La città del cinema

Storia di Venezia (2002)

La città del cinema

Gian Piero Brunetta

Il cinema arriva a Venezia

«Andémo, andémo alle vedute vive!»: come un gioioso grido di battaglia questa frase risuona nelle calli, rimbalza e guida la folla veneziana che, il 22 agosto del 1896, da piazza S. Marco, da calle dell’Ascensione, da calle Vallaresso, dai campi S. Stefano o S. Fantin, converge verso il Teatro Minerva di calle XXII Marzo. Quella sera, nel glorioso teatro nato nel lontano 1680, si proietta uno spettacolo cinematografico della ditta Lumière di Lione. Il programma, tra l’altro, comprende alcune vedute veneziane, riprese dal vaporetto dall’operatore Alexandre Promio, che rivendicherà poi nelle sue memorie di aver inventato proprio a Venezia la carrellata(1). Il Cinématographe Lumière è in realtà già approdato a Venezia da più di un mese quando i veneziani possono ammirare la loro città riflessa da un nuovo tipo di specchio magico, che aggiunge alla bellezza la loro presenza viva in scena(2). Questi protospettatori subiscono, forse meno che altrove, la sorpresa e meraviglia della prima volta e sembrano adattarsi naturalmente al nuovo spettacolo, riuscendo a capire subito, senza particolari mediazioni, la nuova lingua delle immagini in movimento. Il battesimo cinematografico regala loro la sensazione orgogliosa di vivere in una città-mondo, destinata, grazie al cinema, a occupare ancor più che in passato l’immaginazione di pubblici sparsi nei cinque continenti. Da secoli, in effetti, una serie di macchine ottiche, dalle lanterne magiche ai «mondi nuovi», dai diorami, ai cosmorami, agli aletoscopi, alle macchine fotografiche e stereoscopiche, ha fatto viaggiare i veneziani, mantenendo sempre Venezia al centro di un’iconosfera in costante espansione(3). Viaggi a poco prezzo nello spazio e nel tempo: «In sta cassela mostro il Mondo Niovo; / con dentro lontananze e prospetive; / vogio un soldo per testa, e che la trovo» dice la didascalia della famosa stampa settecentesca della serie dei Mestieri che vanno per le vie di Gaetano Zompini dedicata al Mondo Nuovo. Più di tutto queste macchine li hanno fatti sentire cittadini privilegiati della capitale dell’immaginazione settecentesca, romantica, e della cultura del decadentismo. Alle soglie del nuovo secolo l’operatore cinematografico assume il ruolo di traghettatore verso la modernità del patrimonio visivo di una città rimasta per secoli eguale a se stessa. In una veduta d’ottica immaginaria potremmo sostituire all’impresario che manovra i fili della «cassela» del «mondo nuovo» le immagini dei primi operatori Lumière, che catturano, con una più moderna camera ottica, i luoghi classici della città, dando però alle immagini monumentali una nuova e diversa vita. Nel momento in cui il cinema muove i primi passi e scopre le potenzialità del suo sguardo, ci si accorge che non può e non è in grado di emanciparsi del tutto da un’iconografia che ha radici secolari e dalle mitologie visive che le macchine ottiche precinematografiche hanno contribuito a creare nell’immaginazione europea. Tale sorta di ‘plancton’ visivo, che ha alimentato per almeno duecento anni i veneziani, fa sì che il nuovo mezzo attecchisca e si sviluppi in un habitat ideale e favorisca la nascita di un Homo cinematographicus in grado di adattarsi perfettamente al nuovo ambiente.

In effetti l’iconosfera veneziana si offre al cinema nella perfezione di una tradizione inalterabile e in cui tutto il visibile possibile sembra esser stato consumato(4). Le prime immagini cinematografiche di piazza S. Marco non vogliono e possono essere altro che varianti, tecnologicamente più avanzate, all’interno di una catena che ha fissato, con Canaletto e Bellotto, le coordinate fondamentali. Forse è l’unica volta che lo sguardo di un operatore Lumière risulta condizionato da canoni e stereotipi tanto forti: il cinema che muove i primi passi, in questo caso, non intende tagliare il cordone ombelicale con la tradizione anteriore, anzi la raccoglie e diffonde sotto altre forme. Promio vede Venezia con lo stesso sguardo e dagli stessi punti di vista dei pittori e fotografi che lo hanno preceduto. Sarà solo nel momento in cui monta su un vaporetto, su una gondola, che l’occhio della macchina da presa sembra acquistare nuovi poteri e invitare alla scoperta di dimensioni sconosciute della città.

Prima che la produzione cinematografica stabilisca le sue capitali a Torino, Roma, Milano, e cominci a utilizzare gli spazi urbani e inventare quelli immaginari, muovendosi in senso antiorario lungo la macchina del tempo, Venezia si offre agli operatori del mondo come una scenografia naturale ancora in grado di rappresentare, al presente, la grandezza e gloria passate. Lo spazio di piazza S. Marco sembra dilatarsi e riprodursi fissandosi in una nebulosa di immagini eguali e distinte in cui i documentari si mescolano indissolubilmente alla finzione. Il passaggio e l’ibridazione avvengono nel modo più spontaneo e l’intera Venezia, nei suoi spazi pubblici e cerimoniali come in quelli privati delle calli, delle case, dei campielli, delle rive e degli stazi per le gondole, comincia a moltiplicare i suoi effetti, a mostrare poteri significanti che, poco a poco, tentano di differenziarsi dal nucleo forte e fondante: in pratica, oltre la superficie in apparenza immobile, il visibile veneziano si offre come uno specchio mutante, che modifica i propri oggetti, invita a esplorare il mistero, le zone oscure che stanno oltre la perfezione della superficie. Ed è l’unico set italiano che non ha bisogno di fondali dipinti o scenografie aggiunte per rappresentare qualsiasi evento lungo un arco di storia di un millennio. Senza perdere il loro fascino e il richiamo turistico, le pietre di Venezia diventano gli sfondi intercambiabili contro cui si possono rappresentare, fin dagli anni Dieci, i riti del potere e i simboli di una volontà e di un dominio imperialistico che si vuol richiamare esplicitamente, anche con il sostegno del D’Annunzio de La Nave, agli anni della guerra di Libia.

Semplificando al massimo, la storia dei rapporti tra Venezia e il cinema si articola in quattro percorsi differenti: 1) l’arrivo dello spettacolo e la sua diffusione in tutte le zone della città; 2) le mille e una immagine che il cinema italiano e internazionale ne hanno dato, muovendosi tra la città monumentale e quella labirintica, misteriosa, che vive nella dimensione del mito; 3) la storia della Mostra del cinema, dei suoi fasti e delle sue crisi; 4) ultimo, ma non meno importante, il breve periodo in cui Venezia, tra il 1943 e il ’45, diventa capitale cinematografica della Repubblica Sociale. Queste storie, differenti tra loro, sembrano però scaturire da un destino che promuove Venezia non a «città del cinema», ma a «santuario» di culto internazionale della nuova espressione artistica e a spazio ideale di molte trame. Territorio privilegiato, in un certo senso Venezia è anche prigioniera e condizionata dal peso di una tradizione iconografica che non la proietta con forza nel presente, ma neppure la condanna a vivere in uno spazio senza tempo. Non è semplice cogliere all’interno dei vari percorsi, in cui quasi per forza delle cose si è catturati dalla piccola storia evenemenziale, uno spirito, un senso e un’anima forti e comuni.

La storia dei rapporti tra Venezia e il cinema è, da una parte, storia di un grande patrimonio visivo e di un mondo che rappresenta la tradizione e cerca di mantenere la propria identità e i propri ritmi distinti da quelli del mondo moderno, e, dall’altra, un luogo divenuto dagli anni Trenta il battistero in cui il cinema è stato, per la prima volta, ufficialmente consacrato come arte. Per questo, tra tutte le storie di cui vogliamo occuparci, quella della Mostra è la più profondamente radicata all’identità culturale della città. Fin dalla nascita la Mostra del cinema è divenuta polo magnetico verso cui le luci del cinema mondiale sono confluite in un punto che le ha restituite moltiplicate e ne ha valorizzato in molti casi la potenza. D’altra parte, sul piano della rappresentazione vera e propria, Venezia ha avuto tantissimi registi che l’hanno vista e descritta dall’esterno, ma non ha mai avuto un autentico cantore, capace di coglierne l’anima e di osservarla veramente dall’interno, promuovendola, come Fellini ha fatto con Rimini o Roma, Carné e Truffaut con Parigi, Scorsese o Woody Allen con New York, Ford con la Monument Valley, a luogo privilegiato dell’immaginario cinematografico mondiale. Venezia è stata visitata da centinaia di operatori e registi, ammirata, osservata, guardata, mai veramente vista.

Il cinema entra in città

Nel momento stesso in cui giunge a Venezia il cinema, come si è detto, la promuove a soggetto privilegiato della rappresentazione e presto i teatri veneziani si dimostrano assai ospitali nei confronti del nuovo tipo di spettacolo(5). Tolleranti in fatto di moralità pubblica e buon costume le autorità, il pubblico e gli organi di stampa non prestano particolare attenzione alle «serate nere» per soli uomini contro cui nelle città venete di terraferma si scatena invece l’opinione pubblica. Alla «serata nera» del 2 luglio 1900 del Teatro Minerva «possono intervenire le signore» e il 13 maggio dell’anno successivo vengono ancora offerte «vedute nitide e interessanti» e si dice nelle locandine pubblicitarie che «attraggono moltissimo le celebri raffigurazioni della parigina che si sveste nella sua toilette notturna». I frammenti minimi di dati che possiamo raccogliere sul costituirsi dei primi pubblici ci consentono di risentire i richiami degli imbonitori (come quelli di Fureghin del cinema di ponte della Piavola: «Oh solamente che otocentovinticinque metri, gnente altro che squasi mile metri de drama... Oh che belo, che bel drama, oh che magnifico! oh che spetacolo! Oh che drama dramatico!»), o le interazioni del pubblico con lo schermo raccontate nel saggio di Bertolini, che coglie benissimo il momento di catechesi cinematografica per tutte le categorie sociali veneziane(6). Di fatto il nuovo spettacolo viene subito adottato con entusiasmo da tutti i veneziani nei sestieri e nelle isole. Già dal 1905 — dopo alcuni anni in cui il cinema viene ospitato nei teatri assieme agli spettacoli di varietà o di illusionismo, o nello stabilimento bagni del Lido, o alla birreria S. Chiara a S. Croce, o circola lungo la riva degli Schiavoni, o in campo S. Margherita, grazie ai baracconi ambulanti degli Zamperla, dei Bläser, di Carlo Lifker, dei Roatto, della compagnia Kobelkoff, di Costantino Daneo e Salvatore Spina — si apre le prima sala cinematografica al Teatro Ridotto in calle Vallaresso. E a ruota in campo S. Margherita, a S. Zulian, al ponte della Piavola, al ponte dei Fuseri, in rio terrà Maddalena, a Castello... Nel giro di pochi anni le sale cinematografiche, che si chiamano Salone Vittoria, Cinematografo Edison, Marconi, Goldoni, Radium, Gigante, Re, San Marco, Iris, Garibaldi, Tripoli, Moderno e Santa Margherita di campo S. Margherita, così come i teatri Ridotto, Malibran, Rossini (convertiti in cinema), raggiungono la trentina e appaiono distribuite in tutti i sestieri della città, oltre che al Lido, dove all’Excelsior opera un cinema omonimo(7). Luigi e Almerico Roatto risultano subito proprietari di più sale — l’Edison a S. Zulian, il Marconi nell’ex Caffè Vittoria, il Gigante al ponte della Piavola, il Re in rio terrà Maddalena, il San Marco in salizzada S. Moisè — mentre dal 1908 si costituisce l’U.N.I.C.A., società di produzione, distribuzione, esercizio tra i cui azionisti figurano Luigi Roatto, Gino Protti e Giovanni Rossetto.

La mancanza di capitali consistenti e di un contesto industriale in piena espansione condiziona da subito le ambizioni produttive di Venezia, che troverà più facile offrirsi come set privilegiato per molti tipi di storie piuttosto che divenire polo di investimento nella nuova industria dello spettacolo. Di fatto la storia produttiva di Venezia cessa nel momento stesso in cui comincia: la prima guerra mondiale eliminerà definitivamente ogni velleità e ogni iniziativa in questo senso.

I mille volti di Venezia sullo schermo

Forse proprio per il fatto di essere un luogo privilegiato del patrimonio visivo internazionale Venezia, pur rappresentata centinaia di volte sullo schermo, non avrà mai un proprio cantore cinematografico, qualcuno capace di andare oltre il gioco delle maschere, dello spettacolo carnevalesco, del fascino dei monumenti, degli stereotipi visivi e socioantropologici e dell’eredità romantica che ha continuato a vederla come luogo ideale, oltre che dell’amore-passione, della malattia, della decadenza e della morte(8). Tradizione iconografica e letteraria, in un certo senso, la imprigionano nel suo mito e condizionano i registi costringendoli a muoversi lungo itinerari obbligati. Per quanti film su Venezia o d’ambiente veneziano vi siano, molto pochi ci guidano alla scoperta o alla conoscenza della città sia nei momenti in cui era ancora abitata dai veneziani, sia in questa fase in cui vive di una vita artificiale indotta dalle folle di turisti che la invadono ogni giorno. Anche nel dopoguerra, quando esplode il fenomeno del neorealismo, Venezia rimane un palcoscenico e non un habitat e la scena veneziana è riservata soprattutto ai turisti e ai foresti, ma non ai veneziani. Scriverà nel 1937 uno dei suoi più ispirati interpreti visivi, Francesco Pasinetti: «Davvero Venezia non ha avuto fortuna sullo schermo. Il cattivo gusto di produttori e registi è stato il suo peggior nemico: come ogni veneziano del tempo antico ‘bon cortesan’ è stata fin troppo ospitale e gentile e non ha rivelato i suoi segreti: i luoghi riposti, i ponti, le calli, i canali, i campi inaccessibili ai cineasti dallo sguardo superficiale»(9).

Venezia diventa subito sfondo e scenario ideale oltre che per film tratti dalle tragedie di Shakespeare (nel 1909 vi sono ben tre versioni dell’Otello, nel 1911 viene girata una versione del Mercante di Venezia con Ermete Novelli e Francesca Bertini), che consentono di offrire il prodotto a pubblici internazionali, per un numero indefinito di documentari e per storie che dal Medioevo giungono fino ai giorni nostri (si va dalla prima versione del Fornaretto di Venezia del 1907 a Bianca Capello del 1909, entrambi diretti da Mario Caserini, alla Nave del 1911 di Arrigo Frusta, alla Gioconda di Luigi Maggi dello stesso anno). Nel 1913 Max Reinhardt gira a Venezia Eine venetianische Nacht, interpretato da Maria Carmi. Con lui altri registi affrontano vicende sentimentali in cui la città gioca un ruolo di agente e protagonista: vedi Ma l’amor mio non muore di Mario Caserini del 1913, film che consacra Lyda Borelli a protodiva italiana, o L’ultima dogaressa di Luigi Maggi del 1914. Alla tradizione letteraria e teatrale — che include, oltre a Shakespeare, il melodramma e l’appendice, o il teatro dialettale, Zévaco e Dall’Ongaro, Ponchielli e Byron, D’Annunzio, Carlo Goldoni e Giacinto Gallina — il cinema d’ambiente veneziano attinge a larghe mani fin dai primi passi. Poi, come in una specie di caleidoscopico gioco di specchi, fatto di illusioni, rifrazioni, riproduzioni realistiche e fantastiche, l’immagine di Venezia si offrirà, lungo tutto il secolo e ininterrottamente, agli occhi degli operatori e registi di tutto il mondo: partendo dai Lumière si giunge fino a Steven Spielberg di Indiana Jones e l’ultima crociata e a Woody Allen di Tutti dicono I Love You, uno dei pochissimi autori che ha cercato di vedere la città con gli occhi dell’amore, rovesciandone gli stereotipi(10). La Venezia dello schermo è ora luogo di perfetta e immutabile bellezza, ora di decadenza e morte, spazio in cui confluiscono temporalità plurime, isola dell’utopia e dell’acronia, luogo di tutti i luoghi, in cui si ritrovano realtà e sogno, monumenti e senso della precarietà delle cose e dell’esistenza, epopea, mito, leggenda, grande storia e petite histoire individuale.

Nel cinema italiano, nel corso dei decenni, le piazze di Venezia, statiche e mutevoli in maniera indefinita, hanno conservato una loro intatta capacità di rappresentare lo spettacolo della vita nella ricchezza e molteplicità delle sue forme e manifestazioni, nei suoi aspetti solari e soprattutto in quelli notturni. Negli ultimi cinquant’anni lo sfondo veneziano viene usato come lettino psicanalitico in cui raccogliere il senso di molte pulsioni, paure, traumi individuali e collettivi, tabù, angosce e desideri.

Venezia per i primi cinquant’anni della storia del cinema moltiplica la propria immagine sullo schermo lungo catene visive e discorsive coerenti, che vogliono mantenere il forte legame con la tradizione e, al tempo stesso, respirare il mutamento(11). Il cinema si limita, per lo più, a registrare la varietà e complessità del visibile, ma si arresta alla superficie delle cose. La Venezia visibile e già canonizzata da un’iconosfera anteriore lascerà però, anno dopo anno, e in particolare dall’indomani della seconda guerra mondiale, il posto a una città sconosciuta, sfuggente e misteriosa, labirintica, fucina ideale di mille e uno racconti diversi. Il cinema non riuscirà mai a rappresentare in senso positivo il nuovo, a vedere a fondo il mutare dei rapporti della città col mondo e la storia nel corso del secolo.

Fin dai primi passi della produzione nazionale la Serenissima viene scelta, assieme a Napoli, come uno dei capoluoghi italiani più rappresentativi ed emblematici della storia, della cultura e dell’arte nazionale. Per il cinema italiano, che vuole assumere il ruolo di aedo dell’unità nazionale da poco raggiunta, Venezia, con tutta la sua storia e le sue glorie, è, al pari di Roma, un punto di riferimento costante e necessario. Il cinema che rievoca fino alla seconda guerra mondiale, ma anche nel decennio successivo, la grandezza e i trionfi della Serenissima, è soprattutto attento a leggere e interpretare quella storia passata in chiave di storia presente(12). Dopo la seconda guerra mondiale vi sarà un allargamento nella percezione delle possibilità rappresentative e lo scenario veneziano diverrà sempre più una sorta di ‘luogo comune’ per l’immaginazione cinematografica mondiale. In ogni caso è significativo il richiamo alla riconciliazione tra vincitori e vinti espresso nel finale di Sangue a Ca’ Foscari di Max Calandri, del 1946, e sono anche assai emblematiche le paure per le navi turche che minacciano di invadere i territori della Serenissima nei film degli anni Cinquanta (vedi Il bravo di Venezia di John Brahm, 1950, o I piombi di Venezia di Gian Paolo Callegari, 1953), varianti delle paure anticomuniste che nel cinema americano coevo si materializzavano nelle astronavi marziane, o in vari tipi di mostri venuti dalla preistoria o usciti dalle profondità dell’Oceano. Ma è interessante ricordare che nel 1947 il regista americano Martin Gabel immagina in studio a Hollywood con The Lost Moment (tradotto in italiano con Gli amanti di Venezia) una Venezia gotica, un noir e un film del mistero alla Hitchcock — interpretato da Robert Cummings, non a caso — ambientato in un palazzo veneziano immerso perennemente nella semioscurità e abitato da una donna di centocinque anni che sembra aver fatto il patto col diavolo. E nel 1978 il regista Ugo Liberatore con Nero veneziano racconta che Satana in persona sceglie Venezia per dar vita ad uno dei tanti suoi figli che animano il cinema internazionale di quegli anni.

Torniamo al primo decennio del secolo. La produzione più propriamente veneziana non presenterà mai opere memorabili: possiamo ricordare, per curiosità, i primissimi titoli di produzione autoctona Sior Bortolo al marcà, o Biasio el Luganegher del 1907, «comica vernacola [così ricorda Fiorello Zangrando] commentata durante la proiezione da filodrammatici che dietro lo schermo recitavano in dialetto veneziano possibilmente in sincronia con le immagini ed era ispirata al presunto fatto di cronaca del Cinquecento»(13). Tra il 1907 e il 1909 si girano almeno due versioni del Fornaretto di Venezia dal dramma omonimo di Francesco Dall’Ongaro, che, unite alle successive, fino agli inizi degli anni Sessanta, sembrano esempi tra i più evidenti della perfetta permeabilità e traducibilità della biblioteca e del repertorio popolare dell’italiano in una corrispondente filmoteca(14).

Fino a che sarà necessario dar vita a una produzione storica e d’avventure, temi e figure del paesaggio veneziano continueranno a richiamare l’attenzione dei registi italiani e ad assumere in momenti forti — come alla vigilia e durante le guerre mondiali — un ruolo assai emblematico a sostegno dell’ideologia nazionalista. Nel triennio compreso tra la guerra di Libia e la prima guerra mondiale, se i film che ricostruiscono momenti dell’imperialismo romano, da Antonio e Cleopatra a Cabiria, sono portatori di un unico senso, le immagini legate alla rappresentazione delle vicende della Serenissima giocano su registri multipli. Senza perdere il loro fascino e richiamo turistico-culturale, le pietre di Venezia diventano lo sfondo naturale contro cui si possono rappresentare, in un’ottica popolare, i riti del potere e gli intrecci tra amori e lotte politiche. La città con il dedalo di calli e rii, le ombre notturne, le prigioni, i palazzi, le chiese, le maschere, le gondole coperte dal felze, appare come lo scenario ideale per la rappresentazione del potere e dei suoi processi degenerativi, di lotte politiche all’ultimo sangue, di tradimenti e conflitti tra differenti interessi nobiliari e del popolo. Il cinema diventa il veicolo privilegiato per raccontare, in forma elementare e molto emblematica, i meccanismi della politica e renderli comprensibili e spettacolari secondo i modelli della letteratura popolare.

Alla Venezia degli intrighi di palazzo, dell’imperialismo marittimo, si rivolgeranno anche i registi italiani alla fine degli anni Trenta, costringendoci a ripensare, con maggior attenzione, al ruolo del suo paesaggio in periodi ‘forti’ della storia italiana. Partendo dalla logica rappresentativa di film come Il fornaretto di Venezia di Duilio Coletti (1939), Il cavaliere di San Marco di Gennaro Righelli (1939), Il ponte dei Sospiri di Mario Bonnard (1940), Il bravo di Venezia di Carlo Campogalliani (1941), I due Foscari di Enrico Fulchignoni (1942), si potrebbe dire che quel tipo di rappresentazione di luoghi e personaggi ripercorre e riflette, deformandola in modo assai significativo, la fase terminale della parabola del fascismo.

Il tessuto cittadino, in questi insiemi di film, non interessa. La città o è vista dai luoghi del potere, o è rappresentata come uno spazio labirintico, lastricato di pericoli e agguati. Non esiste, per esempio, la descrizione del lavoro né in primo piano né sullo sfondo, mentre è più interessante il fatto che, col procedere della guerra, vengono affrontati i problemi dell’assedio, della mancanza di viveri, della percezione della sconfitta. In uno spazio ricostruito negli studi romani della Scalera, spesso più convenzionale di quello hollywoodiano, si assiste comunque a un lento, quasi impercettibile ‘mutamento catastrofico’, di forme, ideali e parole d’ordine. Il modello imperialistico si disgrega e all’interno di uno dei paesaggi in apparenza più statici e stereotipati si verificano e si possono cogliere fratture e scosse destinate a produrre effetti per lo meno inquietanti sugli spettatori del tempo. Già con un film come Capitan Tempesta del 1941, attraverso l’assedio di Famagosta, si intende trasmettere la percezione di una sconfitta inevitabile(15).

Si potrebbe quasi dire che, all’insaputa degli stessi modelli narrativi, il fascismo tenta di manifestarsi prima dissimulando il proprio stato di salute, poi mostrando più evidenti sintomi e segni di malessere, per giungere infine a lanciare nel vuoto vere e proprie invocazioni d’aiuto. Così la scena della destituzione del doge Foscari da parte del Gran consiglio della Serenissima, nei Due Foscari di Enrico Fulchignoni del 1942, è una delle più lucide e profetiche anticipazioni della seduta del Gran consiglio del fascismo del 25 luglio ’43. In ogni caso il cinema in costume d’argomento veneziano cerca di salvare la moralità e l’onestà dei dogi, mentre condanna gli intrighi e l’ambizione di chi li circonda. La diffidenza e la sfiducia verso qualsiasi altra forma di potere che non sia nelle mani di un individuo onesto passeranno intatte anche nella produzione storica del dopoguerra. Nel finale di un film come Sangue a Ca’ Foscari di Max Calandri del 1946 il protagonista lancia questo messaggio: «C’è ancora, purtroppo, chi tenta subdolamente di ingannarci, critica lo stato presente promettendovi tutto il paradiso in terra, ma in sostanza vuole solo mettersi lui al posto di questi per far tutto il suo tornaconto. Non date retta ai sobillatori, sono dei traditori [...]».

Non si deve però credere che esista solo questa Venezia in cui i personaggi popolari sono costretti al silenzio, il potere scende dall’alto e qualsiasi tentativo di modificarlo non può che avere esiti catastrofici e snaturare l’identità della Serenissima. Esiste, per esempio, agli inizi degli anni Trenta, la Venezia dei fratelli Pasinetti, Francesco e Pier Maria, la cui immagine si ricollega alla lezione pittorica che va dal Settecento fino al vedutismo di Beppe ed Emma Ciardi, di cui i Pasinetti sono nipoti. Una Venezia rivissuta dalla macchina da presa secondo moduli di una cultura visiva assai ben metabolizzata e tradotta nel nuovo mezzo in modo molto marcato(16). Una cultura che guida soprattutto lo sguardo di Francesco — che, nel 1933, si è laureato in Lettere a Padova con la prima tesi italiana d’argomento cinematografico (Realtà artistica del cinema. Storia e critica) e anima oltre che la rivista «Il Ventuno», assieme al fratello, anche uno dei G.U.F. (Gruppi Universitari Fascisti) italiani più attivi sul piano cinematografico — nella scoperta delle dimensioni più quotidiane e segrete della sua città, di quelle dimensioni magiche e oniriche che lo portano a cogliere al volo situazioni irripetibili e di intensa carica simbolica(17). Vi sono, lungo tutti i documentari di Pasinetti girati tra il 1942 e il 1949 (La gondola, 1942; I piccioni di Venezia, 1942; Venezia minore, 1942; Venezia in festa, 1947; Piazza San Marco, 1947; Palazzo dei Dogi, 1947; Città sull’acqua, 1949), e più di tutto nel lungometraggio Il canale degli angeli (1934), immagini di una Venezia popolare e artigiana sconosciute alla produzione in costume, magiche apparizioni e sparizioni di ragazzi e fanciulle che sembrano più sognate che reali. C’è il senso di una sospensione del tempo che ci pone in una sorta di spazio di confine ai limiti della storia.

Negli anni Trenta Venezia è anche l’avamposto privilegiato e il luogo d’Italia in cui più si respira cultura europea. Vi giungono in vacanza, sia pure per pochi giorni, in vagone letto o in carrozze di prima e seconda classe personaggi che vengono dalla Francia o dalla Germania, dall’Inghilterra, dalla Mitteleuropa e dagli Stati Uniti. Mentre Roma è la città che si identifica sempre di più con lo spirito del fascismo, Venezia resta la città ponte col mondo, il luogo più aperto e cosmopolita dell’Italia fascista e in qualche modo lo specchio rasserenante in cui il mondo trasferisce i propri desideri di fortuna, felicità e amore. È meta di innamorati e spazio pronubo adottato per motivi del tutto simili dal cinema europeo e americano fino alla vigilia della guerra mondiale. Non poche commedie la scelgono a teatro ideale di schermaglie amorose o di romantiche avventure a lieto fine (mi limito a citare per i primi anni Trenta Der Liebensexpreß di Robert Wiene del 1932, Abenteuer am Lido di Richard Oswald, 1933, La città dell’amore di Mario Franchini e Giacomo Gentilomo, 1934, Eine Nacht in Venedig di Robert Wiene, 1934, Barcarole di Gerhard Lamprecht, 1935, La gondola delle chimere di Augusto Genina, 1936, À Venise une nuit di Christian Jacque, Frau Sylvelin di Herbert Maisch...). Il tempo circolare, lo spazio astorico, il luogo del sogno e del desiderio, lo scenario simbolico e metaforico in cui attraverso il gioco delle maschere del passato si decifrano i significati della storia presente coesistono negli anni Trenta con altri tipi di storie. I registi italiani e stranieri cercano di catturare, anche quando rappresentano banali vicende sentimentali, i riflessi, le atmosfere e gli echi di storie più grandi e cosmopolite. La grande storia è comunque sempre metaforizzata e vista in trasparenza.

La storia reale locale e nazionale, il presente vivo e immediato, la guerra, irrompono sulla scena veneziana solo qualche anno più tardi in un documentario intitolato Venezia insorge, realizzato con mezzi di fortuna da un’équipe di operatori nei giorni della Liberazione. Vi sono certamente, in questo breve documentario realizzato da veneziani che hanno condiviso la vita della città negli ultimi due anni, scene ricostruite di scontri a fuoco tra partigiani e ultimi fascisti che non intendono arrendersi, ma c’è un ethos che sembra partire dalle cose rendendole partecipi di una nuova storia. E c’è soprattutto il senso di una città che esce nelle calli e nei campi, getta le maschere e i giochi di ruolo secolari a cui varie tradizioni l’hanno fissata e si ritrova unita in piazza S. Marco a respirare tutta insieme l’aria della libertà riconquistata. In Venezia insorge finalmente si vedono i volti veri dei veneziani. Bisognerà attendere fino ai primi anni Sessanta e precisamente fino al Terrorista di Gianfranco de Bosio (1963) per veder rievocate, in chiave più strettamente politica, alcune pagine della Resistenza veneziana.

In questo periodo termina la fase del dominio del paesaggio veneziano ripreso in prevalenza come monumento e veduta e dell’uso statico e ripetitivo degli scenari naturali. Venezia diventa, d’ora in poi, un punto d’approdo e passaggio per ogni tipo di soggetto, romantico, drammatico, realistico, turistico, sentimentale, ideologico, avventuroso, di fantasy, horror, erotico, spionistico, fantascientifico, storico, e così via... Lo scenario si dilata e si complica. Ne La vita semplice di Francesco De Robertis del 1945, film girato in parte durante la Repubblica di Salò e terminato nel dopoguerra, il cui incipit evoca addirittura la bomba atomica («Ohe fioi de cani, cossa seu deventai? Cossa che vòl ea bomba atomica?»), la città è vista, per la prima volta, come un’oasi minacciata dalle bombe del produttivismo capitalistico. Canali, rii e laguna producono anticorpi contro i ritmi del progresso, assecondano il recupero di una dimensione in cui i ritmi della natura coincidono con quelli biologici e i bisogni sono ridotti al minimo («Cossa ghe xe da magnar ancùo?», «Poenta freda e acqua de primavera»). Bressan, maestro d’ascia dello squero di S. Trovaso, dove si costruiscono le ultime gondole, si accontenta di poco, la sua vita — come per gli eroi dei film di Frank Capra — ha orizzonti di desideri modesti, si appaga delle ricchezze della vita semplice, ma percepisce una serie di paure ragionevoli che un giorno qualcuno, che ha già portato i treni e i motoscafi a Venezia e vuol sostituire i motoscafi alle gondole, possa, in nome dello sviluppo industriale, commettere il sacrilegio di portare i taxi in piazza S. Marco.

Da questo momento la città dello schermo comincia a confrontarsi in modo continuo con la modernità e ad assumere mille ulteriori volti, mille nuove possibilità e profondità di senso: diventa ancora spettatrice e culla di vicende d’amore che possono giungere in qualsiasi momento della vita, e che, negli anni Cinquanta, godranno del valore aggiunto del colore. Anche il dialetto assume per qualche anno il valore corrispondente di un cromatismo sonoro, non rispetta affatto la verisimiglianza e fissa alcuni modi e stereotipi che impoveriscono l’immagine della città ripresi dalla commedia turistico-sentimentale non solo italiana (Souvenir d’Italie di Antonio Pietrangeli, 1957; Italienreise di Wolfgang Beker, 1958; Venezia la luna e tu di Dino Risi, 1958). Le atmosfere variabili con le stagioni, la luce, il sole, le nebbie, le ombre notturne, assecondano e variano timbri e toni delle molte storie. Ora la città diventa luogo di pulsioni vitali, sfondo ideale per veder sbocciare sentimenti romantici, ora invece la scena diventa un valore aggiunto di connotazione del senso di perdita dell’energia vitale, un emblema di malattia e amore e morte, per esempio in Visconti, epigono della tradizione romantica e decadente, da Senso fino a Morte a Venezia(18), ma anche in Anonimo veneziano, sceneggiato da Giuseppe Berto e diretto da Enrico Maria Salerno nel 1970. Venezia non regala certezze, ma illusioni sentimentali, sensazioni effimere di successo (La signora senza camelie di Antonioni, 1953) e spesso imbrogli (Les noces vénitiennes di Alberto Cavalcanti, 1959), o legami che conducono ad inferos (Eva di Joseph Losey, 1962). D’altra parte, e nello stesso tempo, è patria e terra madre ancora viva nel ricordo e nostalgia di veneziani prigionieri anche dopo la fine della guerra (il gondoliere che la rievoca nel campo di prigionia del Texas in Natale al campo 119 di Piero Francisci, 1947), meta ospitale di profughi dall’Istria (Città dolente di Mario Bonnard, 1949), tappa obbligata del turismo internazionale, che riscopre l’Italia dalla me;tà degli anni Cinquanta (Three Coins in the Fountain [Tre soldi nella fontana] di Jean Negulesco, 1954, Summertime [Tempo d’estate] di David Lean, 1955) e crocevia e luogo d’incontro di amanti, spie, avventurieri (Ombre sul Canal Grande di Glauco Pellegrini, 1951), luogo ideale per chiedere l’asilo politico (come fa il piccolo funzionario russo interpretato da Renato Rascel in Ho scelto l’amore di Mario Zampi, 1953), o in cui la discesa della Grazia riesce a temperare i rigori della guerra fredda (La mano dello straniero di Mario Soldati, 1954). Vi sono film in cui vengono raccontati i riti di iniziazione e di formazione (Bolognini sceglie di ambientare nel 1963 Agostino, dal romanzo omonimo di Moravia, a Venezia e al Lido e non a Forte dei Marmi) e altri che fanno della città lo sfondo ideale per l’amore-passione che acceca e travolge (Senso di Visconti, 1954). E soprattutto realtà dove si può continuare a celebrare, periodicamente, oltre che la fine di intere civiltà, anche il senso di attesa e la speranza nella nascita di nuovi mondi (il finale di Morte a Venezia, sempre di Visconti)(19). La maggior parte dei registi, Visconti in primis — che riempie le sue immagini di risonanze ed echi musicali, pittorici, teatrali, letterari e poetici —, gioca e si confronta con la cultura di Venezia e mai con la sua natura e la sua vita reale.

Anche un semplice censimento che voglia registrare scene e sequenze veneziane nel cinema dal dopoguerra può contare su alcune centinaia di titoli, raggruppabili in alcuni insiemi relativamente omogenei e coerenti. Dagli anni Cinquanta si diffonde, anche nel cinema internazionale, accanto all’immagine solare e turistica della capitale d’arte, l’immagine di una città in agonia esattamente come i suoi abitanti. Una Venezia che sta perdendo la sua identità senza offrire più cittadinanza neppure agli innamorati. Si prenda per esempio Mambo di Robert Rossen del 1954, prodotto da Ponti e De Laurentiis e interpretato da Silvana Mangano e da Gassman: fin dall’ingresso in scena dei protagonisti si capisce che la malattia inguaribile di cui soffrono gli aristocratici protagonisti è la stessa che colpisce inesorabilmente la città. Giovanna, la protagonista, che torna a Venezia dopo alcuni anni di soggiorno a Roma, si sente a tutti gli effetti una straniera che si aggira in luoghi in cui è nata e cui si sente profondamente estranea.

Come in Mambo anche in The Barefoot Contessa (La contessa scalza) di Joseph L. Mankiewicz (1954), il nobile, impersonato dal principe Vincenzo Torlato-Favrini (Rossano Brazzi), è sterile, in rovina e in più affetto da impotenza, in seguito a una ferita di guerra. È fin troppo facile vedere come il regista si serva insieme di una vicenda e dell’ambiente veneziano per constatare una condizione più generale dell’Italia sconfitta in guerra e ormai privata della sua forza e identità e per mettere a nudo il mito del latin lover italiano. Con un’azione quasi sincronica anche Norman McLeod, in La grande notte di Casanova (1954), cerca di infliggere un altro colpo al mito del più grande amatore veneziano, mostrandolo vecchio, malato e con torme di creditori che bussano alla sua porta. La Venezia del mito settecentesco si è involgarita, impoverita e la sua debolezza consente di conoscerla, da parte del turismo americano di massa, anche sotto forma della parodia e di un manifesto senso di superiorità che accompagna a lungo il cinema americano nei confronti di tutto il mondo latino e mediterraneo nel dopoguerra.

A quasi trent’anni di distanza dal Canale degli angeli di Pasinetti, In capo al mondo o Chi lavora è perduto (1963), il film d’esordio di un giovane regista veneziano, Tinto Brass, suscita molti entusiasmi e dà l’impressione che Venezia abbia finalmente un regista capace di raccontarla e di vederla. Purtroppo molto presto l’occhio di Brass sarà attirato da altri paesaggi naturali e le sue rimpatriate veneziane nulla aggiungeranno al repertorio di immagini della città.

Forse tra tutte le Venezie che il cinema ha raccontato negli ultimi decenni vale la pena di ricordarne almeno due: quella fantastica, magica e mitica del Casanova di Fellini e quella marginale, fuori dal tempo, del mediometraggio di Mario Brenta Robinson in laguna del 1985. Fellini immagina la città che fa da sfondo alle ultime gesta amatorie di Casanova come una porta d’accesso ai miti più profondi dell’inconscio collettivo. Chiede ad Andrea Zanzotto di scrivere un recitativo in versi di invocazione a Reitia, un’antica divinità venetica per l’inizio del film. Nella lettera scritta a Zanzotto nel luglio del 1976 così immagina le prime scene: «Il film comincia con un rito (che ho inventato) al quale assistono il doge, le autorità, il popolo di Venezia. È un rito che si svolge di notte sul Canal Grande, dal cui fondo deve emergere una gigantesca e nera testa di donna. Una specie di nume lagunare, la gran madre mediterranea, la femmina misteriosa che abita in ciascuno di noi [...]. La cerimonia è un po’ la metafora ideologica di tutto il film [...]». E poco oltre precisa che cosa vuole esattamente che Zanzotto componga, attingendo al suo linguaggio petèl per rendere il senso profondo della Venezia che il suo immaginario sta costruendo: «Mi sembra che la sonorità liquida, l’affastellarsi gorgogliante, i suoni, e sillabe che si sciolgono in bocca, quel cantilenare dolce e rotto dei bambini in un miscuglio di latte e materia disciolta, uno sciabordìo addormentante riproponga e rappresenti, con suggestiva efficacia quella sorta di iconografia subacquea del film, l’immagine placentaria, amniotica di una Venezia decomposta e fluttuante di alghe, di muschiosità, di buio muffito e umido»(20). Fellini si accosta al mito veneziano avvvertendone la potenza fecondante assieme al senso di sfacelo e di corpo in decomposizione.

Il mediometraggio di Mario Brenta, prodotto da Ipotesi Cinema di Bassano, la scuola ideata da Ermanno Olmi, segue nel loro lavoro quotidiano due fratelli che da quarant’anni raggiungono con la loro barca un’isola abbandonata della laguna per coltivare il loro piccolo orto. I gesti sono così sincronizzati, la sintonia con l’ambiente così perfetta che tra loro non è necessaria alcuna comunicazione: invisibili ed estranei alla città che ogni giorno inghiotte e metabolizza decine di migliaia di turisti, questi due fratelli, che remano in laguna sul loro piccolo sandalo, assumono il ruolo quasi sacerdotale di depositari di uno spirito, di una memoria e di culture che si stanno perdendo per sempre.

La Venezia cinematografica di questi ultimi cinquant’anni è la città di tutti, ma non dei veneziani. Le infinite immagini di piazza S. Marco e delle molte piazze e piazzette che diventano teatro di vicende molto diverse appaiono sempre e comunque come transfert e specchio della situazione ora politica, ora diplomatica, ora più semplicemente affettiva e sentimentale dei protagonisti. Alla quantità di film che hanno scelto Venezia come set privilegiato dell’azione non ha coinciso un eguale allargamento delle funzioni e della rappresentazione di una città in continuo mutamento. Tra tutte le Venezie possibili ha prevalso l’immagine della città-museo, della città imbalsamata, della città visitata, ma non vissuta, dello spazio scenografico in cui ambientare di volta in volta storie tragiche o melodrammatiche. La città, anche se ha raccolto e registrato echi e riflessi dei passaggi storici, rimane in sostanza eguale a se stessa, resta prigioniera di tutti i suoi miti, letterari, teatrali, musicali, pittorici: la sua visibilità si allarga nella misura in cui da una parte si apre al turismo internazionale di massa e dall’altra diventa un punto d’osservazione per varcare una serie di soglie che fanno accedere non alle dimensioni della vita privata e quotidiana dei veneziani ma a dimensioni altre, del mistero, della malattia irreversibile, dell’inconscio individuale e di un’intera civiltà.

La Mostra del cinema, Mecca e Olimpo del cinema internazionale

«Venezia. È stata aperta questa sera prima Esposizione cinematografica internazionale manifestazione d’arte organizzata dalla XVIII Biennale veneziana stop, il successo fu totale davanti a un largo pubblico cosmopolita». Con questo telegramma, firmato dal presidente conte Giuseppe Volpi di Misurata e dal segretario della Biennale, Antonio Maraini, si cerca di rendere partecipe Mussolini del trionfale successo della serata inaugurale del 6 agosto 1932. In una lettera del 10 agosto lo stesso segretario Maraini parla di questa iniziativa come di «una nuova conquista della Biennale, che assicura all’Italia la massima manifestazione dell’arte più tipica del nostro tempo»(21).

Per la prima volta il cinema entra a far parte delle attività della Biennale(22). Per la prima volta al cinema è ufficialmente riconosciuto, grazie alla Biennale, uno statuto artistico, come sottolinea il francese Charles Delac in uno dei tanti discorsi inaugurali: «Venezia, questo focolaio artistico la cui irradiazione si espande sul mondo intero ha solennemente accordato al cinematografo le sue lettere di nobiltà artistica. Ormai, come la pittura, la scultura e tutte le altre manifestazioni dello spirito, il cinematografo ha conquistato un posto definitivo fra le arti»(23). Nei discorsi ufficiali si semina a manciate la parola «arte»: con ogni probabilità il pubblico della serata inaugurale del 6 agosto 1932 — una platea composita di principi, ex re, duchi, nobili, personalità della cultura, giornalisti e spettatori comuni sistemata alla buona nei giardini dell’Excelsior(24) — è solo in parte consapevole di assistere al battesimo ufficiale del cinema come arte(25).

La paternità dell’idea della manifestazione è tuttora incerta: qualcuno l’attribuisce al conte Giuseppe Volpi di Misurata, presidente della Biennale, che vuole rilanciare la spiaggia del Lido. Altri ad Antonio Maraini, segretario generale della Biennale dal 1928. Altri, compreso chi scrive, riconoscono, accanto all’indubbio potere decisionale dei primi due protagonisti, un ruolo determinante, sia dal punto di vista ideativo che organizzativo, nell’attività di Luciano De Feo, direttore dell’Istituto internazionale della cinematografia educativa(26).

Ultima arrivata tra le manifestazioni della Biennale, la Mostra del cinema diventa subito l’evento di maggior ricaduta internazionale. A beneficiarne sono, in misura diversa, la stagione turistica, l’immagine cosmopolita che il fascismo vuole dare di sé agli inizi degli anni Trenta, l’industria cinematografica nazionale, che gode, come gli alianti, dell’effetto trainante della macchina veneziana per poter riprendere quota, e ultima, ma non minore, la stagione cinematografica vera e propria, in pratica inaugurata dall’esposizione veneziana. Luciano De Feo appare sempre più come l’autentico deus ex machina della manifestazione, l’uomo dei fili, che, dopo aver intrecciato una fitta trama di relazioni internazionali, grazie alla «Rivista del Cinema Educatore», realizza il suo capolavoro, mettendo a punto la macchina organizzativa dell’esposizione cinematografica e fissando la prima idea di rassegna competitiva tra opere di tutta la produzione mondiale.

La Mostra, che nasce sotto il doppio segno dei Leoni (zodiacale e di S. Marco), gode, dal primo anno, del favore dello star system hollywoodiano, oltre che dell’«intervento personale del Duce». L’immagine che si vuole offrire è quella di una manifestazione in cui si miscelino ingredienti di carattere mondano con altri di carattere artistico-spettacolare. Oltre ad avere il patrocinio di Auguste Lumière, Guglielmo Marconi e Luigi Pirandello, la Mostra riesce, molto felicemente, a coniugare le più nobili ragioni estetiche con quelle del rilancio turistico dell’isola. La C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi) interviene da subito come soggetto promotore, partner, ospite. Oltre a concorrere finanziariamente con un contributo di 25.000 lire la C.I.G.A. diventa motore e ospite delle feste mondane, accoglie le personalità artistiche e istituzionali e nei suoi giardini offre a un pubblico selezionato la possibilità di assistere alle proiezioni ufficiali delle quindici serate(27).

Proprio guardando le caratteristiche e gli esiti della prima edizione, si ha l’impressione che venga rispettata in pieno l’ipotesi contemplata nelle premesse al regolamento in cui si dice: «L’esposizione ha lo scopo di riconoscere e premiare quelle opere cinematografiche che mirino ad autentiche espressioni d’arte, senza alcun pregiudizio di nazionalità o tendenza. L’ospitalità dell’esposizione nei confronti dell’arte cinematografica di ogni tendenza [...] è tale da escludere nelle sue manifestazioni qualsiasi ingerenza di carattere politico». Grazie proprio alla nascita della Mostra il regime può offrire di sé una nuova immagine al mondo e presentarsi con tutte le carte in regola sulla scena internazionale come massima potenza culturale.

Il programma della prima edizione prevede la partecipazione di undici film americani, sei francesi, quattro tedeschi, tre inglesi, due sovietici, un film italiano in concorso e due fuori concorso, un film cecoslovacco, uno olandese e uno polacco. In effetti l’apertura verso l’Unione Sovietica, fin dalla prima edizione, è importante e, sotto vari aspetti, come ricorderà vent’anni dopo Luciano De Feo, l’apparizione di una locomotiva da cui sventolavano le bandiere rosse mentre la banda sonora rovesciava sulla terrazza dell’Excelsior le note dell’Internazionale produce un discreto choc sui catecumeni veneziani, il cui immaginario, con ogni probabilità, non era mai stato sfiorato da immagini rivoluzionarie(28).

Per buona parte degli anni Trenta Venezia è un portofranco per la cultura cinematografica internazionale, un crocevia di esperienze e un luogo in cui convergono giovani privi di titoli onorifici o di quarti di nobiltà che iniziano il loro training critico con estremo entusiasmo e scoprono la propria vocazione e la propria strada(29). In nessun altro luogo italiano si respira un analogo spirito cosmopolita, si dimenticano le prescrizioni autarchiche e si ha l’impressione di godere, grazie al cinema, di una cittadinanza internazionale. Il cinema assume subito un ruolo strategico dominante e aggiunge valore e potere internazionale alla Biennale. All’atto della fondazione la Mostra appare come luogo ideale di confluenza e di pellegrinaggio di tutte le forme di culto cinematografico. René Clair e Frank Capra, Nicolaj Ekk e Ernst Lubitsch, Leontine Sagan, Howard Hawks e Mario Camerini, oltre che Greta Garbo, Clark Gable, Norma Shearer, Joan Blondell, Ronald Colman, Fredric March, richiamano oltre 25.000 spettatori alla prima edizione della Mostra.

Già dalla seconda — del 1934 — quel pubblico mondano e internazionale, che appariva come parte integrante del décor, lascia il posto a una composizione dei destinatari assai più differenziata ed articolata «molto più di quanto non si possa credere», osserva Sandro De Feo sul «Secolo XIX», fotografando anche i nuovi orizzonti d’attese: «Le signore eleganti avrebbero desiderato forse maggior copia di drammi, di commedie e perché no, di documentari mondani [...], i puri avrebbero voluto più metafisica e psicanalisi, i commercianti avrebbero preferito che si fosse dato meno spago al documentario [...] e i giornalisti contavano le giornate che li dividevano dalla chiusura della manifestazione»(30). Del resto, fin dall’atto della fondazione si pensa alla creazione di un luogo in grado di ospitare un pubblico ampio ed eterogeneo. Il pubblico veneziano si stabilizzerà presto e basteranno poche stagioni per fissarne una significativa foto di gruppo: «Ore 22. Si proietta. Non importa che cosa si proietta: un film qualunque, uno dei cinquanta e più della Mostra. Per una volta tanto [...] invece di occuparci dello schermo occupiamoci del pubblico, che dovrebbe essere a giusta ragione celebre almeno quanto lo schermo. Anzitutto è un vero pubblico internazionale. Facendo un’indagine con i passaporti alla mano ci sono serate che radunano perfino quaranta nazionalità. Tutte le longitudini, tutti i meridiani, tutti i gusti, tutte le civiltà, sono rappresentati da dignitosi signori in marsina o da signore scollatissime»(31). Se si pesca nelle testimonianze o nella stampa degli anni Trenta è pure possibile cogliere le reazioni dei pubblici di fronte ai singoli film e assistere a quella nascita di tifo da stadio, o da arena, in cui il pubblico si sente chiamato da subito a decidere la sorte del film. Marco Ramperti registra, ad esempio, le reazioni del pubblico aristocratico al film olandese Dood Water di Rutten, di fronte al quale «superò ogni limite di decenza, sfrenandosi oscenamente in fischi, urla e lazzi di bettola carnevalesca»(32).

Tra la prima e la seconda edizione si verifica una netta impennata verso l’alto di tutti i grafici: raddoppia il numero di spettatori, il numero di nazioni partecipanti, raddoppia il numero di film presentati, il numero dei premi(33). Per qualche anno non si avvertirà, almeno esteriormente, l’intenzione di far pesare e prevalere alcun tipo di esigenza propagandistica. Anche se, com’è naturale, si punta a valorizzare la produzione nazionale, che con una certa fatica sta passando, in termini numerici, da poche unità a qualche decina.

Dal 1934 l’ingresso di nuove nazioni partecipanti (dall’Austria al Giappone, all’India, alla Svezia, alla Turchia) crea qualche problema politico, presto superato dall’accresciuta popolarità della manifestazione sul piano internazionale. Se da parte di qualche fascista ci si lamenta per l’eccessivo «cosmopolitismo sfacciato» e da parte cattolica si insorge contro l’inserimento in concorso della pellicola di Gustav Machaty Extase (e questa è la prima di una lunga e periodica serie di mobilitazioni a difesa della moralità e del comune senso del pudore), dall’altra i sostenitori del primato dell’arte vedono rafforzarsi le proprie ragioni. Il 1934 è l’anno di The man of Aran di Robert Flaherty, che qualcuno giunge a paragonare all’Odissea, ed è anche l’anno di Dood Water di Gerard Rutten, opera per cui la critica mobilita una quantità di riferimenti culturali con la pittura fiamminga del Seicento. Lo stesso Extase divide la critica: accanto a chi invoca gli anatemi e chiede la mobilitazione per una crociata morale (tra costoro c’è anche imprevedibilmente Achille Campanile)(34), c’è anche chi, come Mario Gromo, critico della «Stampa», si rifiuta di accettare definizioni troppo ottuse e afferma che «certe scene del film da altri giudicate pornografiche hanno in realtà la castità di una favola fluviale e boschereccia»(35). È importante richiamare questo film, perché periodicamente a Venezia lo scandalo diventa il sale e l’elemento catalizzatore della manifestazione. «Oportet ut scandala eveniant» a Venezia, perché, in questo modo, si misurano molti indicatori sociali, culturali e morali, si possono studiare i rapporti tra le istituzioni politiche e religiose locali e nazionali e le loro dinamiche nel corso del tempo. Quasi in base a una legge pavloviana le forze cattoliche istituzionali si muovono per prime a condannare e a lanciare anatemi e crociate iconoclaste contro singoli film e contro i responsabili della Mostra.

In ogni caso il fuoco incrociato degli sguardi critici su oggetti comuni diviene sempre più un test importante per misurare le caratteristiche degli strumenti di analisi e giudizio messi in gioco e l’oscillare tra le ragioni più propriamente artistiche e la presenza di interessi e attenzioni per motivi politici e di propaganda contingente. Il critico e il pubblico andranno sempre al cinema armati e pronti a battersi pro o contro. Venezia diventerà — soprattutto negli anni Cinquanta e Sessanta — campo di memorabili battaglie critiche e ideologiche senza esclusione di colpi.

Fin dalla prima edizione si riconosce e si privilegia l’interesse per l’autore e lo si identifica, in modo definitivo, col regista, cercando di isolarne la specificità e individualità del rapporto con la macchina da presa. Nei primi anni Trenta ci si muove certo sotto la protezione dell’ombrello idealistico, il linguaggio dei critici è infarcito di termini come «poesia», «ispirazione», «finezza emotiva», «forza suggestiva», «staticità contemplativa» e tuttavia si riconosce come siano ormai infantili le discussioni se il cinema possa o non possa essere un’«arte». Nel giro di un paio d’anni il livello dei presupposti comuni diventa più elevato, così come aumenta il rischio critico. Certo, dal 1935 in poi, le battaglie a favore del ‘cinema cinematografico’ risulteranno sempre più compromesse dal prevalere di spinte dall’esterno, tendenti a imporre e modificare il giudizio sulla base di parametri e categorie tutt’altro che artistiche. Ed è proprio dal 1935 che l’attivazione di una commissione internazionale per l’assegnazione dei premi (commissione composta da personalità di nomina internazionale e di nomina governativa) aumenta la posta in gioco e fa sì che ogni premio sia il risultato di una quantità di ragioni e interessi e lo si possa interpretare sulla base di opportunità e opportunismi politici, diplomatici e culturali di vario tipo.

Da questo punto di vista non si potrà non osservare come, negli ideali piatti delle ragioni artistiche e di quelle politiche, se la bilancia, almeno nelle intenzioni, in principio pende nettamente a favore delle prime, poco per volta i rapporti mutano fino a che la relativa indipendenza culturale e decisionale delle giurie stesse viene meno platealmente con la premiazione ex aequo nel 1938 di Luciano Serra pilota di Alessandrini e di Olympia di Leni Riefensthal. Una sorta di ricerca di ideale ‘parità di condizione’ tra le due nazioni neoalleate, un pegno da pagare alle ragioni superiori della politica. Gli anni successivi — forse tra i meno gloriosi della storia della manifestazione — ci mostreranno un atteggiamento da parte delle giurie di accettazione di questa prevalenza delle ragioni della politica su quelle dell’arte. Con significative eccezioni. Nei giardini dell’Excelsior, non dimentichiamolo, per esempio nel 1937 viene applaudito La grande illusion di Jean Renoir. Un anno dopo giunge una lettera del ministro della Cultura popolare Dino Alfieri al conte Volpi: «Ai sensi dell’art. 5 lettera g del R.D.L. 13 febbraio 1936-XVI n. 891, devono far parte della Commissione Esecutiva per l’organizzazione tecnica della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica due esperti, scelti dal Comitato. Alla nomina di tali esperti non si è ancora provveduto. Al riguardo, tenendo presente l’increscioso episodio occorso lo scorso anno a proposito del film pacifista e disfattista La grande illusion riterrei opportuno che quest’anno si procedesse diversamente e suggerirei pertanto che i due esperti siano scelti tra elementi responsabili, ciò che, mi sembra, potrebbe ottenersi richiedendo la designazione alla Federazione Nazionale Fascista Lavoratori Spettacolo e alla Confederazione Nazionale Fascista dei Professionisti e degli Artisti. Ripeto, questo non è che un mio suggerimento, determinato unicamente da considerazioni di obiettività e opportunità [...]»(36). È molto significativo questo documento perché mette in luce, in questo caso per iscritto, la pressione che si è sempre cercato di esercitare fino agli anni più recenti, nelle forme più varie, più o meno scopertamente o elegantemente, da parte delle forze politiche, religiose e istituzionali sulle giurie e sui premi. Molto spesso i verdetti veneziani hanno raccontato e rappresentato più un termometro del tempo politico che un riconoscimento libero alla creatività del cinema internazionale.

Nel 1938 si comincia a parlare di un progetto francese di inaugurare una mostra a Cannes in concorrenza con quella di Venezia. I timori del direttore Ottavio Croze non sono frutto di paranoie e di sicuro una spinta decisiva verrà dalla decisione delle majors americane di uscire dal mercato italiano in seguito a una legge italiana (la legge Alfieri) del 1938 che ne contingenta fortemente l’accesso. I produttori americani che decidono di non sottostare alla legge vedono con favore il progetto francese e lo sostengono, se non materialmente, come si dice da parte italiana (facendo balenare, con perfetta scelta di tempo, anche complotti ebraici), con la massima disponibilità ad inviare i loro film al festival che si inaugurerà nel 1939.

Gli anni della guerra sono i più bui della storia di tutta la Mostra: anni quasi senza storia, ma non senza pubblico o critica. I critici vecchi e nuovi affluiscono regolarmente e compiono il proprio mestiere continuando a cercare i valori di luminosità o i ritmi di montaggio in film bulgari o norvegesi. Per molti di questi critici l’amore per il cinema è così totale da non voler conoscere o indagare altre ragioni che non siano d’ordine puramente cinematografico. Assai emblematica è l’atmosfera di un’edizione straordinaria come quella del 1940, che verrà intitolata «Manifestazione Italo-Tedesca» e che, assieme alle edizioni successive, non verrà computata nella storia della Mostra. Ci sembra che valga la pena di soffermarsi su questa edizione se non altro perché, per ragioni di sicurezza, le proiezioni vengono spostate a Venezia (ma non quelle dell’Arena) e il numero di nazioni partecipanti viene drasticamente ridotto. La prima sensazione di critici e spettatori comuni, che osservano il programma che inizia il 1° settembre 1940, è di spaesamento: però l’abbandono forzato del Lido dove, in passato, «la brezza marina, carica di profumi di gran marca, dava a molti spettatori la sensazione di una navigazione verso le isole Fortunate» — secondo una felice osservazione di Diego Valeri — non è visto da tutti come una perdita irreparabile. Chiuso l’Excelsior, chiuso il Palazzo del Cinema appena costruito dall’ingegner Quagliata, lo spostamento delle proiezioni nelle due più attrezzate e moderne sale della città, il San Marco e il Rossini, non crea rimpianti, né proteste. L’edizione straordinaria di guerra, allestita in tempi brevissimi, non si avvale di giurie, né distribuisce premi. Si presenta, in ogni caso, come una sfilata della più recente produzione italo-tedesca e vuole dimostrare come lo sforzo industriale sia già una prefigurazione dei futuri sviluppi dell’arte cinematografica dopo la «definitiva vittoria dell’Asse». I consensi giungono unanimi dall’«Osservatore Romano» alle riviste dei Gruppi Universitari Fascisti. Certo qualcuno, tra i critici giovani, al sentir l’odore della polvere da sparo, non sta più nella pelle e vorrebbe vestire la divisa e dare il suo contributo alla «guerra di liberazione». Ma nell’attesa della chiamata alle armi la parola d’ordine è «Tutti a Venezia!» ad applaudire il cinema tedesco e italiano e a sostituire a culti ormai declinanti nuove mitologie divistiche e registiche. Heinrich George pare reggere bene al confronto con Jean Gabin, Hilde Krahl può essere la nuova Greta Garbo, Veit Harlan è subito considerato da Gianni Puccini un «giovane dal polso maestro», Hans Schweikart è la «rivelazione» di Venezia: le argomentazioni tecniche ed estetiche con cui si dimostra questo passaggio positivo dal vecchio al nuovo sono sofisticate e ineccepibili.

La critica giunge a Venezia ben attrezzata, pronta a percepire le novità e a esercitare la sua azione di attacco e di difesa. Filippo Sacchi, decano dei critici cinematografici, sceglie di accordare il pezzo sinfonico d’apertura sul «Corriere della Sera» non sul programma, ma sui temi delle condizioni generali della città e dei sistemi di difesa del suo patrimonio artistico. La maggior parte dei capolavori per fortuna è al sicuro. Deambulando per calli e chiese scopre però che la statua del Colleoni è ancora al suo posto, e la Madonna di Tiziano ascende sempre al cielo nell’abside dei Frari, benché zavorrata da centinaia di sacchetti di sabbia ai lati. Anche S. Marco è in trincea, protetto da un grandioso castello di legno imbottito che copre tutta la facciata. Priva dei suoi monumenti artistici, impacchettata alla buona, Venezia non perde il suo fascino e il critico confessa di non averla «mai vista così bella: la vita vi scorre normale, le viti si arrossano sulle altane [...]. Sì c’è il pensiero di quei ragazzi che sono laggiù sul mare, lassù nel cielo a combattere [...] eppure Venezia è serena, al di sopra delle contingenze […]. Bella stagione, bel programma», conclude Sacchi comunicando al lettore la sua impazienza di mettersi presto all’opera.

Confrontato con le edizioni precedenti il programma si potrebbe definire «snello», ridotto com’è a soli trentuno lungometraggi rispetto al numero almeno triplo del ’38. Le nazioni partecipanti sono formalmente otto (nel 1939 erano il doppio), di fatto sono l’Italia e la Germania a battersi in una disfida all’ultimo film. La flessione di pubblico sarà tutto sommato modesta (40.000 presenze rispetto alle 46.000 del 1939), e tuttavia, anche se le veline impongono di sottolineare il calore della partecipazione e porre l’accento solo sulle caratteristiche positive, è proprio la diversa composizione del pubblico, nonché il coprifuoco che accompagna le ombre degli spettatori al rientro nelle case o negli alberghi, a far sentire al proprio posto, e nel pieno esercizio delle proprie funzioni, solo i critici cinematografici. L’inaugurazione ufficiale è fatta in due sedi: il pomeriggio al cinema Rossini, la sera al cinema San Marco. Al Rossini, di fronte a un pubblico in divisa di 1.500 marinai e soldati, il ministro Pavolini sottolinea come Venezia, pur facendo a meno della cornice mondana, voglia consacrare il progresso qualitativo e quantitativo dell’industria italo-tedesca che neppure la guerra è riuscita ad arrestare. Tra tutte le fonti disponibili — in mancanza dei vividi ricordi di Maria Damerini, che nel suo Gli ultimi anni del Leone(37) giunge a ricostruire i riti cultural-mondani della Mostra fino al 1939 — possiamo ricorrere alla testimonianza di un cronista d’eccezione, Michelangelo Antonioni, inviato speciale di «Cinema». La sua prima impressione è che l’atmosfera di austerità, come la mancanza di smoking e di scollature femminili, creino una distanza siderale rispetto alle edizioni passate, senza annullare la sensazione del nuovo e della festa. Si respira un’aria da «allegro veglione» favorita soprattutto dal cromatismo di enormi mazzi di rose mescolati al pubblico e allietata dalla presenza di numerose personalità e divi italiani e tedeschi (tra cui spiccano Paola Barbara, il duca di Genova, comandante della base navale di Venezia, la stella tedesca Heli Finkenzeller, il conte Volpi, Elli Parvo, il regista Amleto Palermi...). Antonioni, come molti giovani critici e aspiranti registi della sua generazione, si dimostra ben disposto nei confronti del nuovo cinema tedesco e di quasi tutta la produzione italiana. Nei suoi articoli avrà toni positivi per il progresso artistico generale del cinema tedesco, per le novità espressive del cinema svedese, come per l’alto grado tecnico complessivo dei documentari Luce come La vita della zanzara, La vita del canarino e La chiocciola, o per quelli di Rutmann e Blasetti dedicati rispettivamente alla Fucina della vittoria o a Napoli. Né nasconderà il suo entusiasmo per «l’interessantissimo documentario tedesco Policromie di rettili», o per un documentario turistico sulla Turingia. In tre lunghe corrispondenze d’insieme cerca di condurre il lettore attraverso quella che gli sembra una situazione eccezionale, favorevole, nonostante tutto, al fiorire dei folletti del genio italo-tedesco e al tendere verso la bellezza assoluta da parte di questi ultimi(38).

In quella dolce atmosfera di settembre critici e pubblico, da Filippo Sacchi a Mario Gromo, da Alessandro Serpieri a Francesco Callari, da Antonioni a Gianni Puccini, a giovanissimi come Renzo Renzi e Guido Aristarco, si ritrovano fianco a fianco, quasi contagiati da un’euforia irripetibile, ad applaudire indifferentemente tra gli attori Gino Cervi e Paola Barbara, Vittorio De Sica e Alida Valli, Fosco Giachetti e Armando Falconi, Amedeo Nazzari, Heinrich George del Maestro di posta di Ucicky, Brigitte Horney e Cristina Soderbaum. Perfino Corina L. — così Mario Mattoli è stato costretto a ribattezzare Corinne Luchaire — che tenta in Abbandono di surrogare Marlene Dietrich di Capriccio spagnolo, riceve applausi tra le lacrime della platea. Tullio Kezich, pellegrino appena dodicenne, cade già in estasi di fronte ai manifesti e ha le sue prime visioni, nel senso che crede di veder materializzarsi davanti ai suoi occhi Assia Noris. Tra i film ricevono eguali dosi di consensi lo spagnolo Raza, tratto da un dramma del generale Franco, una pochade tedesca come Ballo all’opera, e il documentario di Piero Francisci Armonie di primavera, il cortometraggio svizzero Alerte sull’accorrere delle truppe leggere dell’esercito svizzero con tempismo cronometrico a ogni minimo segnale d’allarme e un film di guerra come l’Assedio dell’Alcazar... Il film di Genina piace a tutti. Puccini definisce il regista come il Duvivier italiano e il film come un «modello di regia cosciente e splendente». Piace moltissimo anche al critico dell’«Osservatore Romano», che giunge a considerarlo come autentica opera d’arte e poema epico scritto per immagini.

Concepita dunque al principio come uno status symbol tra i più rappresentativi delle ambizioni culturali e della dichiarata volontà di porre e mantenere l’Italia, grazie al cinema, nel quadro della politica internazionale, la Mostra non è né sarà mai una semplice vetrina, uno spazio neutrale dove sfilano i prodotti delle diverse nazioni. Piuttosto diventa il punto di affluenza di più tensioni: entrano in gioco, per ogni selezione, in progressione geometrica, ragioni che caricano il senso di ogni singola proiezione di un valore trascendente il limite dello spazio e del pubblico veneziano.

In che misura il pubblico, chiamato in un primo momento a giudicare, mediante un referendum, i film proiettati, si rende via via conto di essere una componente sempre meno rilevante nel cerchio del messaggio e in che misura e in che modi questo pubblico tenta poi di assumere un ruolo non di pura tappezzeria? Perché, in fondo, per molti film che hanno cominciato il proprio viaggio attraverso i pubblici di tutto il mondo, l’anteprima veneziana ha potuto, fin dai primi anni, condizionarne il cammino successivo. Se nella fase finale contano i risultati, i verdetti delle giurie e si ricordano solo i titoli vincitori, non è detto che non ci si debba interrogare sulle caratteristiche dei rapporti diretti tra i film e il loro destinatario naturale. Sullo schermo del Lido sono approdati, negli anni Trenta, non solo i mediocri film di propaganda nazista, ma anche i film di Ford, Hawks, Vidor, Mamoulian, Capra. Per un pubblico trascinato inesorabilmente e senza volerlo verso un’avventura bellica catastrofica, i volti di Greta Garbo e Katharine Hepburn, Spencer Tracy, Myrna Loy e Gary Cooper hanno voluto dire qualcosa che è andato oltre il consumo immediato di una serata.

Giaime Pintor, in una delle sue ultime lettere, affermava che il cinema aveva modificato la storia e la geografia dei cervelli di molti giovani della sua generazione. È dentro alla geografia e alla storia dei cervelli degli spettatori della Mostra del cinema che bisognerebbe poter lavorare per far riemergere dal rimosso il senso effettivo di alcune scoperte, di alcune scelte, spesso decisive, di vita anche in senso extracinematografico. Certo a Venezia, tra la fine degli anni Trenta e l’edizione di guerra, risulta presente, giovanissima, una serie di critici e aspiranti registi che contribuirà a dar vita al grande cinema italiano del dopoguerra.

La breve vita del Cinevillaggio della Repubblica di Salò

L’unico momento in cui Venezia diventa — costretta dalla forza delle cose — capitale del cinema italiano, è nei diciotto mesi della Repubblica di Salò. Più che di un capitolo si tratta di un subcapitolo della storia del cinema italiano in cui non è possibile, dal punto di vista della produzione, rintracciare alcun segno o sintomo di ciò che avverrà di lì a poco nel nuovo cinema italiano nato tra le macerie e alimentato dallo spirito dell’Italia che vuole rinascere e riscattarsi. Venezia serve comunque, sia agli operatori del Luce sia ai registi che decidono di ambientarvi le loro storie, come paravento per nascondere lo stato reale delle cose e l’andamento della guerra.

Venezia. Le prime regate veliche della stagione. Con questo titolo si apre il Cinegiornale Luce nr. 406 del 7 luglio 1944. È una bella giornata di sole, nel bacino di S. Marco alcune barche a vela si preparano alla regata. Un pubblico di giovani vestiti di bianco assiste a bordo di piccole imbarcazioni. I volti sono felici e sorridenti. Sullo sfondo, lungo la riva degli Schiavoni, una folla di spettatori. Poi il segnale del via con un colpo di pistola. L’unico dettaglio disomogeneo di questo quadro pieno di luce, di sole e allegria è dato dal passaggio di un motoscafo su cui sventola una bandiera con la croce uncinata. Per il resto nulla fa pensare alla guerra. La vita dei veneziani e dell’Italia dopo l’8 settembre è raccontata dal Luce nel segno della più assoluta normalità. Ferdinando Mezzasoma viene posto a capo del Ministero della Cultura popolare della Repubblica Sociale Italiana, e cercherà subito di rifondare a Venezia, in scala ridotta, l’industria del cinema smantellata qualche mese prima dalla guerra e dai tedeschi, ma, come si capisce dai pochi documenti a nostra disposizione, non nutre una grande fiducia nei poteri propagandistici del cinema e fa ben poco per considerare nell’insieme il problema della produzione e distribuzione, concede pochissime sovvenzioni e nullaosta per la produzione di film a soggetto. Può essere significativa una nota di suo pugno in calce alla richiesta di sovvenzione da parte della Vittoria Film per un film dal titolo Diritto alla vita appoggiata da Giorgio Venturini, direttore generale dello Spettacolo con una lettera in data 9 gennaio 1945: «Tale film riveste quelle caratteristiche d’ordine morale e offre le sufficienti garanzie d’ordine artistico per potere a mio giudizio rientrare nel numero dei sette film che saranno finanziati con i fondi ancora residui». «Non si può finanziare perché non è di propaganda. Se lo finanzi da sé»(39). D’altra parte neppure Venturini, uomo di teatro, ha competenza nel campo specifico e cerca piuttosto di navigare a vista come può con mezzi modestissimi e fortissime opposizioni, che gli vengono sia da parte di Luigi Freddi sia dei fascisti più duri e puri.

La prima preoccupazione di Mezzasoma è comunque quella di ridar vita al Cinegiornale Luce, creatura amata e controllata personalmente da Mussolini fin dalla nascita alla fine degli anni Venti. Dopo un breve commissariato provvisorio di Giuseppe Croce, Nino D’Aroma, ex direttore, è nominato presidente. La sede viene stabilita nell’albergo Bonvecchiati, nei pressi di piazza S. Marco. In attesa di utilizzare alcuni padiglioni nei Giardini della Biennale per lo sviluppo e stampa, si continua a portare il materiale negativo a Torino, con rischi di bombardamenti e costi molto alti. Settantun persone, tra tecnici, giornalisti, fotografi e operatori, producono settimanalmente il Giornale Luce a Venezia. Gli operatori, allettati da una paga mensile di 10.000 lire, non sono tutti di fede fascista. E qualcuno, come Rino Filippini, viene reclutato tra gli operatori con la promessa di non dover realizzare alcun servizio di propaganda. I servizi dei cinquantacinque Giornali Luce realizzati dall’11 ottobre 1943 al 18 marzo 1945 (dal nr. 374 al 428) lasciano spesso la guerra sullo sfondo e puntano piuttosto su una serie di cronache sportive o mondane, o curiosità varie sui diversi tipi di artigianato, che possono andare da come vengono incise in Svizzera le fibbie metalliche che adornano le bretelle dei costumi dei vari cantoni, o viene intagliato il legno in Val Gardena, o nascono i manichini da vetrina in Danimarca...

Concorsi ippici, campionati sportivi, cacce al camoscio, mostre di fotografie artistiche giapponesi, sguardi sul commercio filatelico, incontri di pugilato, spettacoli di beneficenza, esibizioni di pattinaggio artistico sul ghiaccio colorano a ogni numero il Giornale Luce e danno l’impressione di una perfetta continuità col passato. I servizi più propriamente legati alla guerra e alla nuova realtà politica iniziano, in pratica, dalla registrazione della prima assemblea del Partito Fascista Repubblicano a Castelvecchio a Verona, nr. 380 del dicembre 1943. Un numero unico del Cinegiornale nr. 386 ha per titolo L’Italia s’è desta. 9 febbraio XXII: cronache del giuramento dell’esercito repubblicano in tutta Italia. Da questo momento, anche se non abbondano i servizi dal fronte, vi saranno cronache sui bombardamenti alle opere d’arte e ai monumenti e chiese di Roma e del Nord, dalla distruzione del Tempio Malatestiano di Rimini al bombardamento della chiesa degli Eremitani di Padova, o su Mestre e Treviso, sui giuramenti delle reclute, sulle consegne della bandiera di combattimento, o sulle partenze di vari battaglioni di bersaglieri, marinai, fanti e alpini, dal Barbarigo all’Aosta, per il fronte, sulle onoranze ai caduti, sulle visite ai mutilati e feriti. Qualche volta si vedranno azioni dei bersaglieri contro i partigiani titini in Slovenia, facendo attenzione di occultare la ferocia degli scontri e di sottolineare come, dopo aver conquistato un villaggio grazie al valore dei bersaglieri ed averlo «epurato dall’insidia dei partigiani», sarebbero presto tornate «tranquillità e lavoro» (Giornale nr. 395). Un servizio del Giornale nr. 400 si intitola Presentazione degli sbandati e racconta, adottando la forma della parabola del figliol prodigo, come «circa cinquantamila sbandati desiderosi di tornare a lavorare e a combattere hanno risposto al richiamo della Patria affluendo ai Comandi Militari Provinciali e alle caserme».

Pochi numeri dopo, esattamente nel Giornale nr. 410, si parla dei partigiani. Questo servizio colpisce sia per il fatto che si tratta dell’unico accenno alla guerra civile in atto di tutti i servizi dei cinegiornali di Salò, sia per la violenza del tono. I partigiani non vengono assimilati agli sbandati, ma definiti come «autentici sicari al soldo nemico [...] bastardi che per viltà hanno tradito la Patria e per denaro servono lo straniero». Ovviamente «la spada della giustizia sarà inesorabile nel colpire i traditori». Questo servizio è anche uno dei pochi (sono due in tutto) in cui si parla delle Brigate Nere su cui, visti gli esiti inferiori alle attese, si preferisce calare subito un opportuno velo di silenzio. Alcuni servizi sono dedicati alla guardia nazionale repubblicana, ma anche in questo caso, benché si mostrino i soldati in attesa di ricevere le bandiere di combattimento, il senso che emerge è quello di una forza militare che si vuole idealmente ricollegare agli anni della Marcia su Roma, priva di mezzi, votata alla morte, ormai priva di alcun sostegno da parte della popolazione. Lo si vede perfettamente in un cinegiornale quando sfilano per le strade di Cremona cantando dopo l’incontro con Farinacci.

In generale i cinegiornali, soprattutto negli ultimi mesi di guerra, evitano le notizie dal fronte e concentrano la loro attenzione sul fronte interno, sui discorsi di Padre Eusebio a Milano e Venezia, sulla visita di Alessandro Pavolini in Piemonte alla I Brigata Nera mobile, sui momenti significativi di una giornata tipo di un battaglione della Decima Mas, sui festeggiamenti del primo annuale della fondazione dei Fasci repubblicani. Sporadicamente, quasi in dosi omeopatiche, compare il duce, ora a consegnare la bandiera di combattimento a una legione della guardia, o a passare in rassegna un battaglione della Decima Mas, o a celebrare al Vittoriale il settimo annuale della morte di D’Annunzio. Il clou dell’epifania mussoliniana, in questi diciotto mesi, è sicuramente dato dal Cinegiornale nr. 418, che racconta le giornate milanesi di Mussolini, con il discorso al Teatro Lirico, la manifestazione a piazza S. Sepolcro, la visita alla legione Muti... Per il resto la pratica dominante nei cinegiornali realizzati a Venezia è quella del silenzio: non si parla del processo di Verona, non si parla della socializzazione, non si parla della linea gotica, né dell’avanzata anglo-americana.

Venezia, in questo periodo, tiene alta la sua tradizione culturale ed è più bella e pittoresca che mai, sia che si registri l’inaugurazione dell’anno culturale dell’Associazione italo-germanica (nr. 417) o sia ripresa con l’acqua alta (nr. 420 dell’11 gennaio 1945), o sotto la neve (nr. 422 del 27 gennaio). Nel febbraio del 1944 — giusto in tempo per l’inaugurazione dei tre teatri di posa ricavati dai padiglioni della Biennale ai Giardini — rientrano a Venezia da Praga, dove sono state casualmente ritrovate in un magazzino, le apparecchiature cinematografiche requisite dai nazisti a Cinecittà e negli stabilimenti privati della capitale con la scusa di salvaguardarle da eventuali bombardamenti. Con molto senso di understatement e lucida consapevolezza delle difficoltà reali da affrontare, nel suo discorso inaugurale del 22 febbraio Giorgio Venturini battezza il modesto complesso cinematografico in questo modo: «Quel che vedete non è certo Cinecittà: chiamiamolo pure un cinevillaggio: ma il piano urbanistico ne è stato così ben tracciato da consentire domani ogni più ampio sviluppo. Anche Roma, che è grande, nacque dal piccolo solco quadrato. E valga l’augurio»(40).

Più difficile, anzi praticamente fallimentare, il tentativo di reclutamento da parte di Giorgio Venturini di attori, tecnici, registi e maestranze: i soli Osvaldo Valenti e Luisa Ferida partono volontariamente per il Nord, e i nomi di Emma Gramatica, Elena Zareschi, Nada Fiorelli non bastano certo a mettere in orbita sul cielo veneziano una piccola luminosa costellazione divistica. Tra gli sceneggiatori partono Corrado Pavolini e Alessandro de Stefani, mentre Francesco Pasinetti collaborerà come sceneggiatore a La buona fortuna di Fernando Cerchio. Tra i registi solo nomi di secondo piano rispondono all’appello, tra cui Piero Ballerini, Mario Baffico, Francesco de Robertis, Fernando Cerchio, Ferruccio Cerio. «Inutile nasconderselo», scriverà Mino Doletti sul settimanale «Film», «mancano i registi»(41). I film realizzati a Venezia nel 1944 sono una dozzina e per lo più evitano con cura la propaganda, affrontando piuttosto temi sentimentali, o di commedia o melodrammatici: Un fatto di cronaca di Piero Ballerini, Senza famiglia di Giorgio Ferroni (in due episodi), La buona fortuna di Fernando Cerchio, Peccatori di Flavio Calzavara, Ogni giorno è domenica di Mario Baffico. Quelli iniziati nei primi mesi del 1945: Rosalba di Ferruccio Cerio, L’angelo del miracolo di Piero Ballerini, Posto di blocco di Ferruccio Cerio, Trent’anni di servizio di Mario Baffico, Fior d’arancio di Dino Hobbes Cecchini, I figli della laguna e La vita semplice di Francesco de Robertis.

Pochi mesi dopo l’inaugurazione del Cinevillaggio veneziano è già possibile trarre dei bilanci da parte della critica fascista tutt’altro che favorevoli alla gestione di Venturini. L’attacco più violento verrà portato attraverso un rapporto a Mussolini, dal titolo La cinematografia italiana a Venezia, da Asvero Gravelli verso la fine del 1944(42). I casi più significativi sono Ogni giorno è domenica di Mario Baffico e La vita semplice di Francesco de Robertis, quest’ultimo girato negli ultimi mesi di Salò, terminato e distribuito nel 1945. Entrambi sono ambientati in una Venezia popolare; il primo si svolge in parte nel piccolo cinema dell’Arsenale, e vede i protagonisti incontrarsi per caso in un vaporetto in ritardo. Il giovane gode di una breve licenza dal fronte e la ragazza è una mascherina di sala che teme di essere licenziata in tronco per alcuni ritardi nella presa di servizio. Realizzato con mezzi minimi il film non evita i riferimenti e il richiamo indiretto continuo alla guerra (anche se per la popolazione e i personaggi che incontriamo, a partire dal burbero gestore del cinema, la guerra è qualcosa di distante ed estraneo) ma soprattutto cerca in tutti i modi di trasmettere ottimismo, di affidare ai protagonisti la capacità di sognare, di immaginare dei luoghi in cui vivere che possano ancora richiamare i paradisi dei poveri. La vita semplice di de Robertis si muove sulla stessa lunghezza d’onda.

Francesco Pasinetti e Glauco Pellegrini nei mesi di Salò giocano tenendo contemporaneamente i piedi in due campi: di fatto oggi il loro comportamento si può comprendere alla luce di un disegno strategico che puntava a fare di Venezia, fin dall’immediato dopoguerra, un polo produttivo in grado di rimettersi in movimento quasi senza soluzione di continuità e di acquisire un ruolo trainante per la produzione nazionale smantellata nel frattempo. Perfettamente condivisibili in questo senso gli interrogativi sui rapporti con Venturini di Pasinetti e Pellegrini(43) e sul rapporto scritto nel maggio 1945 in quanto rappresentanti di un Ufficio tecnico per il cinema del Comitato di Liberazione Nazionale allo Psychological Warfare Branch, e le risposte di Ernesto G. Laura: «Ma perché interessavano a Pasinetti e a Pellegrini i contatti con Venturini? Perché battersi, come faceva Pellegrini in un suo articolo su ‘Film’ per una migliore qualità dei film di Cinevillaggio oltreché per far emergere un prototipo di film ‘diverso’ come La buona fortuna? Perché ai cineasti veneziani premeva che l’industria cinematografica italiana restasse almeno in parte, dopo la Liberazione a Venezia e quindi che l’esperimento riuscisse»(44). Purtroppo il sogno di Pellegrini e Pasinetti naufraga all’indomani della Liberazione: Venezia continuerà ad essere il set ideale vero o immaginario di una miriade di film e documentari, ma non si svilupperà mai più come capitale produttiva.

Il lungo dopoguerra della Mostra: vincitori e vinti

Tenterà invece subito di riconquistare il ruolo di stella polare e punto d’incontro di tutta la cinematografia mondiale. Se gli anni di fondazione del festival hanno mostrato la possibilità di coesistenza pacifica tra prodotti cinematografici di nazionalità politicamente ostili e se la manifestazione è sempre più apparsa, a mano a mano che si procedeva verso la guerra, come un miracolo di equilibrio tra le ragioni dell’arte, dell’intrattenimento e della politica, il dopoguerra segna, dalla prima edizione, un mutamento di rotta che si verrà sempre più precisando nel tempo. Forse anche grazie alla concorrenza di Cannes, alla libertà assoluta di invenzione di cui si godeva nelle prime edizioni, dovendo inventare la manifestazione sulle macerie, la Mostra del cinema precisa meglio la sua natura e punta a scoprire i talenti del cinema mondiale, a valorizzare i maestri e a cogliere il nuovo nel momento in cui si manifesta.

La riapertura nel 1946 coincide con un ricambio generazionale e una forte volontà veneziana di dare un segno di ripresa a ogni costo. Il Palazzo del Cinema del Lido è occupato dalle truppe anglo-americane: si tratta di fare qualcosa che non faccia perdere alla città il primato di capitale mondiale dell’arte cinematografica. Il neorealismo favorisce la rinascita di una nuova etica e di una nuova epica sia per la critica che per il pubblico. Anche se, da subito, si profila il pericolo della concorrenza con il neonato Festival di Cannes — che già nel 1938 aveva lanciato il suo guanto di sfida («La Biennale est morte. Vive le Festival de Cannes!») — nelle sale di fortuna del cinema San Marco giungono critici da tutto il mondo ad applaudire i film di Lang, Renoir e Carné, dei fratelli Vassiliev, di Vergano e Rossellini, assieme a un pubblico che raggiunge la cifra record di 90.000 presenze.

L’edizione del ’46, che è stata affidata dal sindaco Giovanni Ponti a Elio Zorzi, uomo capace e ben a conoscenza della macchina della Biennale, ha lo scopo di rianimare un corpo ridotto in perfetto stato di catatonia per arresto cardiaco. Quella dell’anno successivo manifesta già l’esigenza del pieno recupero e rilancio sul piano internazionale. Giustamente Callisto Cosulich, ricostruendone la storia in occasione di una retrospettiva per il cinquantennio, afferma: «La tradizione orale coincide una volta tanto con quanto hanno scritto gli analisti della Biennale: la Mostra del ’47 è stata un evento memorabile, il più importante che la manifestazione veneziana abbia vissuto dalla sua fondazione a oggi. Quando i ricordi coincidono con la Storia si arriva alla soglia del mito»(45). Zorzi può contare sulle sue sole forze e sulla sua creatività. Come prima cosa negozia con Cannes la ripresa del festival veneziano e la convivenza delle due manifestazioni, contribuendo a salvare di fatto quella veneziana e a ridarle di colpo tutto il suo splendore, nonostante la provvisorietà delle strutture(46). I film sono raddoppiati e così pure le nazioni rappresentate: accanto ai paesi già presenti in precedenza riappaiono la Danimarca, la Germania, l’India, la Svezia, il Messico, l’Ungheria, la Cecoslovacchia, la Turchia... Tornano le opere dei grandi registi, accanto a quelle degli esordienti: si va da Renoir a Dreyer, da Pudovkin ad Autant-Lara, da Carol Reed agli italiani Alberto Lattuada e Giuseppe de Santis, da Orson Welles a Hitchcock, da Hans Richter a William Wellmann.

Una giuria internazionale assegna di nuovo i premi, distribuendoli a pioggia un po’ su tutte le opere. C’è un premio per «il miglior contributo originale al progresso per la cinematografia» ed un premio a Mai Zetterling per «speciali meriti artistici», c’è un premio a un film svedese «per il suo umorismo» e uno a Pudovkin «per le scene di massa» dell’Ammiraglio Nakhimov. In un clima di straordinaria euforia — in una specie di breve e magico momento di tolleranza tra la guerra mondiale e l’inizio della guerra fredda — si ritrovano, fianco a fianco, ad applaudire Le diable au corps di Claude Autant-Lara o Farrebique di Georges Rouquier ex critici militanti del fascismo e critici cattolici e comunisti, nonché critici venuti da tutto il mondo.

Il ripristino dei premi impone una considerazione di carattere generale che ha quasi un valore di legge: non sempre, anche in futuro, le giurie veneziane saranno all’altezza delle opere da premiare. Nella graduatoria dell’intelligenza cinematografica degli insiemi di pubblici presenti non è difficile constatare che spesso, per ottusità e incompetenza, ultimi vengono i giudici. È più facile riconoscere che i critici, o il grande pubblico, cerchino di mantenersi con i mezzi a disposizione all’altezza della consegna della difesa del Graal dell’arte cinematografica e che i giurati siano a malapena assimilabili ai mercanti in fiera e si limitino ad effettuare baratti e scambi fra merci, senza neppure considerarne e controllarne il contenuto. Incompetenza e caso agiscono dunque come sicure bussole d’orientamento, ieri più di oggi, anche se negli anni recenti non sono state poche le contestazioni dei giudizi delle giurie. Quando poi si aggiungono le difese d’ufficio dei valori di bandiera, o la strada ancora più facile del premio che non si nega a nessuno, si ha un quadro approssimato per difetto dei comportamenti di non poche giurie nel corso di questo cinquantennio. Mentre i principi sono chiari, spesso sfuggono le logiche particolari. Ma forse è sufficiente limitarsi a cogliere alcune tendenze dominanti. Molto chiari sono i criteri che portano i giurati, presieduti da Luigi Chiarini, a premiare nel 1948 l’Amleto di Laurence Olivier, La terra trema di Visconti, La croce di fuoco di John Ford e Louisiana Story di Robert Flaherty.

In questo caso la situazione politica non sembra condizionare il lavoro della giuria come avverrà — in modo ottuso e scandaloso — a partire dai primi anni Cinquanta. Il premio al film di Olivier è il segno che la temperatura dello scontro politico e il lavoro teorico non hanno ancora imboccato la stessa rotta e che i critici di diverse tendenze si riconoscono e antepongono, nel giudizio, problemi tipicamente chiariniani dell’autonomia della forma cinematografica rispetto a quelli del rispetto della logica di parte, partito o tendenza.

Da quando nel 1949 Antonio Petrucci è nominato direttore della Mostra la Democrazia Cristiana lo considera un suo fiore all’occhiello e se ne serve anche per beneficare ed esibire una folla di oscuri esponenti del sottobosco politico e amministrativo periodicamente promossi all’onore dei riflettori. Elio Zorzi, presidente dell’ente, alle prime avvisaglie del mutare del vento politico rassegna le dimissioni senza eccessivi rimpianti(47). Petrucci, che ha partecipato alla Resistenza, punta le sue carte su un intrecciarsi di eventi culturali e mondani, sulle retrospettive, sul moltiplicarsi delle iniziative, sull’attenzione ed equidistanza nei confronti di chi spinge verso una più accentuata mondanizzazione e chi invece preme per un maggiore rigore culturale. Il suo look e il suo attivismo manageriale non riescono a nascondere la modestia culturale di gran parte delle giurie; anche se la qualità delle opere selezionate è, in ogni caso, alta, le giurie valorizzano soprattutto opere su cui è stato generosamente sparso l’incenso religioso. Se le giurie dell’era Petrucci danno ai premi un carattere da sagra strapaesana, i critici trovano in Venezia una palestra in cui trasferire le lotte politiche e in cui battersi in nome di valori della cultura e arte del cinema, incappando però in cantonate clamorose, accecati come sono dal ‘furor’ della lotta politica.

Anche il numero degli spettatori continua a crescere e, nel 1950, supera le 100.000 presenze. Nel conto vanno calcolati anche i bambini e i ragazzi, che si riversano a migliaia nei pomeriggi estivi nella sala grande, spesso giungendo direttamente con i sandali pieni di sabbia dalla spiaggia antistante il Palazzo, portando aria fresca nelle sale riempite, durante le serate ufficiali, da intere delegazioni di rappresentanti di varie istituzioni e uffici pubblici locali su cui i biglietti cadono a pioggia.

La Mostra del cinema, per buona parte degli anni Cinquanta, appare come il paese della cuccagna, o la meta di un viaggio premio per migliaia di persone che col cinema non hanno nulla a che fare. Lo sarà di fatto ancora a lungo e, in un certo senso, il tragitto che va dall’Excelsior al Palazzo del Cinema è stato una passerella e uno spazio che ha illuminato, sia pure per pochi minuti, i volti di stelle e stelline del cinema e quello di esponenti di una nebulosa del potere politico e statale. La memoria oggi esistente della Mostra dagli anni Trenta agli anni Sessanta, dei Cinegiornali Luce prima e delle Settimane Incom poi, racconta in pratica solo questo. Fin dall’inizio si stabilisce uno schema di racconto dei fasti della Mostra destinato a ripetersi in maniera ipertrofica e con minime variazioni da un anno all’altro, come se a Venezia si celebrassero riti ripetitivi e non accadesse mai nulla di nuovo, un racconto che privilegia sia in epoca fascista che repubblicana i fasti e le esibizioni balneari e il passaggio meteorico di stelline destinate a uscire subito dalla memoria, le passerelle di sottosegretari e portaborse, le serate mondane che fanno da contorno al concorso e agli eventi cinematografici. Non interessano i grandi autori, né i capolavori che pure passano ogni anno sugli schermi veneziani agli operatori del Luce e della Settimana Incom. Interessa piuttosto registrare dai flussi più o meno forti di rappresentanti del potere la dimostrazione pubblica dell’appoggio politico alla manifestazione. La tendenza, che pareva essersi assopita negli ultimi anni, mostra invece nelle edizioni più recenti segni di impetuosa ripresa anche sul piano televisivo con un presenzialismo dilagante di rappresentanti del governo e delle opposizioni. Gli archivi della Biennale, della C.I.G.A. e di studi fotografici cittadini offrono un materiale vastissimo, tuttora inesplorato, sui fasti e sulla festa veneziana vissuta come vetrina e ‘occasione condivisa’ del cinema col potere politico e istituzionale. Nel 1953, per non scontentare nessuno, vengono dati ben cinque Leoni d’argento, nel 1954 Giulietta e Romeo di Castellani, prodotto dalla Gran Bretagna, viene premiato con il Leone d’oro mentre Senso di Visconti non riceve alcun premio.

In quell’anno vengono presentate a Venezia almeno sei o sette opere destinate a lasciare un segno duraturo nella storia del cinema: oltre ai film di Visconti e Castellani, anche La strada di Federico Fellini, I sette samurai di Akira Kurosawa, L’intendente Sansho di Kenji Mizoguchi, Fronte del porto di Elia Kazan e La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. Tutti o quasi hanno, per la verità, il loro bravo Leone d’argento, salvo il film di Visconti, contro cui scattano divieti, anatemi, ostracismi di ogni tipo e da molte parti. Come non capire e non essere solidali ancora oggi con la critica idealmente guidata da Aristarco che aveva sostenuto il film e si era battuta con tutte le sue forze perché ne fosse riconosciuta l’importanza e ne fosse premiata la qualità? Il furore della mischia ottunde, in molti casi, quando non acceca, le facoltà visive di tutti i critici, spingendo in particolare quelli di sinistra a ignorare la luce che sprigiona dai film di Bergman, ad attaccare Ordet di Dreyer, Il grido di Antonioni, Hiroshima mon amour di Alain Resnais, i film di Fellini. Schiere omogenee, dal punto di vista ideologico, cominciano a spezzarsi comunque di fronte a Ordet e Senso e La strada. Nonostante la perdita progressiva delle certezze, l’incapacità di capire da che parte stia veramente il nemico, critica e pubblico vivono negli anni Cinquanta stagioni gloriose di passione e totale dedizione alla causa cinematografica.

Tutto sommato l’investimento affettivo e ideologico a favore dei film del neorealismo era stato tiepido rispetto a quello per molti film stranieri. L’appuntamento annuale a Venezia diventa per molti il momento delle grandi verifiche, della mobilitazione e dello scontro diretto in cui la battaglia dura ininterrottamente dentro e fuori del Palazzo del Cinema, nei bar e sulle spiagge, sulle pagine dei quotidiani e sulle riviste specializzate nelle due settimane del festival e oltre. Quegli stessi pubblico e critica, molto a lungo divisi e in conflitto permanente, si ritrovano alla fine degli anni Cinquanta, fianco a fianco, ad applaudire il Leone d’oro alla Grande guerra di Monicelli e al Generale della Rovere e ad acclamare di nuovo Rossellini come maestro e profeta di tempi nuovi. La vittoria del film di Rossellini è uno dei segni importanti dell’allentamento irreversibile della pressione politica e della ridistribuzione delle forze in campo. Floris Ammannati favorisce la ripresa di una dimensione internazionale della Mostra, ma si muove ancora dentro condizionamenti e strettoie dello statuto fascista. Chi viene dopo di lui sarà favorito da una serie di circostanze che premono in direzione della trasformazione e della riconquista del prestigio internazionale.

Il suo successore Emilio Lonero attraversa il cielo veneziano con la rapidità di una cometa: così riesce difficile coglierne l’importanza o le semplici caratteristiche. Gli succede per un biennio Domenico Meccoli. Sotto la sua direzione L’année dernière à Marienbad di Resnais vince il Leone d’oro. Qualcosa dunque si muove. Meccoli è una persona onesta e con un atteggiamento non di parte: è curioso e aperto, competente ed equilibrato. Ma il momento offre delle potenzialità che vanno assecondate con ben altra capacità di iniziative e tempismo. Sulle spiagge del Lido confluiscono e si accavallano con diversa potenza le varie nuove ondate del cinema internazionale. Si tratta di volteggiare e saper cavalcare nel verso giusto queste vagues di varia altezza e potenza. È quanto riesce a fare Chiarini nei cinque anni della sua direzione.

«Quale destino avrebbe oggi Gustav Aschenbach se fosse capitato al Lido durante il festival?», si chiede Italo Calvino, inviato speciale di «Cinema Nuovo» a Venezia nel 1955. E immagina che, dovendo riscrivere la Morte a Venezia, Mann farebbe piombare lo scrittore nel vivo della manifestazione cinematografica, lo porterebbe a innamorarsi di una stellina «tutta seno e coscienza» e a morire di un’epidemia di noia fissando il seno dell’aspirante diva su una chaise longue della spiaggia del Des Bains. Benché malattia endemica per i pellegrini cinematografici del Lido, la noia sembra debellata dagli anni Sessanta: al festival si potrà morire di tutto — di rabbia, di indignazione, di scontro accidentale con i manganelli — ma non di noia. Dal momento del suo insediamento, fino alla sua ideale decapitazione nel 1968, Chiarini assume, in modo deciso, il comando delle operazioni e inizia a costruire una nuova Mostra incurante delle polemiche locali e nazionali che accompagnano ogni sua mossa(48). Con molta lealtà mette subito le carte in tavola: vuole il primato della qualità dei film e della competenza degli esperti, manifesta il suo preciso proposito di aggirare in tutti i modi gli ostacoli che gli pone lo statuto, rifiuta e combatte con ogni mezzo tutti i rituali della mondanità che invece hanno contribuito a creare la fama dei suoi predecessori.

Appare evidente, fin dal primo anno, che la sua condotta lede interessi consolidati più di tipo politico, turistico ed economico che cinematografico. Le reazioni non tardano a manifestarsi in modo rabbioso e plateale: fascisti, operatori turistici, giornalisti della stampa locale si stringono contro di lui, rovesciandogli ininterrotte raffiche di insulti e di accuse, forti anche dell’appoggio concesso loro, da un certo momento, da parte del giovane conte Volpi. Per tutti Gian Luigi Rondi, prestigioso critico del «Tempo», lo accusa di voler tenere lontani dal Lido divi, autori e industriali e volere al massimo aprire i battenti del Palazzo del Cinema per qualche lezione di storiografia «alla presenza di sei sette studenti fuori corso».

Invece nell’era chiariniana si verificano grandi aperture e grandi scoperte e riscoperte: la politica perseguita dal direttore fa approdare al Palazzo del Cinema Pier Paolo Pasolini, Ermanno Olmi, Francesco Rosi, Jean-Luc Godard, Alexander Kluge, Carmelo Bene, Roman Polanski, Agnès Varda, Vittorio De Seta, Gillo Pontecorvo, François Truffaut, i fratelli Paolo e Vittorio Taviani, Marco Bellocchio, Milos Forman, Arthur Penn... Mentre Visconti verrà finalmente premiato e Michelangelo Antonioni, Robert Bresson e Luis Buñuel esaltati, Carl Th. Dreyer riceve un giusto omaggio, molti autori vengono risarciti dei torti subiti in passato e si scoprono moltissimi nuovi talenti. Grandi annate, generosi raccolti, che offrono a Chiarini la possibilità di scoprire il nuovo nei cinque continenti e confermare i vecchi maestri, di far realizzare da Francesco Savio memorabili retrospettive (sul cinema di Weimar, sul western muto, sul cinema sovietico degli anni Venti), di risarcire alcuni autori (Visconti in primis) delle ingiustizie subite e di aprire lo spazio del cinema a iniziative culturali ragionate e miranti a favorire la ricerca e lo studio.

Dall’inizio della sua direzione — incurante delle polemiche — Chiarini decide di combattere da solo, come un cavaliere medievale, le proprie battaglie. Questo atteggiamento, col passare del tempo, gli crea un vuoto di consensi e sostegni da parte di chi lo aveva appoggiato nei primi anni. Il 1968 si abbatte su di lui con la violenza di un tornado. Convinto della giustezza delle proprie idee e con un’eccessiva fiducia nelle sue forze, Chiarini non si sposta e non accetta alcun compromesso. I suoi avversari sono tanti, e crescono di anno in anno come un vero e proprio mucchio selvaggio, fino a sfociare in quel 1968 in cui marciano compatti contro di lui i critici, i partiti della sinistra, gli autori cinematografici, i centri universitari, gli studenti del Centro Sperimentale, l’Unione degli studenti francesi, la giunta del Comune di Reggio Emilia... Inizia la caccia all’uomo già prima che si alzi il sipario della Mostra. Tutti chiedono la sua testa e la riforma. Si crea perfino un gruppo promotore di un comitato per il boicottaggio della Mostra del cinema. Chiarini, che ha sempre continuato a credere nelle potenzialità della Biennale, nonostante tutto, sceglie lo scontro frontale senza compromessi: uscirà da quella edizione della Mostra come una delle poche, se non l’unica, vittima veneziana della contestazione(49). L’antiamericanismo della cultura terzomondista che per qualche tempo unisce e infiamma gli animi dei giovani contestatori, dei registi, dei critici crea una frattura profonda con le majors e il cinema americano e di colpo fa perdere quell’aura di capitale del cinema che finora Cannes non era riuscita a strappare a Venezia. Tra le conseguenze più immediate del 1968 c’è un netto passaggio di poteri e di egemonie da Venezia alla Costa Azzurra.

A Ernesto G. Laura, critico quarantenne di area cattolica, equilibrato e aperto, toccherà il compito durissimo di lavorare tra le macerie del dopo contestazione. Le retrospettive su Alfred Hitchcock del periodo inglese (questa ordinata da Francesco Savio, che già l’aveva predisposta per Chiarini, e terminata da Tino Ranieri) e su Harry Langton risultano ottime per la ricerca e la qualità delle copie, modeste come sempre per la qualità delle proiezioni, ma questo varrà sempre per le pur importanti retrospettive successive che rimangono la Cenerentola della manifestazione. Tra gli autori si segnalano Nagisa Oshima, István Szabó, Miklós Jancsó, Glauber Rocha, François Truffaut, Jerzy Skolimowski, una fitta schiera di italiani, ex contestatori e non, da Fellini a Pasolini, da Bertolucci a Liliana Cavani, ai Taviani fino a Mario Schifano. Attento al nuovo, nei suoi due anni di direzione Laura evita la cinematografia americana, ospita generosamente gli autori italiani e comincia a puntare sulle attività permanenti, e il suo biennio di gestione si chiude in modo positivo.

Il successore, Gian Luigi Rondi, che alla carica di direttore unisce anche quella di subcommissario straordinario della Biennale e che qualche anno dopo sarà il primo critico cinematografico chiamato a presiedere la Biennale, è ispirato a una filosofia di pragmatismo spettacolare e di consacrazione autoriale: non gli interessano al momento i progetti di lungo periodo, quanto piuttosto gli preme riportare sulla laguna, per tutta la durata della manifestazione, i riflettori dell’opinione pubblica mondiale, rendendo omaggio ai grandi autori, da Kurosawa a Bergman, da Godard a Kubrick, da Satyajit Ray a Ken Russell. Un’attenzione prevalente al grande cinema e agli autori che lo hanno fatto grande piuttosto che agli autori emergenti e al cinema sperimentale. Rondi sposa le ragioni culturali e artistiche con quelle turistico-mondane e guarda ai fasti di una Mostra che richiami i divi, le majors, i grandi autori e torni in questo modo sotto i riflettori della stampa internazionale recuperando il terreno e il prestigio perduto rispetto a Cannes. La sua competenza professionale e la stima di cui gode anche all’estero gli consentono di realizzare delle edizioni in cui gli obiettivi stabiliti vengono centrati. Suo è il merito di aver ottenuto un appoggio di stima da autori come De Sica, Visconti, Fellini, George Stevens, Clive Donner, che accettano di far parte, sia pure formalmente, della commissione internazionale. Il sacrificio di Chiarini e la contestazione hanno comunque dimostrato che indietro non si può tornare.

Nel 1972-1973, in attesa del nuovo statuto, la Mostra è sostituita dalle Giornate del cinema italiano, memorabile sagra strapaesana, ma anche uno degli ultimi momenti in cui gli esponenti del cinema italiano si ritrovano insieme a progettare confusamente il futuro. Questa iniziativa non finisce, ma viene in qualche modo ereditata e metabolizzata nei decenni successivi facendo sì che, nel bene o nel male, la Mostra sia anche osservatorio privilegiato e passerella del cinema italiano dei maestri e degli esordienti. A inaugurare il nuovo corso della Biennale riformata nel 1974 viene eletto Giacomo Gambetti, che dimostra di volersi muovere con molta libertà e tendendo l’orecchio ai vari fermenti che agitano il territorio cinematografico e televisivo, ma anche la ricerca storiografica. Chiama a raccolta e riunisce critici delle riviste più significative, cinéphiles variamente legati ai circoli del cinema e ai cineforum e apre la manifestazione in varie direzioni, dalle retrospettive ai convegni di studio, dalle esplorazioni dei linguaggi delle avanguardie alle scoperte delle cinematografie minori, agli omaggi ad autori come Chantal Acherman, Paul Vecchiali e Theo Anghelopoulos. Ha il merito di ospitare Angelo Humouda e di fargli presentare ufficialmente una quarantina di one-reels di Griffith della neonata Cineteca Griffith. La sua buona volontà non è però sufficiente a rianimare miracolosamente e subito una struttura rimasta inerte per troppo tempo. Importanti alcune iniziative culturali di grande respiro, come la rassegna «Cinema città avanguardia», o la retrospettiva sulla guerra di Spagna curata da Francesco Savio, ma complessivamente il suo lavoro sembra quello degli allenatori di calcio delle squadrette di provincia: un gran lavoro sulle fasce laterali, un gran movimento, tutti che vogliono portare la palla, ma nessuna vera azione in profondità, nessun vero progetto consistente e forte.

Più ficcante e lucida l’azione del quadriennio di Lizzani, che finalmente tenta di far funzionare la macchina organizzativa a tempo pieno e, pur non riuscendovi fino in fondo, realizza iniziative che lasciano un segno durevole e in qualche modo tracciano una rotta a cui tutti i direttori successivi più o meno si attengono. Non vi sono premi durante la gestione Gambetti-Lizzani e tutto sommato entrambi riescono a dimostrare come la Mostra possa vivere anche senza la competizione e i premi distribuiti a pioggia. Lizzani pensa, comunque, che la manifestazione possa ricollegarsi all’orbita dei massimi eventi internazionali e rimane fedele per tutta la durata del suo mandato a questa ipotesi. Negli anni della sua direzione vengono scoperti Nanni Moretti, Peter Greenaway e Emir Kusturica, ma anche Cesare Zavattini, che alle soglie degli ottant’anni esordisce nella regia con La veritaaà... Tornano sulla laguna autori come Jean-Marie Straub e Marguerite Duras, e viene fatto spazio anche al grande cinema spettacolare e d’avventura americano, grazie all’intelligenza di un collaboratore come Enzo Ungari, che inventa la «Sezione di mezzanotte».

Gian Luigi Rondi, che gli succede nel quadriennio 1983-1987, tiene conto del lavoro precedente, ma torna a concentrare le sue forze sulla competizione, sul richiamo divistico e sulle grandi firme registiche, da Godard a Resnais, da Zanussi a Saura, da Rohmer a Rosi, da Altman a Bergman. I primi gli sembrano comunque necessari per riportare Venezia tra i festival di serie A e ridare alla Mostra quel carattere competitivo, sul piano internazionale, che è stato perso dopo il 1968. Anche Rondi, come del resto i suoi successori, ha il merito di aver consacrato al Lido autori poi riconosciuti come maestri del cinema mondiale.

In effetti di scoperte, di consacrazioni di autori, negli anni di Lizzani, Rondi, Biraghi, Pontecorvo, Laudadio, Venezia ne ha fatte molte: da Margarethe von Trotta di Anni di Piombo a Emir Kusturica di Ti ricordi di Dolly Bell?, da Wim Wenders dello Stato delle cose a Rainer Werner Fassbinder, da Krzysztof Zanussi di L’anno del sole quieto a Edgar Reitz di Heimat, da Otar Ioseliani, David Mamet, Tom Stoppard, a Yussef Chahine, da Kieslowski, che giunge a Venezia con il suo capolavoro Il decalogo, e Jane Campion, a Peter Greenaway (anche se pochi si accorgono nel 1982 dei Misteri del giardino di Compton House), a Zhang Yimou di Lanterne rosse, da Spike Lee a Gus van Sant a Takeshi Kitano... Uno dei meriti di Pontecorvo è quello di ristabilire i contatti con gli autori e la grande industria del cinema americano e convincere produttori e majors che, sotto molti aspetti, Venezia, per il suo ancor forte carisma, la sua selezione e la più favorevole collocazione stagionale, può essere una vetrina e un trampolino di lancio molto più prestigioso e utile di Cannes anche per il cinema commerciale. Tornano così a Venezia i divi americani e sfilano consacrati registi come Robert Altman, Martin Scorsese, Oliver Stone, o ottengono i loro primi grandi riconoscimenti Abel Ferrara, Kathryn Bigelow, Sally Potter, oltre a ottenere il loro battesimo autori come Marco Tullio Giordana, Salvatore Piscicelli, Franco Piavoli, Carlo Mazzacurati, Gavino Ledda, Mario Martone, Daniele Segre, Aurelio Grimaldi, Roberta Torre, Antonio Capuano, Giuseppe Gaudino, Ciprì e Maresco.

Ed eccoci arrivati all’oggi. Nonostante le crisi, i mutamenti al vertice, la trasformazione dello statuto, gli errori, le disfunzioni dei servizi, la nave della Mostra veneziana continua ad andare anche grazie all’energia interna che l’alimenta e alla forza del luogo. Nelle sale ormai insufficienti del Palazzo e in quelle di fortuna ricavate di anno in anno al Casinò, o alla più recente sala prefabbricata, costruita con il contributo della Banca Nazionale del Lavoro, tornano ad affollarsi pubblici che attendono l’avvento di un nuovo autore, o la scoperta di una nuova cinematografia. Nelle due settimane di fine estate l’unica crisi che si avverte, e che non si riesce ad esorcizzare negli ultimi anni, è quella del cinema italiano. In ogni caso la sensazione è che nel buio delle sale veneziane abbia continuato a circolare una forza, anche in questi ultimi dieci anni di gestione di Guglielmo Biraghi e Gillo Pontecorvo, Felice Laudadio e Alberto Barbera da ultimo, che non si trova più nelle sale commerciali.

Nonostante il moltiplicarsi delle manifestazioni e la durezza della concorrenza, il Lido di Venezia è ancora un punto di riferimento fondamentale nella costellazione internazionale dei festival cinematografici. Non detiene più la leadership assoluta, ma possiede un’aura, una memoria e una forza della tradizione incomparabili e non secondi a nessuno. E anche se Cannes gode di strutture e di un contesto alberghiero che il Lido non ha, bisogna dire che al di là del festival non gode di altra vera cittadinanza nell’immaginario mondiale. Il Lido possiede un valore aggiunto dato dalla sua unicità di luogo, che lo ha sorretto durante molti periodi di crisi e che continuerà a sostenerlo anche in occasione di eventuali crisi future. Basterebbe comunque poco per riconquistare quel ruolo di punto di riferimento fondamentale che negli ultimi decenni è stato in parte perduto, non tanto per le colpe dei direttori quanto per l’inadeguatezza della struttura a far fronte alla sfida della globalizzazione. Nonostante le carenze degli impianti e dello spazio si può tranquillamente sperare e credere che il Lido continuerà a lungo ad essere quell’isola ad «alto potenziale di utopia» (Tullio Kezich) e quel luogo unico, incastonato in una città unica, che, sul finire dell’estate, continuerà a richiamare a lungo folle sempre nuove di pellegrini cinematografici.

1. «Se la macchina da presa immobile permette di riprodurre oggetti in movimento, forse, rovesciando il concetto, si potrebbe tentare di riprodurre, coll’aiuto di un cinema mobile, gli oggetti immobili»; cit. in Michel Coissac, Histoire du cinématographe. De ses origines à nos jours, Paris 1925, p. 197.

2. Carlo Montanaro, La nascita del cinema a Venezia, «Nexus», II, maggio-giugno 1994, p. 12. Dello stesso Montanaro v. il più ampio progetto di studio Appunti per una storia del cinema muto a Venezia, in L’immagine e il mito di Venezia nel cinema, a cura di Roberto Ellero, Venezia 1983, pp. 181-199.

3. Per questi aspetti rinvio a Gian Piero Brunetta, Il viaggio dell’Icononauta, Venezia 1997.

4. V. Giandomenico Romanelli, Dopo il Grande Riepilogo: quando il cinema approda a Venezia, in L’immagine e il mito di Venezia nel cinema, a cura di Roberto Ellero, Venezia 1983, pp. 15-17.

5. Per un quadro culturale e sociale di Venezia e del ruolo che il cinema assume come spettacolo popolare nel primo decennio del Novecento v. Gino Bertolini, ‘Italia’, I, Le categorie sociali. Venezia nella vita contemporanea e nella storia, e II, L’ambiente fisico e psichico. Storia sociale del secolo ventesimo, Venezia 1912.

6. Ibid., II, p. 424.

7. Oltre al citato saggio di G. Bertolini segnalo una serie di tesi, dal titolo comune Gli anni della nascita del cinema a Venezia, di Fiorella Di Raimondo, Karen Jensen, Laura Gioso, discusse nell’a.a. 1980-1981 all’Accademia di Belle Arti di Venezia sulle prime sale veneziane e sulla loro dislocazione nella città. Segnalo anche la tesi di Antonio Gesualdi, Le origini del cinema nel Veneto, Università degli Studi di Padova, a.a. 1983-1984.

8. Il censimento più accurato e completo sui film d’ambiente veneto è in Piero Zanotto, Veneto in film, Padova 1991.

9. Francesco Pasinetti, Venezia nel film e nella realtà, «Cinema», 2, 1937, nr. 26.

10. Forse, tra tutti i registi che hanno ambientato le loro storie negli ultimi anni, il solo Woody Allen ha cercato di uscire dagli stereotipi e di capovolgerli consapevolmente dichiarando anche di recente il suo amore per la città: «Se le reminiscenze letterarie fanno pensare a Venezia d’inverno come luogo ideale legato alla morte, per me Venezia grigia è vita», in Maria Pia Fusco, E Woody Allen disse: Venezia I love you, «La Repubblica», 16 dicembre 1999, p. 44.

11. Per questo aspetto rinvio a Gian Piero Brunetta, La piazza cinematografica: il rito, la festa, le voci, i silenzi, «50 Rue de Varenne», supplemento a «Nuovi Argomenti», 16, 1985, pp. 137-143.

12. La tesi di dottorato in Discipline dello spettacolo di Luca Giuliani, L’immagine di Venezia nel cinema popolare italiano, Università degli Studi di Bologna, 1998, ha affrontato l’analisi di un gruppo di film veneziani in costume tra gli anni Trenta e Sessanta.

13. Fiorello Zangrando, Quando il cinema si chiamava Venezia (1906-1945), «Ateneo Veneto», n. ser., 19, 1981, nrr. 1-2, pp. 89-101.

14. Gian Piero Brunetta, La migrazione dei generi dalla biblioteca alla filmoteca dell’italiano, «Italian Quarterly», 21, 1980, nr. 81, pp. 83-90.

15. Id., I segni della storia e la delimitazione del campo cinematografico, in I mass media e la storia, a cura di David Ellwood, Torino 1986, pp. 147-149.

16. Per un profilo complessivo di Francesco Pasinetti v. le affettuose e documentate rievocazioni di Glauco Pellegrini, Il maestro veneziano, Venezia 1981. Un’antologia di scritti di Pasinetti è contenuta in L’arte del cinematografo. Articoli e saggi teorici, a cura di Ilario Ierace-Giovanna Grignaffini, Venezia 1980.

17. Per un documentato e intenso profilo di Pasinetti v. Carlo Montanaro, Francesco Pasinetti, in Profili veneziani del Novecento, a cura di Giovanni Distefano-Leopoldo Pietragnoli, Venezia 1999, pp. 48-76.

18. Gianni Rondolino, Venezia nel cinema di Visconti, in L’immagine e il mito di Venezia nel cinema, a cura di Roberto Ellero, Venezia 1983, pp. 32-36.

19. Morte a Venezia, a cura di Lino Micciché, Bologna 1971.

20. In Andrea Zanzotto, Filò, Venezia 1976, pp. 8-10.

21. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio, 1934-1936, 14-1-4677.

22. L’unico tentativo di fissare in forma di cronaca e di memoria personale i dati fondamentali della Mostra di Venezia è tuttora il libro di Flavia Paulon, La dogaressa contestata, Venezia 1971. Della stessa v. Cronaca della Mostra, in Biennale di Venezia-Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, Vent’anni di cinema a Venezia, Roma 1952, pp. 11-30, e Cronaca dei dieci anni dopo la guerra (1946-1956), in Il cinema dopo la guerra a Venezia, a cura di Ead., Roma 1956, pp. 9-34. Per quanto riguarda il periodo tra le due guerre, il saggio più documentato è Francesco Bono, La Mostra del cinema di Venezia: nascita e sviluppo nell’anteguerra (1932-1939), «Storia Contemporanea», 20, 1991, nr. 3, pp. 514-549. V. anche La Biennale-Comune di Venezia, Cinquant’anni di cinema a Venezia, a cura di Adriano Aprà-Giuseppe Ghigi-Patrizia Pistagnesi, Venezia 1982. V. inoltre Gian Piero Brunetta, Scene di safariland cinematografici sulla laguna, in Vincitori e vinti, a cura di Antonio Marrese, Taranto 1989, pp. 11-23, e Cinetesori della Biennale, a cura di Gian Piero Brunetta, Venezia 1996, pp. 11-43. La filmografia più accurata e recente è quella di Ernesto G. Laura, Tutti i film di Venezia, Venezia 1985.

23. Riportato in E.M. [Ettore Margadinna], Arte e cinematografo, «L’Ambrosiano», 24 settembre 1932. È quanto osserva anche il giovanissimo Francesco Pasinetti: «Il festival del cinema, per il solo fatto d’essere nella stessa organizzazione della Biennale d’arti figurative risulta d’ufficio la più importante manifestazione in campo cinematografico», in Francesco Pasinetti, Il festival del cinema a Venezia, «Il Ventuno», 1, 1932, nr. 7.

24. Grande attenzione le cronache mondane riservano alla presenza del principe di Galles. Per tutti v. Dario Sabatello, Col Principe di Galles al Lido di Venezia, «Il Tevere», 18 agosto 1932, p. 4.

25. Un buon lavoro di ricostruzione del clima della prima edizione della Mostra si trova nel catalogo della retrospettiva curata da Giuseppe Ghigi, Venezia 1932. Il cinema diventa arte, Venezia 1992. Oltre all’articolo del curatore segnalo quelli di Lorenzo Pellizzari, Gianni Rondolino, Francesco Bono, Francesco Bolzoni.

26. All’attività di questa istituzione, alla personalità di De Feo e al suo ruolo nella nascita della Mostra del cinema di Venezia ha dedicato un’ampia e documentata monografia Christel Taillebert, L’Institut International du cinématographe éducatif, Paris 1999.

27. Per una cronaca del primo decennio fondata su una consultazione di prima mano di documenti dell’archivio del conte Volpi v. Adriano Baracco, Venezia segreta, «La Fiera del Cinema», 2, 1960, nr. 8, pp. 18-27.

28. Luciano De Feo, Ricordando le due prime edizioni, «L’Eco del Cinema e dello Spettacolo», 15 agosto 1954.

29. V. a questo proposito Nedo Ivaldi, La prima volta a Venezia. Mezzo secolo di Mostra del cinema nei ricordi della critica, Portogruaro 1982.

30. Sandro De Feo, Vigilia di chiusura alla Biennale del Cinema, «Secolo XIX», 27 agosto 1934.

31. Mino Doletti, Un pubblico speciale: quello di Venezia, «Cinema», 2, 1937, nr. 30, pp. 186-187.

32. Marco Ramperti, Gli umori del pubblico, «L’Ambrosiano», 27 agosto 1934.

33. Luciano De Feo, Ricordando le due prime edizioni, «L’Eco del Cinema e dello Spettacolo», 15 e 31 agosto 1954.

34. Testimone del clima di questa edizione della Mostra e delle successive fino alla guerra è Maria Damerini, Gli ultimi anni del Leone. Venezia 1929-1940, Padova 1988, pp. 158-162.

35. Un’antologia dei giudizi della critica nei primi anni della Mostra è raccolta in Giulio Cesare Castello-Claudio Bertieri, Venezia 1932-1939. Filmografia critica, Roma 1959.

36. Il testo è in A. Baracco, Venezia segreta, p. 27.

37. M. Damerini, Gli ultimi anni del Leone.

38. Michelangelo Antonioni, Inaugurazione; La sorpresa veneziana, I; La sorpresa veneziana, II, «Cinema», 5, 1940, nrr. 101-102-103.

39. Devo alla gentilezza di Monica Venturini, figlia di Giorgio, e all’A.N.I.C.A. (Associazione Nazionale Industrie Cinematografiche ed Affini), la possibilità di esaminare i documenti dell’archivio del padre raccolti in alcune cartelle depositate presso la sede dell’A.N.I.C.A. a Roma.

40. Il discorso è riportato nella cronaca di prima pagina della cerimonia di inaugurazione in «Film», 7, 1944, nr. 6.

41. [Mino Doletti], Dissolvenze, ibid., nr. 8.

42. Si tratta di un promemoria per Mussolini conservato all’Archivio di Stato e riportato ampiamente in Ernesto G. Laura, L’immagine bugiarda: mass-media e spettacolo nella Repubblica di Salò, 1943-1945, Roma 1986, pp. 347-350.

43. «Su richiesta dell’interessato questo Ufficio tecnico [...] ha accertato nei confronti del dottor Giorgio Venturini [...] che il dottor Venturini ha svolto la sua attività allo scopo di ricuperare i materiali cinematografici che erano stati trasferiti in Germania [...] che durante lo svolgimento del suo ufficio non sono stati prodotti film di propaganda, il solo film di tendenza propagandistica, Aeroporto, è stato prodotto con nulla osta germanico. Che il dott. Venturini si è prodigato affinché i materiali cinematografici non fossero successivamente asportati da Venezia per la Germania [...] e di ciò durante il periodo cospiratorio il dott. Venturini dava indirettamente notizia e garanzia a elementi del Comitato di Liberazione». Il testo è riportato in Luigi Freddi, Il cinema, II, Roma 1949, pp. 475-476. Questo rapporto, in qualche modo, consentirà al direttore generale dello Spettacolo di non subire alcuna epurazione.

44. E.G. Laura, L’immagine bugiarda, p. 333.

45. Callisto Cosulich, Il contenitore e il contenuto, in La Biennale di Venezia, Venezia: cinquant’anni fa. La Mostra del cinema del ’47, a cura di Id., Venezia 1997, p. 17.

46. V. l’affettuosa e apologetica rievocazione fatta dal figlio Alvise Zorzi, Elio Zorzi e la Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica, «Ateneo Veneto», n. ser., 31, 1993, pp. 29-64, corredata da tre scritti dello stesso Zorzi a difesa del suo operato.

47. Ne farà una ricostruzione molto distaccata e serena qualche anno dopo: Elio Zorzi, La Mostra cinematografica di Venezia ha vent’anni, «La Biennale di Venezia», 3, 1952, nr. 8.

48. V. da ultimo Ernesto G. Laura, Tutti i direttori della Mostra, «La Rivista del Cinematografo», n. ser., 69, 1999, nr. 9, pp. 62-67.

49. Lo stesso Chiarini, poco dopo, raccoglie documenti e riflessioni a caldo a difesa del suo operato: Luigi Chiarini, Un leone e altri animali, Milano 1969.

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