L'Ottocento: scienze mediche. Lo studio eziopatologico delle malattie infettive

Storia della Scienza (2003)

L'Ottocento: scienze mediche. Lo studio eziopatologico delle malattie infettive

Bernardino Fantini

Lo studio eziopatologico delle malattie infettive

Il XIX sec. rappresenta una fase fondamentale nello studio delle cause delle malattie infettive e parassitarie e nella messa a punto di metodi efficaci per contrastarle. Ciò si realizza attraverso una serie di profonde innovazioni teoriche e pratiche, che si succedono per tutto l'Ottocento: l'origine della medicina clinica e della medicina scientifica nei primi decenni del secolo, la 'rivoluzione microbiologica' legata ai nomi di Louis Pasteur e Robert Koch, lo sviluppo delle tecniche di osservazione e sperimentazione, la medicina di laboratorio, in primo luogo la microscopia, e le tecniche di coltura artificiale. L'introduzione del concetto di specificità fisiologica e patologica e la sua nuova definizione ‒ da parte di Pasteur e Koch nel campo delle malattie infettive e di Rudolf Virchow per la localizzazione cellulare dell'insieme delle patologie ‒ denotano la fase decisiva della medicina scientifica ottocentesca. Le analogie, che costituivano il principale strumento argomentativo, vengono sostituite da pratiche scientifiche che trovano nel laboratorio la loro forza dimostrativa. La diffusione in medicina del metodo sperimentale e del connesso determinismo causale è un carattere altrettanto essenziale, legato alla possibilità di controllare i fenomeni vitali, di dominarli e quindi di riprodurli. L'introduzione della medicina di laboratorio segna il passaggio da una causalità vaga, indefinita, all'individuazione di 'una' causa singola, specifica di 'un' fenomeno fisiologico o patologico.

La struttura teorica della microbiologia e i suoi procedimenti sperimentali riducono i fenomeni del contagio e dell'infezione a una relazione biologica fra un parassita, il vettore eventuale e il suo ospite, con il conseguente abbandono delle teorie miasmatiche e l'identificazione fra contagio e infezione, concetti che fino ad allora erano stati considerati individualmente. Una malattia contagiosa (infettiva) è determinata dalla presenza 'continua' e 'costante' di un germe (microrganismo) 'specifico' che si sviluppa nell'organismo e che è la 'causa specifica' della malattia, anche se altri fattori ('terreno', 'costituzione') possono modularne l'azione. Il terreno può modificare l'azione del germe e lo sviluppo della malattia, ma non può modificarne la 'specie'.

Attraverso l'affermazione di una legge generale (ogni malattia infettiva è una malattia dovuta a un germe specifico) e lo studio causale delle singole malattie epidemiche diviene possibile comprenderne la specificità e la distribuzione epidemiologica e geografica, dovuta alle caratteristiche biologiche del germe, alle reazioni dell'ospite e alla natura del 'terreno' in cui le relazioni germe-ospite si realizzano. Questa conoscenza 'locale', al tempo stesso generale e specifica, permette di indirizzare adeguatamente le misure preventive e terapeutiche verso obiettivi precisi, rendendole efficaci. In questo ambito, alcune malattie epidemiche, come la tubercolosi, la malaria, il colera, la peste, la rabbia divengono paradigmatiche per l'importanza della loro presenza epidemica o per il loro valore simbolico, metaforico. La scoperta della loro eziologia e dei meccanismi di trasmissione fornirà una nuova base razionale alle politiche sanitarie.

La conoscenza scientifica delle cause delle epidemie

Nella prima metà dell'Ottocento l'ampia e costante diffusione delle malattie infettive e il drammatico arrivo delle pandemie di colera rilanciarono il dibattito sulla natura e le cause di tali malattie, sui meccanismi della loro diffusione e sulla apparentemente disordinata distribuzione geografica e sociale. In ambiente medico e più in generale nell'opinione pubblica, si ammetteva la natura contagiosa di molte malattie epidemiche, ma senza una coerente teoria che potesse legare insieme cause, effetti, variazioni nel tempo e nello spazio delle loro manifestazioni. Veniva avanzata una lunga serie di ipotesi, di osservazioni microscopiche ed epidemiologiche, di teorie che mettevano in relazione l'infezione, il contagio, i miasmi, la corruzione, la fermentazione, la putrefazione. Il passaggio da queste ipotesi sulla natura dei contagi e dell'infezione a una teoria scientifica che ne permettesse la differenziazione e una spiegazione unitaria fu il risultato dello sviluppo di una nuova disciplina: la microbiologia. Il termine fu introdotto ufficialmente nel 1881 da Pasteur in alternativa al tedesco Bakteriologie (batteriologia), in occasione del Congresso internazionale di medicina di Londra, che sancì il trionfo della teoria dei germi per la spiegazione dell'eziologia di alcune grandi malattie e della teoria biologica che ne era alla base. Questa nuova disciplina inserì il concetto di germe e di infezione all'interno di una definizione generale di vita basata sulla teoria cellulare e, quindi, sulla continuità nel tempo e nello spazio dell'organizzazione biologica e sull'evoluzione, intesa anche come lotta interspecifica fra specie diverse (in questo caso il microbo e il suo ospite).

La teoria che anche elementi 'organizzati', 'esseri viventi microscopici', fossero coinvolti nei contagi e nell'eziopatogenesi delle malattie, benché avanzata in più occasioni sin dal Seicento, non era mai stata dimostrata sperimentalmente. Osservati con precisione già da Antoni van Leeuwenhoek (1632-1723), gli organismi microscopici divennero oggetto di interesse scientifico soltanto all'inizio dell'Ottocento sia per effetto del miglioramento del microscopio (l'utilizzazione delle lenti acromatiche da parte di Giovanni Battista Amici permise di eliminare le aberrazioni ottiche che avevano fatto osservare 'globuli' e 'animalculi' in tutti i preparati), sia grazie allo sviluppo della tassonomia, basata sul concetto di continuità e permanenza dell'organizzazione morfologica. Christian Gottfried Ehrenberg (1795-1876) può essere considerato il primo rigoroso tassonomista dei batteri. La sua opera principale, Die Infusionsthierchen als vollkommene Organismen (Gli infusori come organismi perfetti, 1838), arricchita da 64 riproduzioni a colori, e le Recherches sur l'organisation des animaux infusoires pubblicate l'anno successivo di seguito a un trattato pratico di microscopia applicata 'allo studio dei corpi organizzati', stabiliscono con chiarezza i limiti del 'mondo microscopico'. Sino a Pasteur, il termine 'germe' veniva ancora utilizzato in senso tradizionale, in riferimento a un'entità capace di dare origine a una nuova entità, un organismo simile a esso. Furono i botanici e i naturalisti, come Ferdinand Julius Cohn (1828-1898) e Heinrich Anton de Bary (1831-1888), a definire lo statuto tassonomico di tali 'germi', impostazione che divenne parte integrante della scuola batteriologica tedesca creata da Koch. Cohn, professore di botanica e fisiologia vegetale a Breslavia, negli anni Settanta svolse un'approfondita ricerca sui batteri, pubblicandone i risultati nella rivista "Beiträge zur Biologie der Pflanzen" da lui fondata. Il principale obiettivo è tassonomico: ottenere una classificazione sistematica di tutti i batteri basata sulla morfologia (di qui i nomi cocchi, bacilli, vibrioni, spirochete), studiandone al contempo anche il metabolismo.

Queste teorie, insieme allo studio scientifico della vita microbica e del suo ruolo eziologico nelle malattie epidemiche, si scontrarono tuttavia con una serie di difficoltà epistemologiche che ne ostacolarono la diffusione e l'accettazione. Ci si domandò, per esempio, se un essere vivente che si poteva isolare nell'organismo fosse veramente la causa della malattia e non invece una conseguenza della malattia stessa, un ospite parassitario di un tessuto malato: una copresenza non costituisce, infatti, un legame causale. Inoltre, ci si interrogò sulle ragioni dell'incostanza di una tale eventuale patogenicità, della grande variabilità delle manifestazioni cliniche e geografiche di una infezione e del fatto che alcune persone ne venissero colpite e altre no, alcune regioni ne fossero toccate e altre no, pur essendo apparentemente nelle stesse condizioni. Si pose l'attenzione, infine, sul perché alcune epidemie arrivassero, scomparissero per poi riapparire, alcune senza un'apparente regolarità, altre con grande regolarità.

Un'ulteriore difficoltà epistemologica era legata al concetto stesso di malattia infettiva: ci si domandava in cosa consistesse e se si trattasse di qualcosa che colpiva l'organismo dall'esterno oppure se fosse la reazione dell'organismo a un tale stimolo. I grandi sistemi medici, dominanti nella prima metà dell'Ottocento, concepivano la malattia come interna all'organismo, mentre le cause esterne, come i contagi, potevano solo essere degli stimoli aspecifici delle malattie o, piuttosto, della malattia al singolare.

Infine, anche ammettendo che il contagio sia di natura vivente, ossia trasmesso da un organismo vivente, ciò non comporta necessariamente che la causa dell'infezione e quindi della malattia, sia l'organismo stesso. Contagio e infezione sono infatti considerati due fenomeni differenti, essendo il primo il 'meccanismo' di trasmissione, la seconda la 'cosa' o la 'qualità' che viene trasmessa. Così si può immaginare che l'infezione resti un fenomeno puramente chimico (per es., una fermentazione) prodotto da un agente chimico trasferito da un organismo vivente, il quale svolge il ruolo di ciò che la parassitologia moderna chiamerebbe 'vettore'.

I clinici, insistendo sulla variabilità delle manifestazioni patologiche, si 'occupano' esclusivamente dei possibili fattori interni e/o individuali delle malattie (chiamati di volta in volta 'predisposizioni', 'costituzioni', 'diatesi') o dei fenomeni accidentali (le ferite, le fratture, le intossicazioni). Gli igienisti, invece, ricercano le cause delle malattie nell'ambiente esterno, nelle condizioni di vita, di lavoro e geografiche. Infine, la 'medicina scientifica', con la patologia cellulare, la chimica fisiologica, la fisiologia sperimentale, insistendo sul carattere scientifico, di laboratorio, sull'oggettività e la riproducibilità dei risultati, studia i fattori interni dell'organismo, ridefinendo i legami fra il normale e il patologico, mettendo in luce la natura e la dinamica dei processi patologici come risultato dell'alterazione di equilibri fisiologici. Le ricadute pratiche di queste ricerche di base, nella clinica, nella terapia, nella sanità pubblica e nella comprensione causale delle malattie epidemiche risultano però essere molto limitate.

Nei primi decenni dell'Ottocento la rivoluzione anatomo-clinica stabilì una correlazione fra il sintomo rilevato al letto del malato e l'alterazione tissutale verificata necroscopicamente. La specificità di una malattia, la sua natura unica e particolare, è dunque legata a una lesione anatomica in essa costantemente presente, lesione che potrà essere riconosciuta grazie all'osservazione dei sintomi o all'autopsia. Su questa premessa teorica, Pierre Bretonneau (1778-1862) affermò che la specificità clinica delle malattie deve trovare una spiegazione nella specificità eziopatogenica e, a partire dal 1818, riconobbe la difterite come una entità nosologica distinta dalle altre 'infiammazioni', basandosi sulla specificità della lesione. Generalizzando questa idea e riprendendo la lezione nosologica di Philippe Pinel ‒ in antitesi con François-Joseph-Victor Broussais e la sua scuola che sostenevano una teoria generalizzata della 'infiammazione' ‒ Bretonneau insistette sulla specificità delle varie malattie, distinguendo chiaramente i diversi tipi di 'febbre' e d'infiammazione localizzata, sulla base della costanza delle manifestazioni cliniche, della particolarità e distinguibilità della lesione morfologica associata alla malattia e anche della possibilità della loro trasmissione interpersonale e quindi della costanza della causa 'esterna'.

L'impatto delle pandemie di colera

Il dibattito sulla natura parassitaria, contagiosa delle malattie epidemiche acquistò centralità a causa del sopraggiungere in Europa, dopo diversi decenni di assenza, della prima grande ondata epidemica di colera. Nell'Ottocento si verificarono, oltre a questa, altre quattro rilevanti pandemie e la lettura che di esse viene data è un preciso riflesso dei profondi cambiamenti teorici di questo periodo, di cui il colera rappresenta la malattia paradigmatica.

La prima fiammata epidemica di questa malattia si ebbe nel 1817, dopo la conquista dell'India da parte delle truppe coloniali inglesi e si sviluppò sino al 1823. Partendo da Jessora nel Bengala, il colera si espanse verso la Birmania, la Tailandia, Giava, dove uccise il 10% della popolazione, raggiunse poi le province meridionali della Cina, la Malesia e il Giappone, contaminò le isole dell'Oceano Indiano, il Madagascar e la zona litorale dell'odierna Tanzania, senza tuttavia diffondersi sul continente africano. Si stabilì poi sulle rive del Golfo Persico e in Arabia, salì lungo la Persia e giunse al Caucaso e sulle rive del Mar Caspio, arrestandosi ai confini dell'Impero russo.

La seconda pandemia (1826-1837) ebbe origine sempre in India e si diffuse lungo le vie usuali in Asia e in Medio Oriente. Superata la barriera del Caucaso, dove la scarsità di popolazione aveva fermato la prima epidemia, giunse nel 1830 nella Russia Bianca, poi si manifestò nei porti del Baltico, Riga in particolare. Contemporaneamente, il conflitto russo-polacco condusse numerose truppe contaminate nell'Europa centrale. In meno di due anni l'agente patogeno passò dalle rive del Mar Caspio al Tamigi, aggredendo un'area geografica nella quale le condizioni sanitarie e l'abilità dei medici erano considerate avanzate.

A differenza delle pandemie di peste, febbre gialla o malaria, la propagazione del colera non dipende da popolazioni di roditori o insetti, ma dagli spostamenti delle popolazioni umane. Già nel 1831 Alexandre Moreau de Jonnès, nel Rapport au Conseil Supérieur de Santé sur le choléra-morbus pestilentiel, aveva dimostrato, carte geografiche alla mano, che il colera marciava al passo dell'uomo e del cammello, seguiva i battellieri e i mercanti.

Il colera giunse in Inghilterra nel 1831 a causa del commercio con i porti russi del mar Baltico e provocò 5.500 morti. In Francia, dove si ebbero più di 100.000 morti, arrivò attraverso due vie diverse: dall'Inghilterra, con i contrabbandieri di Calais e dalla Polonia, tramite le missioni mediche che vi si erano recate per analizzare il fenomeno. Successivamente la pandemia si spinse a sud, colpendo nel 1834 la Spagna e nel 1835 l'Italia: in aprile a Milano, a Venezia in ottobre, Roma e Palermo nel luglio del 1837. Sempre seguendo le vie commerciali, il colera si trasferì sul continente americano (1832-1833), dove rimase attivo sino al 1837.

Le vie di diffusione della terza pandemia (1841-1859) furono le stesse delle precedenti, ma si ampliarono ulteriormente i limiti geografici che raggiunsero la Scandinavia e l'America Meridionale in due fasi successive, dal 1841 al 1850 e dal 1851 al 1859; questa epidemia fu particolarmente violenta, mietendo 150.000 vittime nella sola Francia.

La quarta pandemia (1863-1875) evidenziò nuove vie di propagazione, in particolare il Mediterraneo come area di comunicazione. La diffusione dei battelli a vapore, infatti, aveva consentito di velocizzare i trasporti, mentre la costruzione del Canale di Suez, inaugurato nel 1869, aveva prima richiamato una vasta e mobile manodopera, e poi fatto aumentare i flussi commerciali con l'Arabia e l'India. Inoltre, l'epidemia estese la propria penetrazione in Africa e aumentò la dimensione dell'invasione del continente americano.

L'area geografica colpita dalla quinta pandemia (1881-1896) fu la stessa della precedente, ma la diffusione fu molto minore, soprattutto nei paesi sviluppati, grazie a una efficace opera di prevenzione e di controllo degli accessi alle frontiere. La rivoluzione pasteuriana e l'isolamento dell'agente patogeno da parte di Koch nel 1884 avevano reso la diagnosi batteriologica relativamente facile e permisero di adottare la quarantena ed efficaci controlli sanitari.

La reazione degli ambienti medici e igienisti a queste epidemie fu vigorosa. Le missioni di studio s'intensificarono, furono pubblicate molte riviste specializzate (dodici nuove soltanto tra il 1831 e il 1832) e si moltiplicarono i rapporti e i trattati. L'impatto emotivo sulla popolazione fu egualmente terribile. La seconda pandemia arrivò in Europa in un'epoca di grande sviluppo economico e industriale che aveva quasi perduto memoria delle grandi malattie epidemiche del passato. L'Inghilterra non aveva più conosciuto la peste dopo il 1665 e l'ultima grande epidemia in Europa era stata la peste di Marsiglia del 1720, che però non si era propagata altrove.

Il relativo miglioramento delle condizioni di salute in Europa e lo sviluppo demografico vengono attribuiti in buona parte al successo delle politiche igieniche messe in atto a partire dalla fine del XVIII secolo.

Il movimento igienista

Se l'igiene era stata una componente costante del pensiero e della pratica medici, da Ippocrate ai Regimina sanitatis medievali, ai trattati settecenteschi sull'arte di 'prolungare la vita umana' e agli 'avvisi al popolo sulla sua salute', questa era intesa esclusivamente nell'accezione individuale, con un insieme di suggerimenti sui modi per garantire una buona costituzione e diminuire i rischi di malattie, attraverso il regime, l'esercizio fisico e la pulizia personale. Il nuovo 'igienismo', invece, si rivolgeva agli ambienti di vita e di lavoro, all'educazione alla pulizia personale, al controllo degli alimenti e dell'acqua, alla costruzione di abitazioni e spazi 'salubri'.

Il movimento igienista, nonostante alcuni successi importanti, fu tuttavia fortemente limitato dalla mancanza del concetto di specificità delle malattie e di conoscenze metodologicamente fondate sulla loro eziologia. Nel pensiero igienista, una malattia epidemica può essere causata da una serie pressoché infinita di fattori diversi: il terreno, l'aria, l'acqua, gli alimenti, i miasmi, i rifiuti, l'urbanizzazione, il lavoro, la sessualità, un comportamento immorale o la cattiva educazione. Dato che nessuna causa sembra davvero sicura e tutte sembrano mescolarsi e agire contemporaneamente, l'una favorendo l'altra, nessuna di esse può essere trascurata e le misure prese per combattere le epidemie o le malattie endemiche dovrebbero essere altrettanto varie e numerose. L'efficacia dei provvedimenti, in mancanza di obiettivi precisi, fu molto scarsa e lo stile di intervento degli igienisti era in effetti caratterizzato piuttosto da una panoplia di consigli, di statistiche, di rimedi empirici, di precauzioni da assumere e di regole da seguire.

La teoria alla base del movimento igienista era in larga parte miasmatica, in quanto attribuiva ai 'veleni' presenti nell'ambiente, nel suolo, nell'aria o nell'acqua, la causa delle epidemie, per il principio classico che nega il contagio, osservando che la malattia colpisce molte persone allo stesso tempo. I sostenitori della teoria miasmatica o di quella chimica fornirono indicazioni precise su come assicurare la purezza dell'acqua, la freschezza degli alimenti e su come eliminare i rifiuti urbani, le putredini, la sporcizia, in modo da ridurre i miasmi. Queste azioni, soprattutto nei sovraffollati ambienti urbani, diedero risultati positivi, rafforzando la teoria che ne è alla base.

La prevenzione a livello individuale e collettivo sembra poter supplire all'ignoranza quasi totale sull'eziologia delle malattie infettive e sulle relative terapie. Il miglioramento dello stato di salute in Europa è un dato costante per tutto l'Ottocento, ma tali risultati sono sempre molto limitati e sfuggono a ogni controllo e previsione, soprattutto nel momento delle grandi epidemie di colera, di tifo, di vaiolo o di malaria. Durante l'epidemia di colera che si diffuse negli anni Trenta, i vari governi, sotto la pressione popolare, applicarono diverse misure di prevenzione, come la chiusura delle frontiere e la quarantena ai porti d'ingresso, allo scopo di rassicurare la popolazione attraverso una protezione efficace, creando un sentimento di sicurezza in gran parte infondato. Le misure di quarantena comportano infatti ritardi costosi e un aumento notevole delle spese di spedizione a causa dell'immobilizzazione delle navi e del personale, dell'isolamento dei passeggeri e dell'impossibilità di trasportare derrate deteriorabili. Tali misure vengono applicate più per tranquillizzare che per impedire la diffusione della malattia, che tra l'altro si propaga per terra e non per mare. Esse sono non tanto un rimedio al colera, quanto una risposta al panico che la malattia provoca nell'opinione pubblica.

La teoria chimica o miasmatica ammette che le sostanze in decomposizione, anche in piccole quantità, siano capaci di provocare nell'organismo delle modificazioni patologiche 'per contatto', moltiplicando in questo modo i 'focolai' d'infezione, in quanto alla fine si produce una sostanza uguale a quella che ha dato origine al processo. La moltiplicazione chimica è come una reazione a catena e viene paragonata alla trasmissione del fuoco da una casa a un'altra vicina o anche lontana se una fiammella è trasportata dal vento. Le teorie 'chimiche' del contagio sono dominanti intorno alla metà del XIX sec. e si accompagnano perfettamente alle politiche igieniche dell'epoca che insistevano sul controllo degli elementi ambientali, come l'acqua, l'aria, le abitazioni. Questa è la base teorica della proposta di John Snow (1813-1858) sulla trasmissione idrica del colera. Snow dimostrò, attraverso l'analisi epidemiologica e di casi individuali, che la diffusione del contagio avviene attraverso l'uso di acqua prelevata da pompe probabilmente inquinate. Il colera, secondo Snow, è una malattia contagiosa, provocata da un veleno capace di riprodursi all'interno dei corpi delle vittime. L'agente contagioso viene paragonato a un fermento che si rinnova continuamente e in questo modo altera il mezzo circostante, producendo, ma anche subendo, variazioni molecolari continue. Il veleno, che si trova negli escrementi e nel vomito dei malati, è responsabile della diffusione della malattia poiché inquina in particolare l'acqua; la purificazione di questa è quindi il 'rimedio principe' nella lotta contro il colera.

Un'ipotesi analoga venne avanzata a proposito della contagiosità della febbre tifoide da William Budd (1811-1880) che, insieme al chirurgo scozzese Joseph Lister (1827-1912), sostenne la teoria dei funghi come causa delle malattie contagiose, in particolare del colera, in analogia con quanto si sapeva sui funghi parassiti dei vegetali. I lavori di Pasteur sui microrganismi, la putrefazione e la fermentazione, riletti da Lister su questa base teorica, saranno il fondamento razionale delle prime misure di antisepsi proposte dall'igienista inglese. Sono ben note le applicazioni precoci dei principî pasteuriani nella conservazione degli alimenti, del latte, grazie alla 'pastorizzazione', nella produzione del vino e della birra. In campo strettamente medico, la prima applicazione pratica del pasteurismo fu l'antisepsi. Nel 1865 Lister osservò la presenza di germi nelle piaghe purulente e notò la somiglianza tra la fermentazione e la putrefazione delle ferite. Riprendendo l'idea di Pasteur della presenza di batteri responsabili della fermentazione, Lister attribuì ai batteri anche la putrefazione e saggiò una serie di sostanze chimiche capaci di distruggerli; tra queste scelse l'acido carbolico in forma spray che colpiva i batteri trasportati nell'aria, permettendo così lo sviluppo della chirurgia antisettica. Queste tecniche comportarono una crescita rapida e rigogliosa della chirurgia e di conseguenza sono diventate un sostegno potente per la teoria che ne è alla base.

L'altra grande figura della sanità pubblica dell'Ottocento inglese, William Farr (1807-1883), propose nel 1837 una nomenclatura sistematica di epidemie, endemie e malattie contagiose, che egli definiva "di natura specifica" e di cui era nota, per esperienza, la capacità di "divenire epidemiche in luoghi insalubri tra le classi malate, a intervalli di tempo più o meno grandi" (Farr 1852). Farr tentò di stabilire, servendosi di dati statistici, una sorta di 'legge delle epidemie', in modo da poterne predire i cicli. Tali malattie vengono considerate 'zimotiche' o 'di fermentazione' sulla base della teoria di Liebig che definiva la fermentazione un processo puramente chimico. Secondo Farr, alcune malattie contagiose sono il prodotto di reazioni chimiche ordinarie, dovute a 'materie' che possono trovarsi nell'ambiente e trasmettersi da una persona a un'altra, agendo grazie a una sorta di fermentazione, in una parte specifica del corpo oppure nell'insieme dell'organismo; tale fermentazione si manifesta con eruzioni cutanee, tipiche delle malattie esantematiche. Altre malattie vengono attribuite invece alla distruzione di materia organica, che 'si consuma' putrefacendosi e viene perduta. Da qui la 'consunzione', come veniva chiamata la tubercolosi, e le malattie diarreiche, come il colera e la dissenteria.

Protagonista indiscusso del movimento igienista e maestro di tutti i più importanti igienisti europei della seconda metà del XIX sec. fu Max Josef von Pettenkofer (1818-1901), che introdusse il metodo sperimentale nel campo dell'igiene. La creazione a Monaco di Baviera, nel 1878, dell'Istituto di igiene, posto sotto la sua direzione e dotato di laboratori di ricerca, aule e personale specializzato, segnò il passaggio all'igiene scientifica e sperimentale. Chimico di formazione, Pettenkofer negli anni Cinquanta dell'Ottocento riconobbe l'importanza della ricerca di base relativamente all'igiene alimentare e all'insalubrità degli ambienti chiusi. Il suo interesse si concentrò soprattutto sullo studio chimico dell'ambiente, del terreno in particolare, e delle sue modificazioni come causa delle epidemie. Per spiegare le epidemie di colera, nel 1869 introdusse una triade di fattori: un fattore x, dovuto al contatto tra le persone e un secondo fattore y dovuto al terreno, entrambi indispensabili per produrre z, il vero agente patogeno del colera. Anche ammettendo l'ipotesi di un germe trasmissibile, questo da solo non avrebbe però potuto causare la malattia; si trattava quindi di una teoria eminentemente chimico-fisica e localistica.

Sulla base di questa ipotesi, Pettenkofer suggerì una profilassi del colera basata su interventi che potessero ridurre drasticamente l'impregnazione del suolo con escrementi di uomo e animali. Per rimuovere le cause della malattia propose, quindi, un controllo mediante sistemi di drenaggio e fognature, che egli stesso coordinò per la città di Monaco, la fornitura di acqua potabile, la canalizzazione degli scarichi liquidi, la raccolta di quelli solidi, la pavimentazione e l'asfaltatura delle strade; tutte misure che in effetti ebbero un forte impatto positivo nell'igiene pubblica delle città.

Per quanto riguarda la causa eziologica del colera, le osservazioni microscopiche e cliniche si moltiplicarono negli anni Cinquanta e durante l'epidemia del 1854 diversi ricercatori individuarono i bacilli responsabili della malattia, fra questi l'italiano Filippo Pacini (1812-1883) e il catalano Joaquín Balcells (1807-1879). Pacini è considerato il vero scopritore del bacillo colerico (1854), ben prima di Koch; la tassonomia ha attribuito all'agente eziologico del colera il nome di Bacillus cholerae. Ancora una volta, però, le questioni di priorità sono mal poste. L'osservazione del bacillo è stata accettata dalla comunità scientifica e posta alla base di una politica sanitaria solo quando essa è stata integrata, a opera di Koch, all'interno di una teoria scientifica sufficientemente forte sulla natura delle malattie infettive, capace di spiegare anche i meccanismi di trasmissione e l'epidemiologia.

Le prime dimostrazioni dell'eziologia microbica delle malattie contagiose

Nel 1837 Agostino Maria Bassi (1773-1856) fornì la prima prova propriamente sperimentale che la causa di una malattia infettiva in un animale (il baco da seta) possa essere attribuita a una infezione provocata da un essere vivente microscopico. Egli pubblicò due volumi sul Mal del segno, calcinaccio o moscardino (1835-1836), in cui dimostrava che il mal del calcino, una malattia molto diffusa del baco da seta, è dovuta a un fungo parassita visibile al microscopio e formulò l'ipotesi che la maggior parte delle malattie contagiose fosse provocata da questo tipo di microrganismi parassiti. L'osservazione sul baco da seta venne poi confermata da Jean-Victor Audouin nel 1837 e il parassita successivamente prese il nome di Botrytis bassiana. Dalle sue osservazioni Bassi trasse la conclusione generale che tutti i contagi, di qualunque specie, siano prodotti da esseri microscopici, vegetali o animali.

Altre osservazioni sui parassiti vennero realizzate negli anni seguenti e la teoria di Bassi fu ripresa e sviluppata dall'anatomista tedesco Jacob Henle (1809-1885), che osservò al microscopio gli 'infusori epidemici'. In un capitolo sui contagi e miasmi e sulle malattie 'miasmatico-contagiose' del volume Pathologische Untersuchungen (1840), Henle precisò anche le regole sperimentali per poter decidere se un agente microscopico sia all'origine di una malattia; egli affermò che la "materia dei contagi" è non solo organica, "ma anche animata, cioè dotata di vita indipendente, e può essere considerata come un organismo parassitario del corpo malato" (Henle 1840, p. 42). Questa 'materia' è specifica, in quanto i contagi sono di natura differente, producendo delle manifestazioni cliniche ed epidemiologiche diverse fra loro. La specificità della 'materia' è dunque la base della specificità delle malattie 'miasmatico-contagiose'. Henle suggerì un modo per dimostrare questa ipotesi introducendo un metodo di lavoro che sarà in seguito sviluppato da Edwin Klebs e Koch e costituirà la base metodologica della batteriologia: "Per provare che essi sono realmente la causa materiale [della malattia] sarebbe necessario isolare gli organismi contagiosi e poi osservare in modo specifico la capacità di ognuno di questi per vedere se essi corrispondono. Ma questo è un esperimento che non può essere realizzato" (ibidem, p. 78). In effetti Henle, per quanto abile microscopista, non riuscì a dimostrare la presenza di germi specifici in ogni caso di malattia e questo, in un'epoca di grande sviluppo delle scienze morfologiche e della teoria cellulare, fu un importante punto a favore dei sostenitori delle teorie 'zimotiche' o miasmatiche. Egli, inoltre, non sostenne che i contagi consistono necessariamente di organismi viventi e non abbandonò l'idea della formazione di strutture organizzate a partire da materia non organizzata. Soltanto dopo la messa a punto da parte di Pasteur e Koch di nuovi protocolli sperimentali, e in particolare l'uso dei modelli animali, l'esperimento proposto da Henle divenne in effetti possibile.

Un caso celebre, che mostra la difficoltà di sviluppare e far accettare l'idea di individuare nel contagio la causa delle malattie infettive, è costituito dalla scoperta da parte di Ignaz Philipp Semmelweis (1818-1865) della natura contagiosa della febbre puerperale.

Semmelweis affermò essere 'necessaria' la presenza di una 'materia infetta' come causa della malattia e della sua diffusione nelle cliniche ostetriche, materia che poteva essere eliminata con l'igiene delle mani degli operatori sanitari. In questa teoria non c'è l'idea di una partecipazione di batteri o 'germi' nel contagio, il che mette in discussione il mito di Semmelweis incompreso precursore di Pasteur e Koch. Semmelweis conservò invece il concetto classico di 'infezione', come sostanza tossica di natura cadaverica (cadaveröse Geruch), la quale entrando in contatto con la materia organica la contamina, provocandone a sua volta la putrefazione. Egli fu contrario alla teoria del contagium vivum e il rimedio che propose, l'uso del cloro, fu considerato come un 'antidoto' alla sostanza tossica che, in pratica, si rivela efficace perché uccide i germi trasmessi.

Casimir Davaine (1812-1882) fu il primo a parlare con chiarezza del legame fra presenza di organismi microscopici e malattie contagiose, in particolare per il carbonchio. In una serie di esperimenti realizzati con il suo maestro Pierre-François-Olive Rayer (1793-1867), inoculando il sangue di milza di una pecora infetta in una pecora sana, i due ricercatori riuscirono a ottenere la trasmissione del contagio. Essi osservarono alcuni corpuscoli filiformi nel sangue degli animali infetti, ma non gli attribuirono una grande importanza. Questi risultati vennero pubblicati da Rayer nell'articolo Inoculation du sang de rate (1850), che descrive petits corps filiformes, della "lunghezza di un globulo sanguigno", osservando anche che essi non sembrano "presentare dei movimenti spontanei".

Davaine fu spinto a interessarsi di nuovo del carbonchio dopo la pubblicazione nel 1861 dei lavori di Pasteur sul fermento butirrico, in cui era indicato come responsabile della fermentazione un corpuscolo filiforme; egli rese noti i risultati delle nuove ricerche in quattro articoli pubblicati tra il 1863 e il 1864 nei quali si afferma la presenza di 'germi', chiamati nell'ultimo articolo bactéridies, nel sangue degli animali infetti che vengono considerati simili ai vibrioni della putrefazione. Finalmente, nel 1868 Davaine, inoculando una soluzione di sangue in cui erano presenti i germi in piccola concentrazione, riuscì a produrre il carbonchio in animali di laboratorio, concludendone che i bactéridies devono essere considerati gli agenti eziologici di questa malattia.

Le 'malattie microbiche' sono piuttosto delle specie di fermentazioni, di putrefazioni, causate da vibrioni, batteri, vegetali analoghi a quelli dei lieviti, che si nutrono della materia organica vivente, come i bacilli della putrefazione si nutrono di quella in decomposizione. Davaine notò il parallelismo fra "i vibrioni della putrefazione e quelli che costituiscono dei virus quando sono introdotti nell'economia animale". Le 'malattie microbiche' sono dunque delle fermentazioni, ognuna dotata di una propria specificità, come le fermentazioni ordinarie, poiché ognuna implica un lievito diverso e specifico, come mostrato da Pasteur.

Le basi teoriche della nuova disciplina

Nel 1865 Louis Pasteur fu indotto allo studio delle malattie infettive da una doppia sollecitazione: scientifica, perché l'ipotesi che germi potessero essere responsabili delle malattie contagiose era una conseguenza diretta delle sue ricerche sulla fermentazione e della 'teoria dei germi' che ne era l'espressione teorica e pratica, perché su pressante richiesta dei produttori, Pasteur decise di occuparsi delle malattie del baco da seta, responsabili di una disastrosa riduzione della produzione di seta in Francia.

L'opera di Pasteur segna un'epoca, separando due periodi ben distinti della storia della medicina. Più in generale, le conseguenze del 'pasteurismo' sono presenti nella vita quotidiana (pastorizzazione del latte e degli alimenti), come nella pratica medica anche al livello familiare (antisepsi, pratiche igieniche, cura dei bambini, ecc.). Il mito di Pasteur si costruisce intorno a quattro elementi: (a) il controllo della fermentazione, che ha permesso l''addomesticamento' della vita microbica e la sua utilizzazione in modo mirato; (b) la scoperta del principio della 'vaccinazione'; (c) la 'dimostrazione pubblica' a Pouilly-le-Fort nel 1881 del valore pratico della vaccinazione e della sua efficacia nella lotta contro il carbonchio; (d) l'applicazione della vaccinazione all'uomo nel caso della rabbia nel 1885. Quest'ultimo evento ha consegnato alla storia il mito di Pasteur ed è alla base dell'origine stessa dell'Institut Pasteur, costruito grazie a una sottoscrizione pubblica promossa sull'onda dell'emozione prodotta dal primo trattamento antirabbico su un ragazzo morso da un cane infetto.

Lo studio della vita microbica nelle condizioni controllate del laboratorio permise di ottenerne la 'domesticazione', e quindi di studiarla, ma anche di controllarla, di dirigerla, di aumentarne o diminuirne l'efficacia e l'attività. Nel momento in cui le conoscenze e i metodi della microbiologia vennero applicati allo studio delle malattie infettive, il contagium vivum divenne finalmente un oggetto scientifico, che si poteva riprodurre, comprendere e controllare in laboratorio.

Nel 1867 Pasteur fu in grado di mostrare che le malattie tipiche del baco da seta sono al contempo ereditarie e dovute a contagio, alla presenza di microrganismi che divengono patogeni in determinate circostanze e in particolari condizioni costituzionali degli animali. Su questa base sottolineò l'importanza delle interazioni fra parassita, ospite e ambiente nella produzione delle malattie. Solo a partire dal 1877, tuttavia, Pasteur si impegnò nella critica alle teorie mediche tradizionali, estendendo la teoria specifica della fermentazione alle malattie epidemiche, che ancora all'epoca venivano chiamate 'malattie comuni', nel senso che colpivano più persone allo stesso tempo. Le prime riflessioni sulle malattie infettive e sulla possibilità di spiegarne l'eziologia con i risultati degli studi sulla fermentazione datano dalla fine degli anni Cinquanta, ma solo venti anni dopo Pasteur affrontò queste malattie, forse anche a causa della necessità di definire meglio le tecniche di laboratorio e di avere dei validi collaboratori, per far fronte alla sua 'insufficienza'; egli affermò, infatti: "Estraneo alle conoscenze mediche e veterinarie, ho esitato sin qui per timore di non essere all'altezza" (Pasteur 1922-39, VI, p. 167).

Lo spostamento dell'interesse di Pasteur nel campo delle malattie infettive coincide con l'ingresso in scena dell'altro protagonista della rivoluzione batteriologica, Robert Koch. Medico di campagna, Koch acquistò grande notorietà nel 1876 quando pubblicò la descrizione del ciclo biologico completo del Bacillus anthracis, il germe responsabile del carbonchio.

Koch nel 1876 mise a punto una nuova tecnica sperimentale, basata sulla cosiddetta goccia sospesa, che gli permise di studiare il ciclo completo di vita del microrganismo individuato da Davaine, stabilendo l'esistenza di una fase endosporica nella quale si formano spore capaci successivamente di dare origine ad altri bacilli. Le spore sono la causa della trasmissione della malattia, dato che possono resistere a lungo, anche per un anno, ripresentandosi in adeguate condizioni ambientali nella stagione successiva e trasmettendosi attraverso il cibo. Koch dimostrò l'esistenza della fase di spore resistenti, sottolineò il concetto di virulenza, che resiste anche dopo una forte diluizione, e introdusse il modello sperimentale che divenne classico, la riproduzione in laboratorio della malattia specifica grazie all'uso di un agente microbico specifico, coltivato allo stato puro in laboratorio.

Già nel 1877 Theodor Albrecht Edwin Klebs (1834-1913) aveva sottolineato la necessità di basare la definizione di una malattia infettiva, non sulle caratteristiche delle cellule, ma su quelle del microbo patogeno che ne è responsabile, in quanto la specificità dei sintomi e la loro costanza sono legate alla specificità del germe.

Nel 1878 Koch isolò l'agente eziologico dell'infezione delle ferite e su tale base sviluppò una teoria della specificità dei germi patogeni per cui "a ogni malattia corrisponde una particolare forma di batterio" che resta immutato anche quando la malattia contagia altri animali. Il suo saggio Zur Untersuchung von pathogenen Organismen (La ricerca degli organismi patogeni), pubblicato nel 1881 nel primo volume delle "Mittheilungen" del dicastero della Sanità del Reich, resterà a lungo il manuale elementare di riferimento della batteriologia.

Nel 1877 Pasteur e Jules Joubert dimostrarono che la causa del carbonchio è effettivamente il bacillo e non un qualche 'virus chimico' o 'fermento solubile', in quanto i filtrati di sangue di un animale infetto non producono la malattia negli animali di laboratorio, mentre anche una sola goccia di sangue non filtrato è sufficiente a provocarla. Inoltre, Pasteur separò chiaramente il vibrione, organismo anaerobico responsabile della setticemia o putrefazione, dal bacillo, l'organismo aerobico responsabile del carbonchio, eliminando così una fonte di confusione che aveva a lungo ostacolato la definizione dell'eziologia delle malattie infettive. Infine, nel 1880 Pasteur fu in grado di confermare le ipotesi di Koch relative alla trasmissione attraverso l'alimentazione e, grazie all'insieme di queste osservazioni, il carbonchio divenne la prima malattia di cui fu chiaramente dimostrata la natura parassitaria.

Già a partire dal 1877 Koch innovò sistematicamente le tecniche del laboratorio batteriologico, con l'impiego dei nuovi microscopi con obiettivi acromatici, a immersione e il condensatore di Abbe, la messa a punto di terreni artificiali di coltura solidi, l'uso di coloranti e della fotografia. Koch giunse così rapidamente all'identificazione dell'agente causale delle malattie infettive più importanti dell'Ottocento, la tubercolosi (1882) e il colera (1883-1884). Alcuni suoi allievi identificarono i microbi responsabili di altre importanti malattie contagiose, Friedrich Loeffler quelli della difterite nel 1884, Shibasaburo Kitasato nel 1889 quelli del tetano. In Francia, dopo che Pasteur ebbe isolato nel 1880 lo stafilococco del pus, del bacillo del colera dei polli, dello pneumococco (un bâtonnet entouré d'une sorte d'auréole) e del germe en chapelet de grains responsabile della febbre puerperale, la scoperta più importante venne da Alexandre Yersin che nel 1894 a Hong Kong isolò il bacillo della peste, oggi chiamato Yersinia pestis.

L'insieme di queste osservazioni mostra bene la potenza della spiegazione proposta dalla microbiologia. Tutte le osservazioni cliniche complicate, di difficile interpretazione, sono ricondotte alla semplice e lineare applicazione di una legge fondamentale, che può essere facilmente sottoposta al controllo dell'analisi microscopica e del laboratorio. Il principale problema epistemologico della medicina è in effetti dominare la variabilità delle manifestazioni cliniche, ma per questo è necessario precisare le leggi che sottendono tale variabilità. La sintesi efficace fra medicina clinica e medicina di laboratorio, il parallelismo fra dati clinici e osservazioni di laboratorio, la coincidenza stretta fra sviluppo dei parassiti e manifestazioni patologiche integrano lo sguardo clinico, l'insistenza sull'individuale, con il rigore della dimostrazione sperimentale e la costanza e universalità delle leggi biologiche.

Alla fine degli anni Ottanta del XIX sec. la medicina disponeva ormai di un potente sistema esplicativo delle malattie epidemiche ed endemiche che riduceva l'insieme delle cause a una sola: la presenza di un microrganismo parassitario. Tutte le malattie infettive sono quindi delle malattie parassitarie dovute a microrganismi cellulari, i batteri, e la relazione biologica generale fra germe e organismo ospite è vista come simbiotica in alcuni casi e antagonistica in altri, una vera 'concorrenza vitale' fra germi e ospiti, e talvolta fra gli stessi germi, una 'lotta per la vita' che si riallaccia al concetto diffusosi allo stesso tempo nell'insieme della biologia dopo Darwin.

In questo contesto si comprende la natura profonda delle differenze fra le posizioni teoriche e pratiche di Koch e Pettenkofer in merito alla eziologia e alla prevenzione del colera. In particolare il concetto di causa utilizzato dai due scienziati è differente. Pettenkofer è ancora legato alla causalità tradizionale, di tipo sufficiente. Nella sua famosa espressione x+y+z=colera ognuno dei fattori da solo può essere sufficiente a produrre la malattia. Per Koch, invece, quello che conta è solo il legame, necessario, fra la presenza del germe e lo sviluppo della malattia. Se non c'è il germe, non c'è la malattia, anche se la presenza del primo potrebbe non essere sufficiente a dare origine a essa. Se questo è vero per l'individuo, lo è ancora di più per la popolazione. La presenza di un germe specifico e la sua trasmissione nella popolazione è 'necessaria' per lo sviluppo dell'epidemie, ma altri fattori entrano in gioco, per determinarne l'estensione, la durata, la virulenza e la sua eventuale ricomparsa periodica.

Alla base della microbiologia e della sua pratica nella lotta contro le malattie infettive si trova una serie di principî teorici, di regole metodologiche, di 'postulati', proposti da Henle, Klebs e soprattutto da Koch. Tali postulati definiscono i criteri per determinare le cause specifiche delle malattie epidemiche ed endemiche, legandole alla presenza di un microrganismo specifico, affermando in questo modo un nuovo criterio di scientificità in medicina, fondato su una definizione originale di causalità e di specificità degli agenti patogeni e sul ruolo decisivo della sperimentazione in laboratorio. Secondo tali postulati, infatti, il microrganismo, considerato come la causa di una malattia, deve poter essere isolato da ogni tessuto malato, essere coltivato in laboratorio, in modo da poterne stabilire la specificità in condizioni controllate per evitare ogni contaminazione che falserebbe i risultati, e queste colture pure devono poter riprodurre la stessa malattia se iniettate in animali di laboratorio.

L'obiettivo della ricerca di laboratorio diviene l'isolamento di una causa specifica, discriminante per ogni data malattia infettiva. Come ha scritto Émile Roux, allievo e successore di Pasteur alla direzione dell'Institut Pasteur, commentando un elenco delle proprie pubblicazioni scientifiche: "la batteriologia definisce la malattia con la sua causa, e ci permette di differenziare la vera difterite dalle angine a false membrane dovute a tutt'altra causa" (Parigi, Archivi dell'Institut Pasteur). Una coesistenza costante e anche una coincidenza assoluta tra un fattore dato e il manifestarsi di una malattia non può essere considerata la prova di una causalità specifica. Grazie ai postulati di Henle-Klebs-Koch, invece, si può stabilire quale microrganismo specifico deve essere considerato 'la' causa di una malattia infettiva, mentre altri fattori devono essere ritenuti accessori o secondari, e si può precisare, inoltre, quanto essi siano necessari e responsabili della variabilità della risposta individuale alla causa efficiente (come l'eredità, l'alimentazione, i fattori psicosomatici, il clima, le condizioni dell'ambiente, ecc.).

Questo tipo di passaggio da una causalità vaga e non definita a una causalità necessaria e specifica si può ritrovare nella scoperta della eziologia delle principali malattie infettive che dominarono la patocenosi del mondo industrializzato nell'Ottocento (il termine 'patocenosi' è stato introdotto da Mirko Grmek nel 1969, a indicare l'insieme delle malattie che caratterizzano una data regione geografica in un determinato periodo storico, con un numero relativamente ristretto di malattie frequenti e un numero molto più elevato di malattie meno frequenti o rare).

Le grandi malattie infettive

Tubercolosi

L'eziologia della tubercolosi venne stabilita nel XIX sec., in due fasi distinte. Il passo decisivo nella prima fase fu il ricorso all'anatomia patologica, nel 1810 con Gaspard-Laurent Bayle e nel 1828 con René-Théophile-Hyacinthe Laënnec, che generalizzò l'auscultazione mediata. Usando lo stetoscopio Laënnec dimostrò che la malattia si evolveva in due fasi: nella prima la sintomatologia fisica era pressoché inesistente e ci si limitava alla osservazione clinica di stanchezza, malessere generale e una febbre capricciosa; nella seconda si potevano, invece, osservare espettorazioni purulente e ottenere un segno clinico preciso con l'auscultazione dei tipici 'rumori', conseguenza della liquefazione dei tubercoli. Dal punto di vista nosologico, infatti, la tubercolosi è un insieme di malattie diverse per localizzazione, sintomi e gravità, accomunate da una lesione istologica specifica in una cavità anatomica chiamata 'tubercolo'. La sede principale nei tempi moderni e nei paesi industrializzati è il polmone (tubercolosi polmonare), ma la malattia può attaccare molti organi, fra cui le ghiandole linfatiche, le ossa, gli organi urogenitali. Sono state proposte tre fasi di sviluppo storico della malattia: le infezioni acute generalizzate, le localizzazioni ganglio-ossose e infine la localizzazione polmonare, risultato di un equilibro raggiunto con una minore aggressività del bacillo e una maggiore resistenza immunologica dell'organismo.

Laënnec fu contrario alla teoria del contagio (in effetti la contagiosità non è particolarmente elevata); esso avviene facilmente nelle famiglie e gli effetti, in mancanza di misure precise, possono ben essere confusi con un fenomeno ereditario. Nell'Ottocento le malattie contagiose, come il vaiolo e il colera, si diffondevano con grande violenza e richiedevano interventi drastici da parte delle autorità pubbliche, come la vaccinazione e l'isolamento. La tubercolosi era più subdola, più sottile, in quanto il contagio avviene solamente attraverso un contatto prolungato con bacilli emessi da poco. Se nel Nord dell'Europa la teoria del contagio era praticamente ignorata, in Italia già nel XVIII sec. il Regno di Napoli e molti comuni richiedevano la dichiarazione obbligatoria da parte dei medici dei casi di tisi. Il re di Spagna Ferdinando VI nel 1751 impose la distruzione dei vestiti indossati da tubercolotici. Nel 1830 Chopin e George Sand ebbero notevoli difficoltà per recarsi a Maiorca, proprio perché Chopin era un tisico dichiarato.

La rivoluzione industriale portò masse immense di uomini, di donne e di bambini nelle città, in case insalubri, con ritmi di lavoro massacranti, scarsità di alimentazione e assoluta mancanza di igiene, in condizioni di sovrappopolazione che facilitarono la diffusione del contagio. La tisi dei romanzieri divenne popolare ed estremamente drammatica dal punto di vista sociale, descritta in memorabili pagine da Victor Hugo e da Émile Zola, si diffuse dovunque, riempiendo di malati gli ospedali. Sul piano terapeutico non c'erano che i rimedi tradizionali della medicina galenica. Alla metà del XIX sec. si introdussero la cosiddetta terapia 'igienico-dietetica', l'aria pura delle alte montagne, il sole mediterraneo, una buona alimentazione (e anche la sovralimentazione, in cui il latte e i suoi derivati giocavano un ruolo fondamentale). I tisici divennero grandi viaggiatori, amanti delle scoperte. Il primo sanatorio fu fondato in Germania a Görbersdorf nel 1854 da Hermann Brehmer.

Negli anni Sessanta, quando Pasteur cominciò a studiare le malattie contagiose, le teorie sulla natura 'microbica' di molte di esse si andavano moltiplicando. Nel 1867 Jean-Antoine Villemin mostrò che la tubercolosi poteva essere trasmessa per inoculazione dall'uomo agli animali e quindi da animale ad animale e ipotizzò che questa malattia fosse prodotta da un 'principio infettivo' capace di moltiplicarsi nell'organismo. Il 24 marzo 1882 Koch, grazie ai nuovi metodi di isolamento e di coltura, poteva annunciare alla Società fisiologica di Berlino il ruolo causale di un organismo specifico, il Bacillus tuberculosis, un piccolo batterio a forma di barretta, capace di resistere per mesi allo stato secco e ad alcuni deboli disinfettanti. Un articolo pubblicato da Koch tre settimane più tardi, con il titolo Die Ätiologie der Tuberkulose (L'eziologia della tubercolosi), divenne rapidamente un classico mentre un altro testo, pubblicato nel 1884 con lo stesso titolo, conteneva la prima enunciazione sistematica dei 'postulati' che portano il suo nome. Egli aveva infatti osservato il bacillo in tutti i casi già da lui stesso studiati, aveva riprodotto il batterio fuori del corpo umano e la medesima malattia con l'inoculazione in un animale di laboratorio suscettibile.

Koch continuò le sue ricerche sull'argomento, nella speranza di trovare una cura, e nel 1890 annunciò la scoperta della 'tubercolina', una sostanza derivata dal Bacillus tuberculosis, che egli riteneva capace di arrestare la moltiplicazione del germe. Successive sperimentazioni avrebbero dimostrato che si trattava di un'illusione e la tubercolina sarebbe rimasta soltanto uno strumento diagnostico specifico.

Tifo e febbre tifoide

Il tifo si diffuse drammaticamente nei primi decenni del XIX secolo. La spedizione napoleonica del 1812 in Russia deve a questa malattia una delle ragioni del suo insuccesso; tra il 1816 e il 1819 il tifo fu la causa della decimazione della popolazione dell'Irlanda. Le rivoluzioni del 1848 diffusero il tifo epidemico in Europa; in un momento in cui la Germania fu colpita in modo particolarmente grave, Virchow pubblicò un articolo individuando come cause scatenanti la povertà e la mancanza di educazione e di igiene, proponendo il miglioramento delle condizioni di vita e l'istruzione come i mezzi più sicuri di lotta contro la malattia.

Per diversi decenni, comunque, l'eziologia rimase misteriosa, anche a causa della permanente confusione con la febbre tifoide. Le prime ipotesi sul legame fra 'organismi microscopici' e tifo furono avanzate nel 1822 da Enrico Acerbi (1785-1827). Egli riteneva che il tifo petecchiale fosse dovuto a una specie particolare di esseri organici parassiti e "contrari alla nostra economia animale", i quali si sviluppano, o nascono anche spontaneamente "(se così si vuole) fuori o dentro di noi, si propagano e si diffondono".

Solo nei primi decenni del XX sec., grazie ai lavori di Charles Nicolle a Tunisi, di Howard T. Ricketts durante una grave epidemia a Città del Messico e del brasiliano Henrique Da Rocha Lima, il microbo responsabile e il suo vettore venivano isolati. Nel 1909 Nicolle individuò nel pidocchio il vettore, suggerendo la lotta a questo insetto come strumento preventivo efficace applicato poi con successo durante la Prima guerra mondiale. Da Rocha Lima propose di chiamare il batterio responsabile del tifo Rickettsia prowazekii, in onore di Ricketts e del parassitologo polacco Stanislaus von Lanov Prowazek, entrambi morti per un'infezione tifica contratta in laboratorio.

Febbre gialla

La febbre gialla si era propagata nei Caraibi nel XVII sec. e a partire da quel momento ondate epidemiche avevano colpito il Nord (New York, Philadelphia, Boston) e il Sud (Colombia, Perù, Ecuador) mediante i battelli che trasportavano persone malate, in particolare schiavi.

Nei primi decenni dell'Ottocento, probabilmente a causa dell'aumento della popolazione suscettibile, le epidemie si fecero più gravi e divennero ricorrenti. Nel 1849 un battello, il cui equipaggio si era forse infettato durante una sosta a New Orleans o all'Avana, diffuse una grave epidemia nell'America Meridionale, cominciando dal porto di Bahia e colpendo particolarmente le popolazioni di origine europea emigrate in Brasile. La febbre gialla in questo periodo giunse anche in Africa e in alcune parti dell'Europa meridionale costituendo un pericolo costante. Le città portuali di Barcellona, Oporto e Lisbona subirono le epidemie più gravi, ma la malattia raggiunse occasionalmente anche la Francia, l'Inghilterra e l'Italia. Il picco epidemico si verificò alla fine del Settecento e nei primi anni del XIX sec. quando gli europei cercarono di conquistare i Caraibi e le truppe inglesi e francesi registrarono un gran numero di perdite.

Attraverso i Caraibi, anche gli Stati Uniti furono fortemente colpiti dalla febbre gialla; nei primi sessant'anni del XIX sec., per esempio, la città di Charleston subì 22 epidemie e New Orleans 33, tra le quali una catastrofica nel 1853, che provocò almeno 8000 morti. Come in precedenza, la malattia colpiva soprattutto le popolazioni appena arrivate nella zona, mentre i locali e gli abitanti di colore sembravano relativamente immuni. Dopo una pausa dovuta al blocco dei porti durante la guerra civile, la febbre gialla riprese vigore, in particolare nel 1867 a New Orleans, sino alla grave epidemia che dilagò nel 1878 in tutto il Sud degli Stati Uniti e nella vallata del Mississippi, proveniente probabilmente da Cuba. Nello stesso anno furono colpiti dalla malattia i lavoratori francesi che avevano cominciato a scavare un canale sull'istmo di Panama; in conseguenza di ciò, i lavori vennero bloccati.

A Cuba, in particolare, la malattia si diffuse in maniera virulenta, a causa del continuo afflusso di operai migranti, di truppe coloniali, di rifugiati dall'America Meridionale dopo le guerre di liberazione; l'isola divenne una sorta di 'capitale della febbre gialla', pertanto una missione americana si recò a Cuba per indagare la causa della malattia.

Carlos Juan Finlay avanzò, nel 1881, l'ipotesi che la febbre gialla potesse essere trasmessa da zanzare e la riprese poi con grande forza dopo le scoperte del 1891 sulla malaria. Pur non conoscendo l'agente infettivo, l'identificazione del vettore con la zanzara Aedes Aegypti divenne lo strumento teorico di una campagna di lotta contro la febbre gialla a Cuba, coronata da un notevole successo, sotto la direzione di Walter Reed (1851-1902). Questi, in una serie di esperimenti realizzati nel 1900 a Cuba, a seguito dei quali morirono tre membri del gruppo di ricerca, chiarì il meccanismo e i tempi della trasmissione, servendosene per definire i tempi dell'intervento; egli dimostrò che l'obiettivo principale delle precedenti campagne, la sporcizia, era solo un fattore accessorio e non la causa specifica della malattia, che doveva invece essere individuata nel germe, un virus allora sconosciuto, e nel suo vettore, la zanzara. Il generale William Gorgas eradicò la zanzara da Cuba e protesse i lavoratori a Panama, rendendo possibile lo scavo del canale; le stesse misure di protezione consentirono di controllare l'ultima epidemia di febbre gialla diffusasi negli Stati Uniti, precisamente a New Orleans, nel 1905.

Malaria

Nonostante una grande quantità di studi eziologici ed epidemiologici, solo nel 1880 il protozoo responsabile della malaria venne osservato al microscopio dal medico militare francese Charles-Louis-Alphonse Laveran (1845-1922), seguendo la pista del pigmento malarico considerato, a partire dal XVIII sec., come carattere distintivo delle affezioni palustri. Più precisamente, Laveran osservò a Costantine, nel sangue fresco di un soldato francese ammalato di febbri intermittenti, corpi 'arrotondati' o a forma di falce, pigmentati o flagellati e, sulla base della loro morfologia e dei loro movimenti nel sangue, li considerò organismi viventi.

Il lavoro descrittivo di Laveran fu accolto con scetticismo dagli ambienti medici e scientifici, proprio perché contrario all'idea dominante che individuava in un batterio la causa patogenica di una malattia epidemica. Tale scetticismo fu condiviso, sino al 1884, dai due principali malariologi italiani del tempo, Ettore Marchiafava e Angelo Celli, che sostennero il ruolo eziologico del Bacillus malariae di Klebs e Tommasi-Crudeli. Successivamente, tuttavia, Marchiafava e Celli modificarono la loro teoria e contribuirono in maniera decisiva alla conferma e all'estensione delle osservazioni di Laveran, introducendo tra l'altro il nome generico di Plasmodium. Essi sostenevano ‒ contrariamente a quanto riteneva il medico francese ‒ che le varie forme osservate da Laveran avessero un ciclo di vita regolare che si svolgeva in gran parte 'all'interno' del globulo rosso a partire da una piccola struttura apparentemente amorfa (il plasmodio), che si moltiplica causando la rottura del globulo rosso, con il conseguente rilascio dei parassiti nella circolazione, pronti a iniziare un nuovo ciclo in altre cellule. Lo stesso Koch, nel 1890, al Congresso internazionale di medicina, parlando delle malattie a eziologia ancora sconosciuta, affermò che l'ipotesi che "esseri organizzati" diversi dai batteri possano essere responsabili di malattie infettive è confermata dal fatto che parassiti peculiari, che appartengono all'ordine più basso del regno animale, i protozoi, "sono stati recentemente trovati nel sangue di molti animali così come nel sangue di uomini malarici".

Il principio teorico della specificità del germe responsabile di una malattia infettiva permise a Camillo Golgi (1843-1926) di individuare con chiarezza a livello microscopico tre diversi parassiti malarici (protozoi del genere Plasmodium) e i corrispondenti tipi di malaria furono distinti sulla base delle caratteristiche specifiche (nel senso stretto, biologico, del termine), in particolare il ciclo di riproduzione degli organismi patogeni; la successione periodica degli accessi febbrili, tratto clinico tipico della 'febbre intermittente' o malaria, corrisponde infatti al ciclo regolare di sviluppo dei parassiti.

La dimostrazione di un rapporto rigoroso tra i diversi tipi febbrili e i cicli di sviluppo dei parassiti malarici permise a Golgi di interpretare linearmente alcuni quadri clinici complessi, osservati già da Ippocrate, il quale aveva distinto, oltre alle forme semplici di febbri terzane e quartane, febbri quotidiane, quintane, settane, nonane. Le febbri irregolari furono considerate da Golgi come il risultato di infezioni doppie e triple dello stesso o di differenti parassiti, i cui cicli di sviluppo si sovrappongono. Non ci sarebbero dunque che tre tipi febbrili fondamentali, corrispondenti ai tre parassiti malarici conosciuti all'epoca (il quarto parassita, raro, il Plasmodium ovale, sarà scoperto nel 1922 da John W.W. Stephens), di cui Golgi osservò al microscopio e fotografò ‒ riprendendo l'esempio di Koch ‒ lo sviluppo e la riproduzione. Le apparentemente infinite manifestazioni di febbri intermittenti, spesso complesse, variabili e 'individuali' dal punto di vista clinico, divennero così "semplici varietà e combinazioni dei tipi fondamentali".

Una delle maggiori difficoltà che ostacolarono il riconoscimento dei protozoi come cause eziologiche fu dovuta al fatto che molti di essi hanno cicli di vita complessi, che richiedono spesso ospiti intermedi o vettori e che rendono molto difficile la loro coltivazione in laboratorio. Dopo la scoperta del plasmodio si divenne consapevoli del fatto che i parassiti si trovano nel sangue e vi si riproducono, ma non si conoscevano né le modalità di penetrazione, né il meccanismo dell'infezione. Fino a che il meccanismo di trasmissione resta sconosciuto, è impossibile sviluppare un'efficace opera di prevenzione. La conoscenza può essere considerata completa solo se il ciclo di vita dei parassiti è descritto nella sua interezza. In India un altro medico militare inglese, Ronald Ross (1857-1932), su consiglio di Patrick Manson, riuscì nel 1898, dopo anni di ricerche, a dimostrare, con una sperimentazione sugli uccelli, che la malaria è trasmessa dalle zanzare; nello stesso anno Giovanni Battista Grassi (1854-1925) dimostrò che queste zanzare appartenevano esclusivamente al genere Anopheles.

L'elemento decisivo che cambiò in modo drammatico le prospettive di successo della lotta antimalarica fu la proposta da parte di Grassi di una equazione semplice: uomo+anofele=malaria. Per combattere la malaria, per diminuirne l'impatto, se non per eliminarla, bisogna 'agire' sul segno +, cioè impedire i contatti fra l'uomo e gli anofeli. Nel periodo successivo, di fronte alla complessità del quadro epidemiologico della malaria, saranno a più riprese proposte modifiche di questa formula, tenendo conto dei fattori sociali, climatici ed ecologici. Per esempio, Celli, nel 1909, riprendendo il modello igienista di Pettenkofer, trasformò l'equazione in: uomo+anofele+x+y+z=malaria, dove x, y, z indicano i fattori predisponenti o immunizzanti d'ordine biologico (x), fisico (y) e sociale (z). Tuttavia Grassi continuò ad affermare caparbiamente che x+y+z=0, ossia che l'elemento essenziale, la causa 'necessaria', è il contatto fra l'uomo e gli anofeli, tutto il resto è accessorio. Grazie a queste scoperte e alle applicazioni pratiche che ne derivarono con rapidità, la malaria acquistò tale importanza, teorica e pratica, che il suo studio acquisì lo statuto di disciplina scientifica autonoma, la malariologia.

Dalla teoria microbiologica alla pratica sanitaria

Il concetto di microbo e l'individuazione di una causalità specifica permette di stabilire un chiaro nesso teorico fra causa ed effetto, ma al tempo stesso indica mezzi e obiettivi dell'azione profilattica e designa i luoghi, le condizioni e i modi possibili di intervento preventivo e terapeutico. Il motto proposto da Pasteur "una malattia - un germe - un vaccino" riassume adeguatamente le possibilità e diviene, alla fine dell'Ottocento, il modello paradigmatico della nuova medicina.

La posizione dei medici, degli igienisti, delle strutture sanitarie e politiche nei confronti delle malattie infettive cambiò radicalmente dopo la nascita della microbiologia. Se spesso il corpo medico, e in particolare la clinica, mostrò una notevole resistenza alla diffusione delle nuove idee e delle nuove pratiche d'ospedale e sociali, i legislatori e i responsabili della sanità pubblica nelle nazioni europee più avanzate ne afferrarono rapidamente l'importanza, dopo gli eclatanti risultati ottenuti dai batteriologi nei primi esperimenti sul campo, mettendoli in pratica con nuovi atti legislativi o amministrativi. Il quadro professionale e istituzionale della medicina si modificò di conseguenza, permettendo l'unificazione dei luoghi e delle pratiche della ricerca scientifica, della struttura medica e sanitaria, dell'intervento politico e sociale.

Gli obiettivi da perseguire divennero chiari e si diffuse una nuova fiducia nella possibilità di raggiungerli e di consolidarli. Per effetto di una nuova educazione sanitaria, diffusa soprattutto attraverso la scuola, l'esercito, i luoghi di lavoro industriale, e di nuove legislazioni e regole amministrative cambiarono anche le abitudini di fronte alle malattie infettive. La politica sanitaria non si realizzò più solamente nello studio del medico, nell'ospedale, ma nell'insieme dei luoghi della vita sociale. La nuova 'medicina scientifica' permetteva ormai di tenere lontane le cause patogene; prevenire le malattie diveniva più importante e più efficace che guarirle; l'igiene raccomandata da Pasteur, scrive la "Revue scientifique" nel 1882 "permette di prevenire le cause patogene, di tenere lontane le malattie, per non doverle guarire".

Identificati i 'nemici invisibili', gli specifici microbi responsabili delle diverse malattie, e messo a punto qualche metodo per combatterli, come la vaccinazione e la sieroterapia, ci si pose rapidamente l'obiettivo di controllare la diffusione delle malattie, e per quanto possibile eliminarle, impedendo l'infezione o eradicando l'agente eziologico o il suo vettore. Anzi, tale obiettivo divenne un dovere morale per la comunità medica. La conoscenza della causa, la disponibilità di qualche rimedio terapeutico e soprattutto dei mezzi per impedire la diffusione del contagio, comportavano l'obbligo di applicarli. Se così non fosse avvenuto, la responsabilità morale e sociale sarebbe ricaduta sul medico e sullo Stato. L'ignoranza poteva nascondere e persino giustificare l'impotenza, ma la conoscenza delle cause e dei rimedi obbligava all'azione profilattica e igienica.

L'identificazione degli agenti patogeni, delle cause specifiche delle malattie infettive, che è possibile seguire nei loro spostamenti ‒ solo apparentemente disordinati ‒ nello spazio e nel tempo, nei vari ritmi delle epidemie e delle endemie, trasformò il senso di impotenza in volontà d'azione; ciò rese possibile la realizzazione di una politica sanitaria su grande scala. All'insieme di vaghi consigli e iniziative si sostituirono precise indicazioni profilattiche e terapeutiche. La politica sanitaria non mirò più alla totalità e intervenne su 'fattori' divenuti non solo visibili, ma identificati e classificati, specifici.

Le pestilenze non rappresentarono più l'incubo millenario di cui non si conosceva l'origine e non si poteva contrastare la diffusione, ma un processo naturale, controllabile, pur se con difficoltà. Il fatalismo millenario nei confronti delle malattie epidemiche lasciò il posto a una nuova volontà di lotta. La conoscenza della causa necessaria permise per la prima volta nella storia della medicina di fare predizioni valide e verificabili sul decorso di un'epidemia e questo conferì al tempo stesso consistenza e credibilità anche ad ambiziosi programmi sanitari.

La coscienza di questa rivoluzione fu immediata. Un editoriale della "Revue scientifique", che esprimeva il punto di vista degli igienisti francesi, già nel 1881, subito dopo la dimostrazione di Pasteur a Poully-le-Fort dell'efficacia profilattica della vaccinazione anticarboniosa, riportava: "Il carbonchio sarà presto solo un ricordo". Nell'anno della prima vaccinazione antirabbica da parte di Pasteur (1885) l'obiettivo divenne ancora più chiaro: "Sì, verrà il giorno in cui, grazie all'igiene militante e scientifica, alcune malattie scompariranno, come sono scomparsi certi animali antidiluviani" (in Latour 1984, p. 34). Il concetto di microbo stabilì un principio causale delle malattie infettive indicando i modi e gli obiettivi dell'azione igienica, precisando i legami causali tra i diversi fattori in gioco, spiegando le condizioni ormai solo apparentemente disordinate dello spostamento delle epidemie e suggerendo le conseguenti modalità di intervento. "Se si potesse conoscere il microbo di ogni malattia, i posti da lui prediletti, le sue abitudini, la sua maniera di progredire, si potrebbe, con una buona polizia medica, colpirlo opportunamente, arrestarlo nella sua progressione e impedire il suo intervento omicida" (ibidem, p. 53).

In questo nuovo ambito teorico, gli obiettivi puramente difensivi e protezionistici, tipici della prima fase della collaborazione sanitaria internazionale, risultarono essere non più sufficienti, in considerazione della grande varietà dei meccanismi di trasmissione delle malattie infettive e parassitarie e del fatto che gli stessi europei si spostavano negli altri continenti, entrando in contatto con nuove patologie, endemiche nei paesi tropicali. Non si poté più distinguere un 'dentro' da difendere da un 'fuori' minaccioso. Il problema centrale divenne tracciare i percorsi dei singoli germi, dei singoli parassiti, individuare i luoghi in cui si annidavano e le procedure critiche che potevano favorire o impedire la loro trasmissione, intervenire laddove un'azione mirata e condotta in profondità poteva interrompere la catena di diffusione delle epidemie, mettendole sotto controllo.

In effetti, uno dei punti teorici centrali della nuova scienza batteriologica è l'idea della specificità del germe e la nozione dei suoi limiti biologici, climatici e fisici. La differenza fra 'esterno' e 'interno', che in precedenza era la sola importante, diventa relativa; essa non si trova più a livello geografico, delle frontiere fra gli Stati, ma a livello dell'individuo, malato, sano o portatore sano. Di conseguenza, il punto centrale di una politica sanitaria non è più la difesa del territorio, ma quella dell'organismo individuale, con la prevenzione, la sieroterapia e la vaccinazione. Ciò comporta uno spostamento di luoghi e di obiettivi: la difesa dell'individuo sostituisce quella del territorio e diventa fine e condizione delle politiche sanitarie. Dopo le scoperte del 1898 sui meccanismi di trasmissione, la lotta antimalarica cambia finalità e le campagne di bonifica dei territori palustri cedono il posto alla lotta contro il parassita, soprattutto contro il vettore Anopheles, alla protezione meccanica delle abitazioni, per impedire la puntura degli insetti, alla profilassi chimica integrale mediante il chinino ‒ secondo il metodo di Koch ‒ per proteggere gli individui sani, 'sterilizzare' i portatori e impedire nuovi contagi.

Conclusioni

La nascita della microbiologia, o batteriologia, produce dunque una rivoluzione al tempo stesso medico-scientifica e sociale. La 'dottrina dei germi' ha come conseguenza lo sviluppo delle tecniche di attenuazione della virulenza dei microrganismi patogeni e la nascita dell'immunologia e della virologia come campi disciplinari autonomi; con il costituirsi di un dominio di ricerche microbiologiche più stabile, la medicina acquisisce, infine, un nuovo statuto epistemologico.

Parallelamente a questo sviluppo conoscitivo, un complesso processo ‒ che è stato definito da Salomon-Bayet (1986) di 'medicalizzazione della società' ‒ ridefinisce il rapporto medico-paziente-ambienti di vita e di lavoro, spostando l'attenzione dalla cura del singolo malato alla prevenzione delle malattie a livello sociale. I risultati di questo processo sono il rapido sviluppo in molti Stati europei di una nuova legislazione in materia di sanità pubblica, la messa in opera, nonostante numerosi ritardi e difficoltà, di una profilassi generalizzata contro le malattie epidemiche ed endemiche e lo stabilirsi, per la prima volta dopo secoli di pestilenze catastrofiche e sotto la spinta drammatica delle due prime pandemie di colera, di una collaborazione sanitaria internazionale finalizzata al controllo delle epidemie.

Il concetto di microbo permette di stabilire un chiaro nesso fra causa ed effetto, ma al tempo stesso indica un mezzo di azione, i luoghi, le condizioni e i modi possibili di intervento profilattico e terapeutico. Con la nozione di contagio, con la teoria dei germi, Pasteur modifica il concetto stesso di malattia e stabilisce un legame univoco fra malattia e agente causale esterno all'organismo. Ciò provoca anche un cambiamento degli obiettivi della pratica medica e uno spostamento dei suoi luoghi di esercizio. Se in precedenza la cura avveniva in casa o all'ospedale, la vaccinazione si fa ora in ambulatorio o, più in generale, nella scuola, nella caserma. La malattia non riguarda più il singolo, ma la collettività. Come ha mostrato Canguilhem (1977, 1988), la medicina conosce una lenta alterazione dei suoi obiettivi e dei suoi comportamenti e dal concetto di 'salute' si passa a quello di 'salubrità' e successivamente a quello di 'sicurezza'. La salute è la resistenza alla malattia, che comporta l'idea della malattia come possibile, mentre la sicurezza è la negazione della malattia, l'esigenza di non doverla sperimentare.

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