La civiltà islamica: osservazioni, calcolo e modelli in astronomia. Il primo periodo dell'astronomia islamica

Storia della Scienza (2002)

La civilta islamica: osservazioni, calcolo e modelli in astronomia. Il primo periodo dell'astronomia islamica

Régis Morelon

Il primo periodo dell'astronomia islamica

Le fonti dell'astronomia araba

La prima introduzione dell'astronomia in arabo: le tavole indiane

Secondo le biobibliografie arabe, il primo studioso a occuparsi d'astronomia fu Muḥammad ibn Ibrāhīm al-Fazārī (seconda metà dell'VIII sec.), vissuto all'inizio del regno degli Abbasidi. Il suo nome è legato a un famoso aneddoto. Verso il 770 il califfo al-Manṣūr ricevette a Baghdad una delegazione indiana di cui faceva parte un astronomo. Non ci viene detto il suo nome, ma la tradizione vuole che costui avesse portato con sé almeno una tavola astronomica scritta in sanscrito, e che essa fosse adattata e trascritta in arabo con il titolo di Zīǧ al-Sindhind (Tavole astronomiche indiane), sotto diretta dettatura dell'astronomo indiano. Sarebbe stato proprio al-Fazārī ad assumersi questo incarico, insieme con Ya῾qūb ibn Ṭāriq. Qualunque sia il valore che si voglia attribuire ai dettagli dei fatti raccontati in questa storia, i due autori ci sono presentati da tutti i loro successori come coloro che furono all'origine dell'introduzione dell'astronomia nel mondo arabo: si trattava di un'astronomia di origine indiana.

Le opere di al-Fazārī e di Ya῾qūb ibn Ṭāriq sono andate perdute, ma ne abbiamo alcuni frammenti conservati da autori posteriori. Sappiamo che il primo aveva composto uno Zīǧ al-Sindhind al-kabīr (Le grandi tavole astronomiche indiane) e le citazioni che ne fanno gli autori successivi mostrano che al-Fazārī mescolava ai parametri indiani elementi di origine persiana, derivanti dagli Zīǧ al-Šāh (Tavole astronomiche reali).

Ci sono rimaste tracce di tre opere di Ya῾qūb ibn Ṭāriq: gli Zīǧ al-maḥlūl fī 'l-Sindhind li-daraǧa daraǧa (Tavole astronomiche risolte in India grado per grado), il Tarkīb al-aflāk (Struttura delle sfere [celesti]) e il Kitāb al-῾Ilal (Libro delle cause); le basi del ragionamento sono chiaramente le medesime di quelle del suo contemporaneo al-Fazārī. I due autori ebbero il grande merito d'introdurre le tavole astronomiche in arabo, ma le loro opere ‒ almeno a giudicare da ciò che ne è rimasto ‒ sembrano una compilazione basata sugli elementi che avevano a loro disposizione, senza verifiche osservative e senza alcuna ricerca di una vera coerenza interna.

Questi astronomi arabi della prima generazione fanno riferimento a tre testi indiani: l'Āryabhaṭīya, scritto da Ārya-bhaṭa nel 499, che è citato dagli Arabi come al-Arǧabhar; il Khaṇḍakhādyaka di Brahmagupta (m. dopo il 665), citato come Zīǧ al-Arkand; e il Mahāsiddhānta, composto verso la fine del VII o l'inizio dell'VIII sec., noto in arabo col nome di Zīǧ al-Sindhind. Tali opere sono in parte basate su cicli di anni corrispondenti alla cosmologia indiana e la loro tradizione scientifica si ricollega probabilmente all'astronomia ellenistica pretolemaica e hanno di conseguenza conservato una serie di elementi che si potrebbero far risalire a Ipparco. Vi si trovano pochi sviluppi teorici, ma diversi metodi di calcolo per compilare tavole e numerosi parametri del moto degli astri. La grande innovazione scientifica degli studiosi indiani in questo campo fu rappresentata dall'introduzione nei calcoli trigonometrici del seno (la semicorda dell'arco doppio) al posto delle corde d'arco ‒ utilizzate nell'astronomia greca fin dai tempi di Ipparco ‒ il che rese assai meno pesante tale genere di calcolo.

La prima opera di astronomia araba che, sia pur rimaneggiata, ci sia stata trasmessa nella sua totalità è il testo di Muḥammad ibn Mūsā al-Ḫwārizmī, che reca anch'esso il titolo di Zīǧ al-Sindhind e che si inscrive nella tradizione precedente, inserendovi elementi di astronomia tolemaica. Il testo arabo è andato perduto ma la sua trasmissione è avvenuta grazie a una traduzione latina eseguita nel XII sec. da Adelardo di Bath, sulla base di una revisione del testo originale effettuata nell'Andalus da al-Maǧrīṭī.

Al-Ḫwārizmī visse tra la fine dell'VIII e la metà del IX sec.; la sua fama di matematico è legata soprattutto all'opera algebrica. Il suo trattato di astronomia, composto durante il califfato di al-Ma᾽mūn (813-833), non contiene alcun elemento teorico; si tratta di una raccolta di tavole, di cui sono fornite le necessarie istruzioni per l'uso, sui movimenti del Sole, della Luna e dei cinque pianeti allora conosciuti. La maggior parte dei parametri utilizzati sono di origine indiana, così come i metodi di calcolo che vi sono descritti ‒ in particolare, l'utilizzazione dei seni. Alcuni elementi sono comunque ripresi dalle tavole di Tolomeo, senza tuttavia uno sforzo di armonizzare i diversi risultati, indiani e tolemaici. Un problema analogo, come abbiamo accennato, si trovava già in al-Fazārī e in Ya῾qūb ibn Ṭāriq, che utilizzavano contemporaneamente fonti indiane e persiane.

Queste tradizioni indiane contemplavano dunque soltanto metodi di calcolo e un gioco di parametri per la compilazione di tavole. Nel corso del IX sec. esse passeranno rapidamente in secondo piano fra gli astronomi arabi di Baghdad, a vantaggio dello studio dell'astronomia tolemaica, ricca di elementi teorici e che per questo permetteva lo sviluppo dell'astronomia in quanto scienza esatta. La tradizione indiana conserverà tuttavia un'influenza non trascurabile nelle compilazioni di tavole astronomiche effettuate nell'Occidente musulmano (al-Andalus e Maghreb).

Le fonti greche dell'astronomia araba

In questo campo ci troviamo di fronte a due tipi di fonti. Da un lato quelle dell'astronomia 'fisica' ‒ nel senso antico del termine ‒ dall'altro quelle dell'astronomia 'matematica'.

L'astronomia 'fisica' ha per oggetto la ricerca di una rappresentazione materiale globale dell'Universo, a partire da una riflessione puramente qualitativa: fu qui dominante l'influenza di Aristotele, con la sua coerente organizzazione del Cosmo in sfere tangenti concentriche, disposte l'una dopo l'altra intorno al loro centro comune, in cui si trova ‒ immobile ‒ la Terra. La prima sfera celeste è quella della Luna: il mondo sublunare è il mondo della generazione e della corruzione, mentre quello sopralunare è il mondo della permanenza e del moto circolare uniforme, il solo che si addica alla perfezione della natura dei corpi celesti. Ogni astro ha una sua sfera che lo muove, fino alla sfera delle stelle fisse che abbraccia e chiude l'Universo.

L'astronomia 'matematica' ha invece per oggetto la ricerca di una rappresentazione geometrica dell'Universo, sulla base di osservazioni precise e di parametri numerici, facendo, eventualmente, astrazione della sua compatibilità con una coerenza del mondo di tipo 'fisico'. Il suo scopo è trovare modelli geometrici parametrizzabili in grado di dar conto dei fenomeni celesti osservati e misurati e che possano permettere di calcolare la posizione degli astri in un dato istante e di compilare le tavole dei loro movimenti.

La storia dell'astronomia scientifica antica si è formata, almeno in parte, proprio sulla tensione fra questi due diversi approcci a una stessa scienza. In particolare, fu nel contesto della scienza ellenistica ‒ soprattutto a partire da Ipparco (150 a.C. ca.), il quale riprese l'opera di Apollonio, risalente a circa mezzo secolo prima ‒ che l'astronomia scientifica si sviluppò, trovando poi il suo coronamento con Tolomeo. Furono senza dubbio le sue opere astronomiche a essere, fino al XVII sec., le più studiate, riviste, commentate e criticate. Esse sono, nell'ordine di composizione, l'Almagesto o Syntaxis mathematica (in greco Megiste Syntaxis), le Ipotesi planetarie, le Phaseis e le Tavole facili.

L'Almagesto ci è stato trasmesso nell'originale greco e in varie traduzioni arabe: può essere considerato come il manuale standard che giocò lo stesso ruolo che ebbero in matematica gli Elementi di Euclide. Basterà ricordare che si tratta di un'opera monumentale in tredici libri, in cui Tolomeo sintetizza i lavori dei suoi predecessori, modificandoli in base alle sue osservazioni, affinando i modelli geometrici esistenti o creandone di nuovi. Non è un caso che nel titolo originale dell'opera compaia il termine 'matematica': Tolomeo infatti, pur tenendone implicitamente conto, fa ben poche allusioni alla costituzione fisica dell'Universo. Stabilisce invece nel dettaglio le procedure geometriche che possono spiegare i fenomeni osservati, sulla base dei due postulati dell'astronomia antica: la Terra è immobile al centro del mondo e ogni movimento celeste deve essere spiegato per mezzo di una composizione di moti circolari uniformi.

Il metodo da lui seguito è così definito:

a) raccogliere il maggior numero di osservazioni precise;

b) individuare le anomalie del movimento osservato rispetto a un moto circolare uniforme;

c) scoprire le leggi che permettano di capire come si compongono i periodi e le grandezze di tali anomalie;

d) combinare moti circolari uniformi utilizzando cerchi concentrici o eccentrici ed epicicli per poter dar conto dei fenomeni osservati;

e) calcolare i parametri di questi moti in modo tale da poter costruire tavole che permettano di calcolare la posizione degli astri.

Si tratta di un metodo che Tolomeo spiega in modo molto preciso; tuttavia la sua volontà di 'salvare i fenomeni' lo porta, nella pratica, a fare violenza ai suoi principî di base, fino a 'tingere' di empirismo alcune dimostrazioni. Tutto ciò lo riconosce egli stesso nell'ultimo libro dell'Almagesto: "Ci si deve sforzare di far coincidere meglio che si può le ipotesi più semplici con i movimenti celesti; ma, se non ci si riesce, bisogna adottare ipotesi che si adattino ai fatti" (ed. Halma, p. 374).

In questa ricerca di modelli geometrici egli si basò sui sistemi di epicicli e di eccentrici che aveva sviluppato Ipparco, che a sua volta seguiva Apollonio. La Terra si trovi immobile in T, posizione dell'osservatore; nel sistema basato su un eccentrico semplice, l'astro M si muove sul cerchio MAP di moto circolare uniforme intorno al centro O, ma l'osservatore constaterà un moto apparente diverso a seconda che l'astro si trovi all'apogeo A o al perigeo P. Questo modello geometrico può essere applicato per spiegare il moto apparente del Sole. Nel sistema regolato da un epiciclo semplice, si immagini che l'osservatore si trovi in T, al centro di un cerchio CDF, il cosiddetto 'deferente', lungo il quale si muove il centro C di un cerchio più piccolo, l''epiciclo'. Lungo la circonferenza di questo cerchio minore si muove in modo concorde a sua volta l'astro M. I due moti circolari sono entrambi uniformi e il moto del centro C corrisponde al moto medio del pianeta. Questo sistema epiciclico ‒ al pari di quello eccentrico ‒ può dar conto delle differenze di distanza dell'astro dalla Terra. Ma, soprattutto, riesce a spiegare il moto apparentemente retrogrado di certi pianeti in modo di gran lunga più convincente che in un sistema costituito unicamente da sfere materiali concentriche: quando il pianeta si trova in P e il suo moto apparente sull'epiciclo è più veloce di quello di C, il moto complessivo sarà retrogrado; per contro, quando si trova in A, i due moti apparenti si sommano e all'osservatore in T sembrerà che il pianeta abbia un moto più veloce di quello di C.

Questo sistema di epicicli è molto flessibile e si presta a combinazioni complesse degli elementi in gioco: il deferente CDF potrà essere pensato come un eccentrico rispetto alla Terra e addirittura gli si potrà attribuire un moto circolare intorno a T. In questo modo si possono costruire modelli molto complicati, come quello della Luna o di Mercurio. Per i pianeti superiori (Marte, Giove e Saturno), Tolomeo prende un deferente eccentrico CDF di centro O, anche se l'osservatore si trova in T. Afferma poi che l'uniformità del moto del centro C dell'epiciclo non è riferita al punto O, ma a un punto E, scelto in modo che O venga a trovarsi nel punto di mezzo di TE. Il punto E, così scelto, è detto il 'punto equante'. Con questo artificio si può ottenere un migliore accordo fra il modello teorico e le osservazioni, ma si entra in contraddizione con il principio di base che postula movimenti circolari uniformi.

In questo modo è possibile trovare in cielo la posizione dei vari pianeti: basta calcolare, sulla base delle osservazioni, i diversi parametri in gioco: eccentricità, misure relative dei raggi e moti sui vari cerchi.

Le Ipotesi planetarie ci sono state trasmesse in arabo, anche se disponiamo di circa un quarto del testo greco originale. È un lavoro molto più breve dell'Almagesto e ha un tono molto diverso. Proprio all'inizio dell'opera Tolomeo ricorda i modelli geometrici che ha proposto nell'Almagesto, ma ‒ come vedremo fra un attimo ‒ li presenta in modo differente. Calcola poi le distanze massime e minime degli astri in funzione dei dati forniti e divide l'Universo in zone concentriche, ciascuna delle quali corrisponde al luogo in cui può muoversi un dato astro. Sotto la sfera della Luna colloca, aristotelicamente, le sfere del fuoco, dell'aria, dell'acqua e della terra. Nel seguito del testo, il punto di vista non è più 'matematico' ma 'fisico', nel senso che abbiamo illustrato sopra. Cerca infatti di descrivere la forma dei corpi materiali, al cui interno possono essere concepiti i cerchi con cui si riesce a dar conto dei vari movimenti come espressione della costituzione fisica dell'Universo reale. Suddivide così l''etere' in 'orbi' dotati di spessore, che si toccano l'un l'altro. Verrebbe da pensare al sistema aristotelico di sfere omocentriche, ma Tolomeo considera anche sfere eccentriche, complicando la sua descrizione. Sembra infatti di essere di fronte a un compromesso fra un sistema puramente geometrico e un sistema materiale, quale quello definito da Aristotele. In altre parole, Tolomeo aveva tentato di incarnare la sua teoria in un sistema 'fisico' concreto. Tuttavia, le Ipotesi planetarie avranno un'influenza assai meno marcata dell'Almagesto, se si eccettuano i calcoli della misura e delle distanze degli astri, che saranno ampiamente accettati dagli astronomi successivi.

Le Phaseis trattano dell'apparizione e della scomparsa delle stelle fisse, subito prima dell'alba o subito dopo il tramonto. Quest'opera si compone di due parti, di cui soltanto la seconda ci è pervenuta in greco e contiene un calendario delle apparizioni e degli occultamenti delle stelle nel corso dell'anno. Il contenuto della prima parte ‒ un'analisi teorica di questo fenomeno ‒ ci è noto unicamente attraverso un testo arabo.

Le Tavole facili ci sono state trasmesse in greco attraverso l'edizione curata da Teone di Alessandria nel IV sec. (Commento alle Tavole facili). Si tratta di un'esposizione in forma pratica dei risultati teorici dell'Almagesto, attraverso la presentazione di tavole dettagliate, anche se alcuni parametri sono modificati sulla base dei risultati delle Ipotesi planetarie nonché delle Phaseis.

Tutte queste opere sono citate dagli astronomi arabi a partire dal IX sec., insieme ai commenti all'Almagesto composti da Pappo e da Teone. Inoltre, gli Arabi conobbero una serie di trattati greci, noti come 'piccola astronomia', in quanto considerati propedeutici alla lettura dell'Almagesto: i Dati, l'Ottica, la Catottrica e i Fenomeni di Euclide; gli Sphaerica, le Abitazioni e I giorni e le notti di Teodosio; La sfera in movimento e Il sorgere e il tramontare degli astri di Autolico; il trattato di Aristarco di Samo Sulle grandezze e le misure del Sole e della Luna; le Ascensioni di Ipsicle; gli Sphaerica di Menelao.

L'introduzione dell'astronomia greca nel mondo arabo

I dodici piccoli trattati in greco che abbiamo appena ricordato furono tradotti nel corso del IX sec. da scienziati assai dotati, che conoscevano bene sia il greco sia l'arabo: Ḥunayn ibn Isḥāq (m. 877), suo figlio Isḥāq ibn Ḥunayn (m. 911), Ṯābit ibn Qurra (211-288/826-901) e Qusṭā ibn Lūqā (m. inizio X sec.). Anche le quattro opere astronomiche di Tolomeo che abbiamo descritto sopra furono tradotte in arabo durante la stessa epoca. La più importante di tutte è l'Almagesto, data l'influenza che esercitò sull'astronomia araba lungo tutto il corso della sua storia. Fu tradotto più volte, come osserva Ibn al-Ṣalāḥ, che scrive nel XII sec.:

Ci sono state cinque versioni dell'Almagesto, diverse come lingua e come traduzione. C'è una redazione siriaca, tradotta dal greco; una seconda tradotta dal greco all'arabo per il califfo al-Ma᾽mūn da al-Ḥasan ibn Qurayš; una terza tradotta (sempre per al-Ma᾽mūn) dal greco all'arabo da al-Ḥaǧǧāǧ ibn Yūsuf ibn Maṭar (m. 835 ca.) e Halyā ibn Sarǧūn; una quarta tradotta dal greco all'arabo per Abū 'l-Ṣaqr ibn Bulbul da Isḥāq ibn Ḥunayn (e ne possiedo l'originale, scritto di suo pugno); e infine una quinta, che è la revisione di Ṯābit ibn Qurra della traduzione di Isḥāq ibn Ḥunayn. (p. 155)

Di queste cinque traduzioni, tre sono da considerarsi perdute: la prima (la traduzione siriaca anonima); la seconda, la traduzione araba di al-Ḥasan ibn Qurayš (ma di cui restano tracce, in particolare nell'opera di al-Battānī del X sec.); e la quarta, cioè il testo della traduzione di Isḥāq ibn Ḥunayn, prima che fosse rivisto da Ṯābit. Possediamo invece i manoscritti della terza e della quinta versione: quella condotta da al-Ḥaǧǧāǧ per ordine di al-Ma᾽mūn verso l'827-828 e la revisione di Ṯābit ibn Qurra. All'elenco fatto da Ibn al-Ṣalāḥ bisogna poi aggiungere un'ulteriore revisione ‒ o, meglio, una nuova redazione ‒ dell'Almagesto. Si tratta di una versione più tarda, eseguita da Naṣīr al-Dīn al-Ṭūsī sulla stesura di Isḥāq ibn Ḥunayn verso la metà del XIII secolo. Questa redazione fu ampiamente diffusa nelle epoche successive fra gli astronomi di lingua araba.

Mettiamo a confronto le due versioni del IX sec. che ci sono pervenute. Quella di al-Ḥaǧǧāǧ è molto vicina al testo greco e la struttura della frase originaria è conservata nella maggioranza dei casi; il vocabolario scientifico arabo che è utilizzato resta a volte oscillante. Questa caratteristica costringe in molti casi a ricorrere al testo originale per riuscire a seguire il ragionamento. Furono tali carenze nella traduzione di un testo assolutamente fondamentale che portarono alla redazione di Isḥāq-Ṯābit, eseguita verso la metà del secolo. Erano trascorsi più di cinquant'anni di ricerche sull'astronomia scientifica ellenistica, e ciò si evince chiaramente da questa seconda versione: per leggerla, non è più necessario far riferimento al testo greco; la lingua e il vocabolario arabi sono perfettamente chiari e permettono di esprimere ogni concetto senza ambiguità. Disponiamo così di due punti di riferimento precisi che ci permettono di vedere come nel corso del IX sec., fra l'827 e l'892 si fosse costituito un linguaggio scientifico atto a esprimere in arabo le problematiche astronomiche. Bisogna ricordare che alcuni manoscritti arabi dell'Almagesto contengono una mescolanza delle due versioni principali, quella di al-Ḥaǧǧāǧ e quella di Isḥāq-Ṯābit: il copista scelse l'una o l'altra secondo la natura dei vari brani, probabilmente in funzione di quella che gli sembrava più chiara.

Non abbiamo informazioni altrettanto precise sulla traduzione delle altre tre opere di Tolomeo. Le Ipotesi planetarie sono citate a partire almeno dalla metà del IX sec., con il nome di Kitāb al-Iqtiṣāṣ o Kitāb al-Manšūrāt (in particolare da al-Bīrūnī). Ne possediamo una sola traduzione che ci ha conservato gli ultimi tre quarti di quest'opera, persi in greco. Il nome del traduttore non è noto, ma uno dei manoscritti che la contengono segnala che il testo fu rivisto da Ṯābit ibn Qurra.

Le Phaseis sono citate da Ṯābit ibn Qurra con il titolo di Kitāb fī ẓuhūr al-kawākib al-ṯābita (Libro dell'apparizione delle stelle fisse). Dato che Ṯābit conosceva il greco, questa citazione non basterebbe da sola a garantire che il testo fosse stato tradotto. Ma al-Mas῾ūdī (m. 345/956 ca.) ne cita una traduzione araba e Sinān ibn Ṯābit (m. 332/943) la utilizza nel Kitāb al-Anwā᾽. Questa traduzione araba delle Phaseis (effettuata dunque all'inizio del X sec. al più tardi) sembra perduta, ma gli astronomi arabi la citano frequentemente.

Le Tavole facili di Tolomeo furono, come abbiamo visto, utilizzate da al-Ḫwārizmī e, successivamente, da Qusṭā ibn Lūqā verso la metà del IX sec. nella Hay᾽at al-aflāk (Configurazione delle sfere celesti). Ne troviamo tracce ulteriori in molti altri autori, ma non disponiamo più della loro versione araba e non sappiamo nemmeno in quali circostanze furono tradotte.

Possiamo infine aggiungere che, nel contesto dell'astronomia tolemaica, fu tradotto anche il commento di Teone all'Almagesto che fu disponibile in arabo dal IX sec., dato che ne troviamo lunghe citazioni letterali nell'opera Kitāb fī 'l-ṣinā῾a al-῾uẓmā (Libro sulla grande arte) di Ya῾qūb ibn Isḥāq al-Kindī (m. 873 ca.). Tuttavia la traduzione araba dell'opera di Teone non ci è pervenuta.

Nei prossimi paragrafi presenteremo i lavori dei primi astronomi risalenti al periodo in cui l'astronomia araba rimase inserita nel quadro di quella tolemaica. A questo scopo dovremo preliminarmente descrivere i modelli proposti da Tolomeo, così come questi li espone nell'Almagesto e nelle Ipotesi planetarie, dato che spesso sono presentati in modo assai diverso nei due testi. In effetti, nell'Almagesto Tolomeo era preoccupato soprattutto della costruzione delle tavole per ogni singolo astro, mentre nelle Ipotesi egli cerca di descrivere modelli geometrici che possano più facilmente essere inglobati in una descrizione 'fisica' dell'Universo.

I modelli geometrici di Tolomeo

Nel Libro III dell'Almagesto Tolomeo descrive il modello che gli permette di spiegare il moto solare e mostra che è possibile proporre indifferentemente l'uno o l'altro dei due modelli principali: quello eccentrico e quello epiciclico. Preferirà poi quello eccentrico, in quanto più semplice per la compilazione delle tavole.

La Terra si trova in T, il centro del mondo. L'eccentrico ha centro in O e il Sole descrive il cerchio ABPC muovendosi di moto circolare uniforme. Il suo movimento apparente, per un osservatore sulla Terra, è però irregolare. Tolomeo constata che questo moto visto da T appare più veloce quando il Sole si trova nel perigeo P e più lento quando è all'apogeo A. Nelle Ipotesi planetarie Tolomeo fornisce esattamente lo stesso modello per il Sole.

Bisogna segnalare fin d'ora che Tolomeo non aveva legato gli orbi del Sole e della Luna al moto di precessione degli equinozi, come invece avviene per tutti gli altri astri.

Il moto della Luna è assai più complesso di quello del Sole. A Tolomeo occorrono ben due libri (il IV e il V dell'Almagesto) per venirne a capo, dato che il modello che propone è trovato per approssimazioni successive.

fig. 4

La Terra è immobile in T, centro del mondo (fig. 4). Intorno a questo punto si muove di moto uniforme il cerchio APC, eccentrico mobile. Il centro di APC è D, l'apogeo A e il perigeo P. O′ è la posizione del 'Sole medio'. C è il centro dell'epiciclo che trasporta la Luna che si trova in L e l'uniformità del moto di C è relativa al punto T. La direzione TC è quella della 'Luna media' L′. La retta TO′ è costantemente la bisettrice dell'angolo ATC e la distanza angolare fra C e A risulta uguale ‒ vista da T ‒ al doppio di LO′, l'elongazione media Luna-Sole. Il punto D si muove su un cerchio di centro T e di raggio TD; il punto D′, detto 'punto di prosneusi', è diametralmente opposto a D su tale cerchio. La retta DC taglia una seconda volta l'epiciclo della Luna in E e tale punto E è preso come un'origine mobile per la misura dello spostamento della Luna sull'epiciclo. Il moto segue il senso delle frecce indicate in figura. Questo modello geometrico permette di dar conto in modo abbastanza soddisfacente ‒ almeno nella misura in cui ci si interessa alla costruzione di tavole ‒ del moto lunare longitudinale osservato.

Le Ipotesi planetarie propongono invece un modello assai differente, costituito da quattro cerchi posti su piani diversi. Il cerchio I ha centro nella Terra e si trova sul piano dell'eclittica. Il cerchio II ha stesso centro e raggio di I ma il suo piano è inclinato di 5° rispetto all'eclittica: è il cerchio sul quale l'osservatore terrestre osserva muoversi la Luna nella sfera celeste. I due 'nodi' (le intersezioni Ω edi I e II) si muovono sul cerchio I in senso opposto a quello dei segni zodiacali. Il cerchio III si trova nel piano del cerchio II cui è tangente in A e questo apogeo si muove lungo il cerchio II nello stesso verso di quello della successione dei segni. Il cerchio IV è l'epiciclo di centro C, che si muove seguendo la successione dei segni sul cerchio III e rimanendo nel piano di quest'ultimo.

Questa descrizione è in effetti una semplificazione del modello dell'Almagesto: si osserva, in particolare, che il moto di prosneusi è stato eliminato. Si può dunque constatare che le quattro sfere sembrano essere state introdotte in modo da spiegare il moto della Luna in vista di una composizione 'fisica' dell'Universo e ciò è molto più difficile da fare nel contesto del modello proposto dall'Almagesto.

L'Almagesto propone per Mercurio un modello ancora più complesso che ci limiteremo a descrivere in maniera semplificata. Si tracci la retta TEFA con TE=EF. Con centro F e raggio FE, si tracci un circoletto su cui si muoverà il centro O dell'eccentrico che trasporta l'epiciclo di centro C. Il punto C si muove di moto circolare uniforme intorno al punto E, l'equante, in modo che l'angolo AEC resti sempre uguale all'angolo AFO.

Nelle Ipotesi planetarie questo modello è spiegato sotto forma di composizione di sei cerchi. Il cerchio I si trova nel piano dell'eclittica. Il cerchio II è inclinato rispetto al primo ed è soggetto al solo movimento di precessione. Il cerchio III è eccentrico e fisso rispetto al precedente. Il punto M, soggetto al solo moto di precessione, è l'apogeo assoluto. Il cerchio IV, eccentrico, è tangente al cerchio III in A, l'apogeo relativo che si muove con la stessa velocità angolare del Sole medio, ma in senso inverso. Il cerchio V è l'epiciclo che si muove lungo la direzione della successione dei segni in modo da far rimanere il suo centro C nella direzione del Sole medio. Il cerchio VI, che ha centro C e lo stesso raggio del cerchio V, è quello lungo il quale si sposta Mercurio, un piccolo orbe inclinato. I cerchi V e VI si intersecano in due punti N1 e N2 che si muovono sul cerchio V. Ritroviamo qui, come nel caso della Luna, l'insieme delle sfere che servono a spiegare fisicamente il moto di Mercurio.

Nell'Almagesto i pianeti superiori (Saturno, Giove, Marte) e Venere hanno modelli simili e sono molto più semplici di quelli della Luna e di Mercurio. La Terra si trova in T, il centro del deferente eccentrico è O. Il punto E è posto sulla retta passante per T e O in modo tale che TO=OE. E è l'equante e il moto uniforme del centro C dell'epiciclo avviene intorno al punto E. Il pianeta si trova in P sul suo epiciclo.

Nelle Ipotesi planetarie troviamo cinque cerchi, disposti in modo analogo a quelli di Mercurio, ma con un solo eccentrico. Il cerchio I si trova nel piano dell'eclittica; il cerchio II è inclinato rispetto a esso ed è soggetto al solo moto di precessione. Il cerchio III è eccentrico, tangente in M al cerchio II e il punto M è soggetto al solo moto di precessione. Il cerchio IV è quello dell'epiciclo, il cui centro C resta nella direzione del Sole medio. Il cerchio V è il piccolo orbe inclinato su cui si sposta il pianeta. I cerchi IV e V si intersecano in N1 e N2. Nel caso di Venere questi due punti si spostano lungo l'epiciclo; ma in quello di Saturno, Giove e Marte, la retta N1N2 rimane parallela al piano dell'eclittica: è la sola differenza fra il modello venusiano e quello dei pianeti superiori.

L'astronomia del IX secolo

I due periodi dell'astronomia araba a partire dal IX secolo

La storia dell'astronomia araba può essere suddivisa grosso modo in due periodi gravitanti intorno all'XI secolo. Dal IX all'XI sec. la ricerca si svolse quasi esclusivamente nel contesto degli schemi geometrici ereditati da Tolomeo, rivisti e criticati sulla base di nuove osservazioni. L'XI sec. rappresenta un momento di bilancio, soprattutto con l'opera di Ibn al-Hayṯam (m. 430/1040 ca.). Nella Maqāla fī 'l-šukūk ῾alā Baṭlamiyūs (Dubbi su Tolomeo) l'autore esamina sinteticamente il corpus scientifico accumulatosi nei due secoli precedenti, elencando tutte le incoerenze dell'Almagesto, delle Ipotesi planetarie e dell'Ottica di Tolomeo, che la ricerca aveva messo in evidenza ma non aveva ancora risolto. In questa operetta, tuttavia, Ibn al-Hayṯam non proponeva alcuna soluzione ai problemi sollevati.

Tale bilancio critico condusse, almeno temporaneamente, in un vicolo cieco: non poteva infatti esserci alcuna soluzione senza uscire dal quadro del sistema tolemaico in cui l'astronomia era rimasta chiusa fino ad allora. Emersero due tipi molto diversi di risposta a questa situazione: la prima nell'Occidente musulmano, l'altra nell'Oriente musulmano.

Nell'Occidente si sviluppò una scuola astronomica che cercò una risposta nel ritorno ai principî aristotelici: bisognava cioè abbandonare epicicli ed eccentrici e ritornare alle sfere omocentriche, molto più coerenti dal punto di vista dell'astronomia fisica. Fu al-Biṭrūǧī (m. 1204 ca.) il rappresentante più caratteristico di tale scuola; le sue basi, però erano quasi esclusivamente filosofiche ed era quindi impossibile effettuare un qualsiasi calcolo a partire dalle sue conclusioni o verificarle per mezzo di osservazioni numeriche. Questa strada condusse così in un altro vicolo cieco, anche se l'approccio filosofico soggiacente rimane comunque interessante.

In Oriente la risposta fu di tipo astronomico: nacque il cosiddetto 'secondo periodo dell'astronomia araba', durante il quale per rinnovare la spiegazione del moto dei corpi celesti si sviluppò una ricerca di nuovi modelli di epicicli ed eccentrici, pur sempre geocentrici, ma non più tolemaici.

I metodi di lavoro e le loro conseguenze

Quando, a partire dall'inizio del IX sec., i testi greci furono tradotti a Baghdad, si rese necessaria la creazione di una tradizione di ricerca scientifica in lingua araba. Questo processo investì tutti i campi delle scienze esatte, e l'astronomia non fece eccezione. Tale disciplina era una scienza ormai morta da molti secoli nel bacino mediterraneo: non si dispone che di qualche isolata registrazione di osservazione di eventi astronomici fra il III e l'VIII secolo. I successori greci di Tolomeo non furono, sostanzialmente, altro che commentatori. La tradizione della pratica astronomica era insomma segnata da una marcata discontinuità. Quando, durante il califfato di al-Ma᾽mūn, si volle farla rivivere, ci si trovò di fronte a fonti scritte di origine chiaramente ellenistica, ma anche alla necessità di riscoprire quali basi e quali metodi fossero adatti e opportuni per le discipline astronomiche. Si trattava, in pratica, di crearli di nuovo. I risultati che ne seguirono portarono a un notevole miglioramento rispetto all'originario modello ellenistico e tutto lo sviluppo successivo dell'astronomia araba dipende da questo punto iniziale. Possiamo descrivere così le sue tre caratteristiche principali:

1) L'importanza delle osservazioni e la continua interrelazione fra sviluppi teorici e osservazioni. Fin dalla fondazione dei primi due osservatori arabi, a Baghdad e a Damasco, si sviluppò un programma di rilevazioni molto preciso. A Damasco, il Sole e la Luna furono osservati per un intero anno (831-832), giorno dopo giorno. Da questa impostazione nasceranno poi i grandi osservatori che praticavano rilevazioni continue su lunghi periodi di anni: dai primi due ‒ Damasco e Baghdad ‒ fino a quello di Marāġa e di Samarcanda, rispettivamente nel XIII e nel XV secolo. Nell'astronomia ellenistica non esisteva una simile tradizione osservativa e in Tolomeo troviamo soltanto risultati relativi a rilevazioni puntuali. La pratica della rilevazione continua è una creazione degli astronomi bagdadini, fin dalla fondazione dell'osservatorio.

2) La matematizzazione dell'astronomia. Si tratta di una tendenza che si sviluppò fortemente fin dal IX sec., puntando a ridurre progressivamente le non trascurabili parti dell'astronomia tolemaica segnate dall'empirismo. Fu una ricerca perseguita sistematicamente: ancora un secolo e mezzo dopo, uno dei suoi massimi esponenti era uno scienziato del livello di al-Bīrūnī. Essa era destinata a divenire una delle basi dello sviluppo dell'intera scuola orientale araba di astronomia. Fu in quest'ambito che venne sviluppata la trigonometria sferica, considerata all'inizio come una scienza ausiliare dell'astronomia. Grazie a essa si rese possibile rimpiazzare il calcolo ellenistico basato sulle corde, pesante e faticoso, con il calcolo indiano che utilizzava i seni, strumento assai più flessibile e fecondo.

3) Il rapporto conflittuale fra astronomia fisica e astronomia matematica. Anche questo elemento ‒ la tensione fra il tentativo di dar conto della realtà dell'Universo fisico e la spiegazione teorica del moto degli astri ‒ costituì uno dei motori dello sviluppo dell'astronomia. È un conflitto che si può già riscontrare in Tolomeo, leggendo sinotticamente l'Almagesto e le Ipotesi planetarie; ma nel mondo arabo divenne nettamente più esplicito, fin dal IX secolo. Gli astronomi arabi cercarono di riconciliare questi due diversi approcci alla 'scienza degli astri', attraverso una critica reciproca dei due punti di vista.

La diffusione dell'astronomia tolemaica

Nella prima metà del IX sec. furono composti molti trattati allo scopo di presentare in modo semplice i risultati dell'Almagesto o per fornirne un compendio in modo da divulgarne il più possibile i contenuti al di fuori della cerchia degli specialisti in astronomia. L'opera più conosciuta in questo genere di letteratura è di Aḥmad ibn Muḥammad ibn Kaṯīr al-Farġānī. Nota con vari titoli, dei quali il più comune fu Kitāb fī ǧawāmi῾ ῾ilm al-nuǧūm (Compendio della scienza degli astri), essa fu anche uno dei testi più diffusi: dapprima in arabo ‒ ne sono stati recensiti numerosi manoscritti, di ogni epoca e di ogni regione ‒ e successivamente in latino ‒ ne sono note due traduzioni posteriori al XII secolo.

Sappiamo poco sul suo autore, che lavorò con il gruppo di studiosi radunato da al-Ma᾽mūn e che morì dopo l'861. Scrisse il Kitāb probabilmente fra l'833 e l'857. Si tratta di una sorta di manuale di cosmografia: nell'edizione che ne è stata fatta è costituito da un centinaio di pagine in cui al-Farġānī espone in trenta capitoli come si presenta l'Universo secondo i risultati di Tolomeo. È una descrizione pura e semplice, priva di dimostrazioni matematiche, in contrasto con il fatto che l'autore era invece un matematico molto brillante, come dimostra il suo trattato (tuttora inedito) sull'astrolabio.

Nel Kitāb si susseguono: la descrizione del computo dei mesi e degli anni secondo le varie ere (araba, siriaca, bizantina, persiana, egizia); la giustificazione della sfericità dei cieli e della Terra, immobile al centro del mondo, mentre il cielo è dotato di due movimenti circolari; la posizione inclinata dell'eclittica rispetto all'equatore; la descrizione dei sette 'climi' in cui è suddivisa la parte abitata della Terra, delle varie regioni e città; la misura della Terra; il moto dei sette 'astri erranti' in longitudine e in latitudine, spiegato con il modello degli eccentrici e degli epicicli; il moto di precessione delle stelle fisse; la distanza di tutti gli astri dalla Terra e le loro misure; il sorgere e il tramontare delle stelle; le fasi della Luna e la sua parallasse; le eclissi di Luna e di Sole. Sono segnalati anche i principali problemi dell'astronomia scientifica antica. Quest'operetta divenne così una sorta di modello per quelli che potremmo chiamare 'manuali di cosmografia': il che spiega come mai fosse più volte commentata da scienziati anche di alto livello, come per esempio al-Bīrūnī, la cui glossa, che occupava ben duecento fogli, è andata purtroppo perduta.

Anche se Tolomeo fu praticamente la sua unica fonte, al-Farġānī lo corregge in vari punti, seguendo i risultati acquisiti dagli astronomi di al-Ma᾽mūn: rettifica il valore dell'obliquità dell'eclittica proponendo 23;33° invece che 23;51°; afferma che l'apogeo solare e quello lunare seguono il moto di precessione delle stelle fisse; utilizza la misura della circonferenza terrestre diffusa nella cerchia di al-Ma᾽mūn. Inoltre, dopo aver affermato che Tolomeo aveva calcolato soltanto la distanza e la misura del Sole e della Luna (e ciò starebbe a indicare che al-Farġānī conosceva solo l'Almagesto e non le Ipotesi planetarie), fornisce alcuni valori numerici che coincidono con quelli delle Ipotesi, senza peraltro indicare la fonte da cui trae questi risultati.

Ci sono pervenute altre opere di questo tipo: in particolare un trattato di Qusṭā ibn Lūqā ancora inedito, la Hay᾽at al-aflāk e due trattati di Ṭābit ibn Qurra, di carattere più scientifico e centrati soprattutto sul moto degli astri, che riprendono i ragionamenti della prima parte delle Ipotesi planetarie.

Questi testi contribuirono alla diffusione dell'astronomia scientifica e ne raccolsero i risultati semplificandoli: una ‒ diremmo oggi ‒ 'divulgazione di alto livello', effettuata da esperti conoscitori dell'astronomia, che si diffuse negli ambienti colti dell'epoca. Una tradizione che si perpetuò in tutti i 'manuali' dell'Almagesto composti da autori enciclopedici quali Avicenna, che ne incluse un riassunto nella sua grande summa filosofica, al-Šifā᾽ (La guarigione).

I due primi trattati di astronomia teorica

La tradizione manoscritta attribuisce a Ṯābit ibn Qurra un Kitāb fī sanat al-šams (Libro sull'anno solare), ma un'attenta analisi critica del testo mostra che l'opera è anteriore e che fu composta probabilmente nella cerchia scientifica dei Banū Mūsā, prima della metà del IX secolo.

L'autore di questo testo discute le posizioni di Tolomeo relative al moto del Sole e al calcolo della lunghezza dell'anno solare; sarà bene, pertanto, ricordare brevemente il contenuto dell'Almagesto al riguardo.

fig. 10

Sia E l'osservatore posto sulla Terra immobile al centro del mondo (fig. 10). Il Sole si muove di moto circolare uniforme su un cerchio eccentrico rispetto alla Terra, il cerchio I, che ha centro D e i cui punti più importanti sono il perigeo P e l'apogeo A. Il punto E è anche il centro dell'eclittica (il cerchio II), che rappresenta la traiettoria apparente del Sole nel cielo nel corso dell'anno; i punti di riferimento dell'eclittica sono gli equinozi B e C e i solstizi M e N. Il piano comune di questi due cerchi taglia la sfera delle stelle fisse lungo il cerchio III, anch'esso di centro E.

Il Sole, nel corso di un anno, compie una rivoluzione completa sul suo orbe eccentrico (il cerchio I), muovendosi di moto uniforme. Il tempo di tale rivoluzione è costante, indipendentemente dal punto di inizio: si tratta dell'anno anomalistico, ossia il tempo che impiega il Sole per tornare allo stesso punto del suo orbe. Questo valore è il solo che possa essere considerato come una costante di riferimento, ma non è misurabile direttamente a partire da E, perché l'eccentrico, in quanto tale, non contiene elementi di riferimento sufficientemente precisi: bisogna dunque che per prima cosa l'osservatore situi in modo chiaro il cerchio I rispetto ai cerchi II e III.

Quando si osserva da E il moto del Sole sul cerchio II e si misura l'intervallo di tempo che trascorre fra due passaggi successivi del Sole su un medesimo punto, otteniamo il valore dell'anno tropico; quando invece si osserva da E il moto del Sole sul cerchio III e si misura l'intervallo di tempo trascorso fra due congiunzioni successive del Sole con la stessa stella, si ottiene il valore dell'anno siderale.

Se i cerchi I, II e III fossero fissi uno rispetto all'altro, i tre valori dell'anno solare qui sopra definiti sarebbero del tutto identici. Ma non è questo il caso. Il problema degli astronomi antichi, di conseguenza, fu quello di ricostruire, sulla base dell'osservazione del movimento irregolare del Sole sui cerchi II e III, il valore dell'anno anomalistico sul suo orbe, la sola costante assoluta del sistema.

Il Libro III dell'Almagesto è consacrato allo studio del moto del Sole. Tolomeo comincia col constatare, seguendo Ipparco, che l'anno siderale è leggermente più lungo di quello tropico. Si concentra tuttavia su quest'ultimo, allo scopo di mostrare che esso è la costante assoluta cercata. A tal proposito fa coincidere l'anno tropico con quello anomalistico, rendendo solidali i cerchi I e II della fig. 10; il cerchio III si muove rispetto a essi a causa del moto di precessione degli equinozi, che Tolomeo valuta pari a un grado per secolo.

fig. 11

Per calcolare i parametri dell'orbe solare eccentrico, Tolomeo considera (fig. 11) il cerchio ABCD dell'eclittica centrato in E, luogo dell'osservatore. Il cerchio MNPO di centro G è l'orbe eccentrico su cui si muove il Sole; A e C sono i due equinozi, B il solstizio d'estate. Le rette MQGP e NGXO sono parallele rispettivamente a DEB e a AEC; la retta EGH taglia l'orbe eccentrico in H, l'apogeo. L'osservazione del momento del passaggio del Sole sui punti A, B, C permette, tramite un semplice calcolo basato sul moto medio del Sole, di ottenere il valore degli archi IL, IK, KL, IN, PK e LO e poi di calcolare l'insieme dei parametri. Tolomeo, ponendo per convenzione che il raggio dell'eccentrico sia costituito da 60 'parti', trova che l'eccentricità EG è pari a 2;30° di tali parti; che l'apogeo H è situato a 5;30° dei Gemelli e che tale apogeo è fisso sull'eclittica; e, infine, che la lunghezza dell'anno solare tropico (il passaggio del Sole sullo stesso punto dell'eclittica) è costante e uguale a 365;14,48 giorni.

In seguito a osservazioni eseguite a Baghdad fra l'830 e l'832 (circa 700 anni dopo l'Almagesto e 950 anni dopo Ipparco) l'autore del Kitāb fī sanat al-šams constatava però che l'apogeo del Sole, alla sua epoca, si era spostato a 20;45° dei Gemelli e che questo spostamento di 15;15° rispetto alle osservazioni di Ipparco era analogo (tenendo conto degli errori di osservazione, di cui è perfettamente consapevole) a quello dovuto alla precessione delle stelle fisse, che era stato misurato a 13;10° per la stella Regolo. Il nostro autore è di conseguenza indotto a collegare i cerchi I e III della fig. 10 e a concludere che l'apogeo dell'orbe eccentrico è anch'esso soggetto al moto di precessione. L'anno anomalistico non può essere dunque ricondotto all'anno tropico, ma a quello siderale, sola costante assoluta. Ma l'anno siderale è un puro riferimento teorico: occorre riuscire a ricavare da esso il valore dell'anno tropico, il riferimento pratico, il solo che permetta di segnare il tempo terrestre nel corso dell'intero anno.

Siccome l'orbe eccentrico si muove rispetto al cerchio dell'eclittica, non si può misurare direttamente la durata dell'anno tropico osservando l'intervallo di tempo che separa due passaggi successivi del Sole sullo stesso punto dell'eclittica; la lunghezza dell'anno tropico può essere ricavata solamente da un calcolo basato sul valore dell'anno siderale e della costante di precessione. In effetti se si considera il movimento del Sole sull'eccentrico a partire dall'apogeo, dato che quest'ultimo si muove poco per effetto del moto di precessione, per collegare il moto medio a quello dell'eclittica occorre sommare questi due spostamenti, che hanno un valore costante.

In questo modo l'autore del Kitāb fī sanat al-šams rifiuta radicalmente le conclusioni, i calcoli e persino la qualità delle osservazioni tolemaiche. Le confronta infatti con le sue e con quelle di Ipparco, e ne deduce che occorre respingere tutti i risultati osservativi di Tolomeo per risalire fino a Ipparco. E conclude così la sua requisitoria: "Tolomeo, non soltanto induce in errore perché prende la lunghezza dell'anno solare a partire da un punto dell'eclittica; induce in errore con le sue stesse osservazioni: non le ha effettuate come avrebbe dovuto e questo aspetto del suo errore è quello che produce i danni più gravi allo schema di calcolo che propone" (ṯĀbit ibn Qurra, Œuvres d'astronomie, p. 61).

Malgrado queste critiche, il nostro autore considera Tolomeo come colui che ha saputo mettere a punto il miglior metodo geometrico per calcolare i parametri dell'orbe del Sole; egli riprende il Libro III dell'Almagesto, lo cita abbondantemente, ne adotta il metodo geometrico, lo rifà ‒ ristrutturando la materia, ma conservandola interamente ‒, e si basa soltanto sulle osservazioni di Ipparco e sulle sue. Il calcolo dei parametri dell'orbe solare è effettuato basandosi sulla fig. 11 (la stessa di Tolomeo), ma modificando l'orientamento delle osservazioni: A, B e C non corrispondono più a due osservazioni di equinozi e a una di un solstizio perché "dato che le osservazioni dei solstizi sono difficili, non faremo intervenire nessun risultato di osservazioni di solstizi nelle nostre tre misure. Tolomeo, invece, nelle tre misure grazie a cui era venuto a conoscenza dell'anomalia solare, aveva introdotto una misura del solstizio d'estate. Non condividiamo la sua opinione, al contrario crediamo che in questo modo si fosse assai poco garantito contro l'errore" (ibidem, p. 49).

Effettivamente, al solstizio la variazione di declinazione del Sole è molto piccola ed era difficile, all'epoca, determinare il momento esatto del passaggio del Sole su questo punto. L'autore del trattato utilizza tre osservazioni separate da un arco di 45°, e misura il passaggio del Sole sull'eclittica a metà dell'Aquario, a metà del Toro e a metà del Leone. Riprende, 'modernizzandolo', lo schema di calcolo di Tolomeo; ragiona cioè utilizzando i seni degli archi invece delle corde e arriva in-fine ai seguenti risultati (fra parentesi sono riportati i risul-tati ricalcolati per l'anno 830): apogeo del Sole, 20;54° dei Gemelli (22;53°); costante di precessione, 0;0,49,39° per anno (0;0,50,1°); anno siderale, 365;15,23,34,33 giorni (365;15,22,53,59); anno tropico, 365;14,33,12 giorni (365;14,32,9,20); eccentricità dell'orbe solare, 2;6,40 parti.

Al di là della buona precisione dei risultati, specie tenendo conto dei mezzi di osservazione dell'epoca, questo Kitāb fī sanat al-šams ci appare molto importante per capire come si sia inizialmente sviluppata l'astronomia araba sulla base dell'eredità tolemaica. Il testo fu composto nel corso della prima metà del IX sec., poco dopo, dunque, la traduzione di al-Ḥaǧǧāǧ dell'Almagesto, che è del resto largamente citata per più di un terzo dell'opera. Esso permette dunque di rendersi conto di quanto alcuni astronomi arabi della prima generazione abbiano studiato questo testo fondamentale; in secondo luogo consente di cogliere un certo numero di innovazioni scientifiche che nel Kitāb fī sanat al-šams sono considerate come ormai acquisite.

Se riprendiamo sinteticamente la descrizione che ne abbiamo fatto, si può vedere come l'autore affermi che non soltanto Tolomeo ha compiuto errori di calcolo, in particolare sulla costante di precessione, ma che le sue osservazioni sono meno affidabili di quelle di Ipparco: il che lo porta a scartare sia le osservazioni sia i risultati. Dopo aver constatato lo spostamento dell'apogeo solare e il suo legame con il moto di precessione delle stelle fisse, mette a punto un metodo che gli permette di trovare il tempo impiegato dal Sole per ritornare a una data stella, in modo da poter calcolare la lunghezza dell'anno siderale. Conserva il ragionamento geometrico tolemaico e tutta la materia trattata nel Libro III dell'Almagesto, pur modificandone lievemente la distribuzione (sposta due capitoli) e ricompone tutti questi elementi.

In vista di questi risultati, sembra chiaro che il Kitāb fī sanat al-šams non fu composto come un'opera isolata. Doveva far parte di un progetto più vasto, mirato a riscrivere l'intero Almagesto, conservandone la struttura e l'impianto teorico, ma eliminando le osservazioni e i calcoli di Tolomeo. L'autore del Kitāb fī sanat al-šams si rifà alle osservazioni di Ipparco e le confronta con le più recenti rilevazioni fatte a Baghdad e a Damasco; crea nuovi metodi di calcolo fondandosi sulle basi teoriche proposte da Tolomeo. Non sappiamo fino a che punto questo importante progetto di un 'nuovo Almagesto' sia stato portato avanti; ma il contenuto e la struttura del Kitāb fī sanat al-šams mostrano chiaramente che esso era stato abbozzato nella Baghdad della prima metà del IX sec., negli ambienti della scuola che si era formata intorno ai Banū Mūsā.

Possiamo notare in questo libro anche altre innovazioni, che verranno riprese dagli astronomi successivi. In primo luogo, con questo testo divenne un fatto acquisito che l'apogeo dell'orbe solare si muove rispetto all'eclittica e che si deve stabilire un legame fra anno siderale, costante di precessione e anno tropico (anche se bisognerà attendere l'astronomo andaluso al-Zarqālluh, alla fine dell'XI sec., perché si arrivi a calcolare il moto proprio supplementare dell'apogeo solare, 19 minuti per secolo). Inoltre, contrariamente a Tolomeo, l'autore del Kitāb fī sanat al-šams lega il moto dell'apogeo dell'orbe solare e quello dell'orbe lunare al moto di precessione della sfera delle stelle fisse, al pari di quello degli orbi di tutti gli altri pianeti: la sfera delle stelle fisse, nel suo movimento, coinvolge l'insieme delle sfere celesti; il Sole e la Luna non sono più casi privilegiati nell'Universo. In questo modo il cerchio dell'eclittica diventa puramente teorico, da respingere al di là della sfera delle stelle fisse, identificabile dallo scorrere del tempo terrestre e dal ritmo delle stagioni. Infine la separazione di 45° delle tre osservazioni solari, introdotta per evitare gli errori possibili nell'osservazione di un solstizio, sarà ripresa dagli astronomi successivi nei loro computi dei parametri del moto del Sole.

L'autore del secondo trattato preso in esame in questa sezione è Ḥabaš al-Ḥāsib, del quale sappiamo soltanto che era uno degli astronomi del califfo al-Ma᾽mūn e che era ancora in vita nel 254/859, in quanto si trova un calcolo a lui attribuito in questa data. È stata edita una sola delle sue opere, per di più incompleta: un piccolo trattato sulle misure e sulle distanze degli astri conservato parzialmente da un unico manoscritto. Ancora inedita è la sua grande opera al-Zīǧ al-dimašqī (Le tavole astronomiche di Damasco), trasmessaci in due versioni diverse da due manoscritti, uno di Berlino e uno di Istanbul. La versione del primo manoscritto è chiaramente molto rimaneggiata da autori posteriori, mentre quella di Istanbul sembra trasmettere un testo piuttosto vicino all'opera originale di Ḥabaš. Il contenuto di questo manoscritto è stato analizzato dettagliatamente da Debarnot (1987).

Gli Zīǧ al-dimašqī di Ḥabaš si collocano nella tradizione tolemaica, ma non si tratta di una nuova redazione dell'Almagesto, come è avvenuto ‒ almeno parzialmente ‒ nel caso del Kitāb fī sanat al-šams. Ḥabaš riprende semplicemente ciò che gli sembra suscettibile di essere modificato in funzione dei suoi studi e dei risultati ottenuti a Baghdad e a Damasco dai primi lavori di astronomia teorica; la sua ricerca corre parallela all'Almagesto, che non cerca di rimpiazzare. Una parte importante degli Zīǧ al-dimašqī si occupa di trigonometria: Ḥabaš 'modernizza' i ragionamenti tolemaici introducendo seni, coseni e tangenti al posto delle corde e propone formule complete da applicare nei vari tipi di calcolo astronomico. Questo aspetto sarà discusso in dettaglio nel capitolo dedicato alla trigonometria (v. cap. XXXV); qui ci limiteremo a osservare alcuni punti di astronomia pura.

La prima sezione dell'opera riguarda la cronologia e il passaggio da un'era all'altra in modo da ottenere, grazie a tavole di concordanza, equivalenze di date fra i vari calendari persiani, egizi, greci e arabi. Inoltre, Ḥabaš si propone di costruire tavole per il movimento degli astri prendendo come riferimento temporale l'anno lunare, che ricalcola con molta accuratezza. L'anno lunare era l'anno legale nella società in cui viveva, ma il suo tentativo non avrà molto seguito presso gli astronomi arabi, dato che tale anno si adattava molto meno di quello solare ai calcoli e ai ragionamenti astronomici; per di più l'anno solare, con i suoi mesi regolari di trenta giorni, era stato usato sia nel mondo ellenistico di Tolomeo sia in quello persiano.

In tutta la sua opera Ḥabaš confronta i parametri del moto dei vari astri calcolati da Tolomeo con quelli ricavati dai suoi calcoli e modifica conseguentemente e sistematicamente la composizione di ciascuna tavola, senza ridiscutere l'aspetto teorico dei modelli geometrici. Tuttavia, l'innovazione teorica più importante la troviamo nel suo studio sulla visibilità della falce di Luna.

L'astronomia di tradizione greca non aveva affrontato questo problema, ma qualche metodo di calcolo era stato elaborato dalla tradizione indiana. Prima di esaminare la soluzione proposta da Ḥabaš, ne ricorderemo due precedentemente formulate rispetto alle sue, dipendenti dai vari elementi di riferimento della sfera celeste.

fig. 12

Assumendo che la Terra sia immobile al centro del mondo, il Sole e la Luna sono dotati entrambi di un 'moto proprio' giornaliero che avviene in senso inverso a quello del moto diurno: il Sole si sposta lungo l'eclittica di poco meno di 1° al giorno, mentre per la Luna si tratta di circa 13° da una parte e dall'altra dell'eclittica (la sua latitudine massima è di 5°). Avviene così che ogni mese la Luna raggiunge il Sole e lo 'sorpassa', e subito dopo il tramonto diventa di nuovo visibile a ovest una falce di Luna all'orizzonte: inizia un nuovo mese lunare. Nella fig. 12 la Luna al tramonto si trova in D, la sua latitudine è DG; il Sole si trova in O, sotto l'orizzonte. HDA rappresenta l'orizzonte del luogo di osservazione, E il punto equinoziale più vicino (nella fig. 12 l'equinozio d'autunno), OGE è l'eclittica e MAE l'equatore celeste. OM è la posizione che aveva l'orizzonte al momento del tramonto del Sole, OG la distanza in longitudine fra il Sole e la Luna e l'angolo in A fra l'orizzonte e l'equatore è uguale al complementare della latitudine del luogo in cui è posto l'osservatore.

Ya῾qūb ibn Ṭāriq e al-Ḫwārizmī, che abbiamo citato in precedenza, avevano entrambi ripreso una soluzione indiana basata sul tempo trascorso fra il tramonto del Sole e quello della Luna, cioè sull'arco AM della fig. 12. Per questi due autori la falce lunare sarà visibile se il calcolo per un dato giorno mostra che quest'arco è almeno di 12°, il che corrisponde a un tempo di 48 minuti fra i due tramonti.

Ḥabaš si colloca nella tradizione creata da Tolomeo con il suo studio sulla visibilità delle stelle fisse e dei pianeti sull'orizzonte. L'astronomo greco non aveva mai parlato della visibilità della falce lunare, ma tutta la sua ricerca sulla visibilità degli altri astri ‒ al sorgere o al tramontare ‒ si era basata sulla luminosità dell'atmosfera all'orizzonte, e dunque sull'arco OH, l'arco 'di depressione del Sole sotto l'orizzonte'. Aveva dunque determinato quale valore tale arco (detto poi nella tradizione latina arcus visionis) dovesse avere perché un dato astro fosse visibile sull'orizzonte. Ḥabaš riprende questa idea e la applica al caso della Luna, determinando, grazie a calcoli e a osservazioni, che l'arco OH di depressione del Sole sotto l'orizzonte, o 'arco di visibilità della falce lunare', deve avere un valore uguale almeno a 10° perché la falce lunare possa essere visibile dopo il tramonto del Sole, la ventinovesima notte del mese lunare.

Questo ragionamento di Ḥabaš rimase celebre e fu ripreso da al-Bīrūnī due secoli dopo, e citato da molti altri autori come uno dei metodi tipici per affrontare il difficile problema della visibilità della falce di Luna.

Ḥabaš ci appare dunque come un attento osservatore che ha riletto l'Almagesto per verificarne i risultati e in tal modo ha proseguito l'opera cominciata sotto al-Ma᾽mūn dal gruppo che redasse gli Zīǧ al-mumtaḥan (Tavole astronomiche verificate). Tuttavia il suo lavoro si spinge più lontano di quello dei suoi predecessori immediati: adatta e sviluppa infatti alcuni ragionamenti tolemaici, mostrando così di averli perfettamente assimilati. Ḥabaš, tuttavia, non affrontò le dimostrazioni teoriche in quanto tali. Fu un altro astronomo ad assumersi questo compito, come vedremo in seguito.

La matematizzazione del ragionamento astronomico

Qui prenderemo in considerazione un solo esempio tratto dall'opera astronomica di Ṯābit ibn Qurra. Egli era originario di Harran, nell'Alta Mesopotamia e, molto verosimilmente, nacque nel 211/826 e morì nel 288/901. La sua lingua madre era il siriaco, conosceva perfettamente il greco e compose i suoi lavori in arabo. Entrato nella cerchia dei Banū Mūsā a Baghdad, scrisse opere originali in tutti i campi della scienza allora conosciuti. Celebre soprattutto come matematico, compose fra trenta e quaranta trattati di astronomia e di questi ce ne sono pervenuti nove a lui attribuiti. Qui discuteremo di un suo studio teorico del moto di un astro su un eccentrico, intitolato Kitāb fī ibṭā᾽ al-ḥaraka fī falak al-burūǧ wa-sur ῾ati-hā bi-ḥasab al-mawāḍi῾ allatī takūnu fī-hā min al-falak al-ḫāriǧ al-markaz (Rallentamento e accelerazione del moto [apparente di un mobile] sull'eclittica a seconda del luogo in cui si produce il moto sull'eccentrico).

Tolomeo, nello studio del moto del Sole sul suo orbe eccentrico, tratta della non uniformità del moto apparente in questi termini: "La differenza maggiore fra il moto medio e quello che appare irregolare ‒ grazie alla quale si può conoscere il transito degli astri nelle loro distanze medie ‒ si verifica quando la distanza apparente a partire dall'apogeo è un quadrante di cerchio e l'astro impiega un maggior tempo per andare dall'apogeo a questa posizione media che per arrivare da essa al perigeo" (Almagesto, ed. Halma, p. 174).

Egli dunque si limita a constatare che il moto apparente più lento si verifica dalla parte dell'apogeo, quello più rapido dalla parte del perigeo e che fra i due estremi vi è un punto di 'transito medio' che corrisponde alla distanza di un quadrante dall'apogeo.

fig. 13

Ṯābit riprese questo problema, dimostrando la veridicità delle affermazioni tolemaiche. Quando un qualunque astro, o il centro di un epiciclo, si muove di moto circolare uniforme (fig. 13) lungo un eccentrico ABC di centro D, tale moto è osservato sulla Terra (il punto E ) sul cerchio dell'eclittica ABC′ e appare come un moto irregolare. Ṯābit allora considera sull'eccentrico archi uguali, percorsi dunque dal corpo in questione in tempi uguali: GF, da una parte e dall'altra dell'apogeo A; HI, a cavallo del perigeo C; e infine due altri archi: BK, in prossimità di A, e LM in prossimità di C. Ragionando geometricamente, sulla base degli Elementi di Euclide, dimostra allora che gli archi del moto apparente osservati sull'eclittica sono tali che

Formula

cosicché ne può concludere rigorosamente che: "Quando il moto di un astro o del centro di orbe qualsiasi è uniforme lungo un eccentrico, il suo moto apparente più lento sull'eclittica si verificherà quando il mobile si trova all'apogeo del suo eccentrico; e il suo moto apparente più veloce si verificherà quando è al perigeo. In tutto il resto, il moto apparente in prossimità dell'apogeo è più lento di quando se ne trova lontano" (ṯĀbit ibn Qurra, Œuvres d'astronomie, p. 73).

Si osservi qui che Ṯābit tratta della velocità di un mobile all'apogeo o al perigeo. A nostra conoscenza, è la prima volta nella storia che compare il concetto di velocità in un punto.

fig. 14

Questo che abbiamo descritto è il primo teorema del trattato. Il secondo è altrettanto importante. Ṯābit considera (fig. 14) un eccentrico di centro D, apogeo A e perigeo C. Prende poi i punti B e F la cui "distanza dall'apogeo, nel loro moto sull'eclittica è di un quadrante di cerchio".

Ora può dimostrare, con ragionamenti di stampo euclideo, che l'arco del moto medio IH (HB+BI) è uguale all'arco IH′(HB′+BI′), che è somma degli archi del moto apparente. Dunque, afferma Ṯābit, "ci si avvicina all'uguaglianza fra il moto medio e il moto apparente quando ci si avvicina al punto B e succede la stessa cosa quando ci si avvicina al punto F". Ricollegandosi al teorema precedente conclude: "Più il moto apparente si avvicina a uno di questi due punti B e F, più si avvicina all'uguaglianza con il moto medio; e ogni volta che si prendono, da una parte e dall'altra di uno di questi punti, due archi di moto apparente sull'eclittica uguali, la loro somma eguaglia realmente il moto medio. Questi due punti sono quelli che assomigliano a due punti di moto medio" (ibidem, p. 79).

Questa dimostrazione puramente matematica gli permette di analizzare il rapporto fra moto apparente e moto medio uniforme in modo rigoroso e di collocare due assi di simmetria: AC, asse di simmetria per il moto medio uniforme quando è osservato dal punto E; e BF, asse di simmetria per il moto medio apparente sull'eclittica. Per Ṯābit, un modello geometrico costruito per spiegare il moto di un astro diventa così analizzabile teoricamente in quanto tale; in quest'analisi si potranno dispiegare tutte le risorse offerte dallo sviluppo della matematica. Ed è proprio questo suo atteggiamento che lo porta a sviluppare la prima analisi matematica di un moto non uniforme.

Il conflitto fra 'astronomia matematica' e 'astronomia fisica'

In un frammento sul moto della Luna (anonimo, ma attribuibile a Ṯābit o a un altro autore del IX sec.) si discute il modello geometrico proposto da Tolomeo per questo astro. Ma la trattazione arriva anche a toccare il problema dell'omogeneità della materia delle sfere celesti. Il fatto interessante è che qui un modello puramente 'matematico' è utilizzato per criticarne uno puramente 'fisico'. Leggiamo la parte principale di questo frammento; per seguire il ragionamento occorre tenere presente la descrizione del modello tolemaico della Luna che abbiamo riportato sopra e la relativa fig. 4:

Immaginiamo che il centro dell'epiciclo si trovi all'apogeo e che i due segmenti uscenti dal centro del mondo, quello che va all'apogeo e quello che va al centro dell'epiciclo, si sovrappongano e poi si separino: il segmento che mette in moto l'epiciclo si sposta nel senso dei segni e quello che mette in moto l'eccentrico si muove in senso contrario. Non è possibile che, in un certo istante, uno dei due faccia tornare indietro l'altro o l'ostacoli, senza che lo stesso fenomeno si verifichi immancabilmente in ogni istante, perché ciò che avviene in un dato istante accade per ogni istante, perché ciascuna delle due forze in gioco resta sempre nella stessa situazione; quindi il moto di uno dei due si annullerebbe e si metterebbe a seguire l'altro […]. Occorre che i due segmenti, quello dell'epiciclo e quello dell'eccentrico, non siano tali che possano attirarsi o respingersi, perché ‒ se così fosse ‒ bisognerebbe che fossero immobili l'uno e l'altro (nel caso di equilibrio fra le due forze), oppure che il più debole seguisse il più forte nel caso ci fosse differenza fra le forze rispettive: e ciò dovrebbe avvenire sistematicamente […]. In questa situazione, la circonferenza dell'eccentrico è trascinata e deviata sotto il centro dell'epiciclo; questo, nel suo moto, scivola sulla circonferenza dell'eccentrico e il segmento che mette in moto l'eccentrico attira la circonferenza dell'eccentrico sotto il centro dell'epiciclo. (Morelon 1988, pp. 32-35)

Il modello geometrico proposto da Tolomeo non è affatto messo in discussione, al contrario, la necessità di pensarlo come parte di un sistema fisico completo porta l'autore a porsi un certo numero di problemi sulle condizioni che renderebbero realizzabile un simile programma. In particolare la questione centrale riguarda la possibilità di un moto circolare uniforme che non avvenga intorno al centro del cerchio su cui si produce il movimento e la necessità di moti indipendenti nell'ambito di uno stesso orbe.

In questo frammento sono date soltanto queste condizioni, senza alcun tentativo di proporre in modo preciso cosa dovrebbe essere un tale orbe. Si tratta di una pura critica, posta a premessa di ulteriori ragionamenti i quali ‒ se pure furono sviluppati all'epoca ‒ non ci sono pervenuti.

Una conclusione sul IX secolo

Per tentare una rapida sintesi sul lavoro astronomico sviluppato sotto gli Abbasidi nel corso del IX sec., si può dire che ‒ non appena le basi di lavoro furono messe a disposizione degli studiosi: fonti indiane, persiane, siriache e, soprattutto, greche ‒ ci fu lo sviluppo immediato di una ricerca originale in astronomia. La traduzione in arabo delle fonti procedette di pari passo con la ricerca scientifica in astronomia, come in tutte le altre scienze.

La ricerca astronomica cominciò veramente soltanto con la messa in opera di un programma collettivo di osservazioni su lunghi periodi, lavoro che fu avviato durante il califfato di al-Ma᾽mūn, il quale lo incoraggiò fortemente, seguito in questo da molti dei suoi successori.

A partire da quest'epoca, è evidente come gli astronomi rivolgano la loro attenzione alla precisione degli strumenti e alla necessità di osservazioni continue e ripetute. All'inizio ‒ a Baghdad e a Damasco ‒ si trattava di osservazioni del Sole e della Luna, ma presto il lavoro osservativo si estese a tutti gli altri astri. Un'attività che contrasta con le fonti ellenistiche che avevano trasmesso unicamente risultati di rilevazioni isolate nello spazio e nel tempo. Questo programma fu perseguito e sviluppato lungo tutta la storia dell'astronomia islamica.

Vale la pena di sottolineare l'aspetto collettivo di questa ricerca, anche al di là delle osservazioni in quanto tali. Infatti ‒ oltre all'esistenza di strutture comuni quali gli osservatori di Baghdad e di Damasco finanziati dal potere centrale ‒ nella letteratura araba antica di carattere biobibliografico riguardante quest'epoca troviamo numerose tracce e testimonianze di corrispondenza scientifica fra vari astronomi. Si può in fin dei conti sostenere l'esistenza, nel corso del IX sec., di una vera e propria 'Scuola di Baghdad' nel campo dell'astronomia.

L'interazione costante fra osservazione e teoria, decisamente più sistematica che nell'astronomia ellenistica, permise il precoce svilupparsi di una critica, spesso vivace, di parti delle teorie o dei risultati di Tolomeo. Ciononostante, non poteva ancora essere proposta un'alternativa al suo sistema o ai suoi modelli geometrici.

Nel corso del secolo il progresso della trigonometria sferica (considerata in questo periodo soltanto come una 'scienza ausiliaria') permise lo sviluppo di ragionamenti geometrici sugli archi della sfera celeste molto più rigorosi ed elaborati, grazie alla sistemazione e all'utilizzazione dei seni e dei coseni e all'introduzione delle tangenti e delle cotangenti. Infine, la ricerca avviata da Ṯābit per applicare all'astronomia i risultati acquisiti dai matematici ‒ spesso al tempo stesso astronomi ‒ sarà perseguita dalla maggior parte dei suoi grandi successori, con il risultato di rendere l'astronomia una scienza sempre più rigorosa. Inoltre, ricerche molto elaborate sugli strumenti astronomici produrranno i loro effetti nel secolo successivo.

Possiamo dunque dire che gli sviluppi ulteriori dell'astronomia araba sono già presenti in germe nel IX sec. e, soprattutto a Baghdad, il programma e i metodi di lavoro furono sostanzialmente messi a punto e saranno seguiti ‒ almeno nei loro principî basilari ‒ senza cambiamenti di rilievo nei secoli successivi.

Tavola I

L'astronomia araba nel corso del X e dell'XI secolo

Al-Battānī

Fra IX e X sec. troviamo un astronomo di grande fama: al-Battānī, nato verso la metà del IX sec. e morto nel 317/929. Originario di Ḥarrān come Ṯābit, passò la maggior parte della sua vita a Raqqa sull'Eufrate, nel Nord dell'attuale Siria. In un suo osservatorio personale egli effettuò, nel corso di una trentina d'anni, numerose rilevazioni di grande qualità, raccogliendo poi una sintesi del suo lavoro in un'opera monumentale, dal titolo al-Zīǧ al-ṣābi᾽ (Tavole astronomiche sabee, nota in latino come De scientia stellarum). Fu un autore che ebbe grande influenza sull'astronomia del Medioevo latino e del primo Rinascimento, dato che la sua opera fu il solo trattato arabo di astronomia scientifica a essere tradotto integralmente in latino nel XII sec. (e poi in spagnolo, nel XIII; l'Occidente lo conobbe con il nome di Albategnus o Albatenius) ciò ha implicato che, fino a un'epoca relativamente recente, il suo testo fu la sola opera araba (fra quelle della tradizione orientale) di grande respiro nota e studiata dagli storici occidentali dell'astronomia; è per questa ragione che al-Battānī è così famoso ed è considerato 'il più grande astronomo arabo' nella maggior parte dei manuali di storia dell'astronomia.

In effetti fu un grande osservatore, ma la sua ricerca in astronomia teorica non ha un'importanza fondamentale, in quanto dipende quasi interamente dai suoi predecessori immediati. È vero però che al-Battānī non li cita mai esplicitamente, mentre fa spesso riferimento a Tolomeo; ricalcola alcuni parametri e confronta i risultati delle sue osservazioni con alcune teorie dei suoi predecessori, senza però criticarle o apportarvi modifiche degne di nota.

Il suo contributo fondamentale si trova nel campo dell'osservazione pura. Misurò con un'ottima precisione l'obliquità dell'eclittica (23;35°); calcolò che l'apogeo dell'orbe solare sull'eclittica si trova a 22;50,22° dei Gemelli, valore molto più vicino alla posizione reale della sua epoca di quello riportato nel Kitāb fī sanat al-šams, confermando così la mobilità dell'apogeo. Calcolò il valore dell'anno tropico, pari a 365;14,26 giorni; valore leggermente meno preciso (per difetto) di quello del Kitāb fī sanat al-šams. Accettò, dopo averlo controllato senza citare la sua fonte, il valore della costante di precessione fornito dagli Zīǧ al-mumtaḥan, un grado ogni 66 anni, e ricalcolò su questa base le coordinate del catalogo delle stelle fisse dell'Almagesto, riducendolo a poco più della metà (489 stelle invece di 1022).

La sua osservazione più famosa ‒ e a ragione ‒ è quella della variazione del diametro apparente del Sole e della Luna. Essa lo portò a concludere, per la prima volta nella storia dell'astronomia, che le eclissi anulari di Sole sono possibili, dato che il diametro apparente minimo della Luna può essere leggermente inferiore a quello solare. Scoprì infatti che il diametro apparente della Luna, alla congiunzione con il Sole, può variare fra 0;29,30° e 0;35,20° (il valore vero è compreso fra 0;29,20° e 0;33,30°) e quello del Sole può essere compreso fra 0;31,20° e 0;33,40° (il valore vero è compreso fra 0;31,28° e 0;32,32°). Tolomeo, invece, curiosamente riteneva che il diametro apparente del Sole restasse sempre uguale a 0;31,20° (pare che facesse astrazione della differenza di distanza dalla Terra nel movimento del Sole sull'eccentrico) e che questo valore fosse anche quello del minimo diametro apparente della Luna; il che lo portava a escludere la possibilità delle eclissi anulari di Sole.

Altri autori del X secolo

Abū Ǧa῾far al-Ḫāzin fu un brillante matematico: originario del Khurasan, passò parte della sua vita a Rayy e morì fra il 350/961 e il 360/971. Compose vari trattati di astronomia teorica, ma dei suoi scritti in questo campo oggi ci restano pochi frammenti di uno Šarḥ al-maqāla al-ūlā min al-Maǧisṭī (Commento al Libro I dell'Almagesto), che trattano soprattutto di trigonometria. Le citazioni dei suoi lavori in alcuni autori posteriori, in particolare al-Bīrūnī, mostrano però l'importanza dell'opera di questo studioso per i suoi successori. Egli aveva lavorato sul moto del Sole e, contrariamente ad al-Battānī, aveva fatta propria l'osservazione di Tolomeo sul valore costante del suo diametro apparente. Poiché ciò implicava allora una distanza costante dalla Terra al-Ḫāzin propose un nuovo modello per il moto del Sole. Esso non si sarebbe più dovuto muovere su un eccentrico ma su un cerchio concentrico rispetto alla Terra e l'uniformità del moto sarebbe stata relativa a un punto 'eccentrico', in modo analogo al moto dell'epiciclo intorno al 'punto equante' previsto dal modello tolemaico per i pianeti superiori. In effetti è questo il solo punto che ci permetta di supporre una sua valutazione critica dei modelli di Tolomeo. Aveva composto anche il Kītāb fī sirr al-῾ālamīn (Libro sul segreto dei mondi), oggi perduto, nel quale sembra proponesse una nuova concezione globale dell'Universo, a partire dai risultati delle Ipotesi planetarie di Tolomeo.

Anche se allo stato attuale degli studi non si può asserire con la dovuta precisione, appare molto probabile che questi lavori perduti di Abū Ǧa῾far al-Ḫāzin abbiano avuto una loro influenza, un secolo dopo, sugli Šukūk (Dubbi) di Ibn al-Hayṯam: una parte dei temi di quest'opera dipende infatti da argomenti legati a una critica del sistema tolemaico spesso basata, in effetti, su ragioni di tipo cosmologico.

῾Abd al-Raḥmān al-Ṣūfī (291-376/903-986) nacque a Rayy e lavorò a Shiraz e Isfahan, nell'attuale Iran. Autori successivi ci hanno trasmesso molte sue osservazioni, per esempio sull'obliquità dell'eclittica e sul moto del Sole o sulla lunghezza dell'anno solare, ma egli è famoso soprattutto per il suo Kitāb ṣuwar al-kawākib al-ṯābita (Libro delle forme delle stelle fisse): una revisione del catalogo delle stelle fisse dell'Almagesto, redatta verso il 965. Nell'introduzione, al-Ṣūfī prende posizione nei confronti degli autori arabi della generazione precedente che si erano occupati di stelle fisse e nei confronti degli artefici di sfere celesti, criticando il modo con cui era stata trattata questa o quella costellazione. Il valore della costante di precessione da lui scelto è quello calcolato dagli autori degli Zīǧ al-mumtaḥan ai tempi del califfo al-Ma᾽mūn ‒ un grado ogni 66 anni ‒ invece che un grado al secolo come voleva Tolomeo. Non si tratta soltanto di un semplice adattamento del catalogo dell'Almagesto, ottenibile modificando la longitudine delle stelle grazie alla correzione corrispondente al moto di precessione fra il II e il IX secolo. Infatti al-Ṣūfī eseguì molte verifiche osservative, relative sia alla magnitudine delle stelle, sia alla loro longitudine eclittica (per quanto riguarda la latitudine egli stesso ammette di aver conservato i valori tolemaici); inoltre introdusse una menzione dei colori apparenti delle principali stelle. Questo libro fu molto diffuso in arabo; tradotto e trasmesso all'Occidente latino verso il XII sec., il nome dell'autore fu trascritto come 'Azophi'. La sua fama spiega il motivo per cui molte stelle, in Occidente, portano un nome di origine araba.

L'opera descrive, seguendo uno schema unificato, le quarantotto costellazioni: inizia con una presentazione della costellazione trattata, elencando tutte le sue stelle e i vari nomi arabi che sono stati loro attribuiti; quindi segue una tabella che fornisce le loro coordinate eclittiche e le magnitudini. Tutte le copie del libro, fin dall'origine, sono corredate da miniature che rappresentano la figura mitologica associata alla costellazione in cui sono evidenziate le varie stelle. La figura è sempre disegnata due volte, simmetricamente: 'come è vista nel cielo' e 'come è vista sulla sfera' ‒ cioè su una riproduzione, in legno o in metallo, della sfera celeste ‒ accorgimento che facilita l'individuazione della costellazione anche a un principiante. In effetti il suo autore prevedeva una doppia utilizzazione dell'opera, teorica e pratica (per es., per l'orientamento in mare o in terra), caratteristica che contribuì, almeno in parte, al successo del libro.

Ibn Yūnus (m. 399/1009) fu un grande astronomo egiziano. Si dedicò soprattutto alle osservazioni: lavorò al Cairo nel primo periodo fatimide e, probabilmente, il suo osservatorio era situato sul monte Muqaṭṭam, a est della città. La sua opera più importante è al-Zīǧ al-ḥākimī al-kabīr (Grandi tavole astronomiche dedicate ad al-Ḥākim, dal nome del califfo al-Ḥākim, che regnò al Cairo dal 386/996 al 411/1021), testo monumentale, in 81 capitoli, di cui è stata tramandata poco più della metà. Ibn Yūnus volle infatti comporre un trattato di astronomia completo, che tenesse conto del maggior numero di osservazioni esistenti, rilevate e analizzate criticamente e arricchite dei risultati delle sue numerose osservazioni personali. Essa ci permette di accedere a molti materiali scientifici del IX e del X sec. che possiamo conoscere solo grazie alle sue citazioni.

Il testo contiene pochi materiali teorici; si tratta di uno zīǧ in senso proprio: un'opera consacrata esclusivamente alla preparazione di tavole del moto degli astri, al calcolo dei loro parametri e al modo di utilizzarli. I suoi risultati divennero disponibili tradotti in lingue occidentali all'inizio del XIX sec. e la precisione delle sue osservazioni ha permesso agli astronomi moderni di utilizzarle, per esempio, per uno studio più accurato del moto secolare della Luna.

Al-Bīrūnī

Al-Bīrūnī ‒ nato nel 362/973 nel Khwarizm e morto verso il 440/1048 (probabilmente a Ghazna, nell'attuale Afghanistan) ‒ fu allievo di Abū Naṣr Manṣūr ibn ῾Irāq, che a sua volta aveva studiato con Abū 'l-Wafā᾽ al-Būzǧānī. Egli stesso riconosceva il suo debito verso tali maestri e, inoltre, aveva lavorato a Rayy con al-Ḫuǧandī. Al-Bīrūnī, che fu al tempo stesso matematico, astronomo teorico e osservatore, deve loro le caratteristiche della sua formazione.

In Abū 'l-Wafā᾽ al-Būzǧānī, matematico e astronomo (nato a Būzǧān in Persia nel 328/940 e morto a Baghdad nel 388/998), ritroviamo infatti la tradizione di ricerca astronomica della Scuola di Baghdad che fu, come abbiamo visto, così vivace nel IX secolo. Fu a Baghdad che Abū 'l-Wafā᾽ si formò e lavorò, utilizzando per le sue ricerche il grande osservatorio costruito grazie al mecenatismo di Šaraf al-Dawla nei giardini del palazzo reale bagdadino. La sua opera principale era intitolata Almagesto, ma ci è stata conservata soltanto in parte; ciò che abbiamo riguarda soprattutto problemi di trigonometria, branca che Abū 'l-Wafā᾽ sviluppò notevolmente. Sappiamo poco, dunque, sugli sviluppi delle sue ricerche d'astronomia teorica, anche se al-Bīrūnī nell'opera al-Qānūn al-mas῾ūdī (Canone [astronomico] dedicato ad al-Mas῾ūd) cita molte volte questi studi, relativi soprattutto al moto del Sole e al valore della costante di precessione.

Abbiamo ancora meno informazioni sulla vita del 'maestro' diretto di al-Bīrūnī, Abū Naṣr Manṣūr ibn ῾Irāq (m. 427/1036 ca.): sappiamo che fu allievo di Abū 'l-Wafā᾽ e di lui ci restano soprattutto importanti opere di trigonometria, composte in parte su richiesta dello stesso al-Bīrūnī, quando questi in alcune situazioni si trovò di fronte a problemi trigonometrici.

Al-Ḫuǧandī (m. 390/1000 ca.) lavorò molto al problema degli strumenti per le osservazioni. Aveva composto al riguardo diverse opere e fu il direttore della costruzione del grande sestante di Rayy (che poi utilizzò per le sue ricerche).

Al-Bīrūnī fu uno studioso di assoluta grandezza: compose circa 180 opere che spaziavano in tutti i campi della scienza conosciuta all'epoca, di cui trentacinque di astronomia pura (ma di queste ce ne sono pervenute solo sei). Tuttavia altri suoi scritti, per esempio quelli sull'India o sulla cronologia, contengono molti riferimenti a problemi astronomici. Il suo capolavoro, che sintetizza gli studi da lui condotti in materia, è l'opera al-Qānūn al-mas῾ūdī, suddivisa in undici trattati, composta verso il 426/1035. Nell'edizione moderna conta ben 1482 pagine (Boilot 1955).

La sua lingua madre era il persiano ma compose i suoi lavori in arabo e conosceva il sanscrito, avendolo praticato nel corso di un lungo soggiorno in India; tradusse vari testi scientifici sanscriti in arabo. Ciò gli dava accesso diretto a tutte le fonti dell'astronomia scientifica indiana, a cui infatti fa costante riferimento, in parallelo con le fonti greche o con i lavori in arabo dei suoi predecessori, i quali ‒ a quanto pare ‒ dopo la prima trasmissione di testi sanscriti nel corso dell'VIII sec. avevano potuto accedere direttamente soltanto ad alcuni fra i testi dell'astronomia indiana o avevano dovuto far ricorso a documenti di seconda mano: in effetti la tradizione scientifica greca era più diffusa nel mondo arabo. Al-Bīrūnī poté in questo modo rifarsi all'insieme del retaggio astronomico disponibile nella sua epoca: greco, arabo, indiano e persiano e tutta la sua opera fu tesa in realtà alla ricerca di una sintesi rigorosa. È fuor di luogo voler qui presentare l'insieme dell'opera astronomica di al-Bīrūnī: ci soffermeremo solamente su alcuni punti del suo metodo.

Nel primo trattato del Qānūn al-mas῾ūdī, al-Bīrūnī fornisce alcuni principî generali sull'astronomia ed espone le basi della cronologia nelle varie culture, compresa ‒ cosa del tutto eccezionale ‒ quella cinese. Nel secondo capitolo tratta della situazione relativa del cielo e della Terra, spingendosi a contemplare l'ipotesi della rotazione della Terra per spiegare il moto diurno. Al riguardo afferma che questa ipotesi era stata sostenuta in India da āryabhaṭa e dai suoi allievi ma che risulta incompatibile con uno degli argomenti di Tolomeo: i corpi in caduta libera non cadrebbero verticalmente se la Terra possedesse un moto di rotazione. Tuttavia, al-Bīrūnī aggiunge che un 'grande sapiente' (di cui non fa il nome) sostiene che l'argomento tolemaico non regge, perché ogni corpo terrestre sarebbe influenzato da questo moto di rotazione, lungo tutta la verticale di caduta. Dopo aver esposto tale argomento (che egli sembra ritenere coerente), al-Bīrūnī torna sulla questione, studiando il moto orizzontale per calcolare la velocità di un punto della Terra nell'ipotesi che questa ruoti su sé stessa e concludendo che tale grande velocità dovrebbe sommarsi o sottrarsi agli altri moti dei corpi terrestri da est a ovest. Poiché ciò non si verifica, egli afferma che a suo avviso non è possibile che la Terra possieda un moto di rotazione. Si noti, infine, che al-Bīrūnī sostiene in questo passo che la rotazione della Terra non muterebbe nulla nella costruzione delle tavole astronomiche per il reperimento delle posizioni degli astri nel cielo, cosa che indica una sua chiara visione del concetto di sistema mobile di riferimento.

In generale, per trattare un dato problema astronomico al-Bīrūnī segue questo schema: dapprima pone alcuni principî generali relativi al problema in questione; in secondo luogo espone le diverse soluzioni proposte dagli astronomi indiani e arabi e da Tolomeo, presentando il tutto criticamente sulla base dei principî generali enunciati; a questo seguono, eventualmente, la presentazione dei dati osservativi più importanti o più caratterizzanti il fenomeno in discussione fino ad allora disponibili e la descrizione delle sue osservazioni; egli presenta infine la scelta di una delle soluzioni precedenti o la proposta di una nuova soluzione personale, basandosi sulla discussione esposta. Esempio di questo metodo è il problema della visibilità della falce lunare trattato nel Qānūn.

Il sesto trattato dell'opera discute il moto del Sole, il settimo quello della Luna e l'ottavo i fenomeni osservabili causati dal legame fra questi due moti: il problema delle eclissi di uno di questi 'due luminari' e quello della visibilità della falce lunare. Il capitolo 13 di quest'ultimo trattato è dedicato ai crepuscoli mattutini e serali, con la descrizione di questi fenomeni in termini di avvicinamento dell'orizzonte al limite del cono d'ombra della Terra. Al-Bīrūnī afferma che gli 'astronomi' (di cui però non cita i nomi) hanno determinato che l'inizio del crepuscolo mattutino a est, o la fine di quello serale a ovest, avviene quando 'l'arco di depressione del Sole sotto l'orizzonte' è di 17° o 18° (e non sceglie fra questi due valori). Il problema della visibilità della falce lunare è affrontato nel capitolo successivo, di cui diamo uno schema sintetico. La capacità dello sguardo di vedere la falce lunare è legata a vari fattori: in primo luogo alla distanza angolare della Luna dal Sole, e ciò determina la porzione di superficie lunare illuminata; in secondo luogo alla distanza Terra-Luna, da cui deriva la luminosità apparente; poi alla luminosità dell'atmosfera all'orizzonte, che dipende dall'inclinazione dell'eclittica sull'orizzonte, e dunque sia da dove si trova il Sole sull'eclittica, sia dalla latitudine del luogo; infine al punto del tramonto della Luna sull'orizzonte, che può essere più o meno vicino al 'punto più luminoso dell'orizzonte', cioè alla verticale della posizione del Sole sotto di esso. Al-Bīrūnī ne conclude che tutti questi parametri devono essere attentamente considerati. Riguardo ai suoi predecessori, egli ritiene che Tolomeo non abbia studiato il problema perché esso non rientrava nel suo ambito culturale; quattro astronomi arabi ‒ al-Fazārī, Ya῾qūb ibn Ṭāriq, al-Ḫwārizmī e al-Nayrīzī, quest'ultimo morto a Baghdad all'inizio del X sec. ‒, invece, si sono basati su un metodo indiano, prendendo la differenza fra il tramonto del Sole e quello della Luna, ma questo criterio non permette di tener conto dell'inclinazione dell'eclittica sull'orizzonte e non è valido (anche se quello di al-Nayrīzī è più esatto degli altri perché prende in considerazione la correzione della parallasse della Luna); al-Battānī, dopo molte correzioni, tiene conto della distanza Sole-Luna sia sull'equatore sia sull'eclittica ma non dell'inclinazione dell'eclittica sull'orizzonte; infine Ḥabaš considera come elemento principale 'l'arco di depressione del Sole sotto l'orizzonte', che è calcolabile soltanto a partire da tutti gli altri parametri ed è dunque il miglior criterio di base. In conclusione, al-Bīrūnī accetta il metodo di Ḥabaš, rinunciando a fornire una sua soluzione personale e, per terminare il capitolo, descrive il modo d'individuare la falce lunare sull'orizzonte utilizzando il 'tubo d'osservazione'.

Il problema del moto del Sole in al-Bīrūnī è stato studiato da Willy Hartner e da Matthias Schramm (1963). Vi ritroviamo tutte le tappe dello schema descritto, con la menzione di numerosissime osservazioni del Sole, altrui e proprie, e uno studio matematico del moto apparente su un eccentrico che ricorda quello di Ṯābit ibn Qurra che abbiamo descritto sopra. Sulla base di un'analisi critica degli autori che l'hanno preceduto, al-Bīrūnī stabilisce definitivamente il moto dell'apogeo solare, ricalcola tutti i parametri e costruisce le tavole di questo moto.

L'opera di al-Bīrūnī, per le sue stesse caratteristiche, non sconvolse il sistema complessivo dell'astronomia che egli aveva ricevuto; rimase fedele, infatti, al sistema di epicicli ed eccentrici che era stato definito da Tolomeo. Va però sottolineata la sua disamina dettagliata, che lo portò a spingere molto avanti, per esempio, la tendenza alla matematizzazione dell'astronomia avviata da Ṯābit ibn Qurra un secolo e mezzo prima: ne è un esempio la sua padronanza degli algoritmi nel caso delle interpolazioni quadratiche. Tale riesame critico gli permise di fare il punto sullo stato della sua scienza, in tutte le sue componenti, citando in modo accurato i suoi predecessori. Un lavoro analogo ‒ se è possibile fare paragoni di questo genere ‒ a quello compiuto nove secoli prima da Tolomeo con il suo Almagesto: la messa a punto rigorosa di una tradizione scientifica, senza però innovazioni globali importanti, utilizzando tutti i lavori precedenti e tutti gli strumenti matematici a disposizione dell'astronomo.

Fu dunque al-Bīrūnī colui che riuscì a portare a compimento ‒ e in modo ammirevole ‒ tale sintesi. Essa rappresenta il coronamento di questo primo periodo dell'astronomia araba, segnato dall'accettazione di molti degli elementi proposti da Tolomeo, nonostante le critiche, anche violente, alla sua opera. Fu il suo contemporaneo egiziano Ibn al-Hayṯam a cominciare a mettere in crisi questo quadro: da una parte redigendo un bilancio delle critiche al sistema tolemaico e, dall'altra, ponendo il problema del rapporto conflittuale fra astronomia 'fisica' 'e matematica'. Problema che al-Bīrūnī sfiorò appena, dato che la sua opera restò quasi esclusivamente su un piano di astronomia matematica.

Bibliografia

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Neugebauer 1962: Ḫwārizmī, Muḥammad ibn Mūsā, The astronomical tables of al-Khwārizmī, transl. with commentaries of the latin version edited by Heinrich Suter, from the ms. Corpus Christi College 283 edited by Otto Neugebauer, Copenaghen, Munksgaard, 1962.

Pingree 1968: Pingree, David, The fragments of the works of Ya῾qūb b. Ṭāriq, "Journal of Near Eastern studies", 27, 1968, pp. 97-125.

‒ 1970: Pingree, David, The fragments of the works of al-Fazārī, "Journal of Near Eastern studies", 29, 1970, pp. 102-123.

‒ 1978: Pingree, David, History of mathematical astronomy in India, in: Dictionary of scientific biography, edited by Charles C. Gillispie and Frederic L. Holmes, New York, Scribner, 1970-1990, 18 v.; v. XV, 1978, pp. 533-633.

Rashed 1991: Rashed, Roshdi, Al-Samaw᾽al, al-Bīrūnī et Brahmagupta: les méthodes d'interpolation, "Arabic sciences and philosophy", 1, 1991, pp. 101-160 (rist. in: Rashed, Roshdi, Optique et mathématiques. Recherches sur l'histoire de la pensée scientifique en arabe, Aldershot, Variorum, 1992).

‒ 1996: Rashed, Roshdi, Math. inf. I.

‒ 1997: Histoire des sciences arabes, sous la direction de Roshdi Rashed avec la collaboration de Régis Morelon, Paris, Seuil, 1997, 3 v. (ed. orig.: Encyclopedia of the history of Arabic science, London-New York, Routledge, 1996, 3 v.).

Rosenthal 1956: Rosenthal, Franz, Al-Kindi and Ptolemy, in: Studi orientalistici in onore di Giorgio Levi della Vida, Roma, Istituto per l'Oriente, 1956, 2 v.; v. II, pp. 436-456.

Schirmer 1926: Schirmer, Oscar, Studien zur Astronomie der Araber, "Sitzungsberichte der Physikalisch-medizinischen Sozietät zu Erlangen", 58, 1926, pp. 33-88.

Sezgin 1974-78: Sezgin, Fuat, Geschichte des arabischen Schrifttums, Leiden, E.J. Brill, 1967-; v. V: Mathematik (bis 430 H.), 1974; v. VI: Astronomie (bis 430 H.), 1978.

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