L'umanesimo

Storia di Venezia (1996)

L'umanesimo

Vittore Branca

La stella polare dell'impegno unitariamente politico-religioso-civile sembra guidare a Venezia anche le scelte culturali: e particolarmente quella umanistica, in senso sia storico che metastorico (1). L'emblema ne può essere, già nel secondo Trecento, la decisione tutta politica, religiosa, civile del patto fra la Signoria e il Petrarca (2). Egli voleva - come dichiarava nella sua "cedula" conglobata nell'atto del maggior consiglio (4 settembre 1362) - "beatum Marcum evangelistam heredem habere". Sembrava legare così significativamente la Signoria politica veneziana al suo centro religioso, anzi ai leggendari auspici cristiani della sua fondazione. Ma voleva pure che la propria libreria divenisse uno strumento sociale di elevazione, aperta a tutti, e non solo, come in generale fino allora le biblioteche, agli eletti della cerchia di chi l'aveva istituita (monasteri, cattedrali, curie, principi e signori). Quella impostazione politica per una biblioteca, a livello di statuto e con funzione pubblica, dovette essere decisivamente favorita dalla Signoria (e anzi tutto dai dogi, prima Andrea Dandolo e poi Lorenzo Celsi, e dal gran cancelliere Benintendi de' Ravagnani).

Il Petrarca aveva prima pensato invece, ripetutamente, di lasciare i propri libri "ad aliquem nostri perpetuo memorem pium ac devotum locum" (Seniles, I 5). La nuova idea si chiarisce solo negli scambi epistolari lungo l'estate del 1362 con Benintendi. Il pensiero nuovo è questo: proporre sì "al governo veneziano la donazione della biblioteca dopo la propria morte perché se ne istituisse a tempo debito il nucleo di una pubblica libreria", ma anche di risolvere così "con una intuizione di eccezionale modernità, il problema di dare veste e luogo, in una civiltà letteraria rinnovata, a un patrimonio librario o meglio a una istituzione diventata tipica dei tempi nuovi" (3). Forse in questa idea di politica culturale grande e a lungo effetto si rifletteva anche dall'Oriente greco-bizantino, così presente a Venezia, l'immagine mitica delle biblioteche pubbliche di Alessandria e di Gostantinopoli: e il riflesso voleva prendere corpo per la prima volta in Occidente. Venezia era ormai alla grande svolta nella sua vita stessa dopo la IV Crociata e dopo tutto l'impegno politico-militare per mantenere le posizioni nel vicino Oriente, cui non era però corrisposto un vero interesse per la cultura greca (4). L'espansione puntava, dopo la pace di Torino (1381), verso la terraferma veneto-lombarda, dove la cultura e la stessa vita civile si erano oramai fortemente rinnovate in senso umanistico latino.

E in quell'episodio, in quel fatidico incontro tra la Serenissima e il fondatore della nuova cultura, si divinavano e in parte si profilavano anche i grandi motivi distintivi dell'umanesimo veneziano.

Anzitutto la già accennata lungimirante impostazione politico-sociale prevalente su quelle personali e personalistiche: "humanitatem et disciplinam, quae ad [...]ornate dicendum accomodatae sunt, urbibus, nationibus universis denique hominibus non mediocres utilitates afferre posse dubitandum non est" afferma Francesco Barbaro nel 1417 (Epistolae, I 1). È una prospettiva che in una società grecizzante come quella veneziana potrebbe anche ispirarsi all'ellenica esaltazione della πόλιϚ quale comunità operante più fortemente che le singole persone. È una prospettiva cioè diversa, seppure non opposta, ai ciceroniani "ita dicta [liberalia studia] [...] quod liberum hominem potissimum deceant", "artes, quae ad humanitatem pertinent [...] quibus aetas puerilis ad humanitatem informari solet" ripetuti con variazioni da Poggio fino al Poliziano (5). È divergente soprattutto da quella centralità assoluta e da quel trionfo dell'uomo, anzi dell'individuo, enfatizzati come caratterizzanti e decisivi nell'umanesimo dalla storiografia romantica e idealistica.

Accanto all'homo e alla societas è fatto posto assiduamente anche, in questo umanesimo enciclopedico, alla natura fino agli studi geometrici di Giorgio Valla ammirati da Leonardo, fino alle indagini naturalistiche del Sabellico e del Barbaro, quasi sperimentalistiche, quasi impostate pionieristicamente in senso galileiano. Non a caso in questo ambiente Giorgione rappresenta un paesaggio con figure (La Tempesta) e non, come i pittori toscani, figure con paesaggio. D'altra parte, di fronte al culto della personalità fino all'esasperazione e alla rissa, dell'individualismo fino all'egotismo, ci sono in Venezia la coscienza e la volontà della nuova cultura quale elemento rafforzatore della coesione sociale, quale cultura di gruppo, di società, di ceto dirigente: di un'ecclesia laica che all'interno promuovesse una "personalità collettiva", un unanimismo (come ha suggerito la King) (6). Tenderà poi coerentemente, come vedremo, a creare una respublica litteraria europea, dopo il traumatico tramonto della respublica christiana unitaria.

La scelta culturale è sollecitata anche dalle scelte di politica estera: quelle di rivolgersi non più all'Oriente ma all'Occidente, alla terraferma italiana, con la rapida annessione, ai primi del Quattrocento, di Vicenza e di Verona e di Padova (che porterà naturalmente Guarino e altri maestri dal Veneto a Venezia e salderà lo Studio patavino alla Serenissima); e poi con il risoluto espansionismo di Francesco Foscari (1423) contro Milano, che lega fino al 1447 saldamente Venezia a Firenze (e sollecita i fatidici soggiorni nel Veneto, in esilio, di Cosimo e di Palla Strozzi). Di qui la necessità di assumere lo stile e i ritmi umanistici - nell'oratoria diplomatica, nell'epistolografia ufficiale e ufficiosa, nelle polemiche, nelle relazioni pubbliche e amministrative - per comunicare e persuadere e governare in quelle che già erano zone umanistizzate a alto livello e con un elevato impianto retorico-letterario nelle cancellerie e nelle varie istituzioni (ancora nel 1395 il Vergerio scrivendo al cancellier grande della Repubblica lamentava che alla felicità di Venezia mancasse chi sapesse scrivere le santissime leggi, i prudentissimi senatoconsulti, gli umanissimi decreti, le lettere diplomatiche appropriatissime con eleganza pari a quella con cui sapeva fissarne la sostanza) (7). Accanto a questa determinazione politica agiscono nella nuova cultura una coscienza e una volontà risolutamente religiose in uno stato che si proclamava insistentemente civitas christiana, nata al segno della divina Provvidenza che l'aveva fatta sollevare dall'acqua e messa tutta sotto l'insegna di un evangelista; che aveva a capo un doge dalla sacralità di βασιλεύϚ, con il corno dogale arieggiante più a una mitria che a una corona; che aveva nei procuratori di San Marco i più alti ufficiali insieme civili e religiosi ("ad laudem Dei et beati Marci evangeliste ac honorem et famam civitatis nostre" recitava del resto all'inizio anche l'atto fra la Signoria e il Petrarca).

L'umanesimo a Venezia si sviluppa soprattutto - come hanno dimostrato Gilbert, Trinkaus e la King (8) - quale sforzo di trovare nuovi metodi coi quali rinnovare e rafforzare religiosamente le visioni spirituali, morali, culturali e intellettuali: perché, come hanno scritto recentemente Cozzi e la Goffen, "esser religiosi è il requisito [...] indispensabile in coloro che sono preposti al governo della Repubblica", e "la devozione e la politica erano quasi sinonimi" (9). "Religio [...] qua nihil sanctius in hac urbe habetur nihil ornatius colitur, nihil diligentius observatur" affermava sonoramente un umanista come Pietro Contarini nel programmatico discorso "in funere Marci Cornelii". E il 26 agosto 1455: "Quantum progenitores nostri vigilaverint continuo et insudaverint pro honore Dei et augmento christianae religionis et devotionis [...] non habentes respectum ad pericula labores et expensas [...] credendum est civitatem istam liberatam esse quampluries et omni die liberari atque tueri a multis adversitatibus gratia Dei" (10). La coscienza del destino cristiano di Venezia era esaltata in quegli anni dalla funzione stessa della Serenissima quale baluardo contro l'Islam e la marea turca.

Sarebbero state inconcepibili a Venezia inclinazioni a forme pagane o laiche o agnostiche, come quelle che invece avevano suscitato diffidenze e accuse verso la nuova cultura nella Roma di Pomponio Leto o nella Firenze medicea. Da san Lorenzo Giustiniani e san Lodovico Barbo a Ermolao Barbaro, Gasparo Contarini, Vincenzo Querini, Paolo Giustiniani, i grandi e coraggiosi spiriti religiosi erano anche grandi umanisti e legatissimi alle impostazioni umanistiche veneziane, fino a Girolamo Donà teologo tutto laico delle questioni trinitarie e del primato di Pietro. Quella forte consapevolezza politico-religiosa poteva spiegarsi così risoluta perché la nuova cultura, fin dai dogi Dandolo e Celsi e dal gran cancelliere Benintendi de' Ravagnani, aveva quali attori non maestri e pedagoghi, segretari e cancellieri - come in generale nelle altre città - ma i protagonisti stessi della politica della, Serenissima, anche quali funzionari ai più alti livelli (gran cancellieri e ambasciatori, governatori e capitani, abati e vescovi). I pragmatici dominatori della sua vita politica, sociale, economica, religiosa e persino militare erano anche i massimi promotori dell'umanesimo. Non esitavano a dichiarare, come Agostino Valier, che gli studi letterari erano i più adatti a formare i buoni politici e gli avveduti amministratori, e che la lettura di Cicerone e dei classici aveva persino contribuito - come dichiarano Lodovico Foscarini e lo stesso Francesco Barbaro, capitano nella città - alla vittoriosa resistenza veneziana a Brescia, stretta nel 1438 dall'incalzante assedio visconteo (11). Le grandi famiglie dei Trevisan, degli Zeno, dei Querini, dei Barbaro, dei Barbo, dei Giustiniani, dei Contarini, dei Correr, dei Donà, dei Foscarini, dei Bembo (e così varie altre) danno a Venezia lungo il Quattrocento i massimi attori insieme della politica, dell'economia, della religione, della vita culturale. Non sono isolati, nelle scuole o nelle cancellerie o nei conventi, ma trattano da pari a pari coi papi, coi re, coi principi e i signori. Sono loro che, colle molteplici esperienze - fra tecniche letterarie e ispirazioni poetiche, fra prassi politico-amministrativa e senso civile e giuridico, fra speculazioni filosofiche e indagini scientifiche - possono illuminare e potenziare la stessa politica di terraferma coll'idea brillantemente enfatizzata di un'azione finalizzata alla "libertas Italiae". E possono così creare quel luminoso e vigoreggiante mito europeo di Venezia che si impone ai nemici stessi, e anzi tutti ai Fiorentini, a cominciare da Poggio e dal suo In laudem reipublicae venetorum (12).

Quel fatidico atto fra il Petrarca e la Signoria, seppure non porterà a Venezia il lievito della splendida raccolta libraria del poeta laureato, lascerà un'eredità ideale in tutto armonica ai tre grandi motivi conduttori e animatori or ora rilevati. Perché, com'è noto, proprio lungo la dimora sulla riva degli Schiavoni, nel palazzo Molin cedutogli dalla Signoria in contropartita della promessa libreria, dagli incontri e dagli scontri veneziani fra il 1362 e il 1368, il Petrarca maturò il suo testamento umanistico più originale e risoluto nel De ignorantia: nella polemica cioè contro i quattro "averroisti" (Leonardo Dandolo, Tomà Talenti, Zaccaria Contarini, Guido Bagnolo), veri "eretici" nella nuova cultura a giudizio del Petrarca. È un testamento che sembra segnare anche le linee di forza dell'umanesimo veneziano. Anzitutto la lotta contro lo pseudoscientismo averroista che tentava di dissociare le verità filosofico-scientifiche dalle verità della fede in nome di testi aristotelici deformati e snaturati; era urgente perciò il ritorno allo studio e all'interpretazione diretta dell'autentico pensiero classico, così di Platone come di Aristotele. Poi l'agostiniana difesa dell'eloquenza e della poesia non come puri ornamenti ma come forme adatte a spronare all'azione morale, quali espressioni di bellezza e di chiarezza, che sono una realtà unica con la verità. Infine l'asserzione degli ideali cristiani come necessario completamento di quelli della civiltà greco-latina (13).

Proprio dal Petrarca, dal suo magistero e dai suoi primi discepoli a Venezia e a Padova, si enucleano così il grande umanesimo filologico veneto e veneziano, dal Calderini al Barbaro, come la tendenza puritaneggiante e religiosa fortemente colorata di ascetismo. Mentre a Firenze e a Roma, tra fine Trecento e Quattrocento, si profila una frattura tra fautori della nuova cultura e difensori dell'ascetismo cristiano, a Venezia nuovo fervore culturale e fervore religioso (sino alla devotio moderna) hanno gli stessi campioni. Quel Giovanni Dominici, che da Santa Maria Novella scagliava la sua violenta Lucida noctis contro Coluccio Salutati e le tendenze paganeggianti di certi umanisti, quando professa teologia a Venezia, a San Giovanni e Paolo, fra il 1387 e il 1399, trova - come rivelano le sue epistole - che la nuova vita culturale è la più aperta e sensibile al suo ardente e rigido puritanesimo. Anche la polemica di Ermolao Barbaro il vecchio, vescovo di Verona, contro certi eccessi antifilosofici nel suo Contra poetas è tutta di stampo umanistico (14). Anzi, la nuova pietà, che sarà sistematicamente instaurata dai solitari del monastero di San Giorgio in Alga e da san Lorenzo Giustiniani, e la grandiosa riforma benedettina di Lodovico Barbo avvertiranno di avere nella cultura umanistica un alleato, non un avversario.

Con il rapido estendersi, ai primi del Quattrocento, del dominio di Venezia alla Terraferma e in particolare a Padova e a Verona, anche le espressioni tipiche dell'umanesimo in queste due città tendono - dopo quelle già assimilate da Treviso - a gravitare nella cerchia della Serenissima. Lo Studio di Padova diventa l'Università ufficiale della Repubblica, il Quartier Latin di Venezia, come scrisse Renan; e l'insegnamento di maestri - da Biagio Pelacani e Gaetano da Thiene a Nicoletto Vernia e Pietro Pomponazzi - sollecita gli interessi filosofici, e specialmente aristotelici, di vari gentiluomini veneziani allievi dello Studio patavino. Dalle tendenze pedagogico-educative, che caratterizzano l'umanesimo del Barzizza e del Guarini (che prima di Vittorino da Feltre ebbero proprio a Venezia scuole fiorenti), discendono invece quell'interesse alla formazione dell'uomo e quell'attenzione eccezionale agli aspetti morali della vita e delle singole azioni umane che distingueranno l'umanesimo veneziano al suo apogeo, alla fine del Quattrocento. Perché dietro agli operosi umanisti della prima metà del secolo, dietro a Carlo Zeno e a Zaccaria Trevisan e soprattutto a Leonardo Giustiniani e a Francesco Barbaro, v'è chiara la presenza del Barzizza che inaugurò a Venezia l'insegnamento rivolto in corsi privati ai giovani aristocratici (1407) fra i quali Andrea Giuliano, esemplare oratore umanistico; v'è la presenza soprattutto del veronese Guarino che nei suoi anni veneziani (dal 1414 al 1419) non solo consolidò la tradizione umanistica ma introdusse anche una solida scuola di studi greci. Già vent'anni dopo il lamento del Vergerio, Guarino nel 1415 poteva scrivere a Andrea Giuliano e Leonardo Giustiniani di una nuova generazione che cresceva splendidamente nel culto e nell'esercizio letterario e umanistico, e di una parità in Venezia della dottrina e della sapienza e del culto delle lettere con la giustizia e con la forza politica (15).

È principalmente grazie a Guarino che nel terzo e quarto decennio del Quattrocento sorge a Venezia, nell'aristocrazia dominante, un gruppo di giovani di alta cultura, che si inseriscono autorevolmente ma con fisionomia tutta propria nell'umanesimo ormai trionfante in tutta la penisola. Non è un circolo accademico come quello della Firenze medicea, o accademico-curiale come quello della Roma pontificia, o cancelleresco-cortigiano come quelli della Milano visconteo-sforzesca o della Napoli aragonese. Sono, come ho già detto, patrizi autorevoli, indipendenti moralmente e materialmente, che subordinano quasi sempre la loro attività letteraria al servizio dello stato, che alle umanità dedicano il tempo che possono sottrarre alle cure politiche e alle missioni diplomatiche. Hanno una minor raffinatezza letteraria dei loro colleghi delle corti padane o di Firenze e di Roma, ma certo portano nel loro impegno culturale un senso più solido e concreto dell'uomo e dell'umanità. Per la loro stessa posizione possono esercitare nella vita civile e sociale, anche con l'istituzione di scuole statali e di biblioteche persino pubbliche, quella decisiva influenza che negli ultimi decenni del Quattrocento porterà l'umanesimo veneziano, accanto al fiorentino, alla testa di quello europeo.

È l'epoca in cui, da una parte, maturano i frutti così della bibliofilia, della eloquenza e della storiografia protoumanistiche di Lorenzo de Monacis, degli entusiasmi ellenistici e della devozione bessarionea di Lauro Quirini, come dell'appassionata antiquaria di Iacopo Zeno, di Pietro Barbo (poi papa col nome di Paolo II) e dei patrizi ammiratori di Ciriaco, quale il doge Francesco Foscari. Si avvia così quel generoso gusto archeologico testimoniato non solo da raccolte famose, ma dalle stesse riprese puntigliose e allusive nella pittura belliniana e carpaccesca. È l'epoca, d'altra parte, in cui Bernardo Giustiniani, procuratore di San Marco, accanto a espressioni di alta oratoria latina offre già l'esempio di una storiografia umanistica severa e rigorosa alla Biondo - aliena dall'accettazione di tradizioni popolari o di leggende etiologiche - che poi sarà sviluppata dal Sabellico; in cui Bernardo Bembo, ambasciatore e senatore, antiquario appassionato e raffinato bibliofilo, non insensibile al fascino del volgare e del suo massimo poeta Dante, promuove quell'attiva circolazione fra l'ambiente mediceo e quello veneziano che caratterizzerà l'umanesimo nell'ultimo ventennio del secolo (16).

L'azione rinnovatrice della Scuola di San Marco fu potentemente favorita in quegli stessi anni, proprio nella sua caratteristica metodologia greco-latina, dalla costituzione di una ricca biblioteca pubblica che avrebbe signoreggiato tra le varie librerie già esistenti (per esempio quelle particolarmente importanti di San Giovanni e Paolo e di San Giorgio cui, in un primo momento, il Bessarione aveva destinato la sua raccolta). Era, a distanza di un secolo, la ripresa dell'idea e della prospettiva del patto fra il Petrarca e la Signoria. Il 13 maggio 1468 il cardinal Bessarione donava la sua collezione libraria significativamente anche lui alla basilica di San Marco: nella quale, splendido emblema dell'incontro fra Oriente e Occidente, approdava così una biblioteca ricchissima di codici greci e latini. Anche se per vari anni la libreria non ebbe sistemazione appropriata e ne fu difficile la consultazione, essa esercitò un'influenza decisiva sull'ellenismo che caratterizza e rinvigorisce la cultura veneziana negli ultimi anni del Quattrocento.

È allora che l'umanesimo patrizio veneziano giunge al culmine della sua parabola: quando membri stessi del senato e procuratori di San Marco e oratori della Repubblica e futuri dogi si fanno maestri a Padova e a Venezia, esercitano strenuamente la filologia e la filosofia. E divengono collaboratori, anzi stimolatori, della straordinaria politica di promozione delle quasi duecento tipografie che rendono Venezia il carrefour della cultura umanistica europea e le fanno aprire la prodigiosa "via del libro", quasi a sostituire - almeno in parte - la ormai disastrata "via delle spezie" (fra il 1469 e il 1501 vengono impressi circa due milioni di volumi, soprattutto riguardanti le umanità) (17).

Lo sviluppo della Scuola di San Marco, i "fuochi" sicuri e alimentatori delle biblioteche, il vigoreggiare della filologia - che significa culto e primato della ragione e della poesia -, l'affermazione della stamperia sono i presupposti diretti della fioritura dell'umanesimo veneziano nei due ultimi decenni del Quattrocento: quando Venezia contende il primato a Firenze e sempre più vuole imporre la sua immagine come quella dell'"altera Roma" (18). Questo periodo conclusivo, questo momento patrizio, questa acme filologica incentrano i loro valori e i loro sensi decisivi nell'azione del più grande degli umanisti veneziani, Ermolao Barbaro, e del suo impegnatissimo circolo (19).

L'opera del Barbaro (1454-1493) fu salutata dagli stessi ambienti medicei - come scrive il Parenti - quale colonna degli studi e delle lettere, alta e solida quanto quella elevata dal Poliziano (20).

Attraverso le traduzioni e le interpretazioni aristoteliche e l'uso dei commentatori greci dell'antichità, attraverso i trattati morali e civili, attraverso le orazioni e i carmi e le esemplari e impegnatissime epistole, attraverso soprattutto gli acutissimi studi filologici, Ermolao, nonostante la brevità della vita, si impose alla cultura europea. Ancora con Lefèvre d'Étaples e Erasmo e soprattutto col Budé si guardava a lui come al più grande dei maestri della generazione precedente. Era per loro l'erede esemplare dell'umanesimo sapiente e cristiano avviato dal Petrarca e continuato dal Vergerio e da Vittorino, e della tradizione filologica iniziata anch'essa dal genio del Petrarca e sistematicamente sviluppata da Lorenzo Valla.

Come nel Petrarca, l'ansia di comprendere appieno e nel suo originale messaggio i grandi della civiltà antica - Aristotele anzi tutti per Ermolao - è all'origine dello strenuo impegno filologico. È questa altissima esperienza che fece e farà sentire, in Italia e in Europa, il Barbaro e il Poliziano come gli invitti Dioscuri della nuova cultura.

Soltanto dalla filologia - intesa nel senso più vasto, anche come storia e antiquaria - poteva derivare un più preciso, completo, illuminante possesso di quel mondo esemplare. Soltanto il proposito di avvicinare e comprendere la "parola" come espressione suprema dell'uomo, come "copula" degli uomini (se, secondo la formula ficiniana, l'uomo è "copula" del mondo), e di ricuperare integralmente la "parola" e ogni "parola" (e quindi ogni espressione, ogni testimonianza dell'uomo) poteva riaprire splendidamente i tesori della sapienza classica.

È lo sforzo mitizzato nell'immagine cara agli umanisti (e visualizzata da vari artisti fino al Dürer) della lotta di Ercole contro i mostri (così Barbaro, in Epistolae, IX, CLIII, s.d. VIII ecc.). Questo impegno di comprendere appieno, di precisare indefettibilmente, di assimilare genialmente il passato, è veramente - come ha detto Garin - il nutrimento onde prende vita e vigore anche la creatività umanistica, nella sua accezione più originale (21).

Ma il movimento filologico nella sua più alta espressione - cioè nella critica del testo - dopo i categorici esempi del Petrarca e di Lorenzo Valla, si trovava, passata la metà del Quattrocento, in una situazione stagnante e confusa. Dominavano da una parte l'ostentazione di una erudizione lussureggiante e spesso indiscriminata, e dall'altra la mania correttiva e congetturale, fondata soprattutto sulle fragilissime basi o di una spesso gratuita divinatio o di presunte regolarità grammaticali o di etimologie episodiche e avventate.

Ermolao, prima allievo di Pomponio Leto e del maggior filologo del tempo, Giorgio Merula (docente alla Scuola di San Marco dal 1468 al 1484), e fervido seppur critico discepolo del Gaza per la lingua e la cultura greca, fu poi in continua e intima corrispondenza di lettere e di intenti col Poliziano (guidato da lui nel 1479-1480, a Venezia, alla scoperta della Poetica aristotelica e nella consultazione dei preziosi manoscritti veneziani e incoraggiato alla metodologia filosofico-filologica aristotelica). Sensibile come pochi altri a ogni forma di poesia (da quella antica a quella popolaresca del Giustiniani e ai tentativi eretici degli Odasi: Epistolae, XXXII, XL, CXXXI) e a ogni forma d'arte, da quella scenica a quelle rinnovatrici e allusive del Carpaccio e del Giorgione, interviene in maniera decisiva in questo regno troppo spesso dell'approssimazione, dell'avventura e della faciloneria.

Egli nelle prime prove - ancora influenzate dal Gaza e non sempre sistematiche - su Temistio e i testi aristotelici (1474-1481) aveva acquistato il senso e la coscienza di quello che l'ellenismo può rappresentare per la riconquista e la interpretazione del mondo classico. E avviato dai testi naturalistici di Aristotele e dei suoi commentatori e seguaci, Teofrasto compreso, muove poi verso gli scrittori anche greci, che erano restati inesplorati dagli umanisti stessi più ferrati, perché appartenevano alle discipline scientifiche.

Con questo spirito il Barbaro, attraverso l'impegno assiduo di più di un decennio, prepara i capolavori della traduzione e delle annotazioni per Dioscoride e delle "castigationes" a Pomponio Mela e soprattutto a Plinio. Sono il massimo capolavoro della cultura umanistica veneziana, uno dei maggiori monumenti della filologia europea (22).

Ermolao mette da parte anzitutto il troppo facile e fantasioso congetturare dei contemporanei su ragioni etimologiche o grammaticali, o su suggerimenti antichi ma accolti supinamente (" aliud est aliena castigare, aliud sua prodere. In alienis maiore cura quam iudicio, in nostris maiore iudicio quam cura opus est") (23). Per questo il Barbaro basa la sua filologia sul ragionato confronto - seppure non prioritario e non sistematico - dei codici; sulla ricostruzione linguistica condotta non attraverso schemi e astrattezze grammaticali ma attraverso una severa documentazione letteraria e storica e una rara sensibilità semantica; sulla identificazione delle fonti esplicite e implicite usate da ogni autore e sulla loro valutazione; e soprattutto sull'esame storico-critico delle testimonianze dirette e indirette, valutate con indefettibile acribia. Il consenso degli autori è il supremo criterio di emendazione.

È quella del Barbaro una filologia retta da una cultura vasta e "circolare" e da un incipiente senso storico: cui si aggiunge, per Plinio e Dioscoride, un acuto senso della terminologia scientifica, che porta alle volte anche allo studio diretto degli argomenti e dei fatti stessi trattati da quegli antichi naturalisti. Non per nulla Ermolao - promotore, con l'esempio del suo orto privato, dell'Orto botanico di Padova - è considerato, sia pur non a stretto rigore, uno dei precursori del metodo sperimentale: il suo ragionare e ricercare puntano, non tanto prevalentemente, come quelli del Poliziano, a rilievi e conclusioni grammaticali e stilistiche, storiche e letterarie, quanto alla identificazione di realtà geografiche, ecologiche, botaniche, zoologiche, cioè naturalistiche. "La storia delle scienze botaniche e zoologiche troverà forse il Barbaro fra i suoi primi protagonisti moderni" (24), proprio con quell'attenzione alla natura che è caratteristica dell'umanesimo veneziano.

La filologia di Ermolao era partita dalla volontà di capire i massimi testi filosofici greci attraverso le parafrasi e le interpretazioni dei commentatori più antichi e più autorevoli. Su questa linea è la già citata versione-parafrasi di Temistio che lo aveva imposto alla cultura umanistica del tempo: una linea culturale che si impenna, secondo una convinzione metodologica rigorosa, nella spiegata volontà di tradurre, interpretandolo, tutto Aristotele (la Retorica è del 1478-1479).

È una posizione tesa, più che alla ricostruzione dei testi, alla loro esatta interpretazione concettuale, più che alla parola, all'idea. È filologia al servizio della filosofia e della scienza, esigenza di chiarezza di tessuto verbale per giungere a chiarezza di idee: "in his libris vertendis non modo non expressimus verbum e verbo, quod interpretes indisertos solere Cicero meminit, sed libere et translationibus et figuris et tropis usi sumus, ad morem romanum sensibus stantibus" (Epistolae, VIII).

Ma poi verso la metà degli anni Ottanta, quando si applica prima a Dioscoride (fin dal 1482) e poi a Plinio, rinuncia agli idoli dell'eleganza letteraria che avevano in parte attratto la sua giovinezza. Già nella punta estrema della polemica col Pico (1485-1486) l'eleganza auspicata non è formale ma sostanziale: la chiarezza delle idee per esser tale vuole chiarezza di espressione ricercata "maiore interpretationis fide quam eloquentiae ambitu" (Epistolae, LXXXI). Quell'esigenza di chiarezza e di concretezza totali si impone sempre più a contatto coi testi scientifici coi quali, a partire dal 1482 circa, Ermolao si misura. Le seduzioni del metodo tutto letterario del Gaza o di certo purismo del Merula, quando polemizzava con Galeotto Marzio, sono ormai cadute: il rigore e la stretta aderenza al testo nella traduzione stessa si impongono categoricamente. L'esattezza è ricercata anche a scapito della purezza, della latinitas: "honestius puto nominibus graecis uti quam latinis" (Corollarium, CCCXXXIX).

Affermazioni simili a questa punteggiano le note sia a Dioscoride che a Plinio e a Pomponio Mela. Segnano il nuovo indirizzo dell'impegno di studioso e di interprete del Barbaro: quello di chi ormai sempre più rigorosamente concepisce la filologia come scienza preliminare al testo e alla vita dal testo espressa, come servizio alla verità e alla conoscenza ("Utilitati publicae consului [...] ", "Istuc me non alia quam utilitatis publicae cupido traxit") (25).

È soprattutto nelle Castigationes Plinianae che il Barbaro dà la misura della grandezza della sua nuova filologia combinando una dottrina poderosa e enciclopedica, da erudito e naturalista, con una acutezza ecdotica in cui poteva aver come rivale solo il Poliziano in Italia e nessuno al di là delle Alpi.

Basterebbe il confronto fra il testo di Plinio prima dell'intervento del Barbaro (per esempio nelle edizioni del 1469 e del 1472) e quello che immediatamente dopo divenne la vulgata (per esempio l'edizione veneziana del 1499), per rendersi conto delle ragioni che facevano proclamare dal Poliziano Ermolao imperator della filologia (Epistolae, XII 7). Angelo infatti non solo accolse le Castigationes con tale ansioso entusiasmo da leggerle - secondo una leggenda che accreditò egli stesso - avidamente in una lunga, prodigiosa notte, ma le esaltò e le utilizzò di continuo (come ho mostrato nell'Introduzione alla prima edizione) nella sua ultima opera, la Centuria Secunda dei Miscellanea (26).

La novità della lezione data con le Castigationes, su un testo che rappresentava in quei decenni una tappa obbligata della cultura umanistica, sta nella sistematicità, nella totalità - ormai programmatica per il Barbaro - con cui l'indagine è condotta puntualmente sui trentasette libri dell'opera, sul testo esattamente indicato dell'edizione del 1472, col proposito esclusivo di liberarla dagli errori e di comprenderla perfettamente.

Tutto deve servire al testo e solo al testo: l'eleganza, la trouvaille, le fiorettature, le acrobazie filologiche, la polemica sono messe risolutamente da parte per la chiarezza e la concisione: per una laconicità scientifica, si direbbe oggi. "Qui si sorprende già in atto, ad una data molto alta, quel confronto di terminologia e quella verifica dei dati antichi sulla realtà attuale che caratterizzerà la scienza naturalistica del Cinquecento maturo" (27).

Emenda e non commenta, se non eccezionalmente in servizio dell'emendazione stessa. L'attenzione è rivolta "ai contenuti del libro pliniano, alle verità di fatto che l'enciclopedia del naturalista e dello storico romano trasmetteva: [...] tocca le cose e non le parole" (28). Vien fatto di ricordare il famoso lapidario giudizio del Gravina: "[...] dum verba vestigarent, res ibi inclusas deprehenderunt [...]. Scientiae, veluti sublato velo, sensim eminebant" (29). E con la sua fede nell'erudizione universale, nella solidità dei fatti e delle cose, il Barbaro "sgrana il rosario massiccio e monotono dell'enciclopedista, cui nessun rinvio può sfuggire poiché punta non sulla preziosità del dettaglio ma sulla perfezione dell'elenco" (30).

Era stato infatti verso l'Ottanta dominato, il Barbaro, da un ideale enciclopedico, la cui realizzazione aveva avviato col Corollarium. Avvicinandosi a Plinio "in quo uno barbari et Graeci invidere possunt" si accorse però che la vagheggiata opera esaustiva che ordinava e riduceva a unità tutto lo scibile, esisteva già, ma che "nullus fere liber maioribus et pluribus non dico vitiis sed portentis scatet" (Epistolae, s.d. VIII).

"In questa prospettiva" voglio concludere con una lunga citazione dall'acuto editore e valutatore delle Castigationes "il compito della correzione s'imponeva d'urgenza. Con l'Aristotele e il Dioscoride egli era sulla linea del Gaza, col Corollarium riproponeva in modo nuovo quanto sporadicamente aveva fatto il Tortelli in alcuni dei più diffusi paragrafi dell'Ortographia. Non si trattava ora di rinnegare né il metodo né il lavoro fatto: ed infatti più che non il proposito di riprendere il Dioscoride espresso nella prefazione al Mela, l'inserzione nelle stesse Castigationes dei Glossemata, che ricalcano i procedimenti del Corollarium, non lascia dubbi su questa convinzione. Ma l'erudizione enciclopedica attendeva la risposta più immediata [...] dalla filologia [...]. Il Barbaro colloca davanti a sé un solo oggetto, Plinio, il Plinio stampato: [...] lo scompone, lo interpreta, lo documenta volgendo il suo sguardo su una linea perpendicolare all'asse visivo [...]: è la mentalità dello scienziato, del naturalista più che dello storico [...]. I Miscellanea sono il culmine della fantasia filologica italiana, le Castigationes l'esempio più massiccio della sistematicità e della razionalità [...] un esercizio simile a quello che conduce oggi normalmente all'edizione mirava alla riconquista della latinità". "Cum tanta sit Historiae Naturalis maiestas et utilitas, ut in una ea latinae rei puppis et prora versentur [...] utilitati publicae consului" (31). "Alii rem latinam iuverunt, ille ipse [Plinius] nobis est Latinitas" (Epistolae, s.d. VIII).

Nelle Castigationes (come in senso diverso il Poliziano nei Miscellanea) il Barbaro diede dunque veramente l'esempio di una filologia totale: la più acuta e completa tra quella del Petrarca e poi di Lorenzo Valla e quella del Lachmann. Per questo, vent'anni dopo, Guillaume Budé, uno dei più veri discepoli del Barbaro, l'instauratore della cultura classica in Francia, esalterà Ermolao come "vir ille magnus [...] longe ingenio nobis doctrinaque multiplici praestans" (32): e per questo la filologia del Barbaro e dei suoi rese possibile l'alta e decisiva azione di Aldo e della sua editoria che diede all'Europa moderna il modello per i testi dei classici.

Potremo rilevare fra il Barbaro e il Manuzio profonde consonanze spirituali: per queste e per le convergenti convinzioni filologiche Aldo trova nell'umanesimo veneziano il fondamento e il nutrimento per la sua grandiosa e solida impresa, come ha lumeggiato egregiamente Dionisotti. La forte e pura filosofia aristotelica, non ignara di Platone, nella rinnovata interpretazione autentica dopo le deformazioni e le riduzioni arabizzanti e dei sillogisti padovani; la rigorosa filologia tutta e solo al servizio del testo che Merula, Valla, Barbaro, Donà avevano imposta come scienza preliminare a ogni scienza; l'esigenza dello studio e dell'edizione di tutto un autore e non solo d'un'opera, o peggio di un florilegio o di scelte a pretesto di variazioni saggistiche; la risentita coscienza morale e religiosa portata nello studio dei classici antichi: ecco le quattro direttive chiare del programma e dell'azione di Aldo che tutte e quattro derivano dal circolo veneziano del Barbaro (altamente lodato e proposto come modello da Aldo fin dal Musarum Panagyris del 1490) (33).

Era una filologia rigorosamente sistematica e insieme apertissima: che traeva la sua forza non solo da un'erudizione sia pur sterminata, e da un'acutezza sia pur genialissima, ma soprattutto dalla convinzione, profonda e indefettibile - che si rifletterà ancora nel Bembo -, del venerando valore della parola, e di ogni parola, come fatto spirituale, come espressione dell'uomo.

Era una convinzione che dominava anche l'impegno dei due più fedeli commilitoni di Ermolao nell'esercizio filologico, cioè Giorgio Valla (1447-1500) e Girolamo Donà (1457-1511). Allievo per il greco del Lascaris e per la filosofia del Marliani, nominato per influenza del Barbaro nel 1484 alla seconda cattedra di umanità a San Marco quale successore del Merula e quale antagonista delle Scuole di Rialto e di Padova, il Valla si dedicò a preparare edizioni di Averroè e versioni di Alessandro d'Afrodisia Psello, Atenagora ed Euclide. Ma l'era delle traduzioni umanistiche stava ormai chiudendosi. Il testo greco si imponeva direttamente: fra il 1495 e il 1498 usciva l'aldino corpus aristotelico nell'originale greco, proprio secondo il programma di Ermolao; nel 1497 Leonico Tomeo - discepolo del Barbaro - era eletto alla lettura dell'Aristotele greco a Padova. La generazione del Valla, che insegnerà fino al 1500, era ormai sorpassata (gli succederà Marco Sabellico).

Di tale situazione si rendeva certo conto Girolamo Donà, il gran signore e raffinato ellenista, amico primo del Barbaro, e fra i primi degli eletti dal Poliziano a suoi confidenti culturali accanto a Lorenzo, al Pico, al Barbaro. Convinto della superiorità delle lettere greche sulle latine era con altrettanta forza persuaso - lui espertissimo teologo laico - della preminenza delle dottrine religiose e teologiche latine su quelle greche. Così da una parte traduceva Crisostomo, lo pseudo Dionigi Areopagita, Alessandro d'Afrodisia; e dall'altra componeva trattati per sostenere il primato del pontefice romano e la dottrina latina circa la processione dello Spirito Santo. Nel tempo lasciatogli libero dai numerosi e impegnativi uffici pubblici (per lui preminenti, fino alla importantissima legazione romana del 1510-1511, in cui morì) riceveva nel suo palazzo padovano - come ricorda l'Egnazio (De exemplis, VIII) - i maestri dello Studio e discuteva con loro specialmente dell'immortalità dell'anima, cioè di un tema riproposto dalla versione di Alessandro d'Afrodisia (lodatissima dal Bembo: Epistolae Familiares, II 6). Di queste dispute si preoccupava quel grande bibliofilo e umanista che era allora il patrizio veneziano vescovo di Padova, Pietro Barozzi (1441-1507): tanto che egli nel 1489 proibiva nella sua diocesi, sotto pena di scomunica, le dispute sull'unità dell'intelletto. Era un atteggiamento, del resto, dettato, come in certi trattati e in certe epistole del Donà, da quell'ispirazione umanistica in senso ascetico, tutto laico, che aveva informato la Venezia di san Lorenzo Giustiniani e poi doveva trovare i suoi maggiori esponenti nei due grandi riformatori, Paolo Giustiniani e Vincenzo Querini (34).

Era, dunque, questa filologia del Barbaro e del suo circolo, così strenua e rinnovatrice, così aperta e umana, perché era aperta e umana e fortemente religiosa la loro visione del mondo e dell'uomo. Più di un secolo prima, il Petrarca (come è stato ricordato) aveva meditato sulle tre verità che aveva poi - in polemica con la "sofistica dei moderni" - affidato alla cultura veneziana nel suo De ignorantia.

A Venezia quelle tre verità sembrano, a più di un secolo di distanza, esser riprese idealmente, e sia pure su piano diverso, dal Barbaro e dal suo circolo. Il massiccio sforzo di Ermolao, quale scrittore e quale maestro, fu proprio quello di superare gli equivoci dei metodi e delle interpretazioni aristoteliche - su traduzioni infide e parafrasi arabe e mediolatine parziali - che dominavano lo Studio patavino e l'insegnamento stesso del Vernia. Egli fin dal principio vuole battere in breccia il chiuso ed esclusivo peripatetismo della Scuola patavina; e sente vivissimo il richiamo del "divinus ille Plato" cui eleva, fin dai suoi diciott'anni, un inno nel trattato De coelibatu: "quel divino Platone fu di una tale acutezza di ingegno, di una tale sapienza, che maggiori non possono essere in un uomo" (35). E ancora dopo dodici anni, nonostante la diffidenza caratteristica della cultura veneziana verso platonismo e neoplatonismo (esagerata da tutta una tradizione critica), scrivendo al Pico si proclama lettore insieme di Platone e di Aristotele, perché "nessuno può insegnare e spiegare Aristotele se vuole separare Platone da Aristotele, quasi avessero posizioni opposte" (Epistolae, LXVIII e cf. anche LXXX e LXXXI).

Esaminati a fondo Averroè e le pressappochistiche traduzioni medievali di Aristotele, penetrato nel mondo troppo ignorato degli acuti commentatori greci dello Stagirita (Alessandro d'Afrodisia, Armonio, Porfirio, Filopono, Temistio, Simplicio), Ermolao, a poco più di vent'anni, delinea un programma vasto e rinnovatore che è anche un'audace sfida ai professionisti padovani di Aristotele. Non è mosso da disprezzo verso quello Studio glorioso di cui si vantava allievo e "doctor artium" e "utriusque iuris" (1474 e 1477) e di cui teneva vivamente presenti le esperienze, specialmente quelle del Vernia (al quale con rispetto ma con fermezza esponeva le ragioni delle sue nuove impostazioni e dei suoi nuovi metodi: Epistolae, XXXI, LXII, LXX). Ma vuole conquistare alla autentica filosofia aristotelica e alle nuove concezioni umanistiche l'Università patavina, che era la cittadella, anzi l'emblema, del peripatetismo di scuola, refrattario alla nuova sensibilità. Ermolao intraprende già verso il 1473 (Epistolae, LXXII) la parafrasi latina di Temistio (pubblicata poi a Treviso nel 1481), non solo per porre in rilievo i fraintendimenti e la scarsa originalità di Averroè, ma per mostrare che l'esatta interpretazione dei testi aristotelici - nel contesto di uno studio di "tutto Aristotele" - porta a conclusioni del tutto diverse da quelle degli interlocutori di stretta osservanza accademico-patavina. Attraverso il restauro filologico e ermeneutico del testo di Aristotele mira cioè alla radicale riforma dell'aristotelismo, alla lezione diretta e autentica dello Stagirita.

Di fronte all'atteggiamento conservatore di chi ricorreva per la fisica ancora ad Averroè (e non a Buridano o a Marsilio di Inghen), si profila così il movimento rinnovatore degli studiosi veneziani, quali il Barbaro e il Donà, che ricercano e consultano nuovi testi e preparano commenti sollecitanti. Fra il 1474 e il 1485, a Padova e a Venezia, Ermolao sviluppa il suo programma grandioso: quello di tradurre e di commentare tutti gli scritti aristotelici. È una convinzione metodologica che diverrà per lui una regola (è impossibile interpretare bene un testo se non si conosce e capisce tutta l'opera dell'autore di quel testo: così Dioscoride, Mela, Plinio). Scrive nel 1480 a Girolamo Donà, anche lui preso da uffici pubblici e ambascerie, anzi successore del Barbaro a Milano e a Roma: "volesse il cielo che si potessero emendar del tutto o almeno diminuire gli errori di tutti quelli che si chiamano buoni peripatetici, perché non sanno né ragionare né parlare, perché non sanno né di latino né di greco [...]. Io tutto il tempo che ho vissuto, tutto quello che Dio mi darà ancora, lo dedicherò a questo solo impegno, per quanto può un uomo, a ricondurre l'armonia fra le scienze naturali e gli studi di umanità" (Epistolae, XII). E quattro anni dopo nella prolusione del 1484 afferma: "Gli espositori d'oggi leggono con gran cura i commentatori, ma trascurano Aristotele [...]; dei suoi centoventicinque volumi, al massimo ne leggono e ne commentano sei o sette. Io credo di potervi promettere due cose. Primo: di leggervi e commentarvi in tre o al massimo in quattro anni tutta l'opera di Aristotele, cioè la dialettica, la filosofia naturale, la metafisica, la morale, la retorica, la poetica [...]. Secondo: di cercare con ogni mia forza che nulla, per quanto difficile e oscuro sia in Aristotele, vi resti incomprensibile" (Oratio III). Programma insieme grandioso e di intonazione polemica, sommamente rivelatrice, assunto con piena consapevolezza (cf. Epistolae, LXI, LXII, LXXII, LXXVI). Come quattr'anni prima aveva affermato quale sua meta ideale l'armonia delle scienze e della filosofia con le umanità, così ora Ermolao per primo fa posto nel suo corso aristotelico ai testi che diverranno testi di base per l'estetica e la letteratura del Rinascimento, alla retorica e alla poetica: cioè a quelle parti della filosofia che a Padova erano trascurate del tutto, che non solo non erano né studiate né commentate, ma erano addirittura rifiutate dalle sillogi aristoteliche. Se ne accennava, al massimo, come a parti della "pratica", secondo la tradizione ciceroniana; e, a Padova, come a parti della dialettica o della logica, secondo una struttura che resisterà anacronisticamente ancora nella edizione del Bagolin a metà del Cinquecento, probabilmente per influenza del Tomitano. La coscienza profonda e fortemente polemica di un'armonia intima fra res e verba, tra filosofia e poesia (intesa non platonicamente come divinus furor ma aristotelicamente come imitatio naturae, interpretatio rerum) rinnova così, a distanza di più di un secolo, l'ideale del Petrarca nella sua disputa cogli averroisti veneziani. E fa sviluppare nel Poliziano stesso, dopo il soggiorno veneziano del 1480 in cui aveva avuto dal Barbaro la rivelazione della Poetica, un aristotelismo convinto e battagliero - seppure ricco di simpatie e conoscenze platoniche, come quello di Ermolao fin dal De coelibatu - e la coscienza dell'inscindibilità della filosofia e della filologia (Lamia) (36).

Proprio dai testi aristotelici ritrovati nella loro genuinità, attraverso una rigorosa e strenua filologia, il Barbaro può muovere per ribattere - anche se è possibile che la disputa si sia svolta su piano prestabilito, retorico e parodico (37) - gli argomenti contro la poesia e l'eloquenza; erano ripresentati dal Pico nel 1485 con ben maggior vigore e con ben più acuta sottigliezza di quella dei quattro accusatori del Petrarca. La disputa sul primato della dialettica - o di un'altra scienza - sulla poesia era una disputa che durava ormai da almeno un secolo e mezzo, e la sua importanza è stata egregiamente illustrata da Garin, da Nardi, da Kristeller: e aveva preso nel Veneto una piega tutta particolare nel Guarino, in Ermolao Barbaro il vecchio, in Lodovico Foscarini e in vari altri umanisti.

Il Pico, assumendo la difesa dei sottili dialettici e dello "stile parigino", si mette in qualche modo sulla linea del suo maestro Elia del Medico, professore a Padova: purché il pensiero ubbidisca alla perfetta meccanica della logica, null'altro è necessario, né la forma né le umanità. Era l'affermazione della dissociazione delle verità razionali da ogni altra verità, era la negazione di quell'umanesimo che sente la verità quale espressione non solo di un'acutezza di pensiero, ma quale risultato del concorrere armonico di tutte le facoltà umane. Nella risposta al Pico (Epistolae, LXXXI), come in molte lettere e nell'orazione ai discepoli, domina una convinzione, continuamente ripresa e martellata dal Barbaro: che cioè l'humanitas non è esteriorità o ornamento, ma forma spirituale che attua nell'uomo l'uomo verace, il cittadino, l'uomo nella sua totalità (e par di sentire l'eco di Guarino e di Vittorino e della grande tradizione morale veneta); e che l'humanitas si manifesta in sommo grado nella parola che non può mai esser staccata dalla sua radice, dal pensiero. "Chi vuol separare il pensiero filosofico dalla forma perfetta - scrive Ermolao - non può essere che un piccolo, volgare filosofo: un filosofo di legno insomma" (Epistolae, XII).

Così riprendendo con maggior sistematicità la filologia di Lorenzo Valla, anzi citandolo esplicitamente (Epistolae, XLIX), Ermolao afferma risolutamente la ineludibile connessione fra "parole" e "cose": fra verba e res (cf. anche Epistolae, s.d. VIII). Nega cioè che vi possano esser concetti buoni espressi male. "Aristotele e Platone, di cui seguiamo scuola e dottrine, furono grandi scrittori, tanto che non v'è una prosa più soave, più pura, più ricca della loro. Chi oppone dunque la filosofia all'eloquenza [...] dice manifestamente una calunnia, una falsità" (Epistolae, LXXXI: e il Donà ripete il concetto nella prefazione al De anima di Alessandro d'Afrodisia). Non è quella del Barbaro - come non era quella del Petrarca e del Valla e del Donà e non sarà quella del Bembo - un'apologia degli artifici e degli ornamenti della retorica e neppure di un formalismo puristico assolutamente inconcepibile in lui non tanto letterato, quanto insieme filosofo, naturalista e filologo tutto volto e impegnato nella realtà. "Optarem quidem sed non requiro cultum et elegantiam, requiro sententias" scrive al Vernia (Epistolae, XXXI). È difesa sostanziale della grande tradizione classica e cristiana della chiarezza, della comunicabilità del pensiero, della humanitas che non è solo acutezza di pensiero ma intelligenza umana completa e complessa. È dimostrazione della impossibilità di avere "scienza" senza "sapienza", dell'assurdità di svincolare dal mondo dello spirito il mondo della natura.

Per questo, proprio Ermolao, come già è stato accennato, fu sì nel Quattrocento uno dei più generosi ed energici cultori e promotori delle scienze naturali e in certo modo precursore del metodo sperimentale (colle traduzioni dei matematici greci e di Dioscoride, coi commenti a Plinio e a Pomponio Mela, coi rigorosi Glossemata, col suo orto botanico); ebbe sì quale scienziato fama europea altamente proclamata dal Linacre a Linneo e al Leibniz. Ma lottò energicamente contro lo scientismo e il tecnicismo che pure allora insistevano minacciosi anche sull'orizzonte del cielo accademico patavino.

Egli, con una sensibilità che oggi si direbbe interdisciplinare, confidava esplicitamente al Donà l'esigenza di inquadrare la scienza, ogni scienza, in un pensiero, in una realtà umana e metafisica: affermava la necessità di ristabilire l'armonia fra scienze della natura e scienze dell'uomo (Epistolae, XII); opponeva - come già il Valla - alla religione di una scienza per se stessa e all'aridità del tecnicismo (che pretendeva di esaurire la realtà in una disciplina particolare) la verità della umana totale sapienza. Quando polemizzava col del Medico e col Pico (Epistolae, LXVIII, LXX, LXXX, LXXXIV), quando signorilmente faceva la caricatura delle astruse calculationes dell'ultima scolastica (Epistolae, C-CI), egli affermava quale prima esigenza, al di là di ogni esoterismo e di ogni tecnicismo, proprio la comunicabilità del pensiero. Mirava, su una linea petrarchesca ed albertiana, a intendere ogni realtà intelligibile e a tradurla in un linguaggio nuovo, chiaro, comunicabile, anche contro lo spirito e il linguaggio da iniziati di certo neoplatonismo fiorentino. Sentiva che la parola, il verbo, è la suprema espressione e la suprema dignità dell'uomo, quella che permette il più alto esercizio dello spirito, cioè la comunicazione del pensiero. E da questa profonda, categorica convinzione discendono insieme la strenua filologia - cioè l'impegno assoluto nell'accertamento e nel recupero della parola, di ogni parola - e la umana e umanistica filosofia di Ermolao, così lontana da quella di un Vernia e di un Pomponazzi, supremamente indifferenti alla forma, alla parola, alla tradizione ciceroniana, fino all'accettazione e alla compiacenza di stranezze linguistiche e di espressioni bastarde (e in questo la linea Barbaro-Bembo appare chiara).

Queste salde convinzioni sono naturalmente alle origini anche delle affermazioni sui limiti del sapere e dell'intelligenza presi per se stessi. Alla scienza del vero non si può giungere cioè, secondo il Barbaro, senza una profonda adesione alla scienza dei costumi, senza una vera e rigida onestà di vita e senza una profonda umiltà. Quello che io credo sia la cosa più importante e precipua per chi voglia studiar filosofia - diceva nel 1484 rivolgendosi ai discepoli (Oratio III) -, quello che permette anche agli ingegni più mediocri di giungere all'apice della vera sapienza è la fuga di ogni voluttà. E nel 1492: chi ha animo disposto alla sapienza "ama non insegnare ma vuole sempre imparare, odia il giudicare, ama tacere [...] questa è quella virtù esaltata dai cristiani col nome di umiltà, la quale umiltà, mentre è via sicurissima per la salvezza e la gloria eterna, è anche la compagna più necessaria a ogni uomo, e specialmente allo studioso: senza di essa non potremo mai né ritrovare la verità, né giudicare prudentemente" (Epistolae, CLVII). E dopo avere nel De coelibatu prospettato come necessaria per il sapiente la castità più assoluta, enuncia come suo programma, in un carme (IX) eloquente indirizzato all'amico Pontico Faccino:

Nec doctrina sat est, nisi sint probitasque fidesque

Vitaque non ullis contaminata malis [...]

Iudice me primum est bene vivere, scire secundum:

Asseritur coelo, si quis utrumque potest.

Sono affermazioni caratteristiche in questo umanesimo veneziano in cui trova il suo porto, come abbiamo detto, proprio il moralista e pio Aldo Manuzio, che con puntuale corrispondenza a questi versi scrive preludendo alla sua grammatica latina: "enitendum pro viribus, ut et sanctos mores et bonas litteras simul edoceantur adulescentuli, quando alterum sine altero facere nullo modo licet: at si in altero peccandum foret, potior mihi ratio vivendi honeste quam vel optime discendi videretur. Malo enim eos nullas scire litteras ornatos moribus, quam omnia scire male moratos" (38).

In questa risentita coscienza morale è radicata la consapevolezza che la sapienza antica, l'alta scuola dei classici, ha il suo compimento, necessario e risolutivo, nella nuova realtà cristiana. Già nel suo primo trattato, il De coelibatu, Ermolao aveva affermato che ogni scienza che non mira alla lode di Dio è falsa, e che la superiorità dei moderni sugli antichi è soltanto dovuta alla nuova sapienza predicata da Cristo (II 3, IV 2). Anzi, quasi anticipando ancora le risentite posizioni di Aldo nelle prefazioni al terzo volume aristotelico (1497) e a Alessandro d'Afrodisia (1513), aveva scritto: "Quella generazione che venne dopo [cioè quella dei platonici] ebbe troppa indulgenza alla libidine e alla scelleratezza: non ebbe quella vera filosofia che rende l'uomo più vicino, più simile a Dio. Veramente è per noi grande meraviglia che siano stati chiamati filosofi, uomini così lontani dalla vera sapienza" (39). E rivolgendosi dieci anni dopo all'umanista fiammingo Arnoldo di Bost affermava "Duos agnosco dominos, Christum et litteras" (Epistolae, LXXVI), e all'amico Giorgio Valla "Tunc et militem Christi ago et philosophus excitatior evado" (Epistolae, XCIX).

È questo proprio quell'umanesimo sapiente e cristiano che, assai prima di Erasmo, Jacques Lefèvre d'Étaples scende nel 1491 a cercare a Venezia. Gli appassionati e pii corrispondenti di Ermolao, Arnoldo di Bost e Josse Beissel (e il loro amico Robert Gaguin: Epistolae, LXXII, LXXVI, LXXVII), avevano diffuso nei più attivi circoli culturali francesi, fiamminghi, tedeschi il messaggio umanistico del Barbaro. Lefèvre d'Étaples venendo in Italia non cerca più, difatti, i maestri di lingua latina, i sapienti grammatici della tradizione del Guarini e del Perotti. Vuole conoscere i rappresentanti di un nuovo pensiero: "videndi illectus amore Hermolai Barbari me glorior Italiam petisse" (40) scriveva più tardi a un suo corrispondente. Giustamente Franco Simone ha rilevato che il testo di Aristotele fu nelle conversazioni col Barbaro il fondamentale argomento. Era un testo sulla via di esser riportato alla più esatta lezione, libero da commenti arabizzanti o scolastici: un testo letto con le preoccupazioni più evidenti dello spiritualismo cristiano, ma non più rigidamente costretto negli schemi delle interpretazioni tomistiche e di scuola. È un testo che, dopo gli effimeri entusiasmi platonici e neoplatonici, dominerà per più di due secoli la cultura europea. Presso Ermolao, Lefèvre cerca soprattutto i fondamenti storici del razionalismo aristotelico armonizzato con lo spiritualismo platonico e col messaggio evangelico. È la via per giungere al rinnovamento del pensiero cristiano attraverso un nuovo ripensamento della tradizione e delle fonti classiche. Non a caso Erasmo loderà Ermolao "quem nemo [...] negat inter Italos, praeter summam morum innocentiam, eruditionis arcem tenuisse [...] absoluta diligentia"; "[...] prima citra controversiam laus debetur Hermolao Barbaro [...] quod primus omnium facinus longe pulcherrimum ausus sit aggredi [...] quod caeterorum nemo unus plura restituerit" (41). Non a caso attorno a Ermolao si tesse la prima grande conversazione umanistica europea.

I grandi motivi dell'umanesimo veneziano si incentrano dunque saldamente sulla rinnovata consapevolezza della dignità e del vigore della coscienza umana nel complesso delle sue facoltà e doti (intellettuali, sentimentali, fantastiche, morali): in essa si riflette anche l'immagine dell'armonia della natura e dell'armonia dello stato stesso come società in cui l'uomo vive e si realizza ("nulla in musicis armonia tam sibi ex omni parte respondet quam civitatis diligens administratio" scriveva il Sabellico (42)).

Anche la grande pittura veneziana e l'euritmia architettonico-urbanistica palladiana riflettono visivamente questa armonia. Quando, nella famosa disputa con Pico della Mirandola, Ermolao Barbaro spinge fino all'estremo le ragioni delle litterae egli non fa in certo senso che difendere quell'ideale di completezza e di compostezza umana, di nobiltà interiore riflessa nell'eleganza esteriore e nella stessa vita sociale-politica, che era la bandiera dell'umanesimo veneziano. Negando questo ideale gli pareva che si negasse l'essenza stessa di quella civiltà e di quella cultura di cui egli e il Poliziano erano acclamati come i massimi campioni. Questa convinzione è non solo ragionata e proclamata, ma quasi visualizzata nel De coelibatu e nel De officio legati: nella ricerca continua di una rispondenza tra realtà interiori e aspetti esteriori del sapiente, tra limpida armonia delle facoltà morali e luminoso decoro della persona. Quasi a coronare quei suoi trattati, il Barbaro non pone affermazioni o conclusioni astratte, ma ritratti, ritratti luminosi ed esemplari del suo uomo ideale.

Era un'inclinazione, questa, del più maturo umanesimo veneziano, in cui non solo si esprimeva una decisiva convinzione dell'armonia fra doti morali e intellettuali, tra verità naturali e metafisiche e poetiche, ma sembrava raccogliersi una tradizione culturale tipicamente veneziana. È quella che accanto al de hominis dignitate di tipo toscano prevalentemente individualistico e affidato a "ragioni d'anima", viene delineando (anche sulle tracce di Guarino e di Vittorino da Feltre) un ideale più concreto, più quotidiano di uomo, in cui il gesto, il contegno, il decoro sono parti essenziali della dignità, rivelazione di eccezionale compostezza e elevatezza d'anima. Ancor prima che si sviluppasse in tutta la sua ricchezza artistica e civile, gli umanisti del resto d'Italia avvertivano quasi visivamente il fascino umano e umanistico di questo "decoro" veneziano: dall'alta presentazione di Bernardo Bembo nel De nobilitate del Landino, all'ammirata raffigurazione della nobiltà dei Veneziani nel De educatione del napoletano Galateo (un devoto amico di Ermolao proprio negli anni napoletani), dalle stupite impressioni del Poliziano nelle lettere da Venezia, all'arioso ritratto di Girolamo Donà nel De cardinalatu di Paolo Cortesi.

Quelle intuizioni trovano nel Barbaro una coscienza più spiegata, una consapevolezza tutta umanistica. Le convinzioni giovanili, ma già risolute, del De coelibatu, riprese nelle Epistolae, si compongono, in certo modo, quindici anni dopo, nelle linee più sobrie, ma ormai sicure e nette, del De officio legati (e forse per questo il trattatello piacque tanto al Tasso).

I miracolosi "ritratti d'anima" della più grande pittura veneta - così legata in quel periodo, da Gentile e Giovanni Bellini al Carpaccio e a Giorgione, alla cultura umanistica e al Barbaro stesso (43) - trovano dei suggestivi precedenti o pendants letterari in queste pagine. E a queste stesse pagine sembra in parte ispirarsi quella alta tradizione letteraria che agli ideali umanistici darà forma estrema nell'eleganza del "cortegiano", proprio anche come manifestazione di un umanesimo sociale e politico. Le sue espressioni più limpide e raffinate brilleranno proprio nelle opere di scrittori veneziani o fortemente legati alla cultura umanistica veneta come il Bembo, discepolo del Barbaro, come il Castiglione, allievo di Giorgio Merula, come il della Casa, tutto ispirato al Bembo.

In senso convergente - anche se poi nelle conclusioni diverso -, nel quadro dell'aristotelismo rinnovato e della metodologia filologica veneziana pluridisciplinare e mirante al futuro, e pure lui tra la laguna e Padova e la Lombardia e Roma, matura la sua esperienza nuova e rinnovatrice proprio Pietro Bembo (1470-1547) (44). "È da credere" ha scritto Carlo Dionisotti "che l'esempio, nella generazione intermedia fra quella del padre e la sua, di uomini dello stesso rango, quali Ermolao Barbaro e Girolamo Donà, contribuisse a suscitare nel giovane Bembo la vocazione degli studi umanistici" (45). La sua prima apparizione, ormai mitizzata, è proprio quale "studiosus litterarum adulescens" mentre collaziona un antichissimo codice di Terenzio a fianco al Poliziano venuto nel giugno del 1491 a Venezia nella memoria e nel circolo del Barbaro, ormai esule a Roma (46). L'incontro col Poliziano decide Pietro probabilmente a seguire l'indirizzo di studi che Ermolao e Angelo concordemente auspicavano per il filologo: cioè l'assoluta padronanza, accanto al latino, del greco e la meta di un sapere enciclopedico e di un linguaggio chiaro e universale. Pochi mesi dopo, scendendo fino a Messina, si mette risolutamente alla scuola di Costantino Lascaris. Era stato convinto da quei due grandi maestri - come in quegli stessi anni pensava Aldo - della necessità di costruire il nuovo umanesimo, pluridisciplinare e enciclopedico, sulla base dei testi greci. Dieci anni dopo - ricco anche della esperienza fortemente umanistica alla corte ferrarese con i suoi Sadoleto e Leoniceno e Alberto Pio - immagina, con tono programmatico, il ricordo che Tommaso Fedra Inghirami faceva del dibattito sulla filologia svoltosi nel 1492 fra Pomponio Leto e Ermolao Barbaro (De Virgilii Culice et Terentii fabulis: ma, in prima redazione, con titolo barbariano-polizianeo, De corruptis poetarum locis; ripreso poi nel 1506, stampato nel 1530 con data del 1503). E loda Ermolao proprio perché "humaniores illas doctrinas [...] graecarum litterarum luminibus illustrabat"; e perché era "doctissimus praestantissimusque omnibus in disciplinis" (Epistolae Familiares, VI 124). Del resto l'opera prima stessa del Bembo, il poemetto Aetna, aveva richiamato a quei molteplici interessi scientifici - spesso da e su testi greci - che avevano ispirato le Castigationes Plinianae. E la stessa "felice ambientazione del dialogo già di per sé dilata i confini dell'oggetto esegetico e rilancia tutte le più vitali istanze di plenitudo culturale, di renovatio che il Barbaro stesso (e il Poliziano per suo conto) avevano indicato tra gli scopi della propria lezione" (47).

Sono una plenitudo e una renovatio che muovono anche da quell'indirizzo filosofico e umanistico insieme che era stato così caratteristicamente veneziano, dal Barbaro al Valla: nella ripresa di un tutto e autentico Aristotele, che Aldo aveva consacrato colla sua monumentale edizione delle opere aristoteliche (1495-1498) ispirata alla lezione di Ermolao e dedicata a Alberto Pio. Proprio sulla base della retorica e della poetica aristoteliche, ripresentate come esemplari dopo secoli e secoli sulla laguna, può svilupparsi anche la filologia più nuova del Bembo, tutta fondata sul concetto di creazione artistica, non come "furor" o "inventio", ma come "imitatio naturae" e su una considerazione critica nuova della lingua. Aldo nel 1501 accanto ai testi greci e latini stampa con la stessa dignità quelli italiani: nel 1501 le Rime del Petrarca e le Terze Rime (cioè la Comedìa) di Dante proprio a cura del Bembo. "Nella elevazione dei grandi poeti volgari allo stesso rango dei classici e nella preferenza data, per quanto era del proprio lavoro, ai primi" conferma Dionisotti "in ῾alcune notazioni della lingua' che in una lettera del 2 settembre 1501 il Bembo scriveva a Maria Savorgnan di aver cominciato a stender per lei, finalmente nella composizione, regolata da una stretta imitazione della lingua toscana, dei suoi Asolani, è da riconoscere già nel biennio 1501-1502 il nucleo dell'opera maggiore del Bembo, le Prose della volgar lingua" (48) (solo nel 1511-12 saranno stesi i due primi libri).

Il trasferimento del Bembo nel 1502 a Roma (che prelude ai soggiorni a Ferrara, a Urbino e poi a quelli ripetuti lunghi e vitali a Roma, dove si stabilisce nel 1512) può esser preso - con la conferma definitiva nel 1506 del rifugio chiesto alla corte di Urbino - come un emblema della conclusione a Venezia dell'umanesimo più propriamente detto (non certo della "fine", ché la tutta umanistica Scuola di San Marco continua attivissima, l'Egnazio è maestro umanistico lungimirante fino alla morte nel 1553, quando già operano il Dolce e il Doni e lo stesso Aretino). Aveva voluto, col Barbaro e i suoi, quell'umanesimo dal greco far discendere al latino una nuova precisione concettuale e linguistica, e creare una lingua che potesse esprimere egualmente e enciclopedicamente la poesia e le filosofie e le scienze, tutte le scienze comprese la matematica e la musica. Ora quello stesso umanesimo vuole col Bembo nel latino ciceroniano e nel volgare italiano, consacrato nobilmente dal Petrarca e dal Boccaccio, trovare il modello, l'asse unitario per la nuova lingua sciolta da particolarismi regionali e da sudditanze a altri idiomi e capace così di una larga e molteplice comunicabilità. E il Bembo - come ha dimostrato Dionisotti - giunge a scoprire la diversa stratificazione linguistica per il Tre e il Quattrocento, e a operare una frattura netta nella continuità dello sviluppo linguistico toscano e italiano (restaurando lo strato più antico, quello trecentesco, e dissolvendo il più recente). È questa "una applicazione analogica al volgare della revisione critica della tradizione letteraria latina, classica e umanistica" operata dall'umanesimo veneziano e da lui stesso. Il suo spirito puristico, il suo stesso ciceronianesimo, spiegato sistematicamente nella polemica con Giovan Francesco Pico, consacrato dall'edizione dei Brevi (1536), importano "proprio l'isolamento di uno strato aureo della lingua e dello stile che gli strati successivi della latinità argentea e decadente avevano mal coperto": importano quel culto della chiarezza - e della stessa eleganza come chiarezza - che già il Barbaro e il Donà avevano proclamato discutendo col Pico (49).

Quello che è stato chiamato l'"umanesimo volgare" nasce come eredità e quasi diaspora dall'umanesimo veneziano. Non a caso la filologia del circolo barbariano mette capo alle grandiose imprese di Aldo, al cui centro fioriscono le prime espressioni della filologia volgare del Bembo. Non a caso l'idea della corte, come possibile luogo di "regulata" comunicazione anche linguistica, già adombrata nel De officio legati del Barbaro, ritorna sistemata e spiegata nel De Guido Ubaldo, negli Asolani e nelle Prose. Ma quell'idea è poi dall'uno e dall'altro umanista veneziano abbandonata per cercare quella "regulata" unità, quel rinnovamento espressivo attraverso una filologia su testi esemplari (Plinio dall'uno, Petrarca e Boccaccio dall'altro). Non a caso la conclusione dell'esperienza veneziana è prodotta, nell'uno e nell'altro umanista, dal risoluto superamento, anzi dal rifiuto (traumatico nel Barbaro, diplomatico nel Bembo) di quella scelta culturale come scelta politica che è all'origine dell'umanesimo veneziano. Non sono, quelli del Barbaro e del Bembo e del loro contrasto con Venezia, episodi personali: è la crisi di tutta un'impostazione che ormai, fra Quattro e Cinquecento, non regge più (50). È un rifiuto che è un'apertura risoluta discesa da intuizioni generose della generazione precedente, quelle ad esempio di Francesco Barbaro. Al di là della politica del proprio stato, quelle intuizioni umanistiche mirano a una politica più ampia, in certo senso universale. Il patriarcato aquileiese per Ermolao e il cardinalato per Pietro ne sono quasi una sanzione tarda ma ufficiale.

Già agli inizi del Quattrocento l'unità sociale e culturale costruita lungo un millennio dal Cristianesimo aveva, dopo i traumi dello scisma d'Oriente e dell'esilio avignonese, subìto spezzature gravi. Erano gli scismi e le lotte fra le due Rome, fra papi e antipapi, fra curia e concili. Ma i prodromi prima e poi le tempeste e i cataclismi riformistici e nazionalistici minacciavano ormai fatalmente, fra Quattro e Cinquecento, Chiesa e Impero. L'unitaria "respublica christiana" era gravemente vulnerata anche prima di essere inesorabilmente spezzata.

Ma a questa triste fine non si rassegnano i più grandi uomini di pensiero e di lettere, di cultura e di azione della Venezia umanistica. Una universale "respublica litterarum" che deve rafforzare la minacciata "respublica christiana", e in caso estremo sostituirla, è auspicata e promossa fin dal 1417 da Francesco Barbaro scrivendo al Poggio, segretario apostolico al Concilio di Basilea (Epistolae, I 1). E quegli stessi umanisti veneziani - da Francesco Barbaro fino a Girolamo Donà - alla guerra religiosa fra Bisanzio e Roma oppongono, con l'autorità che viene loro dall'esser laici ma versati in filosofia della religione e in teologia, l'unità della cultura greco-latina, da Platone e Aristotele a Cicerone e fino ad Agostino e Tommaso. Come uomini insieme di politica e di cultura - che dominavano greco e latino e la retorica unica per le due culture - sollecitano di ricostituire, già attraverso lo Zabarella, a Costanza, l'unità della Chiesa latina e poi quella religioso-culturale greco-latina nel Concilio di Firenze. "Soli vos Veneti custodes estis et graecae et latinae integritatis" riconosceva un umanista meridionale come il Galateo (51), "Graecia extra suos fines expulsa vires colligit in Venetiis", "ab Ilio est Patavium ex Patavio inclitae Venetiae", proclamavano in quegli stessi anni orgogliosamente il più politico degli ultimi umanisti, il Donà, e lo storico ufficiale, il Sabellico (52).

Con spirito simile sviluppano un auspicio di unità spirituale-culturale nella "respublica litteraria" gli umanisti veneziani tra fine Quattrocento e Cinquecento, quando già si profila la frattura religioso-politica europea. L'assiduo carteggiare di Ermolao con umanisti franco-tedeschi e fiamminghi, vicini ai riformisti, per mostrare la convergenza unitaria di "pietas christiana" e di "litterae humaniores"; l'idea europea dell'Academia nata e lanciata da Aldo su ispirazione del circolo veneziano; la convergenza di Lefèvre d'Étaples e di Erasmo a Venezia alla ricerca di una cultura universalmente cristiana; la desta coscienza europea sollecitata dagli umanisti veneziani negli stampatori che grazie a loro avevano fatto di Venezia il fuoco europeo ("Noi ormai dominiamo la quasi totalità del commercio intellettuale nell'Europa civile" diceva Antonio Kolb) (53) ne sono gli indizi più evidenti. L'arte della parola, la suasoria, la retorica, il dialogo elevato a genere letterario europeo in particolare dal Bembo, possono e devono unire, nella comunicazione e nella comunicabilità, gli uomini di cultura al di là di qualsiasi spezzatura religiosa o politica. È il messaggio, che - risalendo alla scoperta e alla valorizzazione della retorica e della poetica aristoteliche - sviluppa il Bembo, pur restando sostanzialmente a livello linguistico e letterario. Lo sviluppa per l'Italia con le Prose dandole una lingua di comunicazione certa, "indipendente così dal frazionamento dialettale e politico, come dalla preponderanza straniera"; per il mondo intero col suo rigoroso ciceronianesimo refrattario a anarchie e a particolarismi linguistici. La "respublica litteraria", con la sua forza di comunicazione conquistata attraverso la nuova forza e chiarezza linguistiche, può assicurare una nuova unità spirituale europea. I suoi strumenti operativi sono proprio le sicure strutture linguistiche, la retorica, l'organizzazione degli studi. Le quali poi, come ha dimostrato Marc Fumaroli (54), grazie anche alla "ratio studiorum" dei Gesuiti, pensata proprio a Venezia da sant'Ignazio - accreditato al pontefice da un umanista veneziano come Vincenzo Querini -, conquistano l'Europa e avviano lungo due secoli la formazione di una nuova unità culturale europea. È quella che, riprendendo la lezione del Petrarca e del suo carteggiare di anima e di intelligenza per l'Europa civile, permette - da Ermolao al Bembo, da Aldo a Erasmo e a Montaigne - un'attiva circolazione mondiale, tutta umanistica e laica, di persone e di idee attraverso le corrispondenze, le scuole, le varie accademie - discese dall'idea dell'Aldina -, le università modellate sulla veneziana-patavina.

Così fino all'alta consacrazione, teorica e visiva insieme, operata nel secondo Cinquecento da un nipote di Ermolao, Daniele, anche lui aristotelico, anche lui proiettato verso la "sapienza" quale sintesi delle arti e delle scienze. La promuove, quella sapienza umanistica, col suo Della eloquenza (1557), colla fondazione della Accademia degli Infiammati; la consacra colle visualizzazioni nella Villa-Accademia di Maser: nuovo Olimpo, nuovo Parnaso universale in senso topografico e diacronico. Da Montaigne fino ancora a Peiresc proprio la Venezia dei Barbaro è considerata come la patria dell'umanesimo universale, del concilio universale delle lettere più unificante dei concili religiosi o politici (55).

È forse proprio per questo miraggio che l'umanesimo veneziano sembra concludersi col rifiuto, da parte dei suoi due più alti campioni, del particolarismo politico della Serenissima e con la scelta di una posizione civile cattolica cioè universale. Era la più grande e consapevole cultura che nella crisi degli stati italiani e nella più drammatica crisi dell'unità europea trovava, come ha scritto Dionisotti, "riparo nella Chiesa, e nella crisi della Chiesa portava ora il messaggio non inutile della persuasione e del dialogo, di una classica misura e continuità dei pensieri e delle parole nel tempo" e al di là degli eventi (56).

L'umanesimo veneziano dominato dal Barbaro e poi dal Bembo fu decisivo per la tradizione letteraria italiana e fu determinante nell'impostazione filologica, filosofica (soprattutto morale e estetica) e religiosa, figurativa e architettonica dell'Europa cinquecentesca. Quell'impegno assoluto - di origine aristotelica - nell'affermare il valore supremo della parola e della forma mette capo, da un lato, alla geniale sensibilità linguistica e alla rigorosa sistemazione grammaticale della nostra lingua letteraria nell'umanesimo volgare, cominciata col Fortunio e culminata nelle Prose della volgar lingua; e, dall'altro, al messaggio universale di Aldo e alla filologia europea del Budé e della sua scuola. Quella filosofia, o meglio quella sapienza umana e cristiana, profondamente conscia dei limiti delle scienze prese ognuna per se stessa e della necessità di coronare la tradizione greco-latina coll'insegnamento evangelico, lievita i poderosi fermenti di rinnovamento religioso avviati da Paolo Giustiniani e da Gasparo Contarini e ricercati poi da Lefèvre d'Étaples e da Erasmo come messaggio per l'Europa moderna. Quella profonda convinzione dell'impossibilità di separare la scienza della natura dalla scienza dell'uomo trova luminosa e concreta testimonianza nelle ricerche e nelle intuizioni di Luca Pacioli, allievo della Scuola di Rialto, e dei grandi idraulici e architetti veneziani (e molto più tardi sarà idealmente continuata nell'opera di Galileo, professore nel rinnovato Studio padovano e potentemente sollecitato da esperienze veneziane e di Ermolao stesso). E non mancherà neppure, a ben guardare, un alto messaggio di poesia, che si imporrà alla civiltà dei secoli seguenti fino all'età moderna: quello dell'architettura palladiana e della pittura - da Bellini e Carpaccio a Tiziano e Veronese - cui proprio il Barbaro, riprendendo l'oraziano "ut pictura poesis", aveva rivendicato una dignità e una funzione pari alle lettere e alla poesia (57).

1. Questa rapida sintesi (che sarà sviluppata sistematicamente nei volumi tematici sulla cultura veneziana) è basata per la parte centrale sui miei studi precedenti in argomento (dai quali riassumo e anche utilizzo alcune parti). Sarò costretto a rinviare spesso ad essi specialmente per le documentazioni e i testi: Ermolao Barbaro, Epistolae Orationes et Carmina, a cura di Vittore Branca, Firenze 1943; Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, a cura di Vittore Branca, Firenze 1963; Rinascimento europeo e rinascimento veneziano, a cura di Vittore Branca, Firenze 1967; Ermolao Barbaro, De coelibatu - De officio legali, a cura di Vittore Branca, Firenze 1969; Vittore Branca, Literary Humanism in Venice, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 218-243; Id., L'umanesimo veneziano alla fine del Quattrocento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 123-175; Id., Poliziano a Venezia e l'origine veneziana della "Fabula d'Orfeo", in Giorgione e l'umanesimo veneziano, a cura di Rodolfo Pallucchini, Firenze 1981, pp. 109-127. Per il preumanesimo e il protoumanesimo veneziano tra fine del Duecento e Trecento ho tracciato un rapido profilo con relative indicazioni bibliografiche in Svolgimenti e caratteri dell' Umanesimo veneziano fino a Ermolao Barbaro e alle visualizzazioni della pittura del Rinascimento, in AA.VV., Muzeum i tworca [Miscellanea in onore di Stanislao Lorentz], Varsavia 1968, pp. 47-64. Sul Barbaro e il suo circolo, anche nel quadro della storia politica e economica di Venezia, è stato tenuto dal 4 al 6 novembre del 1993 un convegno all'Istituto Veneto di Scienze Lettere ed Arti: gli Atti sono ora in corso di stampa. Per aggiornamenti vari di notizie e di bibliografia: Margaret L. King, Umanesimo e patriziato a Venezia nel Quattrocento, I-II, Roma 1989; Elisabeth Crouzet - Pavan, "Sopra le acque salse". Espaces, pouvoir et société à Venise à la fin du Moyen Âge, Roma 1992, pp. 373 ss., 927 ss.; Vittorio Rossi, Il Quattrocento, aggiornamento a cura di Rossella Bessi, Padova 1992, pp. 582 ss.; e anche Rinaldo Rinaldi, Umanesimo e Rinascimento, Torino 1991 (Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da Giorgio Bàrberi Squarotti, II/1), pp. 691-713; Mitsuaki Nagai, Il mondo della nobiltà veneziana, Tokyo 1994 (in giapponese: capp. II, III, IV: v. rec. di K. Ikeda, "Lettere Italiane", 46, 1994, pp. 685 ss.).

2. Su questo notissimo episodio v. riassuntivamente Ernest H. Wilkins, Petrarch's Later ϒears, Cambridge, Mass. 1956, pp. 35 ss., e soprattutto Manlio Pastore Stocchi, La Biblioteca del Petrarca, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 536-565, e anche Nicholas Mann, Petrarca e la Cancelleria veneziana, ibid., pp. 517-535.

3. M. Pastore Stocchi, La Biblioteca del Petrarca, pp. 549-550.

4. V. per questo Agostino Pertusi, L'umanesimo greco dalla fine del secolo XIV agli inizi del secolo XVI, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 177-264.

5. Per le impostazioni sopra accennate cf. Cicerone, De Inventione, 25, 35; Pro Archia, 1, 2 e 3, 4; De re publica, I, 17; Leonardo Bruni, Epistolae, VI 6; Poggio Bracciolini, Epistolae, IX 2 e X 23; Angelo Poliziano, Opera, Basilea 1553, p. 529.

6. M.L. King, Umanesimo e patriziato, pp. 137 ss.

7. Pietro Paolo Vergerio il Vecchio, Epistolario, a cura di Leonardo Smith, Roma 1934, p. 103.

8. Felix Gilbert, History: Choice and Commitment, Cambridge, Mass. 1977; Id., Humanism in Venice, in Florence and Venice: Comparisons and Relations. Acts of the Two Conferences at Villa I Tatti in 1976-77, a cura di Sergio Bertelli - Nicolai Rubinstein - Craig H. Smyth, I, Quattrocento, Firenze 1979, pp. 13-26; Charles Trinkaus, In Our Image and Likeness, Chicago 1970; M.L. King, Umanesimo e patriziato.

9. Gaetano Cozzi, Domenico Morosini e il "De bene instituta re publica", "Studi Veneziani", 12, 1970, p. 455 (pp. 405-458); Rona Goffen, Piety and Patronage in Renaissance Venice: Bellini, Titian, and the Franciscans, New Haven, Conn. 1986, pp. 22 ss., 138 ss. e passim.

10. Le citazioni di Pietro Contarini sono tratte da M.L. King, Umanesimo e patriziato, rispettivamente alle pp. 120 e 53-54.

11. Cf. Giovanni Battista Picotti, Ricerche umanistiche, Firenze 1955, p. 221; Francesco Barbaro, Centotrenta lettere inedite [...], a cura di Remigio Sabbadini, Salerno 1884, p. 66; e anche il cod. 85 della Biblioteca Comunale di Treviso, pp. 253 ss; e Agostino Valier, Epistola ad Laurentium Priulium, in Karl Müllner, Reden und Briefe italienischer Umanisten, Wien 1899, pp. 296-302. Per un episodio emblematico fra umanesimo letterario e educazione a Venezia ormai nel 1461 cf. Margaret L. King, The Death of the Child Valerio Marcello, Chicago 1994.

12. "Ai primi del Quattrocento l'immagine di Venezia poteva dirsi ormai pienamente costruita" nel suo mito, afferma Franco Gaeta nella sua ricca e animata sintesi su L'idea di Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1981, p. 565 (pp. 565-641). Cf. Id., Alcune considerazioni sul mito di Venezia, "Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance", 23, 1961, pp. 58-75, e la bibliografia ivi riportata. E anche Gina Fasoli, Nascita di un mito (il mito di Venezia nella storiografia), in AA.VV., Studi storici in onore di Gioacchino Volpe, I, Firenze 1958, pp. 445-479; E. Crouzet-Pavan, "Sopra le acque salse", pp. 927 ss.

13. Cf. Bruno Nardi, Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, in Saggi sulla cultura veneta del Quattro e Cinquecento, a cura di Paolo Mazzantini, Padova 1971, pp. 3-43; e le opere cit. a n. 16.

14. Cf. in generale Silvio Tramontin, La cultura monastica del Quattrocento dal primo patriarca Lorenzo Giustiniani ai camaldolesi Paolo Giustiniani e Pietro Quirini, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 431-457; Eugenio Massa, L'eremo, la Bibbia e il Medioevo in Umanisti veneti del primo Cinquecento, Napoli 1992.

15. Guarino Veronese, Epistolario, a cura di Remigio Sabbadini, I-III, Venezia 1915-1919: I, pp. 84 e 124.

16. Oltre gli studi cit. nella n. 1 e l'opera della King, si tengano presenti per questo primo umanesimo almeno: Lino Lazzarini, Paolo de Bernardo e i primordi dell'Umanesimo in Venezia, Firenze 1930; Manlio Pastore Stocchi, Scuola e cultura umanistica fra due secoli, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1980, pp 93-121; Lauro Quirini umanista, a cura di Vittore Branca, Firenze 1977; Nella Giannetto, Bernardo Bembo, umanista e politico veneziano, Firenze 1985. Per il de Monacis, il Sabellico e il Giustiniani storiografi cf. Gino Benzoni, Scritti storico-politici, in questo volume; e sul Sabellico ultimamente Charles Béné, Sabellicus, "lecteur" de Marulić, "Studi Veneziani", n. ser., 26, 1993, pp. 283-301.

17. Si v. il contributo di Marino Zorzi, Dal manoscritto al libro, in questo volume.

18. Ha sintetizzato le ragioni di questo motivo Barbara Marx, Venezia: "altera Roma"? Ipotesi sull'umanesimo veneziano, Venezia 1978.

19. Per la biografia di Ermolao, l'analisi delle sue opere, la valutazione della sua influenza - come verranno esposte nelle pagine seguenti - rinvio anche per documentazioni e informazioni bibliografiche specialmente al mio Umanesimo veneziano, pp. 128 ss., largamente qui utilizzato. Limiterò quindi all'estremo i rimandi bibliografici, con qualche concessione ai rinvii a studi specifici, specialmente a quelli posteriori al 1980.

20. Piero di Marco Parenti, Storia Fiorentina, a cura di A. Matucci, I, Firenze 1994, pp. 100 e 135.

21. Eugenio Garin, La cultura filosofica del Rinascimento italiano, Firenze 1961, pp. 340 ss.

22. Per questa valutazione e per le citazioni: Hermolai Barbari Castigationes Plinianae et in Pomponium Melam, a cura di Giovanni Pozzi, I-IV, Padova 1973-1979; e, naturalmente, V. Branca, Umanesimo veneziano, pp. 147 ss. Per un'aggiornata valutazione della filologia di Ermolao e del suo circolo nel quadro delle esperienze umanistiche cf. R. Rinaldi, Umanesimo e Rinascimento, pp. 705-713.

23. H. Barbari Castigationes, p. 1208.

24. Giovanni Pozzi, Appunti sul "Corollarium", in AA.VV., Tra latino e volgare. Per Carlo Dionisotti, Padova 1974, p. 635.

25. H. Barbari Castigationes, p. 1209; E. Barbaro, De coelibatu, p. 173.

26. Cf. Angelo Poliziano, Miscellaneorum Centuria Secunda, a cura di Vittore Branca - Manlio Pastore Stocchi, I, Firenze 1972, pp. 8 ss.; e anche per questo e in generale Vittore Branca, Poliziano e l'umanesimo della parola, Torino 1983, pp. 13 ss., 198 ss. (ad indicem, s.v. Ermolao Barbaro numerose altre indicazioni, anche delle utilizzazioni polizianee nella Centuria Secunda e altrove).

27. G. Pozzi in H. Barbari Castigationes, p. LVIII.

28. Ibid., p. CVII.

29. Gian Vincenzo Gravina, Opuscula, Roma 1696, p. 119.

30. G. Pozzi in H. Barbari Castigationes, pp. CVII e CLI.

31. Ibid., pp. CLVII ss. Il testo del Barbaro è a pp. 1208 ss.

32. Guillaume Budé, De Asse, Parigi 1515, pp. 552 e 698.

33. V. per Aldo umanista e anche per le sue connessioni col Barbaro: Carlo Dionisotti, Aldo Manuzio umanista, in Umanesimo europeo e umanesimo veneziano, a cura di Vittore Branca, Firenze 1963, pp. 213-243 Id., Introduzione a Aldo Manuzio editore. Dediche, prefazioni, note ai testi, a cura di Id. - Giovanni Orlandi, I-II, Milano 1976; e anche AA.VV., Venise: une civilisation du livre, Paris 1979; e ultimamente Carlo Dionisotti, Aldo Manuzio umanista e editore, Milano 1995. Per lo stampatore cf. in questo stesso volume il contributo di M. Zorzi.

34. Per il Donà, oltre ai vari articoli cit. in V. Branca, Umanesimo veneziano, pp. 166 ss., v. ora l'eccellente voce Donà, Girolamo di Paola Rigo in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 741-753 (è in corso una monografia a cura di Paola Rigo e Marino Zorzi); e, per la situazione padovana e il Barozzi: Mario Bolzanella, Pietro Barozzi vescovo di Padova (1487-1507), Padova 1941; Franco Gaeta, Il vescovo Pietro Barozzi, Venezia 1958.

35. E. Barbaro, De coelibatu, II 2, p. 76.

36. Sulla "conversione" aristotelica del Poliziano nel soggiorno veneziano del 1479-1480, cf. V. Branca, Poliziano, pp. 15 ss., 33 ss., 56; Lucia Cesarini Martinelli, Un ritrovamento polizianesco: il fascicolo perduto del commento alle "Selve" di Stazio, "Rinascimento", n. ser., 22, 1982 (ma 1983), pp. 183-212; Vittore Branca, Tra Ficino ῾Orfeo ispirato' e Poliziano ῾Ercole eroico', in Marsilio Ficino e il ritorno di Platone. Studi e documenti, a cura di Gian Carlo Garfagnini, II, Firenze 1986, pp. 459-475.

37. A parte gli studi ormai classici su questa famosa disputa cit. in V. Branca, Umanesimo veneziano, pp. 133 ss., si vedano ora quelli rinnovatori di Maria Letizia Panizza, ancora in corso di pubblicazione negli Atti dei convegni sui Barbaro (4-6 novembre 1993: cit. a n. 1) e su Pico della Mirandola (Mirandola, 4-8 ottobre 1994: Centro "Giovanni Pico della Mirandola"). Essi prospettano per la disputa la probabilità che si tratti di una delle non insolite discussioni letterarie fittizie, combinate preventivamente fra i due contendenti, con larghi risvolti ironici e allusivi, con schermaglie artificiose.

38. Rudimenta grammaticae latinae linguae, Venezia 1501, cc. air - aiir.

39. E. Barbaro, De coelibatu, II 3, p. 82.

40. Jacques Lefèvre d'Étaples, Decem librorum moralium Aristotelis tres conversiones, Parigi 1497, IV 8; Franco Simone, Il Rinascimento francese, Torino 1961, pp. 45 ss., 128 Ss. Per la grande "conversazione" europea cf. V. Branca, Umanesimo veneziano, pp. 139 ss., 142 ss., 173 ss.

41. Adagiorum collectanea, Parigi 1500, f. 8; Opus Epistolarum, a cura di Percy S. Allen, I-VII, Oxford 1906-1928: I, p. 293 e VI, p. 18. E per i rapporti di Erasmo con Aldo e gli umanisti dei primi del Cinquecento cf. Augustin Renaudet, Erasme et l'Italie, Ginevra 1954, passim, specialmente pp. 25, 35, 66, 81, 204; e ultimamente C. Dionisotti, Aldo Manuzio, pp. 21 ss.

42. Marc'Antonio Sabellico, Opera, Venezia 1502, c. 94v.

43. Cf. Vittore Branca - Roberto Weiss, Carpaccio e l'iconografia del più grande umanista veneziano (Ermolao Barbaro), "Arte Veneta", 17, 1963, pp. 35-40; e le opere cit. nella n. 90 di V. Branca, Umanesimo veneziano, e quelle pure cit. da P. Fortini Brown e R. Goffen nelle opere già ricordate, passim; e cf. ultimamente Vittorio Sgarbi, Carpaccio, Milano 1995, pp. 19 ss., 72 ss. Per vari aspetti di queste implicazioni: Carlo Dionisotti, Appunti su arti e lettere, Milano 1995.

44. Per i dati della biografia del Bembo e la valutazione storico-critica delle sue opere ho tenuto soprattutto presenti gli scritti del più autorevole e rinnovatore bembista d'oggi, Carlo Dionisotti: Pietro Bembo, Prose e Rime, a cura di Carlo Dionisotti, Torino 19662; Carlo Dionisotti, Pietro Bembo e la nuova letteratura, in Rinascimento europeo e rinascimento veneziano, a cura di Vittore Branca, Firenze 1967, pp. 47-59; Id., Geografia e storia della letteratura italiana, Torino 1967; Id., Bembo, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 133-151. Sono scritti che indicano e utilizzano avvedutamente anche i dati più validi degli studi precedenti (tra i quali campeggia: Vittorio Cian, Un decennio della vita di M. Pietro Bembo, Torino 1885). In particolare per i rapporti con la cultura veneziana: Giancarlo Mazzacurati, Pietro Bembo, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 1-59; per aggiornamenti bibliografici e una più recente visione complessiva dell'opera maggiore: Mirko Tavoni, Prose della volgar lingua, in Letteratura italiana. Le Opere, a cura di Alberto Asor Rosa, I, Torino 1992, pp. 1065-1088; Rinaldo Rinaldi, Umanesimo e Rinascimento, Torino 1993 (Storia della civiltà letteraria italiana, diretta da Giorgio Bàrberi Squarotti, II/2), pp. 1405 - 1427.

45. C. Dionisotti, Bembo, Pietro, p. 133.

46. Cf. V. Branca, Poliziano, pp. 134 ss.

47. G. Mazzacurati, Pietro Bembo, p. 14.

48. C. Dionisotti, Bembo, Pietro, p. 136.

49. Ibid. e Id. dalla Introduzione a Prose e Rime, pp. 37 ss. Ma Dionisotti insiste anche - e a mio avviso eccessivamente su uno stacco del Barbaro e del Poliziano dalla retorica (che Ermolao invece insegna insistentemente e che illustra e difende in varie epistole) per la filologia, l'enciclopedia, la filosofia. Per la polemica con Giovanni Francesco Pico cf. Giorgio Santangelo, Il Bembo critico e il principio di imitazione, Firenze 1950; Le Epistole ῾de Imitatione' di G.F. Pico della Mirandola e di P. Bembo, a cura di Giorgio Santangelo, Firenze 1954; Theodor W. Elwert, Studi di letteratura veneziana, Venezia-Roma 1958, pp. 124 ss.; Carlo Carena in Giovanni Pico, De hominis dignitate, Milano 1994, Introduzione e pp. 141 ss.

50. Anche il tardo impiego del Bembo come storiografo ufficiale della Serenissima è non politico, ma tutto letterario e di convenienza (cf. G. Benzoni, Scritti storico-politici). Anche il ritorno in territorio veneto, specialmente dopo gli anni Trenta, con lunghe dimore nell'amata villa patavina - interrotte dai non brevi soggiorni a Roma e a Gubbio - significa soltanto la ricerca di un "buen retiro", di un otium tutto letterario (cf. C. Dionisotti, Introduzione a Prose e Rime, pp. 48 ss.).

51. Galateo [Antonio de Ferrariis], Epistole, a cura di Antonio Altamura, Lecce 1959, p. 747.

52. Girolamo Donà, De Processione Spiritus Sancti, in Scriptorum veterum nova collectio, VII, Roma 1883, p. 131; e Marc'Antonio Sabellico, Opera, Basilea 1560, IV 47a.

53. Vittore Branca, L'humanisme vénitien et l'art du livre, in AA.VV., Venise: une civilisation du livre, Paris 1979, pp. 7-10. Cf. Philippe Braunstein, Les Allemands et la naissance de l'imprimerie vénitienne, "Études Italiennes", 27, 1981, pp. 381-389. Per l'accenno successivo all'arte del dialogo come genere nel tardo Rinascimento europeo cf. David Marsh, The Quattrocento Dialogue. Classical Tradition and Humanist Innovation, Cambridge, Mass. 1980; Jon R. Snyder, Writing the Scene of Speaking: Theories of Dialogue in the Late Italian Renaissance, Stanford 1989; R. Girardi, La società del dialogo, retorica e ideologia nella letteratura conviviale del Cinquecento, Bari 1989; Virginia Cox, The Renaissance Dialogue. Literary Dialogue in Its Social and Political Context, Castiglione to Galileo, Cambridge 1992.

54. Marc Fumaroli, L'dge de l'éloquence, Genève 1980; e Venise et la République des Lettres, in AA.VV., Crisi e rinnovamento nell'autunno del Rinascimento a Venezia, Firenze 1991.

55. Per tutto questo cf. vari contributi negli Atti del convegno sui Barbaro cit. alla n. 1.

56. C. Dionisotti, Geografia e storia della letteratura italiana, p. 71; E. Massa, L'eremo, la Bibbia e il Medioevo, passim.

57. Per questo, oltre che in generale in V. Branca, Umanesimo veneziano, pp. 169 ss., e Giorgione e l'Umanesimo veneziano, cf. V. Branca - R. Weiss, Carpaccio e l'iconografia; e gli Atti del convegno sui Barbaro cit. alla n. 1. Per il rapporto Barbaro-Galileo, cf. Vittore Branca, Galileo fra Petrarca e l'Umanesimo Veneziano, in AA.VV., Galileo e la cultura veneta, Venezia 1995.