La breve primavera della radio locale

L'Italia e le sue Regioni (2015)

La breve primavera della radio locale

Marcello Lorrai

Fino ai primi anni Settanta in Italia la vicenda della radiofonia – così come quella della televisione – è caratterizzata da un regime di monopolio statale. Lo Stato italiano si confronta con la novità della radio nel periodo immediatamente successivo alla Prima guerra mondiale. In questa fase iniziale l’atteggiamento dello Stato è incerto, e vengono autorizzate concessioni all’esercizio della radiotelegrafia a società nate grazie a capitali stranieri. Anche accogliendo le sollecitazioni di Guglielmo Marconi (1874-1937), che raccomanda di autorizzare le concessioni a una società italiana, nel 1923 il governo di Benito Mussolini (1883-1945) conferisce allo Stato l’esclusiva sull’impianto e la gestione delle reti di trasmisione radiofonica, con la possibilità di esercizio in concessione da parte di terzi. Nel 1924 nasce l’URI (Unione Radiofonica Italiana), che diventa la prima concessionaria in regime di monopolio. Con l’EIAR (Ente Italiano Audizioni Radiofoniche), che nel 1927 succede all’URI, cresce il ruolo dello Stato nel settore e aumenta la sua attenzione alle trasmissioni, il cui controllo viene affidato a un comitato istituito dal Ministero delle Comunicazioni. Negli anni Venti l’Italia aderisce così all’orientamento che, Gran Bretagna in testa, prevale nella gran parte dell’Europa con la costituzione di società radiofoniche a capitale pubblico destinate a gestire il servizio in regime di monopolio, e con la radiofonia privata come marginale eccezione (nella Spagna preguerra civile e poi franchista, o in Lussemburgo, per es.). Nel 1944 poi la RAI (Radio Audizioni Italia) sostituisce l’EIAR e, dieci anni più tardi, diventa RAI-Radiotelevisione italiana.

Oggetto del presente saggio è il nuovo scenario di radiofonia indipendente che si apre a partire dai primi anni Settanta. Con l’irruzione nell’etere di migliaia di emittenti e la fine del monopolio della RAI l’Italia fa da battistrada all’apertura alla radiofonia indipendente delle legislazioni dei Paesi dell’Europa occidentale. Ma in Italia la transizione avviene con un brusco salto, senza essere pilotata da un adeguamento legislativo. Nei primi anni l’assenza di regolamentazione del settore consente uno sviluppo della radiofonia indipendente al contempo quantitativamente imponente ed estremamente variegato. Oltre alle differenze in termini di dimensioni, risorse economiche, assetti societari, motivazioni, impostazioni editoriali, stili e formule, scelte musicali, a determinare un panorama di grande pluralità è anche l’emergere attraverso le nuove radio di un’informazione locale e di una relazione con il territorio che, a paragone col servizio pubblico, appaiono più dirette, minute e spregiudicate; senza contare l’inedita legittimazione nella pratica radiofonica degli usi locali della lingua italiana, degli accenti, delle parlate, dei dialetti e delle lingue minoritarie. Inoltre, nella prima fase lo specifico carattere politico-sociale del contesto locale è cruciale nel determinare non solo l’impronta di singole esperienze radiofoniche, ma anche il sorgere di alcuni ‘modelli’ di radio e di alcune tendenze.

Tuttavia il vuoto legislativo in materia, che si prolunga fino alla fine degli anni Ottanta, non è l’ultimo dei fattori che determinano una rapida affermazione dei soggetti economicamente e imprenditorialmente più forti – radio medio-grandi e network (anglicismo con cui in Italia ci si riferisce alle radio private a diffusione nazionale) – e un drastico sfoltimento del tessuto di esperienze più piccole, non commerciali, a vivace connotazione locale e a volte politica. A partire da questa prima fase di ristrutturazione del settore, nella radiofonia indipendente la tendenza all’omogeneizzazione a tutti i livelli – dal sempre più accentuato appiattimento degli stili e dei formati, all’uniformità dei contenuti informativi, all’egemonia dei network commerciali – ha progressivamente e ampiamente prevalso sulla pluralità e l’originalità dell’offerta; e nell’evoluzione del fenomeno anche le specificità locali, all’inizio rilevanti, hanno avuto sempre meno peso rispetto alle dinamiche generali. Nel complesso di cause dirette o indirette di questo impoverimento, non è trascurabile la larga sottovalutazione, a fronte di dati di ascolto che a tutt’oggi smentiscono il declino del mezzo, della radio in generale e della sua potenzialità in ambito locale. Tale sottovalutazione da parte di legislatori, istituzioni locali, partiti e sindacati, è riscontrabile fin dall’inizio del fenomeno della radiofonia indipendente nel nostro Paese: in principio compensata dallo slancio dei movimenti giovanili dell’estrema sinistra e, localmente, da settori di partiti e sindacati, è poi cresciuta nel corso dei decenni considerati, e negli anni più recenti è stata aggravata dall’imporsi di Internet, che ha contribuito a distogliere dalla radio molta attenzione giovanile. Dopo essere stata protagonista di una pionieristica esperienza di pluralismo radiofonico, con il crescente livellamento del settore l’Italia si è così paradossalmente trovata in una posizione arretrata rispetto al movimento che a partire dagli anni Ottanta in tutti i continenti ha rivendicato e ottenuto spazi per una radiofonia indipendente non commerciale e su base locale.

Episodi pionieristici

In Italia, i primi episodi di utilizzo indipendente o parzialmente indipendente della radio rispetto al monopolio dello Stato sulle trasmissioni, nascono non da un’astratta esigenza di libertà del mezzo, ma per scopi estremamente concreti e con motivazioni di fortissimo spessore etico-politico. Prima ancora dei casi successivi all’8 settembre 1943 e resistenziali (Radio Bari, Radio Sardegna, Radio CORA di Firenze, Radio libertà di Biella), si può ricordare la vicenda di Sandro Pertini (1896-1990), che, processato nel 1929 a Nizza per aver installato in territorio francese un impianto clandestino radiotrasmittente, in tribunale dichiara:

[...] ogni voce di verità è oggi soffocata nella notte fonda senza stelle che sovrasta l’Italia. Ecco perché io pensai di unirmi alla patria lontana attraverso le vie del cielo, al di sopra di questa muraglia cinese sorvegliata da una banda di mercenari. Così mi sono servito di una divina scoperta della Scienza per trasmettere parole di fede e di verità ai miei compagni. Sempre verità, ho io radiotelefonato, verità che il fascismo non vuole che si sappiano in Italia, perché il male ha sempre paura della verità (S. Merli, Autodifese di militanti operai e democratici italiani davanti ai tribunali, 1958, ristampa a cura del Comune di Venezia, Assessorato affari istituzionali, 1986, pp. 222-23).

Radio libera di Partinico

Bisognerà attendere il 1970 perché si verifichi una nuova incrinatura del monopolio statale. L’urgenza che in quell’anno spinge Danilo Dolci (1924-1997) a dare vita a Radio libera di Partinico, nel piccolo comune in provincia di Palermo, è suggestivamente simboleggiata dal segnale di SOS, eseguito con un flauto dolce, che apre e intercala il messaggio di apertura delle trasmissioni: «Sos - Sos - Qui parlano i poveri cristi della Sicilia occidentale, attraverso la radio della nuova resistenza» (Dolci 2008, p. 19). Si tratta nell’Italia del secondo dopoguerra del primo esempio in assoluto di rottura del monopolio di Stato sulle trasmissioni via etere: dai primi anni Cinquanta impegnato in Sicilia nell’intervento sociale in situazioni di tragico sottosviluppo, con questa clamorosa iniziativa Dolci vuole lanciare l’allarme sulle drammatiche condizioni in cui continuano a versare, a due anni dal terremoto del 1968, le popolazioni del Belice e altre valli colpite dal sisma, e sull’appropriazione mafiosa e clientelare dei fondi destinati alla ricostruzione. L’emittente manda in onda 4 ore di programmi preregistrati e proposti anche in inglese, replicati a ciclo continuo per 27 ore, fino a quando non intervengono polizia e carabinieri a mettere a tacere la radio e a sequestrare le attrezzature. Oltre all’appello iniziale all’opinione pubblica nazionale e internazionale, e ad altri materiali di analisi, poetici e musicali, il palinsesesto di Radio libera di Partinico comprende circa 75 minuti di voci raccolte fra abitanti della zona: contadini, donne, bambini, sindaci, sindacalisti, medici, e così via.

Per Dolci è indispensabile risarcire il ‘povero cristo’ dell’attenzione che gli è negata dall’informazione radiotelevisiva in regime di monopolio e da quella della carta stampata. Ma non si tratta semplicemente di dare notizie diverse, fosse pure in una dimensione di denuncia e controinformazione: non meno importante è promuovere il ‘povero cristo’ a soggetto della comunicazione, soggetto che attraverso la pratica della comunicazione acquista consapevolezza e trasforma se stesso, la realtà e il proprio agire nella società proprio in quanto soggetto trasformato dal comunicare. E la radio è per Dolci lo strumento che meglio si presta a questo utilizzo, sia perché richiede risorse assai più limitate rispetto ad altri mezzi, a cominciare dalla televisione, sia perché la popolazione a cui ci si rivolge è senza dubbio più in confidenza con la radio che con giornali e libri.

Nella miniatura delle 27 ore di trasmissione dell’emittente di Dolci si trova sintetizzato uno straordinario condensato di intuizioni e di elementi eccezionalmente robusti e avanzati: il rapporto con lo spazio locale, ma collegato a un contesto ampio; la questione del soggetto della comunicazione e della comunicazione dal basso; il nesso comunicazione/trasformazione sociale; il richiamo all’art. 21 della Costituzione (sulla libertà di stampa) ma anche al diritto internazionale; e la lucida identificazione dell’efficacia e della duttilità del mezzo radiofonico. Non manca neppure la percezione di una storia e di una dimensione internazionale dell’impiego alternativo e dal basso della radio, di cui anche l’allora recente esperienza del Sessantotto (per es., con le radio clandestine che cercano di contrastare l’invasione della Cecoslovacchia) ha fornito nuovi esempi:

L’esperienza – si legge nelle Considerazioni di fondo elaborate da Dolci in preparazione dell’iniziativa – ci dice come e quanto qui la popolazione ascolti la radio, soprattutto le notizie locali, pur sapendo da che parte vengono e che non ce ne si può fidare: tanto più e meglio ascolterebbe la propria voce, la voce che la esprime e che la libera. Chi di noi ha avuto esperienza diretta del significato delle radio di liberazione sa cosa esse rappresentano (Dolci 2008, p. 12).

E, nelle stesse Considerazioni, Dolci aggiunge:

Non mi sorprenderei quando i poveri cristi si decidono a montare una radio per sentirsi e per farsi sentire – una radio anche piccola come in montagna per la resistenza oppure a Praga –, non mi sorprenderei se corazzate, elicotteri vispi si lanciassero cercando di afferrarla e denunciarla per aver tentato di turbare l’ordine pubblico (p. 54).

L’iniziativa di Dolci e il dibattito internazionale sulla comunicazione

In nuce, l’iniziativa di Dolci si mostra già all’altezza della riflessione di Paulo Freire (1921-1997) e altri intellettuali latinoamericani sulla ‘comunicazione orizzontale’, e del dibattito che matura a livello internazionale negli anni Settanta sulla democratizzazione della comunicazione, in cui uno dei riferimenti privilegiati è l’esperienza delle radio autogestite dai minatori boliviani negli anni Quaranta e Cinquanta. Dolci precede anche il movimento internazionale delle emittenti ‘comunitarie’ (per usare l’espressione che ha avuto più ampio corso a livello internazionale nel gergo della radiofonia), che comincia a profilarsi nella seconda metà del decennio, e che, sulla scorta di esempi come quelli di Pacifica radio nata nel 1949 negli Stati Uniti, delle radio dei minatori boliviani, di Radio rebelde durante la rivoluzione cubana e delle stesse radio libere italiane degli anni Settanta, propugna un modello di emittente senza scopo di lucro, di ispirazione democratica e progressista, indipendente da poteri politici ed economici, impegnata a svolgere una funzione di servizio, aperta al contributo (di opinione ma anche di collaborazione) degli ascoltatori. Il movimento delle radio comunitarie spinge per il riconoscimento e il sostegno a questo tipo di emittente sia nel contesto di un’apertura al pluralismo radiofonico nei Paesi in cui vige il regime di monopolio, sia come correttivo dove invece – come nelle Americhe – è dominante la radiofonia commerciale e debole la presenza della radio pubblica. Infine Dolci è anche in anticipo sul Rapporto della Commissione internazionale per lo studio dei problemi della comunicazione, più noto come Rapporto MacBride (dal nome del presidente della Commissione, Sean MacBride), che nel 1980, commissionato dall’UNESCO, oltre a segnalare gli squilibri sul piano dell’informazione e della comunicazione fra Nord e Sud del mondo, sostiene fra l’altro che quello alla comunicazione deve essere considerato un diritto umano primario, e che tale diritto non può ridursi a ricevere la comunicazione e l’informazione, ma deve tradursi in un processo bidirezionale e paritario.

Ritardi e miopie agli albori delle radio libere

Due anni dopo l’iniziativa di Dolci, nell’aprile del 1972, esordisce Telebiella, che trasmette via cavo approfittando di una lacuna della legislazione relativa a questo tipo di tecnologia; altre emittenti televisive seguono presto il suo esempio e nel 1973 cominciano a fare capolino in diverse regioni italiane emittenti radiofoniche che sfidano il monopolio.

Benché il gesto pionieristico di Dolci sia poi spesso stato visto come battistrada del fenomeno delle radio libere, e benché ne sia oggettivamente il precursore, la maggior parte dei primi tentativi che fino alla metà degli anni Settanta fanno da apripista all’esplosione della radiofonia privata difficilmente può essere considerata in un rapporto di filiazione con l’esempio offerto dall’emittente concepita da Dolci. Già un certo scarto di anni suggerisce dinamiche indipendenti alla base dell’effervescenza radiofonica che poi si manifesta, e anche una diffusa ignoranza del precedente costituito dall’effimera Radio libera di Partinico. Nella fase di avvio del fenomeno delle radio libere italiane, che pure sarà appunto di ispirazione per il movimento internazionale delle radio comunitarie, è invece all’opera un variegato insieme di motivazioni in gran parte assai lontane dalla tensione morale e politica e dalla limpidezza della visione di Dolci.

Nel periodo della gestazione e poi della nascita delle primissime radio libere, le forze potenzialmente più sensibili all’idea di dare voce ai ceti subalterni e di renderli, attraverso la comunicazione, protagonisti della trasformazione sociale e della politica, evidenziano anzi limiti e ritardi che si ripercuoteranno negativamente sulle fasi successive della vicenda della radiofonia indipendente e locale. Molte di queste forze, soprattutto dell’estrema sinistra e dei settori sindacali più avanzati, nel giro di poco tempo saranno poi vivacemente attive nel fenomeno delle radio libere, pur se, non a caso, sostanzialmente in ordine sparso: ma nelle iniziative che aprono le prime brecce nel monopolio dello Stato e che finiscono per metterlo in crisi non appaiono, almeno nella loro dimensione organizzata, particolarmente all’avanguardia e tempestive.

Nel contesto di grande agitazione sociale e politica che caratterizza i primi anni Settanta, per quanto riguarda la nuova sinistra pesa probabilmente una visione dello Stato come nemico da ‘abbattere’ a breve/medio termine, una visione a partire dalla quale è difficile porsi nella logica di una negoziazione, per es. nel senso di pensare il riassetto dello spazio radiofonico come una priorità. La stessa possibilità di una pluralità e un’indipendenza di voci non è chiaramente messa a fuoco o è anzi decisamente esclusa nei progetti di società di queste forze. Ma in generale partiti e organizzazioni della sinistra faticano a vedere oltre i loro tradizionali strumenti di comunicazione: comizi, manifestazioni e organi di stampa. I loro sforzi sono in particolare concentrati sul sostegno e la diffusione nazionale dei rispettivi quotidiani, che già assorbono ingenti risorse economiche e umane. Ed è la stessa natura locale, decentrata, delle nuove emittenti che inizialmente non attira partiti e gruppi, che sono invece impegnati a cercare di veicolare il loro messaggio politico in maniera il più possibile diffusa e omogenea su scala nazionale. Tuttavia in gioco c’è probabilmente anche una sottovalutazione più di fondo dello stesso mezzo radiofonico, considerato in declino e marginale rispetto alla televisione nella comunicazione con i cittadini/elettori.

Significative le due pagine che Pio Baldelli (1923-2005) dedica al caso di Radio libera di Partinico nel suo Informazione e controinformazione, che conosce una vasta diffusione e diventa un testo di riferimento nell’area della sinistra rivoluzionaria. Benché il libro esca nel corso del 1972 (con una seconda edizione già in ottobre), quindi ormai a ridosso del terremoto che investirà il monopolio radiotelevisivo già annunciato dall’inizio delle trasmissioni di Telebiella, l’autore si preoccupa soprattutto di mettere in discussione l’impostazione politica dell’iniziativa di Dolci: Baldelli, che peraltro nel 1976 sarà direttore della neonata Controradio di Firenze, apprezza l’uso alternativo di un mezzo come la radio e la dimostrazione della possibilità con una ‘emittente clandestina’ di «prendere in contropiede, anche se per poco, la macchina dello Stato» (pp. 106-07), ma non sembra ancora vedere la prospettiva di un impiego organico e di lunga lena della radio, mentre valorizza ampiamente il cinema militante e caldeggia la creazione di un circuito nazionale di videotape.

Ma sono appunto soprattutto i partiti a non cogliere, anche una volta che il fenomeno comincia a dilagare, la novità che si prospetta. Pur trovandosi in condizioni molto differenti (in termini di peso dei rispettivi quotidiani, di presenza nella RAI e di attenzione loro riservata dalla grande stampa nazionale) quanto a mezzi di comunicazione e possibilità di influenzare l’opinione pubblica, rimangono nell’insieme attestati su una strategia comunicativa ferma al doppio binario della radiotelevisione di Stato (e della televisione soprattutto) e della carta stampata. Dall’opposizione anche il Partito comunista italiano (PCI) si affida alla riforma della RAI (che nel 1975, in nome del pluralismo, si traduce poi in una pesante spartizione fra i partiti, da cui il PCI esce comunque penalizzato) e si allinea sulla difesa del monopolio portata avanti dalla Democrazia cristiana (DC) e dal governo. Anche per quanto riguarda il decentramento dell’informazione e la valorizzazione della dimensione locale l’orizzonte rimane quello dell’introduzione di programmi su base regionale della RAI. Pur con eccezioni locali, a perdere il treno della radiofonia indipendente sono in generale, oltre alle grandi formazioni politiche, anche altre articolazioni della società civile come i sindacati, le organizzazioni imprenditoriali e la Chiesa, che si lasciano largamente sfuggire la possibilità di dare vita a una rete di strumenti di comunicazione agili, economici, dotati di una grande capacità di penetrazione e aderenti alle realtà locali; così come a non approfittare della fine del monopolio per dare vita a proprie voci sono gli enti locali, fra cui le regioni di recente costituzione (1970).

Le prime radio libere

Radio ‘libere’, radio ‘private’

Nella prima fase di sviluppo del fenomeno della radiofonia indipendente, con l’espressione radio libere vengono chiamate indistintamente tutte le emittenti non statali: l’aggettivo libero sta in questo senso a indicare al contempo l’autonomia delle emittenti nella definizione dei propri linguaggi e contenuti, e il loro operare in assenza di norme disciplinanti la materia. Col delinearsi di diversi modelli di emittenti, via via l’espressione radio libere verrà utilizzata in riferimento alle emittenti di sinistra, ‘democratiche’, e alle radio locali soprattutto piccole che pur non corrispondendo complessivamente all’identikit della radio di sinistra neppure sono organicamente orientate al modello della radio commerciale; nello stesso tempo, l’espressione radio private andrà a identificare le emittenti con una fisionomia commerciale e a scopo di lucro. Il progressivo declino delle radio democratiche e delle piccole radio con caratteristiche ibride porterà poi al tramonto dell’espressione radio libere e alla generalizzazione dell’uso di privato per indicare anche le prime. A partire dagli anni Ottanta e con l’avvio (1988) delle indagini sugli ascolti realizzate dalla società Audiradio, prende piede nel settore l’utilizzo dell’espressione radio locali, in antitesi a network.

La fase iniziale

Nella primissima fase, quella della prima metà degli anni Settanta, dominano dunque un’ispirazione genericamente libertaria, la rivendicazione di un diritto in quanto tale, la percezione di un’opportunità di business, il gusto del mezzo e della tecnologia, e naturalmente il desiderio di evadere dalla cappa dell’informazione, del linguaggio, delle proposte musicali di Radio RAI. Tra i vari fattori, una delle spinte determinanti alla nascita delle radio libere è certamente la forte domanda giovanile di musica che si è già manifestata nel consumo di dischi e nei concerti. Alcune aperture e alcuni aggiornamenti sul piano della musica e del linguaggio operati dalla metà degli anni Sessanta dalla radio pubblica (“Bandiera gialla”, 1965; “Per voi giovani”, 1966; “Hit parade”, 1967), che culminano nel 1970 con il debutto di “Alto gradimento”, grazie ai successi ottenuti hanno l’effetto di stimolare la sensibilità degli ascoltatori e di appassionare al mezzo le nuove generazioni. Nel complesso, tuttavia, perdura l’inadeguatezza della RAI al cambiamento dei tempi, e ciò contribuisce a creare e ad amplificare le nuove esigenze che la RAI stessa non è in grado di soddisfare, finendo così per indirizzare larghi strati di pubblico, soprattutto giovanile, verso la ricerca di alternative in alcune radio straniere captabili in Italia (Radio Monte Carlo, Radio Capodistria) e per creare la disponibilità ad accogliere la nascita di radio che possano sperimentare, sull’intero arco del palinsesto e con ancora più spregiudicatezza, le novità che l’emittente pubblica confina in ridotti segmenti di programmazione.

A testimonianza di un fenomeno che si presenta da subito di dimensione nazionale, fra le emittenti che nel 1972-73 cominciano a comparire nell’etere sfidando il monopolio, uno dei casi che fanno più rumore è quello di una radio del Sud, Radio Potenza centrale, che trasmette da un’automobile. Nel 1974 con due sentenze la Corte costituzionale ribadisce la legittimità del monopolio di Stato sulla televisione, a condizione che l’offerta sia caratterizzata da obiettività e completezza dell’informazione e che sia promosso il diritto di accesso, e d’altro canto riconosce la legittimità dell’esercizio privato di servizi radiotelevisivi locali via cavo. Nel corso dell’anno nasce Radio Parma, per il momento con trasmissioni non stabili.

Nel novembre dello stesso anno Radio Bologna per l’accesso pubblico trasmette per una settimana da una roulotte, animata dal regista Roberto Faenza, che sulla democratizzazione dell’informazione e della comunicazione, e sul passaggio dalla critica dei mass media all’uso alternativo dei mezzi di comunicazione di massa, ha curato il libro Senza chiedere permesso. Come rivoluzionare l’informazione, pubblicato con successo al principio del 1973. Incentrato sull’idea di una sorta di «guerriglia della comunicazione» da attuarsi in particolare attraverso l’«uso alternativo della televisione» impiegando lo strumento del videotape, il testo curato da Faenza sostiene però anche, nella prospettiva della riforma del sistema televisivo allora in discussione con una vivace partecipazione delle regioni (importante fu il Convegno Regioni e RAI-TV, tenuto a Napoli nel 1972), l’ipotesi di una gestione della televisione via cavo affidata appunto agli enti locali di recente costituzione. All’iniziativa di una radio pirata Faenza arriva proprio dall’esperienza di un progetto di decentralizzazione dell’informazione e della comunicazione in ambito regionale proposto alla Regione Emilia-Romagna. Sulla scorta delle idee espresse in Senza chiedere permesso, Faenza si propone di sviluppare, in alternativa a una comunicazione ‘verticale’, dall’alto verso il basso, una ‘orizzontale’, dal basso, che metta la comunicazione direttamente nelle mani di singoli e di aggregazioni: studenti, lavoratori, cittadini, consigli di fabbrica e di quartiere. In una regione governata dal PCI, il tentativo finisce poi però per scontrarsi con la linea del partito, che, agli albori della proposta di compromesso storico, sta nel frattempo abbandonando il precedente atteggiamento critico nei confronti del monopolio e della RAI. È il fallimento di questo esperimento a indurre Faenza alla provocazione di Radio Bologna, nella quale sono coinvolte persone che hanno collaborato alla sperimentazione per la Regione Emilia-Romagna, e che nella sua breve vita di una settimana dà voce a molti dei soggetti che il progetto di decentramento in ambito regionale di Faenza voleva rendere protagonisti della comunicazione. In sintonia con il proposito di Dolci di far parlare gli esclusi e di dare attuazione all’art. 21 della Costituzione, Faenza non concepisce però Radio Bologna come un’esperienza destinata a durare, ma come un atto dimostrativo, che faccia da detonatore allo scardinamento del monopolio per offrire una prova sia dell’agevole praticabilità tecnica ed economica di una radio sia, in contrasto con quanto sostenuto dal governo, della disponibilità di frequenze per la trasmissione in FM (Modulazione di Frequenza).

L’ondata del 1975

Nel 1975 il fenomeno delle radio libere subisce una vera e propria accelerazione, e si assiste a un moltiplicarsi di iniziative, esperienze e sperimentazioni, destinate a maggiore o minore fortuna, in tutta la penisola. La prima emittente radiofonica indipendente in Italia con una programmazione stabile è Radio Parma, che avvia le trasmissioni regolari il 1° gennaio del 1975. In marzo a Milano nasce Radio Milano international. In aprile viene varata la riforma della RAI, che ribadisce il principio della riserva statale dell’esercizio delle trasmissioni radiofoniche e televisive tramite concessionaria di servizio pubblico, il controllo della quale, in coerenza con una riorganizzazione in senso pluralistico, viene trasferito dal governo al Parlamento. Nello stesso mese le attrezzature di Radio Milano international vengono sequestrate dall’Escopost (la polizia del Ministero delle Poste e telecomunicazioni) e poi restituite su decisione del pretore di Milano; e sempre a Milano viene costituita la cooperativa che darà vita all’emittente Canale 96.

Col passare dei mesi il panorama delle nuove radio si infittisce rapidamente e gli avvenimenti si susseguono in maniera sempre più convulsa. In giugno dall’esperienza di Radio Parma nasce Radio Roma, prima emittente privata della capitale, che raggiunge in breve una larga notorietà. Sempre in giugno decolla a Cagliari Radiolina, per iniziativa di Nicola Grauso: col successo di Radiolina e di Videolina, varata qualche mese dopo, Grauso avvia una carriera di editore che alla metà degli anni Ottanta lo porterà alla proprietà di «Unione sarda», il più importante quotidiano della Sardegna. In settembre a Bergamo nasce RTL (Radio Trasmissioni Lombarde). Mentre in ottobre inizia le trasmissioni Canale 96, presto sequestrata e poi dissequestrata in dicembre.

L’effervescenza piemontese

Per la precoce diffusione del fenomeno spicca il Piemonte, che rapidamente offre un panorama di emittenti molto sfaccettato, benché frammentato e senza esperienze capaci, come presto invece alcune emittenti milanesi, di dominare nettamente e di indicare al mondo magmatico delle radio libere modelli e prospettive di rilievo nazionale. Già nel 1975 il ventaglio di radio che cominciano a popolare l’etere piemontese è assai ampio.

Il baricentro di Radio Torino alternativa è musicale: legata alla cooperativa di spettacoli Medianova e politicamente collocata nell’area della sinistra socialista, l’emittente trasmette soprattutto rock, concerti e interviste, e valorizza proposte musicali e teatrali fuori dai circuiti tradizionali. Cessa le trasmissioni nel 1980. Prevalentemente musicali sono anche Radio Gemini, che, orientata alla classica e al jazz, oltre che allo sport, trasmette dalla collina di Moncalieri per iniziativa di un gruppo di studenti universitari, e Radio Torino international, che, indirizzata al pop, va in onda da un negozio di dischi di Pinerolo. Con una fisionomia marcatamente militante e una vocazione alla controinformazione si presenta invece Radio città futura, che nasce su impulso di formazioni dell’estrema sinistra (Lotta continua, Avanguardia operaia, Partito di unità proletaria, Quarta internazionale). L’esperienza si esaurisce nei primi anni Ottanta, e dalle sue ceneri nasce Radio Torino popolare.

Del 1975 e piemontese è anche il primo caso di radio libera che trasmette da una fabbrica, la Singer, impiantata negli anni Cinquanta a Leinì, alle porte di Torino. Radio Singer è promossa dal consiglio di fabbrica, e l’emittente dà voce alla lotta dei lavoratori che cercano di scongiurare l’annunciata chiusura dello stabilimento. La radio diventa una delle forme, e l’amplificatore, di una creativa resistenza operaia, che a scioperi e cortei affianca murales e spettacoli (Francesco Guccini, Milva, Dario Fo e Franca Rame, Living theatre) nella fabbrica occupata. La vicenda della radio si conclude nel 1978, con la definitiva chiusura della Singer.

Vivace sin da subito è anche l’offerta nelle altre province. Radio Bra onde rosse è una delle prime fra le neonate emittenti a connotarsi con una identità marcatamente di sinistra, sia nelle scelte musicali (cantautori italiani e canzone politica e popolare, “Internazionale” e “Pablo” di Francesco De Gregori come sigle) sia nei programmi, molti in diretta e con ampio spazio per l’intervento telefonico degli ascoltatori su temi politici e di attualità; la radio è pionieristica anche nella vivace attenzione riservata all’ecologia. Nata per iniziativa di alcuni giovani (fra cui Carlo Petrini, futuro fondatore dell’associazione Slow food) che militano nel Partito di unità proletaria (PDUP) e che fanno parte di una cooperativa, il Circolo Leonardo Cocito, intitolato a un partigiano di Alba, l’emittente è subito oggetto di sequestri e dissequestri, e diventa una delle principali protagoniste della battaglia legale che si sviluppa sulle radio libere. Senza mai riuscire a superare un’area molto limitata di diffusione del segnale, la radio cesserà poi definitivamente le trasmissioni nel 1978.

Nata a Biella come radio di informazione locale e intrattenimento, Radio Piemonte propone tre volte alla settimana un bollettino sul settore del tessile. A Novara Radio Azzurra punta su un ruolo di servizio e su un assortimento molto vario di programmi. Alla controinformazione propendono invece Radio Cuneo democratica, con programmi sulle donne e ‘controfavole’ per i bambini, e Radio Valenza. Orientata all’intrattenimento, Radio Asti dà spazio anche al dialetto.

La seconda metà degli anni Settanta

La sentenza della Corte costituzionale e gli effetti del deficit legislativo

Nate nelle grandi città come nei centri più piccoli, al Nord come al Sud, dotate di vere e proprie sedi oppure alloggiate in salotti e camere da letto, alla fine del 1975 le radio private sono almeno un centinaio. Nel febbraio del 1976 nascono a Bologna Radio Alice e a Milano Studio 105, e a Firenze si svolge l’assemblea costitutiva della FRED (Federazione Radio Emittenti Democratiche), le radio libere orientate a sinistra. In marzo a Roma nasce Radio radicale, organo del Partito radicale (PR), e inizia a trasmettere regolarmente Radio città futura, così come a Firenze Controradio. In aprile il Centro per l’informazione e le comunicazioni di massa di Perugia, società di proprietà della provincia e del comune, avvia le trasmissioni di Radio Umbria.

Numerose sono le sentenze della magistratura che in questo periodo riconoscono la legittimità delle trasmissioni private locali, preludendo alla storica sentenza nr. 202 con la quale il 28 luglio del 1976 la Corte costituzionale consente ai privati l’installazione e l’esercizio di impianti di diffusione radiotelevisiva purché non eccedenti l’ambito locale, sancendo ufficialmente la nascita dell’emittenza privata. Nella sua sentenza la Corte costituzionale si preoccupa anche di segnalare la necessità di un intervento legislativo volto a disciplinare l’assegnazione e l’utilizzo delle frequenze gestibili dalle emittenti locali: sollecitazione che sarebbe rimasta disattesa per un quindicennio. In seguito al pronunciamento della Corte costituzionale, le radio libere escono quindi definitivamente da una condizione di illegalità, ma senza entrare in un quadro legislativo definito.

Uno dei principali effetti di questo deficit legislativo è la possibilità per chiunque di usare frequenze non già occupate: si scatena quindi una corsa all’occupazione delle frequenze, e centinaia di nuove radio vanno ad aggiungersi a quelle già nate. Inoltre la sentenza continua a mantenere la riserva allo Stato dell’attività radiotelevisiva a livello nazionale, ma il contesto privo di regolamentazione che si è venuto a creare lascia aperta la porta a escamotages che consentono l’avvio della formazione di network con copertura nazionale. Nel campo della radiofonia questa situazione non conduce ai rapidi e massicci processi di concentrazione a cui si assisterà in campo televisivo, ma pone le premesse di dinamiche negative che si sarebbero via via dispiegate, e che avrebbero contribuito ad annullare la gran parte della novità positiva costituita dalle radio libere. In un intreccio di miopie, inerzie e calcoli (in cui la radio finisce per essere la variabile dipendente della televisione), anziché un’ordinata transizione a un sistema radiofonico articolato, pluralistico e in grado di dare respiro comunicativo e informativo alle dimensioni locali, i passaggi che dai primi anni Settanta al 1990 ridefiniscono il settore configurano una liberalizzazione selvaggia, da cui sul lungo periodo usciranno premiati interessi privati e logiche di profitto.

L’appropriazione di massa della radio Tuttavia nella prima fase e per alcuni anni immediatamente successivi c’è anche un enorme ed entusiasmante rovescio della medaglia. Negli anni Sessanta in Europa qualche sasso gettato nello stagno ha cominciato a increspare la superficie del monopolio statale sulla radiofonia. Con le trasmissioni di Radio Caroline dal Mare d’Irlanda inizia nel 1964 l’epopea delle radio pirata off-shore, che porta una ventata di novità ma non modifica il quadro generale. È l’Italia delle radio libere negli anni Settanta ad avere il ruolo di pioniere tra i Paesi, non solo europei, che via via superano il monopolio di Stato sull’etere. Il repentino, sregolato cambiamento di scenario che avviene nell’etere italiano alla metà del decennio, per qualche anno si traduce in un’autentica, ingorda, appropriazione di massa del mezzo radiofonico: un fenomeno gigantesco, a oggi ancora non indagato e documentato quanto meriterebbe, e praticamente senza paragone nella storia della radiofonia mondiale.

Dato il carattere del tutto irregolare del fenomeno, fino al 1990 (quando si passa a un regime di concessioni) non esistono cifre precise. Ma nel 1978 un censimento del Ministero delle Poste e telecomunicazioni individua oltre 1600 emittenti, mentre l’anno successivo la valutazione della rivista specializzata «Altrimedia» è di 1800 radio: un numero, secondo una percezione corrente all’interno del settore, che all’inizio degli anni Ottanta è grosso modo almeno raddoppiato, prima di cominciare a declinare. La novità, la tumultuosa rapidità, il carattere largamente spontaneo della nascita delle radio libere, il deficit di regolamentazione del settore, l’accesso al microfono di migliaia di persone senza alcuna professionalità radiofonica o giornalistica, si traducono in una straordinaria libertà di sperimentazione, tanto dei contenuti, dei linguaggi e delle formule, quanto delle soluzioni organizzative e degli assetti economici e proprietari.

Milano: radio commerciali e radio ‘democratiche’

Radio Milano international e Canale 96

Alla neonata radiofonia indipendente è Milano a indicare subito due opzioni assai pronunciate: con esiti divaricati, in entrambe si rispecchia la realtà della metropoli più moderna della penisola, capitale economica del Paese e principale polo dell’editoria libraria, periodica e discografica e della pubblicità, teatro di una forte contestazione studentesca e di avanzate lotte operaie, città storicamente spesso anticipatrice nel bene e nel male di tendenze sociali e politiche nazionali. Sia Radio Milano international sia Canale 96 nascono a loro modo in maniera spontanea.

L’iniziativa di Radio Milano international è di alcuni ventenni, ascoltatori di Radio Monte Carlo e Radio Luxembourg e appassionati di radio pirata come la danese Veronica. Animata da giovani e giovanissimi, molti ancora liceali, Radio Milano international (poi dalla fine degli anni Ottanta One-O-One network, uno dei maggiori network italiani negli anni Novanta e, dal 2005, acquistata dal gruppo Mondadori, R101) si impone rapidamente come uno dei prototipi della radio commerciale: al suo successo contribuiscono il taglio musicale e di intrattenimento influenzato da modelli americani, il carattere disimpegnato che la differenzia marcatamente dalle radio di sinistra, e lo stile spigliato e la personalità di diversi conduttori (come Claudio Cecchetto), che fanno scuola e che rendono popolare la figura del dj radiofonico.

Canale 96 nasce invece alla Elettrovideo, un’azienda medio-piccola del settore elettronico del Sempione, quartiere densamente industrializzato, con una forte presenza di fabbriche metalmeccaniche, ma già colpito dalla recessione e dalla riconversione industriale. Nella genesi di Canale 96 si incrociano specificità professionale, che fa di molti operai e tecnici della Elettrovideo degli appassionati di ricetrasmittenti su banda CB (Banda Cittadina), e coscienza politica, che li spinge a immaginare un bollettino sindacale radiofonico come strumento di resistenza operaia indirizzato alle fabbriche della zona. Sul progetto presto si innesta l’intervento politico e giornalistico di militanti e simpatizzanti dei gruppi che fanno riferimento al neonato cartello elettorale di Democrazia proletaria, e in particolare ad Avanguardia operaia. Prima radio di sinistra in una grande città, Canale 96 definisce un’inedita fisionomia radiofonica che nella sua articolazione sarà largamente seguita dalle emittenti dell’emergente filone delle ‘radio democratiche’.

L’informazione e la politica sono in primo piano, con notiziari e un ampio assortimento di appuntamenti quotidiani e di programmi settimanali su tematiche che vanno dalle fabbriche alla casa, dalla scuola al carcere, dal femminismo alla medicina popolare; notevole rilievo hanno anche, con un ventaglio di rubriche, cultura e spettacolo, affrontati con l’approccio fortemente politico che è abituale nell’estrema sinistra e nel movimento giovanile dell’epoca. Ma Canale 96 si qualifica anche per la sua offerta musicale, che con numerose trasmissioni specializzate valorizza un ampio spettro di generi (cantautori e gruppi italiani, pop-rock, jazz, folk), con un forte rimescolamento di carte rispetto ai canoni RAI e una netta distinzione dalle logiche delle neonate radio commerciali che da subito nella programmazione musicale tendono a mettere a punto una formula di successo, in genere imperniata in gran parte o esclusivamente su un particolare ambito musicale, e ad attestarsi su quella. Nella radio di sinistra delineata da Canale 96, la musica non è mai semplice intrattenimento e tantomeno riempitivo: è un oggetto su cui si fa informazione e di cui si discute, un campo di opzioni in cui si vedono riflesse in maniera significativa le contraddizioni della società e all’interno del quale ci si sforza, non senza ingenuità ma generosamente, di fare delle scelte in coerenza con le premesse politiche della radio. Canale 96 ha un ruolo pionieristico anche come radio organizzatrice di concerti, come modalità di finanziamento ma anche di presenza culturale nel mondo giovanile e in città.

Radio popolare

Malgrado la sua proposta innovativa trovi rispondenza nel contesto politicamente e socialmente avanzato di Milano, Canale 96 sopravvive solo fino al 1980. Oltre alla giungla delle frequenze (Canale 96 è interferita da una potente radio commerciale), a decretarne la fine è la contraddizione non sciolta fra un’impostazione militante e ideologica e l’aspirazione al ruolo di radio di informazione in grado di rivolgersi a una platea di ascoltatori più ampia e variegata di quella costituita dal pubblico più di sinistra e dagli strati giovanili più politicizzati; contraddizione che la rende debole di fronte all’apparire sulla scena di Radio popolare, che riesce proprio nella scommessa di un’emittente con un’identità nettamente di sinistra ma appunto anche realmente popolare, e che si impone rapidamente con il suo dinamismo.

Alla base del successo di Radio popolare si possono individuare la robustezza del progetto iniziale e la consistenza dell’arco di forze che danno vita alla radio: Partito di unità proletaria, Movimento lavoratori per il socialismo, Avanguardia operaia, Lotta continua (ossia la gran parte dei gruppi della nuova sinistra), la sinistra socialista, i sindacati metalmeccanici di CGIL, CISL e UIL, che a Milano sono su posizioni all’avanguardia rispetto all’intero sindacalismo italiano, e tessili e poligrafici CISL.

Il documento di indirizzo Per una radio popolare, elaborato nel 1975 da Piero Scaramucci, militante di Lotta continua con all’attivo anni di esperienza come cronista RAI, muove dalla critica al conformismo dell’informazione RAI e alla sua offerta di una dialettica di punti di vista che Scaramucci ritiene fasulla e sempre intesa a confermare il punto di vista ‘della classe al potere’ e la sua ideologia. La chiave di volta per far saltare i meccanismi che improntano l’informazione RAI è individuata nello scardinamento della ‘unidirezionalità’, attraverso spazi gestiti direttamente dal ‘proletariato’ (nelle sue rappresentanze organizzate ma anche individualmente), mediante collegamenti diretti con le ‘situazioni di lotta’ e più in generale col sociale e con la ‘gente’ nei diversi momenti e aspetti della sua vita quotidiana.

Grande rilievo è assegnato al rapporto telefonico che si instaura con il pubblico, in base a una critica alla forma addomesticata proposta dalla RAI con la trasmissione “Chiamate Roma 3131”, nata nel 1969. L’idea è quella di una radio popolare che non sia megafono di avanguardie, e che sappia parlare a tutti, intervenendo su un ampio ventaglio di argomenti anche non direttamente legati alla politica (in Vedi alla voce Radio popolare, 2006, pp. 142-46). Con parole diverse, tipiche della cultura politica dell’epoca, l’audacia di Per una radio popolare sembra persino raccogliere il testimone di Radio libera di Partinico, portandolo dentro uno scenario tutto milanese (in effetti Scaramucci nel 1959 aveva conosciuto Dolci e partecipato alle sue attività, ma il progetto fondante di Radio popolare non è ispirato alle idee di Dolci su Radio libera di Partinico, ma frutto di una riflessione indipendente e di discusssioni all’interno della nuova sinistra e dei sindacati milanesi).

Al di là della condivisione dell’opportunità di dare vita a un mezzo di comunicazione non propagandistico e non ideologico, la convivenza di tante organizzazioni politico-sindacali con interessi e progetti differenti, nessuna delle quali può pretendere di far prevalere la propria linea, favorisce l’autonomia della redazione, già rivendicata – escludendo lottizzazioni e proporzionalità nell’accesso dei collaboratori – nel documento di indirizzo

Per una radio popolare.

Gli esordi. Radio popolare comincia le trasmissioni nel settembre del 1976. Tre mesi dopo, fa già parlare di sé per la radiocronaca degli incidenti alla prima della Scala, assediata dai circoli giovanili che con la loro contestazione anticipano il Settantasette bolognese e romano: con le chiamate da cabine telefoniche di una quindicina di redattori, la diretta è una novità semplice ma rivoluzionaria nel campo dell’informazione in Italia. Grazie alla mancanza di filtri alle telefonate degli ascoltatori e alla sua spregiudicatezza, fa epoca il ‘microfono aperto’, che farà scuola non solo in ambito radiofonico. Vanno in onda le prime trasmissioni dei collettivi omosessuali.

Ma a creare il legame con gli ascoltatori è anche la freschezza e l’originalità di programmi di intrattenimento che rivelano personaggi come Gino e Michele (alias Luigi Vignali e Michele Mozzati). Da subito la scelta di Radio popolare è quella di non limitarsi a essere una raccolta generale di contenuti informativi diversi, ma di entrare direttamente in concorrenza con la RAI e gli altri media sul piano dell’informazione. Non soltanto: l’ambizione è anche quella di offrire ai propri ascoltatori la possibilità di un’alternativa che sia competitiva su tutti gli altri piani, ossia cultura, musica, intrattenimento.

Radio popolare e la Milano degli anni Settanta. Nel successo di Radio popolare c’è una fortunata combinazione di fattori dietro la quale si legge però la particolare concentrazione di condizioni favorevoli offerte da Milano. La creatività, l’intraprendenza, la dedizione di lavoratori e collaboratori, la vivacità dello stimolo offerto dagli ascoltatori, si nutrono del patrimonio sedimentato da contestazione studentesca, lotte operaie, maturazione della coscienza democratica, così come dell’intensa vita culturale che una città ricca e piena di fermenti non conformisti può offrire (Milano è anche la culla della controcultura italiana).

La scelta di uno strumento radicalmente nuovo rispetto alle tradizionali forme di comunicazione della sinistra è probabilmente da ascrivere soprattutto alla maturità e alla lungimiranza della componente metalmeccanica, e della FIM (Federazione Italiana Metalmeccanici) in particolare. Il superamento di gelosie di organizzazione e di atteggiamenti autocentrati a vantaggio di un unico progetto di comunicazione è per l’epoca del tutto irrituale, e rivelatore di un certo pragmatismo milanese non estraneo alle fortune di Radio popolare e alla sua tenuta sul lungo periodo. Pragmatismo che, data la priorità assegnata all’informazione e la necessità di sostenere un lavoro redazionale consistente, taglia corto, precocemente, con i dubbi sulla pubblicità.

Alla metà degli anni Settanta Milano è una città industriale con una spiccata fisionomia operaia e popolare, con un forte movimento studentesco, giovani e ampi ceti professionali radicalizzati a sinistra, e larghi strati di borghesia democratica: Radio popolare può quindi puntare realisticamente su un significativo sostegno economico da parte degli ascoltatori. Nel suo solido tessuto economico-sociale, la città dispone anche di un’imprenditoria piccola e media orientata in senso democratico e di attività economiche legate alla sinistra e compatibili con la fisionomia politica della radio, che possono trovare un naturale sbocco pubblicitario nell’emittente, contribuendo a sostenenerla e avendone un ritorno. Attraverso il sostegno degli ascoltatori e la pubblicità, Radio popolare fissa i binari della propria indipendenza, su cui correrà nei decenni successivi.

Un caso unico in Europa. Il connubio tra il sostegno degli ascoltatori e la pubblicità sperimentato da Radio popolare rappresenta un altro aspetto del rovescio della medaglia di una situazione radiofonica completamente non regolamentata come quella venutasi a creare in Italia: nei Paesi dell’Europa occidentale che arriveranno via via alla liberalizzazione dell’etere, le radio a vocazione non commerciale baseranno la loro ‘indipendenza’ principalmente sui fondi erogati dallo Stato, finendo, in quello che si rivela in realtà un pesante rapporto di dipendenza, per venire condizionati a proporzionare i loro sforzi alle risorse ricevute e per accontentarsi di dimensioni operative piuttosto ridotte e marginali. Radio popolare parte invece da un’idea di funzione di servizio e cerca i mezzi necessari contando sulle proprie forze: una dinamica che la porterà a essere per le sue dimensioni e il livello del suo lavoro un caso unico nel panorama della radiofonia indipendente e non commerciale per lo meno dell’Europa occidentale, e di reggere (e forse vincere) invece il confronto con le grandi radio comunitarie statunitensi della catena Pacifica, nate a partire dal secondo dopoguerra. D’altro canto, non saranno molte le radio di ispirazione analoga a quella di Radio popolare che riusciranno a sopravvivere alla selezione naturale nella ‘giungla’ della radiofonia italiana.

L’esperienza romana

Radio città futura

Nata come espressione dell’area del PDUP e di Avanguardia operaia per iniziativa dell’editore Giulio Savelli e di Renzo Rossellini, figlio di Roberto Rossellini, Radio città futura è in primo piano nel drammatico volgere di eventi che Roma vive dal 1977 e che culminano nell’omicidio di Aldo Moro (1916-1978): nel 1978 Radio città futura è anche vittima dell’attacco di un commando di estrema destra. La forza di Radio città futura, cioè la sua internità alle vicende del movimento romano, che si riflette in un vitale caleidoscopio di programmi autogestiti da istanze del movimento e della sinistra extraparlamentare e in una buona dose di spontaneismo radiofonico e giornalistico, è però anche la sua debolezza.

A differenza di Radio popolare, che è legata al movimento e che ne segue l’evoluzione ma che opta decisamente per un’identità di radio di informazione e tendenzialmente professionale, Radio città futura sceglie di essere – per usare l’espressione dell’epoca – ‘radio di movimento’, fino a intervenire direttamente come collettivo nel dibattito fra le sue diverse componenti e a porsi direttamente come soggetto politico che propone e indice iniziative. Così il dibattito sull’uso della violenza che si sviluppa nella sinistra rivoluzionaria romana, oltre ad approdare ai microfoni con le telefonate degli ascoltatori, attraversa anche il corpo della radio, che assume una posizione contraria ma non senza lacerazioni. Alla fine degli anni Settanta Rossellini si ritira dalla radio. Con il riflusso, negli anni Ottanta Radio città futura tenta il rilancio ed entra nell’orbita di Democrazia proletaria, ma manca di radicamento in un’audience significativamente più ampia di quella della nuova sinistra e degli ex appartenenti al movimento degli anni Settanta, e alla metà del decennio entra in crisi, tanto che la sua esperienza si interrompe per alcuni anni.

Il Far West dell’etere romano

Ma certamente oltre ai limiti della propria proposta, negli anni Ottanta – ma anche in seguito una volta ripresa l’attività – Radio città futura sconta anche l’obiettiva difficoltà dell’etere romano: a un anno dalla nascita della prima radio privata nella capitale, le emittenti sono circa 40; alla fine del 1978 le radio della provincia sono quasi 200, e Monte Cavo rappresenta plasticamente la giungla dell’etere di Roma: «la vetta è confusamente coperta di cavi, tralicci, antenne, ripetitori radio e Tv pubblici, privati e delle forze armate» (Radio FM 1976-2006, 2006, p. 140). Il carattere e la complessità della capitale si traducono rapidamente in uno spettro di frequenze iperaffollato e in un panorama radiofonico eterogeneo. Negli ultimi anni Settanta, in un Far West di interferenze e contenziosi, vi convivono già radio consacrate all’informazione come Radio Roma e radio improntate alla musica e/o all’intrattenimento, l’anticlericale Radio radicale e la salesiana Radio speranza, Radio onda rossa, dalla primavera del 1977 voce dei Comitati autonomi operai, e Radio contro, legata alla destra eversiva, la filosovietica Radio proletaria e Radio Lazio di Claudio Villa (1926-1987), la femminista Radio Lilith e Radio luna. Quest’ultima manda in onda la pornostar Ilona Staller (in arte Cicciolina) e distribuisce lo show erotico e altri programmi a una quarantina di emittenti in una sorta di pionieristica syndication, ossia utilizzando un meccanismo di diffusione che anticipa la soluzione poi adottata in ambito televisivo dalle tre emittenti del gruppo Fininvest – Canale 5, Italia 1 e Rete 4 –, cioè la trasmissione in contemporanea su frequenze locali dello stesso programma preregistrato, per realizzare una copertura nazionale nella fase in cui le trasmissioni televisive private sono ancora consentite solo in ambito locale.

A ridosso delle elezioni politiche del 1976 Radio radicale dà vita a una maratona radiofonica con protagonisti il leader del partito Marco Pannella e gli ascoltatori, in un’inedita forma di campagna elettorale. Fra le radio di musica non-stop si distingue per la sua qualità Radio blue, che dopo una crisi fra lavoratori ed editori viene rilevata dal PCI – che non solo a Roma sta cominciando a prendere atto della nuova realtà radiofonica – e si ripropone come radio di musica e informazione diventando Radio blu. A testimonianza di questa particolarità dell’etere romano, in una fase successiva vi emergeranno come un fenomeno tutt’altro che trascurabile le radio specializzate nella chiacchiera calcistica e nel tifo romanista e laziale, nella cui nascita giocano un ruolo non trascurabile capi neofascisti delle curve ultras.

L’esperienza bolognese

Radio città e Radio Alice

Sui rischi di una frammentazione dell’ascolto, speculare alla ‘specializzazione’ di tante emittenti che mirano a un target sul piano culturale e politico a propria immagine e somiglianza, facendo funzionare così la radio da fattore di conferma e di irrigidimento delle identità e non di problematizzazione, riflette precocemente a Bologna Radio città, nata nel 1976, con un approccio largo all’audience che ha alcune affinità con quello di Radio popolare, e che dopo una crisi negli anni Ottanta e la trasformazione in radio controllata da Democrazia proletaria, sarà ereditato nel 1987 da una emittente di nuova costituzione, Radio Città del Capo. Con le sue inconciliabili contrapposizioni, per Radio città il Settantasette bolognese è un test durissimo: l’impostazione della radio, con una netta differenza di atteggiamento rispetto a Radio Alice, la espone all’accusa di fiancheggiamento del PCI, facendola diventare una controparte per l’ala più radicale del movimento, con grosse frizioni anche all’interno della stessa redazione.

Nella radiofonia italiana degli anni Settanta Radio Alice, con alcuni aspetti di specificità locale, è un caso unico per la sua capacità di fare da catalizzatore e portare a sintesi molti elementi che percorrono il movimento dell’epoca. La figura dello studente sta subendo una pesante trasformazione, e l’università sta esaurendo il suo ruolo di ascensore sociale: lo studente sente ormai mordere la crisi successiva ai ‘trenta gloriosi’, i tre decenni di espansione capitalistica, industrializzazione e diffusione del benessere successivi alla Seconda guerra mondiale, e la sua identità di ‘non garantito’ comincia a confondersi con quella del precario in un universo produttivo postfordista segnato dalla ristrutturazione industriale, dal decentramento produttivo e dal lavoro nero. Oltre che una forte concentrazione di studenti, Bologna presenta inoltre una elevata percentuale di ‘fuori sede’, vittime di particolari disagi, e per provenienza (molti sono del Sud) spesso privi di legami con le tradizioni e la storia del movimento operaio. Questa nuova figura di studente rappresenta dunque una delle componenti del cosiddetto ‘proletariato giovanile’ – definizione che ha all’epoca largo corso – che viene alla ribalta con la rassegna Umbria Jazz nel 1974-75, con i festival organizzati dalla rivista «Re nudo» e in particolare con quello di Parco Lambro a Milano dell’estate del 1976, con le contestazioni dei circoli giovanili milanesi della seconda metà del 1976, in cui le posizioni più radicali dell’estrema sinistra si incontrano con i motivi della controcultura.

A questa miscela Bologna aggiunge, anche per la presenza del primo corso di laurea in Discipline delle arti della musica e dello spettacolo (DAMS), un ingrediente di forte creatività e alto livello culturale. Infine, agli occhi di buona parte del movimento della seconda metà degli anni Settanta, il PCI appare ormai perso alla causa della trasformazione della società e visto anzi come nemico: in una città in cui il Partito comunista è al governo ed egemone da decenni, questo antagonismo nei suoi confronti si colora di un particolare risentimento e di una speciale virulenza. Più che radio che dà voce al movimento, Radio Alice è il movimento che parla direttamente con la propria bocca, in una sorta di flusso coscienziale la cui spontaneità e indisciplina sono però innervate da un preciso progetto comunicativo, che nel suo estremismo di forme e contenuti, nella sua irriverenza e nella sua ironia attinge dalla filosofia contemporanea (Gilles Deleuze, Pierre-Félix Guattari, Michel Foucault, Jean Baudrillard) e dalle avanguardie storiche (André Breton, Tristan Tzara, Vladimir V. Majakovskij). Rifacendosi all’idea di queste ultime di rompere la separazione fra arte e vita quotidiana, Radio Alice fa in effetti coincidere un’operazione comunicativa e politica con una sofisticata operazione artistica. La vicenda di Radio Alice, che restituisce emblematicamente lo stato d’animo e le pulsioni del ‘proletariato giovanile’ e un clima e un momento irripetibili, si conclude già nel marzo del 1977: la radio fa la cronaca in diretta della rivolta e degli scontri che seguono l’uccisione da parte delle forze dell’ordine dello studente Francesco Lorusso, e in diretta viene chiusa dalla polizia. A far conoscere l’esperienza di Radio Alice contribuisce Alice è il diavolo, un libro curato dal collettivo A/traverso e pubblicato nel 1976: grazie anche a questo libro, Radio Alice ha esercitato, più di ogni altra radio libera italiana, una forte suggestione sul successivo movimento delle radio comunitarie a livello internazionale, con un mito che, ben vivo ancora oggi, è arrivato tanto lontano da influenzare anche il successivo fenomeno delle microradio giapponesi.

Sicilia: Radio aut

Proprio nella primavera in cui si esaurisce l’esperienza di Radio Alice, un giovane siciliano, Peppino Impastato, che è presente a Roma e a Bologna ad alcuni dei momenti cruciali del 1977, matura l’idea di dare vita nella sua città, Cinisi, in provincia di Palermo, a una radio libera, idea che sottopone a un piccolo gruppo di compagni e che si concretizza rapidamente. L’aspetto più scottante della proposta avanzata da Radio aut sono le trasmissioni in cui, con formule radiofonicamente creative e irriverenti, Impastato denuncia gli intrecci locali di mafia e politica e si spinge anche a prendere di mira il potente boss Gaetano Badalamenti (1923-2004): ardire che nel maggio del 1978 gli costerà la vita. Ma la creazione di una coscienza antimafia non è lo scopo esclusivo dell’emittente concepita da Impastato.

Da adolescente Impastato è rimasto affascinato dalle iniziative e dalle lotte di Dolci, che nel 1967, non ancora ventenne, ha poi anche occasione di conoscere: in ogni caso, pur con un linguaggio e con accenti che risentono dei sette anni che sono nel frattempo passati e di una diversa visione politica – Peppino appartiene a Lotta continua – è difficile non vedere il progetto di Impastato sullo sfondo di quello di Dolci. Nelle sue Proposte d’intervento radiofonico, redatte nell’estate del 1977, Impastato indica tre livelli di articolazione dell’uso della radio:

un primo livello è quello dell‘informazione e controinformazione, che si presenta immediatamente come momento di rifiuto e di ridimensionamento dell’informazione di regime e del monopolio dell’industria del consenso (Rai, Tv, stampa e mass media in genere). La notizia discende direttamente dal sociale e va riproposta, in maniera amplificata, al sociale stesso, senza filtri o interventi manipolatori. Nel caso di accesso a fonti differenziate (agenzie, notiziari ecc.) si pone un problema di rielaborazione e di verifica nel sociale. [...] Un secondo livello è quello dell‘intervento politico. La radio diventa strumento diretto, come il volantino, il videotape, o il megafono, dell’iniziativa di lotta e del progetto politico complessivo di una struttura di base ‘dislocata socialmente e territorialmente’. [...] Il tutto da intendere evolutivamente in direzione del terzo livello, quello degli spazi autogestiti. È il livello in cui la realtà sociale si appropria dello strumento radiofonico e lo usa direttamente per allargare e difendere le ‘macchie liberate’ e come mezzo di coordinamento delle lotte e delle iniziative di massa (Radio aut: materiali di un’esperienza di controinformazione, 2008, pp. 19-20, corsivi nel testo originale).

Radio aut sopravvive fino al 1980. Prima ancora dell’omicidio di Impastato, oltre alle difficoltà di una situazione estrema, l’emittente patisce anche i primi segni di sbandamento, di delusione, di disimpegno che cominciano a diffondersi nel movimento e si manifestano anche a livello locale, e a cui Impastato cerca testardamente di reagire. Nell’insistenza di Impastato su una comunicazione senza filtri dal sociale al sociale, ma anche nel suo coscienzioso sforzo di articolazione del palinsesto della radio, nella sua preoccupazione perfino sulle trasmissioni musicali – che «non riuscivano però ad avere una loro organicità in quanto non collegate, in sede d’impostazione e commento, a fenomeni socio-politici e culturali di cui erano espressione più o meno diretta» (pp. 23-24) – e naturalmente nella personalità del suo animatore, il caso di Radio aut è eccezionale. Ma allo stesso tempo è anche emblematico di quanto profondamente e diffusamente nella seconda metà degli anni Settanta la radio funzioni da sbocco per nuove urgenze comunicative, e d’altro canto le stimoli e le moltiplichi. Del resto la stessa Radio aut per es., come osserva Salvo Vitale:

non fu un’esperienza isolata in Sicilia: contemporaneamente erano nate una quarantina di emittenti libere che, in un certo momento, si riunirono per dar vita alla Fred (Federazione Regionale Emittenti Democratiche) la cui segreteria venne affidata proprio al direttore responsabile di Radio Aut. Nessuna di queste raggiunse il livello di denuncia e di politicizzazione di Radio Aut e molte finirono presto nella spirale commerciale e qualunquistica. In ogni caso l’omicidio di Peppino riuscì a bloccare e a disperdere anche queste ‘piccole macchie liberate’ di democrazia e di autogestione dell’informazione (Radio aut: materiali di un’esperienza di controinformazione, cit., p. 12).

Il caleidoscopio delle altre esperienze

Ma emblematiche della reazione chimica fra mezzo radio e nuove esigenze di espressione messa in moto dalle radio libere sono anche tante altre esperienze che non sono (almeno non subito) caratterizzate da indirizzi così definiti come quello commerciale di cui è battistrada Radio Milano international, o quello politicamente impegnato che è diversamente rappresentato da Canale 96, Radio popolare, Radio città futura, Radio città, Radio Alice, Radio aut. Proprio nella loro anche parziale incoerenza, molte altre emittenti testimoniano della pervasività di un bisogno di comunicare che nelle forme e/o nei contenuti esorbita dalle convenzioni fino ad allora dominanti.

L’epica provinciale di Punto radio, da cui emerge il giovane Vasco Rossi, è fatta non solo della proposta di musiche insolite o rare, dell’anticipazione di tendenze, dell’attenzione ai testi delle canzoni, commentati dai conduttori, ma anche, in un palinsesto piuttosto articolato, di trasmissioni in cui i brani dei cantautori diventano lo spunto per discutere di problemi sociali, e di programmi in cui si propongono registrazioni di opinioni e ragionamenti di gente comune. Nata nel 1975 a Zocca, sull’Appennino emiliano, Punto radio comincia ad accusare difficoltà economiche già nel 1977, e l’anno successivo viene rilevata dal PCI di Bologna, che trasferisce la sede nel capoluogo.

Frutto anche delle circostanze, in una tumultuosa fase di sviluppo del fenomeno, il carattere ibrido di alcune esperienze viene a volte assunto e consolidato come un marchio di originalità. È il caso di Radio flash, che nasce a Torino nel 1976 dall’iniziativa di due giovani appassionati di radio, intorno ai quali si raccolgono, senza però un progetto comune, diverse decine di persone: alcune interessate a una radio di informazione e di profilo politico, altre a una radio musicale. Il compromesso viene raggiunto con un’informazione di sinistra ma contenuta in spazi che non impediscono all’emittente di caratterizzarsi con una forte programmazione musicale, indirizzata al rock. Ma questa fisionomia di fondo diventa distintiva e sostanzialmente si mantiene anche nelle successive vicende della radio. Abbandonata dalla componente contraria a un’emittente con un’identità ‘democratica’, quindi rilevata nel 1977 dalla Federazione torinese del Partito comunista e prima fornita di notiziari dal partito e poi dotata di una redazione indipendente, dal 1979 Radio flash diventa organizzatrice di grandi concerti (Bob Marley, Rolling Stones), e dal 1982 di eventi, e guadagna una presenza di rilievo e prestigio in città (appannatasi poi nella seconda metà degli anni Novanta a causa di dissidi interni e problemi di gestione economica).

Gli effetti dell’esperienza degli anni Settanta

L’effetto ‘accento’

Rispetto alle convenzioni della RAI l’ondata delle radio indipendenti è un terremoto che investe con un impeto liberatorio anche l’impiego e la pronuncia dell’italiano, gli stili del parlato radiofonico, il modo giornalistico di porgere la notizia. Intervistato da Altrimedia nel 1976 Umberto Eco afferma:

Uno degli effetti più interessanti e rilevanti che le nuove radio hanno determinato dal primo momento in cui sono entrate in azione, è stato l’effetto accento: era la prima volta che sentivo parlare alla radio con l’accento del droghiere all’angolo. Quando poi mi sintonizzavo di nuovo sulla radio di monopolio sentivo invece un effetto di estraneità. […] Quando ho sentito un rapporto da una casa occupata, dato col fiatone da uno appena arrivato nella redazione radiofonica, il fatto che la notizia fosse data male, col ritmo spezzato, era involontario ma assumeva per me un interesse maggiore e decisamente nuovo (cit. da E. Fleischner, in Vedi alla voce Radio popolare, 2006, p. 177).

Con un numero di emittenti che alla fine degli anni Settanta sfiora le 2000, e che all’inizio del decennio successivo oltrepassa probabilmente le 3000, la quantità di persone che nei primi anni dopo la crisi del monopolio ‘fanno radio’ direttamente è amplissimo. Il fenomeno delle radio libere si traduce anche in un enorme allargamento e in una forte ‘democratizzazione’ dell’accesso ad alcune professioni, fra cui quella giornalistica. Ma rispecchiando l’accresciuta istruzione formale e informale (anche grazie a due decenni di televisione) del Paese, e con il Sessantotto la diffusa presa di parola nelle sue più varie forme (anche volantino, slogan, intervento in assemblea, e così via), l’esplosione della radiofonia privata si presenta in prima battuta come un clamoroso, anche se transitorio, momento di rottura con la comunicazione di massa come attività specializzata affidata a professionisti.

Animate prevalentemente da giovani, le nuove radio assorbono dal linguaggio giovanile espressioni anche locali e dialettali, neologismi, parole mutuate da lingue straniere, amplificandone l’uso a livello nazionale e intergenerazionale. Con l’avvento delle radio libere viene meno la funzione pedagogica e normativa, incarnata dalla RAI, della radio rispetto alla lingua. D’altro canto gli stili veloci dei disc jockey radiofonici contribuiscono fra l’altro all’accelerazione dei ritmi del parlato giovanile.

Aree periferiche, minoranze linguistiche

Il fiorire delle radio libere offre inoltre un inedito veicolo di espressione ad aree e specificità trascurate dall’accentramento del monopolio radiotelevisivo. Nelle radio locali l’ascoltatore trova attenzione a notizie, problemi, culture che non hanno spazio neppure nei programmi regionali della RAI, e anche la possibilità di riconoscersi in modalità dialettali, parlate locali, lingue del suo territorio.

Una delle più dinamiche fra le radio pioniere è per es. Radio Valle Camonica, che comincia a trasmettere con regolarità nel 1975: l’emittente valorizza subito l’interazione telefonica con gli ascoltatori, inventa formule, crea programmi comici e di intrattenimento legati alla realtà locale, e nel linguaggio e nei contenuti precorre umori leghisti, motivi dell’antipolitica, turpiloquio e spregiudicatezza dei talk show televisivi affermatisi nel corso degli anni Ottanta. Significativo il fatto che Radio Valle Camonica rinunci poi alla possibilità di portare il proprio segnale anche su città come Brescia e Bergamo, preferendo mantenere uno stretto rapporto con la propria realtà locale e consolidandosi in Valle Camonica, Val Brembana e altre valli.

Come radio di quartiere di un sobborgo di Bolzano e con la denominazione di Radio popolare nasce nel 1977 Radio tandem: nel 1982 l’emittente cambia nome collegandosi con il settimanale bilingue «Tandem» fondato dal leader ecologista e pacifista Alex Langer (1946-1995), e si qualifica come espressione delle tendenze più avanzate e aperte al dialogo interetnico della società altoatesina. Nel 1985 l’emittente entra in crisi, ma nel 1987 viene rilanciata da un nuovo gruppo, sempre con una collocazione di sinistra e con attenzione al bilinguismo e alla complessità culturale e politica dell’Alto Adige.

Con una matrice politica in cui l’istanza federalista si combina con una prospettiva di nuova sinistra, nel 1980 a Udine nasce Radio onde furlane, animata da giovani autonomisti, cattolici e militanti di Democrazia proletaria. L’emittente ha un ruolo di rilievo nella valorizzazione – sostenuta da finanziamenti regionali – della lingua friulana, utilizzata nella maggior parte dei programmi e dei notiziari, e oltre che all’italiano si apre poi via via ad altre lingue, rappresentando il portato dell’immigrazione e l’emergere in Friuli di una società multiculturale.

Legata alla Chiesa evangelica valdese ma di impostazione laica, Radio Beckwith nasce nel 1984 a Torre Pellice per iniziativa di un gruppo di giovani della Val Pellice, come voce delle Valli Valdesi del Piemonte. Oltre a programmi di informazione, intrattenimento, sul culto evangelico e musicali, il palinsesto della radio ospita trasmissioni dedicate alla cultura e alla lingua francese e occitana.

Proprio grazie alla loro specificità, Radio Valle Camonica, Radio tandem, Radio onde furlane e Radio Beckwith nel 2015 sono ancora tutte attive.

Informazione locale, pubblicità locale

Rispetto alla diffusione nazionale o regionale delle trasmissioni della RAI, le nuove emittenti rovesciano il limite di una ristretta area di copertura nel vantaggio di una maggiore aderenza alle realtà locali e di una relazione più stretta con l‘audience, che spesso, oltre che nel rapporto telefonico, si traduce nel contatto diretto degli ascoltatori con la sede e gli animatori dell’emittente. Con l’eccezione delle radio più motivate sul piano giornalistico e in grado di destinare risorse alla produzione autonoma di informazione (in particolare alcune emittenti del filone delle radio democratiche), per quanto riguarda l’informazione nazionale e internazionale le radio locali stabiliscono un rapporto sostanzialmente parassitario con la stampa nazionale e con la stessa RAI; in parte parassitario e in parte sinergico è invece il loro rapporto con la stampa locale. Ma le emittenti locali risultano concorrenziali e innovative rispetto agli altri media ritagliandosi uno spazio di microinformazione locale, lasciato scoperto dalla RAI (che nei programmi locali privilegia notizie di rilevanza regionale) ma anche dalla stampa locale. Fra gli ambiti che si avvantaggiano maggiormente di questa informazione ravvicinata ci sono il mondo locale dello sport e gli sport minori. Accanto alla microinformazione, le emittenti locali offrono poi in abbondanza una sorta di autosociologia dei loro territori: la necessità di riempire con scarsi mezzi ore e ore di programmazione, spesso con ampio ricorso alle telefonate in diretta degli ascoltatori, fa emergere dalle trasmissioni aspetti della realtà, della mentalità, del costume che non affiorano nei media tradizionali e che mettono a disposizione elementi preziosi per una più accurata radiografia del Paese.

Con estrema prontezza la nascita della radiofonia libera è salutata dal decollo del mercato della pubblicità radiofonica locale, che in parte sottrae clienti alla stampa, ma che in larga misura mobilita un tessuto di inserzionisti del tutto nuovi, che nell’emittenza locale trovano l’incentivo di costi contenuti e di una precisa focalizzazione del loro messaggio sul territorio. La pubblicità radiofonica locale, così come l’insieme dell’offerta delle nuove radio – che con l’abbondante tasso di musica stimola la crescita e la diversificazione del mercato discografico –, favoriscono lo sviluppo del consumo e delle forme di socializzazione (discoteche, concerti) giovanili. Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta in particolare, le radio democratiche danno risalto ad ambiti musicali poco trattati dalle radio commerciali, come punk, reggae, world music.

Lo sviluppo dei network negli anni Ottanta: da 105 a Radio Maria

Negli anni Ottanta la perdurante assenza di un quadro di regole non vieta però, in uno spettro radiofonico ormai saturo, un’intensa compravendita di frequenze e il passaggio di mano di molte emittenti, con forti processi di concentrazione e l’emergere, a partire da Milano, dei primi network.

Lo sviluppo dei network radiofonici viene legittimato dal riflesso dei tre cosiddetti decreti Berlusconi emanati nel 1984-85 (d.l. 20 ott. 1984 nr. 694; d.l. 6 dic. 1984 nr. 807; d.l. 1º giugno 1985 nr. 223) dal governo guidato da Bettino Craxi (1934-2000) per consentire alle tre televisioni del gruppo Fininvest, dopo gli interventi in senso contrario della magistratura, di continuare a trasmettere su tutto il territorio nazionale.

Nata un anno dopo Radio Milano international, l’emittente Studio 105 (poi negli anni Ottanta Rete 105 e dalla seconda metà dei Novanta Radio 105) è ancora più tempestiva della concorrente nel darsi rapidamente una precisa strategia e una gestione manageriale attenta a tutti gli aspetti della radio. Distinguendosi da Radio Milano international, 105 opta per meno musica e più intrattenimento, coinvolgendo gli ascoltatori con telefonate e giochi, e non esclude la musica italiana; cura inoltre il marchio e sviluppa subito la produzione diretta degli spot pubblicitari. Presto diventata la radio più ascoltata a Milano e in Lombardia, 105 crea, in un mercato pubblicitario ancora molto povero per il settore radiofonico, una struttura diretta per la raccolta di pubblicità, per trovare risorse destinate a sostenere l’obiettivo dell’espansione nazionale, a sua volta indirizzato ad agganciare il mercato della pubblicità nazionale che si sta ingrossando con la nascita delle televisioni private. 105 inoltre è pionieristica nella precoce, estrema definizione dell’uscita radiofonica: tempi del parlato, stile di conduzione e scelte musicali vengono sottratti all’autonomia del disc jockey, che si trasforma in speaker o intrattenitore.

L’esempio di 105, che nel 1989 raggiunge la copertura nazionale, è seguito da altre emittenti, a cominciare dalla stessa Radio Milano international. Già negli ultimi anni Ottanta 105 costituisce il primo gruppo radiofonico, diversificando i target con l’acquisizione di Radio Monte Carlo e con il varo di 105 Classic.

Nata a Roma nel 1976, Radio dimensione suono intorno alla metà degli anni Ottanta copre gran parte del Centro-Sud. Fondata nel 1982 da Claudio Cecchetto, proveniente dalle esperienze di Radio Milano international e di 105, Radio deejay, che ha dalla nascita un’ambizione nazionale, comprime ulteriormente il parlato e punta su un target ancora più strettamente giovanile con una scelta musicale di tendenza, inaugurando tra le emittenti maggiori una focalizzazione ancora più spinta su uno specifico ambito musicale, e riuscendo a scavalcare negli ascolti 105; già nel 1984, con un programma di videoclip su Italia 1, Deejay gioca sulla sinergia con la televisione, per rafforzare il marchio e preparare il terreno alla sua espansione nazionale; sempre con strategie molto precise, modifica più volte spregiudicatamente la sua identità, anche sacrificando la sua formula all’inizio quasi esclusivamente musicale a favore dell’intrattenimento e del protagonismo di personaggi forti di una popolarità televisiva.

Nata nel 1982, Radio Italia solomusicaitaliana ha l’intuizione di mettere al centro la produzione nazionale che gli altri network lasciano ai margini. Rilevata nel 1987 dai fondatori della bergamasca Radio trasmissioni Lombarde, RTL 102.5 al principio degli anni Novanta è già ai primi posti tra i network, grazie a una serie di scelte indovinate: target sfasato (meno giovane) rispetto agli altri network; controllo ancora più rigido dei tempi e della programmazione musicale; formula imperniata sulla rotazione di un centinaio di successi italiani e stranieri dell’ultimo decennio; stessa frequenza in tutta Italia, quella indicata dalla denominazione della radio.

Nata nel 1976 a Napoli come immediata proiezione radiofonica della musica di una discoteca di successo, Radio kiss kiss, tempestiva nel cogliere l’onda della disco music e fortemente caratterizzata come radio napoletana, si fa rapidamente largo tra le radio di quartiere, commerciali e alternative spuntate in città: nel 1980 è la radio più ascoltata di Napoli, nel 1983 della Campania, e a metà decennio la più ascoltata d’Italia; nel 1986 Radio kiss kiss raggiunge tutto il Centro-Sud, e nel 1990 due terzi del territorio nazionale, fino a diventare l’unico network nazionale di matrice meridionale e con sede centrale nel Sud: a quella di Napoli si affiancano poi le succursali di Milano e Roma, mentre i target vengono diversificati, affiancando Kiss kiss Napoli e Kiss kiss Italia a Kiss kiss network.

Anch’essa nata nel 1976, in Umbria, emerge Radio Subasio, che senza puntare a una copertura nazionale si afferma come macroradio transregionale (Umbria, Toscana, Marche, Lazio, Campania).

Un caso a parte è quello di Radio Maria, che esordisce nel 1982 come radio parrocchiale a Erba, in provincia di Como: con una programmazione all’insegna di un cattolicesimo bigotto, consolatorio e proselitistico, che fa breccia fra ascoltatori anziani e di ceto basso, già nel 1990 raggiunge la copertura nazionale. Senza pubblicità e ampiamente basata sul volontariato, Radio Maria investe le offerte dei fedeli prima in un vero impero di frequenze (dopo le reti RAI, è l’emittente con la copertura nazionale più capillare), poi addirittura nella World family di Radio Maria, con decine di emittenti sorelle in tutti i continenti.

A decretare le fortune di tutti questi network concorrono in maniera determinante le scelte delle maggiori concessionarie pubblicitarie.

Gli anni Novanta e i primi anni Duemila

Il ridimensionamento della radiofonia locale

Lo sviluppo dei network va di pari passo con l’evoluzione del panorama della radiofonia locale. I processi di concentrazione, assieme alla mancanza di risorse e all’esaurirsi della spinta propulsiva iniziale, portano alla fine di molte esperienze locali, e alla crescita di radio di dimensioni e copertura medio-grandi, che, rivelandosi perdenti i tentativi di imitazione delle formule dei network, si ritagliano uno spazio rivolgendosi al territorio con l’informazione locale, di servizio e lo sport e con proposte musicali piuttosto ‘ecumeniche’. Il ritardo nella regolamentazione del settore conduce così già a una ristrutturazione di fatto, che con uno sfoltimento delle emittenti, un assestamento su radio mediamente più consistenti e affidabili e il superamento di molti problemi interferenziali, è funzionale agli investimenti nel settore medesimo e alla crescita del mercato pubblicitario.

La legge Mammì

Quando nel 1990 il vuoto viene finalmente colmato, la l. 6 ag. 1990 nr. 223, nota come legge Mammì, non fa sostanzialmente che fotografare l’esistente, rinunciando a un effettivo piano di ripartizione delle frequenze. La legge Mammì introduce due categorie di concessione, cioè una per l’esercizio in ambito locale e una per l’esercizio in quello nazionale; e per entrambe prevede le due tipologie di concessione commerciale o comunitaria (Radio Maria per es. diventa una radio comunitaria nazionale).

Le radio con concessione comunitaria sono agevolate sul piano delle tasse di concessione, ma a fronte di una soglia decisamente più bassa delle commerciali quanto a pubblicità consentita per ogni ora di trasmissione. Per le concessioni nazionali la legge indica subito un numero definito, con tre reti pubbliche, dodici private, una parlamentare, mentre per le radio locali si limita a impedire che il loro numero cresca, contando per il resto sulla progressiva razionalizzazione del settore per ‘naturali’ meccanismi interni e per effetto dei nuovi vincoli e degli adempimenti definiti dalla normativa.

Con la legge Mammì non è quindi più possibile accendere una nuova frequenza, ma solo, se in possesso di concessione, comprarla da un altro concessionario; né è possibile ottenere dallo Stato una nuova concessione, ma solo acquistarne una da un concessionario che la venda. Per soggetti nuovi non dotati di grandi risorse economiche, l’ingresso nel settore diventa proibitivo: assieme alla moria delle radio di sinistra, di quelle alternative e delle piccole radio locali che si è già verificata negli anni Ottanta, questa chiusura a una possibilità di ricambio nella radiofonia non commerciale porta a un depauperamento del pluralismo, della varietà e della qualità dell’offerta radiofonica.

In un Paese che solo quindici anni prima era stato, per quanto disordinatamente, all’avanguardia nel campo di una radiofonia libera, ciò paradossalmente si verifica proprio mentre nel mondo – sia nei continenti come le Americhe, ancora dominati dalla radiofonia commerciale, sia in quelli come l’Europa e l’Africa, storicamente caratterizzati dal monopolio – cresce la spinta del movimento della radiofonia comunitaria: che la legge Mammì riconosce, ma senza darle la possibilità di diffondersi e condannandola alla marginalità (alla metà degli anni Novanta il numero delle radio è già sceso a circa 2000).

L’irrigidimento della messa in onda nelle radio commerciali

Negli anni Novanta i network tendono a un ulteriore irrigidimento nella gestione del palinsesto e della programmazione musicale con l’adozione di software che consentono la gestione completa della ‘uscita’ della radio: introdotto in Italia negli anni Ottanta e sperimentato dapprima da radio di dimensione regionale come Radio Padova, il nuovo sistema permette la suddivisione minuto per minuto e una drastica definizione della messa in onda a monte dell’emissione, direttamente da parte dei responsabili dell’emittente: oltre che naturalmente della scansione degli intervalli pubblicitari e dei notiziari, di quanta e quale musica deve essere trasmessa e degli spazi di parlato a disposizione dello speaker. Sottratta all’iniziativa del conduttore, la programmazione musicale è costruita a tavolino assegnando a ogni brano un numero più o meno alto di passaggi da collocare in precise fasce orarie. Con questo meccanismo si accentua l’uniformità delle proposte musicali dei network e delle grandi radio locali, persino con frequenti coincidenze di brani negli stessi orari.

Gli enti locali

Nella complessiva latitanza degli enti locali nella vicenda della radiofonia indipendente, negli anni Novanta proseguono o nascono alcune iniziative significative. A Roma dalla metà degli anni Ottanta Radio proletaria (poi dal 1990 Radio città aperta) trasmette in diretta le sedute del Consiglio comunale, e dalla seconda metà del decennio quelle del Consiglio regionale (dopo quindici anni, alla fine del 2012, la regione non ha rinnovato la convenzione, che costituiva una voce importante nel bilancio della radio).

Per tutti gli anni Novanta si prolunga a Milano l’esperienza di “Gas e luce «Sì, ci dica»”, trasmissione settimanale prodotta dall’Azienda elettrica municipale (AEM), realizzata prima in studi radiofonici privati e successivamente in uno studio dedicato della stessa AEM, e diffusa da alcune emittenti milanesi, fra cui Radio popolare e Radio meneghina; apprezzato da ascoltatori e utenti, il programma dà spazio con telefonate in diretta a richieste di informazione e reclami (l’iniziativa si interrompe nei primi anni Duemila). Dalla metà degli anni Novanta un circuito di radio dell’Emilia-Romagna, costituitesi su bando regionale in associazione temporanea di impresa, produce e trasmette settimanalmente un breve notiziario sul Consiglio regionale, seguito da un approfondimento; dal 2010 il bando riguarda solo la produzione del programma, mentre le emittenti destinate a trasmetterlo sono scelte direttamente dalla regione. Analogamente, con uno scarto di qualche anno, si è attivata anche la Regione Toscana.

Nuove presenze e aggregazioni

Contemporaneamente al dispiegarsi dei network e al declino della radiofonia locale, e mentre la RAI fa tesoro della lezione della radiofonia indipendente per aggiornare la propria proposta e dalle private comincia ad assorbire massicciamente personale, formule e idee, negli anni Novanta intervengono alcune nuove presenze e alcuni casi di aggregazione fra emittenti di analoga ispirazione.

Cresce il ruolo dei grossi gruppi editoriali: avviato nel 1989 con l’ingresso in Radio deejay, si intensifica l’impegno nel settore del Gruppo L’Espresso, che nel 1997 acquisisce Radio capital e nel 1998 Italia radio, e riconduce poi i tre network a un’unica società; nel 1999 nasce Radio24, legata al quotidiano economico «Il Sole 24 ore», e primo canale nazionale dedicato all’informazione.

Intanto nel 1990 la Lega lombarda rileva Radio Varese, fondata nel 1976 da un gruppo di liceali (fra cui il futuro ministro dell’Interno e poi governatore della Lombardia Roberto Maroni). La Lega lombarda acquisisce poi frequenze e allarga l’area di copertura, inizialmente limitata alle province di Varese e Como, facendo della radio un importante veicolo di amplificazione di stati d’animo e pulsioni presenti nella base del movimento e nel territorio e di agitazione delle tematiche leghiste: come organo della Lega Nord, l’emittente nel 1997 assume poi la denominazione di Radio Padania libera.

Nel 1994 si fondono Nova radio, emittente nata a Milano nel 1976 per iniziativa delle Edizioni paoline, animata nella fase iniziale da giornalisti del settimanale «Famiglia cristiana», e Radio A, emittente della Curia di Milano (A sta per Arcivescovado), pure nata nel 1976, che negli anni Ottanta dalla copertura del solo capoluogo lombardo è passata alla costituzione di una rete di radio parrocchiali e cattoliche della Lombardia e di parte del Piemonte e del Veneto; Radio A si fa rimarcare per l’attenzione al sociale e per il dinamismo con cui valorizza il rapporto telefonico con gli ascoltatori. Dall’accorpamento di Nova radio e Radio A nasce il Circuito Marconi, che associa a livello nazionale le più importanti stazioni cattoliche. Negli stessi anni anche Radio popolare si impegna nell’aggregazione di una rete di radio.

L’azionariato diffuso di Radio popolare

Nel 1990 Radio popolare opta per una concessione commerciale, non potendo permettersi di rinunciare ai ricavati pubblicitari indispensabili per sostenere il suo modello. Già alla metà degli Ottanta, delle centinaia di radio democratiche nate nella seconda metà del decennio precedente, Radio popolare è non solo una delle pochissime sopravvissute, ma l’unica a poter vantare un’informazione di dignità nazionale e di respiro internazionale, uno stile riconoscibile, un vero palinsesto, un’effettiva capacità di produzione di programmi originali. La sua funzione di servizio è confermata dalle dirette e dal dialogo con gli ascoltatori in occasione della eccezionale nevicata che nel 1985 per alcuni giorni paralizza Milano. Grazie a innovativi programmi di intrattenimento come “Borderline” (matrice di “Caterpillar”, in onda su Radio RAI dieci anni dopo) e “Bar sport” (da cui prende la sua formula e spicca il volo la Gialappa’s band), e a exploit come la clamorosa intervista al latitante Renato Vallanzasca, nella seconda metà degli Ottanta Radio popolare consolida il proprio prestigio e allarga la propria audience. L’emittente si affaccia sul nuovo decennio con un ambizioso progetto di rilancio: proprio nell’anno della legge Mammì diventa infatti una società per azioni: nasce Errepi S.p.A. e viene lanciata una campagna di azionariato, che fra il 1990 e il 1993 totalizza circa 16.000 azioni, sottoscritte da circa 10.000 azionisti, nella stragrande maggioranza semplici ascoltatori della radio, per un valore di circa un miliardo e 700 milioni di lire. La Cooperativa, quasi esclusivamente costituita da dipendenti e collaboratori, è l’azionista di riferimento di Errepi S.p.A. L’operazione di azionariato diffuso è accompagnata da una Dichiarazione d’intenti in cui sono reinterpretate le ragioni che erano state alla base della nascita della radio. Vi si legge fra l’altro:

RP considera valori irrinunciabili [...] la propria indipendenza e la propria funzione di servizio. E considera un diritto essenziale della persona quello di poter comunicare ed essere informata. Per funzione di servizio RP intende il porsi come soggetto di comunicazione, informazione e cultura di interesse pubblico, scegliendo esplicitamente di interpretare in particolare gli interessi di quanti (e sono la maggioranza della popolazione) sono costretti a subire i meccanismi dei processi informativi e non hanno strumenti né per incidervi né per tutelarsene (Vedi alla voce Radio popolare, 2006, p. 159).

L’azionariato è destinato a investimenti per lo sviluppo della radio; per sostenere la spesa ordinaria viene invece rinnovato il sistema di finanziamento corrente da parte degli ascoltatori: il tradizionale e artigianale tesseramento cede il passo all’abbonamento tramite addebito bancario, e a metà del 1994 gli abbonati, per un minimo di 120.000 lire annue, superano già i 6500 (nel 2014 sono circa 15.000).

Il federalismo di Popolare network

Oltre a optare per una concessione commerciale, nel 1990 Radio popolare sceglie di rimanere una radio locale. Scelta in buona misura obbligata, in quanto l’emittente non è in grado di sostenere gli investimenti e i costi per poter trasmettere in tutta Italia, ma anche coerente con la sua identità storica di radio locale. Inoltre, rimanendo entro i limiti previsti dalla legge Mammì, che stabiliscono come copertura massima per una radio locale quattro regioni contigue, fino a un massimo di 15 milioni di abitanti, Radio popolare arriva pur sempre a coprire autonomamente un bacino macroregionale (Lombardia e alcune province adiacenti) di 12 milioni di abitanti, decisivo da un punto di vista demografico, economico e sociale, e a raggiungere un’audience significativa.

Tuttavia Radio popolare non rinuncia all’idea di una proiezione nazionale, e nei primi anni Novanta, nel solco di embrionali episodi di cui le radio di sinistra sono state protagoniste nei decenni precedenti, matura il progetto di Popolare network, che corrisponde anche alla presa d’atto dell’esaurimento della grande onda delle radio libere, e alla volontà di alcune delle radio democratiche che hanno resistito di uscire dall’isolamento e di serrare le fila. La sfida è anche quella di fare massa critica per intercettare pubblicità nazionale.

Di carattere ‘federalista’, il progetto di Radio popolare punta su una dialettica locale/nazionale, a partire dal riconoscimento da parte delle altre radio coinvolte della capacità di Radio popolare di produrre quotidianamente informazione di livello nazionale (con un’autorevolezza accresciuta dal ritorno alla direzione della radio, nel 1992 e fino al 2002, di Piero Scaramucci): le emittenti che si collegano a Radio popolare (fra le altre Radio città futura a Roma, Controradio a Firenze, Radio Città del Capo a Bologna, Radio base a Venezia, Radio flash a Torino) possono d’altro canto vedere valorizzato nei notiziari del network il loro rapporto col territorio.

Il progetto è originale e avanzato, ma arriva abbastanza tardi da scontrarsi proprio con quell’arretramento del panorama radiofonico a cui cerca di reagire, e sopravvaluta la capacità dei notiziari di Radio popolare sia di attirare altre emittenti, sia di funzionare di per sé come volano dello sviluppo dall’audience delle radio partecipanti. Il bacino di piccole radio indipendenti in cui Popolare network pensa di attingere altre affiliate in breve tempo si riduce drasticamente, e tra acquisizioni e abbandoni Popolare network non riesce ad andare oltre la ventina di emittenti.

Sintomatica di una situazione profondamente cambiata è la vicenda di Radio città futura, che si rivitalizza proprio con il suo ingresso nel 1992 in Popolare network. Ma alcuni anni di stop hanno rappresentato una forte soluzione di continuità nel corpo della radio e rispetto alla sua esperienza storica, e la chimica con Radio popolare è scarsa. Nel 2000 Radio città futura lascia, facendosi assorbire dall’agenzia Area, legata al Partito dei democratici di sinistra. Nel 2003 i notiziari di Popolare network tornano a Roma con una radio che il centro sociale Brancaleone ha acquisito, nel 2006 ribattezzata Radio popolare Roma.

I primi anni Duemila

All’inizio degli anni Duemila il numero delle radio scende a 1000, ed è da allora in costante diminuzione. La crisi delle radio locali si accentua poi con la pesante flessione (dell’ordine del 30%) della pubblicità nazionale di settore come effetto dell’esplosione della crisi economica del 2007; il trend della pubblicità radiofonica ha poi continuato a essere sostanzialmente in calo, e ha registrato il crollo della pubblicità locale. All’appiattimento già in corso del panorama radiofonico, all’egemonia dei modelli commerciali (con pochi e parziali segnali in controtendenza, come Radio 24), alla standardizzazione dell’emissione, con la crisi si è dunque aggiunta la chiusura di nuove emittenti, e la riduzione del personale e i licenziamenti operati da molte radio, anche medio-grandi, che hanno portato a una ulteriore spersonalizzazione delle radio locali. Complessivamente il settore della radiofonia privata, e di quella locale in particolare (che mantiene comunque circa il 35% degli ascolti), si presenta oggi in difficoltà sul piano economico e scarsamente in grado di rinnovarsi.

Nell’insieme la capacità del mondo radiofonico di restituire la realtà del nostro Paese, di dare voce ai soggetti, di valorizzare la dimensione locale e di rappresentare l’universo giovanile, dopo avere raggiunto l’apice negli anni a cavallo fra i Settanta e gli Ottanta, sembra essersi fortemente e progressivamente appannata nel nuovo secolo. Una certa convenzionalità e ritualità – un po’ su tutti i piani: politico, giornalistico e radiofonico – si avverte anche nelle radio di sinistra sopravvissute.

In generale sembra fare difetto la volontà, e forse anche l’idea, di rimettere in discussione i meccanismi consolidati di informazione e comunicazione, di reimpostare in maniera più radicale e attualizzare il tentativo di dare voce al sociale. Chi fa radio, al microfono o nella gestione, è mediamente molto invecchiato, e il ricambio di forze è ridotto. Non solo perché anche gli ambiti che dovrebbero essere più aperti, come le radio locali di sinistra, si sono strutturati e stabilizzati, e anche adagiati sulle loro abitudini, e finiscono per non essere più così permeabili all’ingresso di nuovi attori. Ma anche perché manca una pressione dal basso da parte dei più giovani, le cui energie e la cui attenzione sono largamente drenate da Internet, eventualmente da web radio in genere di scarso respiro tanto come proposte che come audience. La legge che regolamenta il settore continua a essere la Mammì, e l’unica modalità di accesso è ancora quella dell’acquisto di una concessionaria.

È un po’ come se proprio per l’intensità con cui è stata vissuta in anni passati, la novità della radiofonia libera locale venisse in Italia iscritta a una stagione ormai inesorabilmente finita. Eppure la comunicazione in rete, con tutte le sue innovazioni e dinamiche positive, ma anche con i suoi limiti di parcellizzazione e dispersione, non sembra in grado di rimpiazzare la specificità della radio. Tanto è vero che gli ascolti complessivi, stabili o addirittura in rialzo, non mancano. E non mancherebbero, anche se in sembianze piuttosto diverse da quelli che evocava Dolci, nemmeno i ‘poveri cristi’.

Bibliografia

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Radio aut: materiali di un’esperienza di controinformazione. Peppino Impastato e i suoi compagni!, a cura di S. Vitale, Roma 2008.

La radio in Italia. Storia, mercati, formati, pubblici, tecnologie, a cura di T. Bonini, Roma 2013.