunayn fornì un compendio dell'intera medicina intitolato al-Mudḫal fī 'l-ṭibb (Introduzione alla medicina) noto anche come Kitāb al-Masā᾽il fī 'l-ṭibb (Libro delle questioni sulla medicina). Egli lavorò a lungo all'opera, che rimase incompiuta e venne completata dopo la sua morte dal suo allievo e nipote Ḥubayš. Preziosi furono anche i riassunti che Ḥunayn compose di alcune singole opere galeniche, strutturati sempre in una sequenza di domande e risposte; egli raccolse inoltre le osservazioni sparse di Galeno e di altri autori in diverse monografie su argomenti specifici ‒ per esempio nel Kitāb al-῾Ašr maqālāt fī 'l-῾ayn (I dieci trattati sull'occhio). Ḥunayn si occupò di oftalmologia in un'altra opera, pure questa redatta secondo la forma domanda-risposta e dedicata ai figli Dāwūd e Isḥāq, medici anch'essi (quest'ultimo si distinse pure come traduttore, mentre il primo si limitò alla pratica della medicina). Il testo, di cui si conosce la versione araba, fu scritto originariamente in siriaco; lo si può affermare con certezza perché nella dedica Ḥunayn scrive di aver tradotto in siriaco alcuni scritti di Galeno per il figlio Isḥāq, affinché servissero come modello al suo lavoro. Gli scritti di Ḥunayn che sono giunti sino a noi in arabo sono spesso stati tradotti dai posteri e il merito va attribuito, tra gli altri, ad Abū 'l-Ḫayr al-Ḥasan ibn Suwār; egli rese in arabo in forma semplificata un testo di gerontologia che Ḥunayn aveva compilato raccogliendo dalle opere di Galeno e di Rufo una serie di osservazioni relative alla dieta degli anziani. Ḥunayn scriveva invece in arabo quando il destinatario dell'opera era un musulmano, come nel caso del trattato sulla differenza tra alimenti e purganti, dedicato al califfo al-Mu῾tamid (r. 256-279/870-892); dello scritto sulla dieta dei convalescenti, dedicato a Muḥammad ibn Mūsā; di quello sui bambini di otto mesi, dedicato a una concubina di al-Mutawakkil (r. 232-247/847-861). Stupefacente appare la quantità di temi non attinenti alla medicina affrontati da Ḥunayn, che si occupò di fenomeni quali le maree, il fuoco, ovvero le scintille che scaturiscono dallo sfregamento di due pietre, la salinità dell'acqua marina, l'arcobaleno, la nascita del pulcino dall'uovo; fu anche autore di una storia del mondo da Adamo sino ad al-Mutawakkil, nonché di varie opere di grammatica, logica e teologia. Perlopiù di questi testi ci sono giunti solo i titoli, ma qualcosa dei loro contenuti potrebbe essere confluita negli scritti degli autori più tardi che ebbero la possibilità di leggerli.

Oltre a Ḥunayn va menzionato un altro traduttore nonché autore di testi di medicina, Qusṭā ibn Lūqā (m. 300/913), scrittore prolifico non solo di testi medici. In quanto cristiano melchita, egli attaccò con notevole aggressività la dimostrazione della verità dell'Islam data in uno scritto dal suo mecenate, Abū 'l-Ḥasan ῾Alī ibn al-Munaǧǧim, cancelliere sotto al-Mutawakkil e fondatore di una biblioteca; si dimostrò invece più tollerante allorché accettò di scrivere un trattato speciale sui rischi per la salute che il pellegrinaggio alla Mecca poteva comportare. In questo scritto egli tratta diffusamente la dracunculosi, una malattia tropicale endemica della Città Santa, e sostiene l'appartenenza al regno animale del parassita che la provoca, capace di crescere nel corpo umano sino a raggiungere la lunghezza di mezzo metro; una tesi che in seguito sarebbe stata messa nuovamente in discussione da autori, come Avicenna, ossequiosi della tradizione medica greca. A Qusṭā si deve anche uno scritto sul contagio, il cui carattere specificamente cristiano non è di evidenza immediata, sebbene vi si trovi occasionalmente citato il padre della Chiesa Gregorio di Nazianzo. Come attestano vari ḥadīṯ (detti del Profeta), il Profeta aveva rifiutato come superstizione pagana l'idea del contagio, equiparandola a una forma di azione magica a distanza. Esso era tuttavia ben noto ai beduini, i quali, allevando cammelli, conoscevano bene il fenomeno sulla base della loro esperienza quotidiana. Nel credo di Muḥammad, Dio doveva essere la causa di tutto, anche dell'accadere della salute e della malattia. Peraltro, neppure la medicina greca aveva sviluppato un chiaro concetto del contagio, in quanto riconduceva tutto alle carenze nella dieta e agli influssi dannosi dell'ambiente. Nel voluminoso scritto intitolato Iḥyā᾽ ῾ulūm al-dīn (Rivificazione delle scienze religiose) nella sezione dedicata alla fiducia in Dio, il teologo musulmano al-Ġazālī (Algazel m. 505/1111 ca.) si riallacciò abilmente a questa insufficienza della medicina greca, affermando che i fattori dannosi devono agire per un tempo prolungato sul paziente per provocare l'insorgere di una malattia. Ma Qusṭā ibn Lūqā, che in quanto cristiano non era vincolato ai dettami del Profeta, fece ricorso a un'efficace similitudine, affermando che la malattia "come una scintilla" può trasmettersi da un individuo all'altro.

Nemmeno al-Rāzī fa riferimento all'ipotesi del contagio nella sua Risāla fī 'l-ǧudarī wa-'l-ḥaṣba (Epistola sul vaiolo e il morbillo), uno scritto giustamente famoso in cui per la prima volta viene distinto con chiarezza il quadro clinico delle due malattie e in cui tutto è ricondotto al deterioramento degli umori del corpo. Tuttavia, in un testo di critica a Galeno, al-Rāzī afferma, in forma programmatica e con una determinazione che non è dato ritrovare in alcuno degli autori successivi, che occorre andare al di là delle opere greche tradotte e recepite nel mondo arabo. Con una pregnante similitudine, i posteri vengono paragonati a quanti hanno ereditato un capitale che li pone in condizione di ampliare ulteriormente il patrimonio ricevuto: come Galeno aveva criticato i suoi predecessori, allo stesso modo doveva essere possibile correggere anche le sue opinioni. Egli sostiene che sulla base delle esperienze da lui compiute in qualità di direttore d'ospedale, non sempre è possibile confermare le osservazioni cliniche di Galeno. Così, pur ritenendo il capolavoro filosofico di Galeno, il De demonstratione ‒ di cui purtroppo si conoscevano solamente alcuni frammenti ‒ "il libro più significativo e più utile dopo le Sacre Scritture rivelate", al-Rāzī mette in evidenza le contraddizioni in cui il medico greco era caduto, confrontando singole affermazioni tratte da vari scritti. Alla luce dei suoi principî, vicini al manicheismo, egli mette in dubbio le idee scettiche di Galeno in merito all'essenza dell'anima umana, ponendone in risalto le contraddizioni interne. Secondo le concezioni galeniche, per esempio, la scimmia sarebbe dotata di un corpo ridicolo a causa della sua anima ridicola, presupponendo una priorità ontica dell'anima, tesi confutata dallo stesso Galeno. Neppure gli argomenti contro l'atomismo appaiono convincenti ad al-Rāzī che vi oppone alcuni suoi esperimenti realizzati con una siringa per clisteri riempita d'aria, con bottiglie di vetro e con specchi. Egli prende in esame inoltre l'antico errore, presente già in Ippocrate, secondo cui l'acqua delle fonti e l'aria nelle cantine sarebbero più calde in inverno che in estate, riconducendolo alla relatività delle nostre percezioni. Con nobile riserbo al-Rāzī respinge infine l'idea di Galeno secondo la quale il greco sarebbe l'unica lingua veramente umana. Aleggia qui uno spirito ben diverso da quello che troveremo in seguito nella medicina araba, quando Galeno verrà considerato 'il suggello dei medici' così come Muḥammad sarebbe 'il suggello dei profeti', che conferma la chiamata di quanti l'hanno preceduto, ma dopo il quale non potrà esserci alcun altro profeta.

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