L'Ottocento: chimica. La chimica delle forze

Storia della Scienza (2003)

L'Ottocento: chimica. La chimica delle forze

Jutta Berger

La chimica delle forze

L'invenzione della pila voltaica favorì alcune rilevanti impostazioni teoriche nella chimica destinate a condizionare gli sviluppi della disciplina sino alla metà dell'Ottocento. Con l'apparecchio costruito da Alessandro Volta divenne possibile produrre correnti elettriche continue di diversa intensità, nonché studiare sistematicamente i loro effetti nelle reazioni chimiche. Poiché dai fenomeni elettrochimici si poteva dedurre una stretta correlazione tra forze elettriche e forze chimiche, sembravano aprirsi nuove strade per definire la natura di queste ultime, che le teorie settecentesche dell'affinità avevano potuto cogliere soltanto in forma speculativa.

I precedenti storici: l'elettricità statica e il galvanismo

Già nel XVIII sec., con l'ausilio di scariche disruptive, erano stati effettuati esperimenti elettrochimici ed era stato affrontato il problema della natura della cosiddetta 'materia elettrica'. Giovanni Battista Beccaria, che fu uno dei primi a realizzare la calcinazione e la riduzione elettrica dei metalli, paragonava l'azione dell'elettricità a quella del fuoco. Joseph Priestley identificava l'elettricità con il flogisto; teoria, questa, condivisa da numerosi altri chimici tra cui Franz Karl Achard, Nicholas-Christien de Milly e il barone Reth de Servières. A essa si contrapponeva la tesi sostenuta da un altro gruppo guidato da Tiberio Cavallo e da William Henly, secondo cui il fuoco, il calore, il flogisto, la luce e l'elettricità costituivano modificazioni di un unico fluido. L'ipotesi del flogisto fu avallata negli anni Ottanta del Settecento da Martin van Marum, attivo a Haarlem, che per i suoi esperimenti aveva potuto avvalersi del più potente generatore di corrente disponibile all'epoca. I suoi lavori ebbero un'eco molto ampia e influenzarono, tra gli altri, Volta e Priestley. In quegli anni si studiarono anche l'effetto ossidante dell'elettricità e la decomposizione elettrolitica dell'acqua e dei gas. Nel 1772, per esempio, Priestley aveva constatato il verificarsi di un aumento di volume dell'ammoniaca gassosa attraversata da scariche elettriche, mentre Henry Cavendish aveva osservato la formazione di un gas colorato a partire dall'aria atmosferica.

Un altro impulso importante alla nascita dell'elettrochimica fu fornito dalle ricerche di Luigi Galvani, apparse nel 1791 sotto il titolo De viribus electricitatis in motu musculari commentarius. Gli esperimenti dello scienziato italiano avevano dimostrato che nei muscoli di una rana si producevano contrazioni quando le cosce e i nervi lombari venivano collegati mediante un arco formato da due metalli, in modo da realizzare un circuito chiuso. Galvani dedusse l'esistenza di un fluido elettrico animale localizzato nei muscoli e ipotizzò che il corpo dell'animale fosse come una 'bottiglia di Leida' scaricata dall'arco metallico. Pur riconoscendo alcune affinità tra l'elettricità animale e quella comune, Galvani non si pronunciò in merito alla loro possibile identità.

Ben presto le sue teorie suscitarono numerose reazioni all'interno del mondo scientifico: Giovanni Valentino Mattia Fabbroni tentò di confutarle nel 1793 con una memoria indirizzata all'Accademia dei Georgofili di Firenze, Dell'azione chimica dei metalli nuovamente avvertita, nella quale sosteneva l'esistenza di una causa chimica che dava luogo ai fenomeni galvanici. Fabbroni si richiamava all'esperimento di stimolazione delle papille gustative che si otteneva poggiando sulla lingua due pezzi di metalli diversi (già descritto nel 1752 da Johann Georg Sulzer) e a quello della produzione di fenomeni luminosi nella pupilla con il medesimo procedimento. Egli ricondusse tali fenomeni ai processi di ossidazione dei metalli a contatto con l'umidità e con l'aria, dichiarando superflua l'ipotesi di un 'galvanismo', ossia di un fluido elettrico.

Johann Wilhelm Ritter (1776-1810), che riprese in particolare l'esperimento con le cosce di rana, stabilì una connessione tra l'effetto galvanico dei metalli e la loro affinità con l'ossigeno. Nello spirito della Naturphilosophie romantica, Ritter interpretava il galvanismo in termini simbolici, ossia come una forza presente nella Natura sia organica sia inorganica, che avrebbe avuto origine nel passaggio di una determinata proprietà dei corpi in contatto da una linea a una catena chiusa. Ritter individuava nel galvanismo la causa dei processi di ossidazione e di riduzione cui potevano essere ricondotti in ultima istanza tutti gli altri tipi di processi chimici, compresi quelli vitali.

Come reazione alle ricerche di Galvani si formarono quattro diversi schieramenti: (a) i sostenitori delle sue teorie; (b) quanti operavano una distinzione tra l'elettricità animale e quella comune; (c) i rappresentanti di una teoria chimica del galvanismo; (d) i sostenitori della teoria dell'elettricità di contatto proposta da Volta.

L'invenzione della pila voltaica

Venuto a conoscenza dei lavori di Galvani, Volta eseguì esperimenti sull'elettricità. Professore di fisica sperimentale all'Università di Pavia a partire dal 1778, già all'epoca Volta si era rivelato uno dei più eminenti studiosi dei fenomeni elettrici, in particolare per la sua ingegnosità tecnico-sperimentale. Nel 1775 egli aveva ideato l''elettroforo', che considerava una fonte inesauribile di elettricità, consistente in un disco metallico, detto 'schiacciata', rivestito di materiali isolanti come la trementina, la resina e la cera. Dopo aver caricato la schiacciata di elettricità negativa per strofinio, vi si accostava uno schermo di legno rivestito di carta stagnola e messo a terra; una volta allontanato, lo schermo risultava carico di elettricità positiva tanto che, per esempio, poteva essere usato per caricare una bottiglia di Leida.

Nel 1792 Volta pubblicò i primi risultati dei suoi esperimenti galvanici, presentati, come tutti i suoi scritti, sotto forma di lettere indirizzate ad amici e studiosi. Se in un primo tempo aveva aderito all'ipotesi dell'esistenza di una elettricità animale formulata da Galvani, già nel settembre dello stesso anno, in una lettera a Cavallo, Volta avanzava alcune riserve in proposito, interpretando le contrazioni dei muscoli della rana come l'effetto di una elettricità artificiale assai debole provocata dall'applicazione di due contatti di metalli diversi. Le cosce della rana, quindi, non sarebbero state la fonte di una elettricità animale, ma semplicemente una sorta di strumento di misurazione passivo, più sensibile di tutti gli elettrometri conosciuti. Negli anni successivi Volta effettuò ulteriori esperimenti con cosce di rana e altri elettrometri biologici, come la lingua, e studiò anche il rapporto tra le combinazioni di metalli diversi e l'intensità della corrente elettrica, arrivando a prefigurare quella che oggi è nota come 'serie degli elementi' organizzata in base al potenziale elettrochimico.

Verso il 1795 i seguaci di Galvani espressero fondati dubbi sulle teorie di Volta, dopo essere riusciti a provocare contrazioni muscolari nelle cosce di rana senza l'uso di conduttori metallici. Volta replicò mediante tre lettere indirizzate al professore di fisica ed editore del "Journal der Physik" Friedrich Albrecht Carl Gren (1760-1798) il quale, con un gruppo di altri studiosi, aveva ripetuto gli esperimenti di Galvani esprimendo altresì esplicite critiche alle sue teorie. In queste lettere, risalenti agli anni 1796-1797, è chiaramente formulata la teoria dell'elettricità di contatto. Per esempio, nell'agosto 1796 egli scriveva: "Vedete ora in che cosa consiste il segreto, la magia del galvanismo. Non si tratta che di un'elettricità artificiale attivata tramite il contatto di conduttori eterogenei" (Volta 1918-29, I, p. 413). In questo modo Volta modificava la sua idea originaria secondo la quale era necessaria la presenza di metalli per produrre correnti elettriche. Egli, infatti, era riuscito a ottenere le stesse reazioni utilizzando esclusivamente conduttori umidi, da lui classificati come 'conduttori di seconda classe'. All'epoca Volta non nutriva più alcun dubbio sulla validità della teoria del contatto. Negli anni successivi lo scienziato italiano effettuò i suoi esperimenti rinunciando all'impiego di elettrometri biologici; evitò quindi il paradosso di utilizzare, come rivelatore di corrente elettrica, materiale animale in esperimenti tesi a dimostrare proprio l'inesistenza dell'elettricità animale.

Riallacciandosi alla teoria che interpretava l'elettricità come un fluido, egli introdusse i concetti di 'resistenza' e 'tensione'. In base a tale teoria, il fluido elettrico era messo in moto dal contatto di due metalli diversi, con intensità differente a seconda del tipo di metallo, i quali, in quanto conduttori, opponevano una scarsa resistenza al passaggio dell'elettricità, contrariamente a quanto avveniva con le sostanze isolanti che opponevano maggiore resistenza al fluido. Il concetto di tensione, introdotto per indicare il disequilibrio elettrico, ovvero la 'differenza di potenziale', permetteva a Volta di spiegare la reazione relativamente forte delle cosce di rana, in quanto, sebbene la tensione nell'esperimento di Galvani fosse assai debole, la quantità di fluido che attraversava il circuito era sufficiente a produrre lo stesso effetto che si otteneva con le alte tensioni delle macchine elettrostatiche.

La teoria dell'elettricità di contatto di Volta venne messa seriamente in discussione nel 1797, quando apparvero le Memorie sull'elettricità animale di Galvani. Questi, prendendo come esempio la torpedine, si propose di dimostrare l'esistenza di un fluido elettrico animale indipendente dall''elettricità metallica' di Volta. Secondo Galvani, l'elettricità della torpedine era localizzata nel cervello dell'animale e continuava a sussistere per qualche tempo anche dopo la sua morte. Volta, invece, riteneva che la sua teoria della stimolazione elettrica mediante il contatto di due conduttori eterogenei valesse anche per gli organi animali, come il cervello e i nervi.

Secondo le ricostruzioni storiche più recenti, l'invenzione della pila avvenne nel contesto di queste controversie. Alla fine del 1797 William Nicholson (1753-1815), editore del "Journal of natural philosophy, chemistry and the arts", aveva pubblicato in questa rivista un articolo sull'elettricità di un minerale ‒ la muscovite ‒ istituendo un'analogia con l'anatomia dell'organo elettrico della torpedine; a suo avviso, infatti, si trattava di serie parallele di piccoli elettrofori, caricati di elettricità attraverso il movimento meccanico. Volta trasse spunto da questa idea, ma, coerentemente con la sua teoria dell'elettricità di contatto, sostituì agli elettrofori del modello di Nicholson una catena di coppie di dischi di metallo, cosicché l'accoppiamento in serie consentiva di sommare le tensioni. Il 30 marzo del 1800, in una lettera indirizzata a Sir Joseph Banks (1743-1820), presidente della Royal Society di Londra, Volta annunziava la costruzione del nuovo apparecchio per produrre elettricità, presentandolo in due varianti: la 'pila a colonna' e la cosiddetta 'pila a tazze'; forniva istruzioni dettagliate per la la sua realizzazione, che in un primo tempo doveva servire a dimostrare i processi che avvenivano nelle sorgenti di elettricità e gli effetti del galvanismo sugli organi sensoriali. L'invenzione di Volta suscitò un vivo interesse nel mondo scientifico europeo e stimolò una febbrile attività di ricerca. Nel 1801 egli si recò a Parigi per presentare il suo apparecchio e fu ricevuto con tutti gli onori. Napoleone Bonaparte, che assistette a tutte le sue conferenze all'Académie des Sciences, gli assegnò una lauta pensione, lo insignì di una medaglia d'oro, lo nominò senatore del Regno d'Italia e gli conferì il titolo di conte.

I primi esperimenti elettrochimici

Ancor prima che la lettera di Volta fosse presentata alla Royal Society il 26 giugno del 1800 per essere poi pubblicata nelle "Philosophical Transactions", Nicholson e Anthony Carlisle (1768-1840) avevano costruito una pila e avevano effettuato i primi esperimenti elettrochimici di decomposizione dell'acqua. Essi confermarono la teoria di Volta secondo cui il galvanismo e l'elettricità comune sono un unico e identico fenomeno. La decomposizione dell'acqua nei suoi elementi ‒ idrogeno e ossigeno ‒ era diventata già all'epoca dell'elettricità statica una delle reazioni più studiate e tale rimase anche successivamente. Essa fu analizzata, tra gli altri, da William Cruikshank di Woolwich in Inghilterra; dallo scienziato dilettante Étienne-Gaspard Robertson, dal medico Jean-Noël Hallé e dal chimico Charles-Bernard Desormes in Francia; in Germania, infine, da Ritter a Jena e da Christoph Heinrich Pfaff a Kiel. I primi a introdurre il concetto di 'elettrolisi' per la decomposizione chimica prodotta dalla corrente elettrica furono tuttavia Michael Faraday e William Whewell nel 1834.

La decomposizione elettrica dell'acqua suscitava particolare interesse per il fatto che i gas non si sviluppavano nello stesso luogo, ma separatamente e ai poli opposti, precisamente l'idrogeno al polo negativo (per es., d'argento), mentre l'ossigeno a quello positivo (per es., di zinco). Sarebbe stato logico attendersi uno sviluppo comune dei gas; se e in quale modo si potesse verificare una migrazione di un gas attraverso il liquido restava un mistero. Nell'ambito della teoria dell'elettricità come fluido, che all'epoca era dominante, furono proposte numerose spiegazioni. Ritter, per esempio, sostenne che non si trattava di un processo di decomposizione dell'acqua, poiché questa andava considerata come un elemento. Collegando l'acqua con elettricità positiva si sarebbe prodotto l'ossigeno, mentre dal collegamento con elettricità negativa ne sarebbe risultato l'idrogeno. In un primo tempo questa tesi venne accolta con favore; Antoine-François de Fourcroy (1755-1809) avanzò l'ipotesi che il fluido elettrico si sarebbe depositato al polo negativo, legandosi con l'idrogeno e liberando ossigeno; come composto dell'idrogeno sarebbe poi migrato al polo opposto, dove l'idrogeno sarebbe precipitato mentre il fluido si sarebbe depositato. Inoltre, vi furono alcuni tentativi di spiegare l'elettrolisi dell'acqua come una reazione acido-base partendo dal fatto che al polo negativo si aveva una reazione alcalina e a quello positivo una reazione acida. Humphry Davy (1778-1829), infine, riuscì a dimostrare che le reazioni ai poli erano dovute alle impurità dell'acqua.

Mentre in Francia la ricerca s'incentrò sulla teoria della pila voltaica e lo studio dell'elettrochimica subì una battuta d'arresto per la scarsità di finanziamenti e di sostegno da parte delle istituzioni, Davy in Inghilterra e Jöns Jacob Berzelius (1779-1848) in Svezia posero i fondamenti metodologici e teorici dell'elettrochimica.

Nel 1803, Berzelius e Wilhelm Hisinger (1766-1852) pubblicarono uno studio, che all'epoca era il più completo circa l'azione chimica della pila voltaica (Versuche über die Wirkung der elektrischen Säule auf Salze und auf einige von ihren Basen, Prove sull'effetto della colonna elettrica sui sali e su alcune delle loro basi), nel quale analizzarono le soluzioni acquose di 11 sali e dell'idrato di ammonio, e formularono le prime leggi del comportamento elettrochimico dei sali; stabilirono, per esempio, che i corpi combustibili, le terre alcaline e quelle alcalino-terrose migravano al polo negativo, mentre l'ossigeno, gli acidi e gli ossidi migravano al polo positivo. I due scienziati non riuscirono però a stabilire una chiara connessione tra l'affinità chimica e il comportamento elettrico delle sostanze, rinunziando a fornire una spiegazione esauriente: "Non azzardiamo ipotesi sulle modalità delle suddette decomposizioni" ‒ scrivevano in proposito i due autori ‒ "e la spiegazione che ci appare più plausibile è quella che le riconduce all'attrazione elettrica per determinate sostanze e alla repulsione per altre, sebbene questa non ci appaia ancora una ragione sufficiente" (Berzelius 1803, p. 148).

L'elettrochimica di Humphry Davy

Elettricità e affinità chimica

Davy intraprese lo studio della chimica da autodidatta nel 1797, attraverso la lettura del Dictionary of chemistry di Nicholson e del Traité élémentaire de chimie di Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794). Sin dal principio il sistema degli elementi di Lavoisier gli sembrò inficiato da gravi carenze. Contraddicendo la sua idea fondamentale, secondo la quale andavano annoverate tra gli elementi le sostanze che non potevano essere ulteriormente decomposte, Lavoisier, infatti, non aveva incluso nella lista degli elementi gli alcali soda e potassa, rendendo quindi questa classificazione controversa. Davy, inoltre, rifiutava anche la teoria sostanzialistica del calore sostenuta da Lavoisier e da molti contemporanei. Egli, effettivamente, aderiva piuttosto alla teoria dinamica della materia che, verso la metà del XIX sec., incontrava il favore in particolare dei filosofi della Natura romantici, poiché i suoi presupposti erano essenzialmente di tipo filosofico e si fondavano sul principio della semplicità e dell'unitarietà dei costituenti ultimi della materia.

L'invenzione di Volta risvegliò immediatamente l'interesse di Davy, che nello stesso anno pubblicò un primo studio sperimentale sulla pila in cui rifiutava la teoria del contatto e individuava la fonte dell'elettricità in una reazione chimica, ossia l'ossidazione dello zinco mediante il conduttore umido della pila. Nei suoi lavori successivi Davy modificò questa prima ipotesi, postulando una interconnessione tra elettricità di contatto e reazioni chimiche, ma ormai era già tracciata la strada per determinare sperimentalmente l'affinità chimica attraverso lo studio delle interazioni elettrochimiche.

Davy espose i risultati dei suoi più importanti studi sperimentali sull'elettrochimica nelle famose Bakerian lectures tenute nel biennio 1806-1807 alla Royal Society di Londra, ma già a partire dal 1801, in una serie di lezioni tenute presso la Royal Institution di Londra, egli aveva dimostrato gli effetti della pila a un vasto pubblico di borghesi benestanti. Con la prima Bakerian lecture, Davy affrontava una serie di problemi centrali: la decomposizione elettrolitica dell'acqua, la teoria dell'elettrolisi e la decomposizione chimica degli alcali. Le pubblicazioni tratte da queste lezioni, apparse l'anno seguente nelle "Philosophical Transactions" della Royal Society, trovarono un'accoglienza entusiasta. Sia Berzelius sia il chimico scozzese Thomas Thomson (1773-1852) lodarono la metodologia brillante e le doti intellettuali dell'autore. Con l'ausilio di costosi apparecchi e di particolari accorgimenti ‒ recipienti di agata e d'oro, eliminazione dell'azoto atmosferico ‒ Davy riuscì a stabilire che le reazioni acide e alcaline spesso osservate ai poli erano effetti secondari e che l'ossigeno e l'idrogeno erano gli unici costituenti dell'acqua. In questo modo, andando contro l'interpretazione di Ritter e di altri autori, egli era riuscito a stabilire che la pila era anche uno strumento di analisi chimica. Di particolare rilievo, inoltre, appariva la teoria di Davy sul meccanismo dell'elettrolisi, che forniva una spiegazione illuminante della enigmatica separazione e liberazione ai poli degli elementi del composto, sostenendo che la superficie metallica carica di elettricità positiva attirava l'ossigeno e respingeva l'idrogeno di una particella d'acqua, viceversa la superficie metallica carica di elettricità negativa attirava l'idrogeno e respingeva l'ossigeno; ciò determinava una serie di decomposizioni e ricomposizioni e, infine, una migrazione di particelle da un polo all'altro. Da ciò emerge come Davy non fosse un sostenitore della teoria dell'elettricità come fluido. Infatti, riallacciandosi alla tradizione newtoniana, egli interpretava l'elettricità piuttosto come una forza di attrazione e di repulsione insita nella materia, in grado di causare la migrazione delle particelle della materia stessa. Davy, inoltre, riuscì a stabilire una connessione tra stato elettrico e proprietà chimiche; egli constatò, per esempio, che l'argento polarizzato positivamente si ossidava facilmente, mentre lo zinco polarizzato negativamente rimaneva inerte. In questo modo veniva relativizzato uno dei grandi teoremi classici della chimica, che nemmeno Lavoisier aveva messo in discussione, secondo il quale le proprietà chimiche di un composto erano determinate dagli elementi che entravano nella sua composizione.

In questo modo, dimostrando che l'azione dell'elettricità poteva scindere gli elementi di un composto o alterarne il comportamento chimico, Davy aveva istituito un collegamento con l'affinità chimica. L'elaborazione sistematica di una teoria elettrochimica dell'affinità era in contrasto con la propensione di Davy per la Naturphilosophie romantica, per la riflessione religiosa sui fondamenti ultimi della Natura e per la poesia ‒ interessi che, peraltro, si coniugavano nello scienziato inglese con un attento sperimentalismo ‒ tuttavia i suoi studi sperimentali posero le basi per lo sviluppo di tale teoria. Nel mondo anglosassone Davy è considerato il fondatore dell'elettrochimica, mentre la storiografia tedesca preferisce attribuire questo merito a Ritter.

La spiegazione dell'attrazione chimica fornita da Davy si rifaceva all'idea di Volta dell'elettricità di contatto, vale a dire che le sostanze che si univano chimicamente entrando in contatto reciproco si caricavano di elettricità di segno opposto. Nella Bakerian lecture, on some agencies of electricity del 1807, Davy citava come esempi il rame e lo zinco, l'oro e il mercurio, lo zolfo e i metalli, gli acidi e gli alcali, e concludeva che lo stesso fenomeno si verificava anche per le loro particelle elementari:

Supponendo una perfetta libertà di movimento delle loro particelle o materia elementare, in base ai principî enunciati sopra, esse si attrarranno reciprocamente in conseguenza delle loro forze elettriche. Allo stato attuale delle conoscenze, sarebbe inutile cercare di speculare sulla causa remota dell'energia elettrica, o chiedersi perché sostanze differenti, poste in contatto, si elettrizzano diversamente; la sua connessione con l'affinità chimica tuttavia è sufficientemente evidente. Non potrebbe essere addirittura identica a essa, cioè una proprietà essenziale della materia? (Davy 1807, p. 39)

L'ipotesi dell'identità tra affinità chimica ed energia elettrica avanzata da Davy era convalidata sperimentalmente e in ciò si distingueva dalle teorie dell'affinità del XVIII secolo. Infatti una teoria assai diffusa in quell'epoca aveva equiparato l'affinità chimica alla forza gravitazionale, assumendo però che essa si modificasse a seconda della forma dei corpuscoli, dando così luogo ai fenomeni chimici specifici delle diverse sostanze; mancava tuttavia una verifica sperimentale di questa ipotesi, né era stata trovata una soluzione soddisfacente al problema della determinazione quantitativa dell'affinità chimica. A questo punto, invece, Davy poteva proporre come metodo di misurazione la decomposizione elettrica: infatti, poiché l'apparecchio di Volta era in grado di superare la forza di attrazione elettrica naturale di un corpo, l'intensità e la quantità di energia elettrica impiegata per questa decomposizione davano una misura del grado di affinità chimica. Nel quadro della teoria elettrochimica dell'affinità, Davy poteva render conto anche delle reazioni chimiche specifiche delle diverse sostanze; così, per esempio, rispetto ai metalli gli acidi avevano una energia negativa, mentre gli alcali l'avevano positiva. La quantità di energia elettrica delle particelle di queste sostanze erano diverse: quando due corpi che entravano in contatto ne attraevano un terzo, i due corpi che si attraevano con maggior forza si combinavano e quello con l'energia più debole veniva respinto. Attraverso l'energia elettrica si poteva ottenere una decomposizione graduale dai componenti dei sali neutri, che avevano il legame relativamente più debole, agli elementi, tra i quali il legame era più forte.

Nelle diverse fasi del suo pensiero Davy cambiò ripetutamente la sua concezione del rapporto tra forze elettriche e forze chimiche; l'unica idea alla quale si attenne sempre, coerentemente, sino alla fine, fu quella della unitarietà e della semplicità della Natura. Questo assunto, tipico della Naturphilosophie romantica, è alla base anche dell'ipotesi, da lui formulata ripetutamente a partire dal 1808, dell'esistenza di un'unica legge universale della Natura. Sul piano empirico Davy operava una distinzione tra quattro forze naturali: gravitazione, coesione, magnetismo ed elettricità. Nel 1812, allorché pubblicò gli Elements of chemical philosophy, Davy era all'apice della fama (in quello stesso anno Napoleone Bonaparte lo insignì del titolo di conte) e si concesse di dar libero corso alle proprie inclinazioni speculative, formulando l'ipotesi che le forze elettriche e quelle chimiche non fossero che due manifestazioni di un'unica forza. Le trasformazioni chimiche sarebbero riconducibili all'azione delle singole particelle, quelle elettriche, dell'intera massa di un corpo. Avvezzo ai successi, Davy entrò così in aspro conflitto con Berzelius, avversario della Naturphilosophie romantica che all'epoca conosceva un particolare rigoglio anche in Svezia. I due scienziati si erano conosciuti a Londra nel 1812, ma gli attacchi di Berzelius infersero un duro colpo alla loro amicizia, conducendo infine a una rottura definitiva.

Atomi ed elementi

Nella seconda Bakerian lecture, tenuta nel 1807, Davy annunciò la scoperta di due nuovi metalli, cui diede il nome di 'sodio' e di 'potassio'. In questa occasione lo scienziato inglese affrontava la seconda problematica concernente la teoria della materia, ossia la questione dell'atomismo e degli elementi. Sino a quel momento soda e potassa si erano dimostrate refrattarie a ogni tentativo di analisi chimica e scegliendo questi due alcali Davy affrontava le questioni lasciate irrisolte da Lavoisier. La decomposizione si presentava difficile e richiedeva condizioni particolari, poiché con i normali metodi dell'elettrolisi in soluzione acquosa si otteneva soltanto una decomposizione dell'acqua; l'elettrolisi riuscì dopo che Davy adottò il metodo di fondere la potassa solida leggermente inumidita con la corrente elettrica. Nei laboratori della Royal Institution, Davy aveva a disposizione una serie di pile voltaiche di notevole potenza, con un numero elevato ‒ sino a 250 ‒ di piastre di rame e di zinco. Come recipiente elettrolitico egli usò un cucchiaio di platino, che fungeva anche da elettrodo, mentre un filo di platino costituiva il secondo elettrodo; le nuove sostanze che si formavano assumevano l'aspetto di palline simili al mercurio, che spesso esplodevano bruciando. Date le loro proprietà caratteristiche, Davy stabilì che si trattava di metalli e quindi di elementi nel senso di Lavoisier.

La sua tesi venne aspramente contestata da varie parti. Napoleone Bonaparte aveva insignito Davy di una medaglia, ma nello stesso tempo aveva commissionato all'École Polytechnique la costruzione di pile ancora più potenti, cosicché negli anni successivi si accese una competizione, non priva di toni nazionalistici, tra Davy e i chimici francesi Joseph-Louis Gay-Lussac (1778-1850) e Louis-Jacques Thenard (1777-1857) per il possesso dell'apparato di Volta più potente. In genere la controversia sullo status di elementi dei metalli alcalini viene oggi collocata nel contesto di questa disputa, che contribuì alla rinascita della ricerca elettrochimica in Francia. Va osservato, peraltro, che le argomentazioni formulate da Gay-Lussac e da Thenard si basavano su esperimenti esclusivamente di tipo chimico.

I due scienziati francesi criticarono la teoria di Davy sostenendo che il sodio e il potassio erano composti da alcali e da idrogeno, basandosi essenzialmente sulla reazione del potassio con ammoniaca secca, che essi portarono sino alla formazione di azoturo di potassio (K3N). Durante questo processo si liberava idrogeno, e poiché aggiungendo acqua all'azoturo si riotteneva ammoniaca con alcali come prodotto secondario, essi arrivarono alla conclusione che l'idrogeno prendeva origine dal potassio. Anche in Inghilterra, nello stesso periodo, vi furono vari tentativi di confutare la teoria di Davy: John Dalton (1766-1844), per esempio, riteneva che il potassio fosse un composto dell'idrogeno; John Murray, invece, pensava che contenesse acqua. La discussione sullo status di elementi delle due sostanze portò ad analoghe indagini sul cloro e sullo iodio e all'isolamento del boro da parte di Gay-Lussac e Thenard. I lavori di Davy sul cloro, da lui classificato come elemento, si segnalano altresì per il fatto che egli, dimostrando che l'acido cloridrico era un composto di idrogeno e cloro, riuscì a confutare la teoria lavoisieriana dell'acidità sostenendo che l'elemento comune a tutti gli acidi era l'idrogeno e non l'ossigeno.

Questi lavori, però, investivano anche il problema della natura della materia. Ci si chiede in che modo la tesi di Davy, secondo la quale i metalli alcalini dovevano essere considerati elementi, si conciliava con il suo assunto dell'unità della materia e con la teoria di Dalton. Davy accettava quest'ultima solamente per la sua componente empirica, cioè la legge delle proporzioni multiple e quella degli equivalenti chimici, ma era uno dei principali critici della sua componente atomistica, considerata soltanto ipotetica. Dalton aveva affermato che gli elementi si componevano di atomi irriducibilmente diversi, mentre per Davy esisteva un unico tipo di atomi, che di volta in volta assumevano configurazioni differenti. Davy inoltre sosteneva che non era lecito dedurre il carattere irriducibile degli elementi dalle loro differenze qualitative, poiché anche i composti formati dai medesimi elementi, per esempio gli ossidi d'azoto, presentavano proprietà diverse.

Da ciò egli traeva la conclusione che "quelle sostanze che oggi riteniamo costituite da differenti tipi di materia in ultimo potrebbero essere ricondotte a proporzioni diverse di specie simili" (Davy 1839-40, VIII, p. 323). Davy operava una distinzione tra il concetto operativo di elemento proposto da Lavoisier e la definizione corpuscolare degli elementi chimici di Dalton, nel senso che, per esempio, i metalli alcalini, il cloro e lo iodio, erano elementi soltanto nel primo significato. Fu Berzelius, alla fine, a definire la teoria elettrochimica dell'affinità nella forma in cui sarebbe stata universalmente accettata nella prima metà del XIX secolo.

Le ricerche sperimentali di Jöns Jacob Berzelius

Già nel 1802, per la dissertazione di laurea in medicina, Berzelius aveva condotto esperimenti con la pila di Volta al fine di scoprirne gli eventuali effetti terapeutici. Anche se queste ricerche non misero in luce alcuna proprietà di questo tipo, Berzelius non perse l'interesse per i fenomeni elettrici. La sua già menzionata prima ricerca del 1803, condotta assieme al suo protettore Hisinger, ricco proprietario di miniere e importante membro della Società galvanica svedese, era ancora improntata a una grande prudenza per quanto riguardava le conclusioni teoriche. Essa, tuttavia, conteneva una concezione sostanzialistica dell'elettricità e presentava fin da allora la conclusione generale secondo cui i cosiddetti 'sali neutri' ‒ come erano definiti i sali dei metalli alcalini e alcalino-terrosi per differenziarli dai 'sali metallici' ‒ per azione della corrente elettrica si decomponevano in basi e in acidi, separandosi rispettivamente al polo negativo e a quello positivo. Tradizionalmente, a questo lavoro sono fatte risalire le origini della teoria della natura elettrica dell'affinità chimica e della sua connessione con la teoria dualistica dei sali. Gli studi più recenti sottolineano la relativizzazione dei concetti di acidità e basicità operata da Berzelius, il quale non li riconnetteva più a proprietà chimiche specifiche, ma a un determinato comportamento durante l'elettrolisi.

Solamente nel 1808 Berzelius proseguì i suoi esperimenti elettrochimici; a stimolarlo fu la scoperta di Davy dei metalli alcalini, che destò il suo entusiasmo spingendolo a istituire analogie con il comportamento delle terre alcaline, che sino ad allora erano risultate anch'esse impossibili da decomporre. Queste ricerche furono effettuate da Berzelius, che aveva da poco acquisito una solida posizione come professore di medicina e farmacia al Collegio Medico di Stoccolma, assieme al suo vecchio amico Magnus Martin Pontin (1781-1858), divenuto in seguito medico personale del re di Svezia. Pur non avendo a disposizione una pila sufficientemente potente per ripetere direttamente gli esperimenti di Davy, utilizzando come elettrodo il mercurio i due scienziati riuscirono a ottenere il potassio, il calcio e il bario sottoforma di amalgami metallici; adottando il metodo del mercurio di Berzelius, poco tempo dopo fu Davy a isolare i metalli in forma pura (all'epoca Davy e Berzelius intrattenevano un intenso scambio scientifico). Osservando che anche l'ammoniaca poteva essere trasformata in amalgama, Berzelius credette in un primo tempo che esistesse un metallo ammoniacale. In seguito egli condusse una serie di esperimenti sui processi che avvenivano nella pila voltaica, arrivando a formulare una teoria chimica della pila in contrasto con la teoria del contatto generalmente accettata e sostenuta in varie versioni, per esempio, da Jean-Baptiste Biot (1774-1862), Antoine-César Becquerel (1788-1878) e André-Marie Ampère (1775-1836). Con queste ricerche si concludeva il contributo sperimentale di Berzelius all'elettrochimica.

La teoria dualistica dei sali e dell'affinità

La teoria dei sali era il cardine del sistema chimico di Berzelius, che collegava la concezione dualistica mutuata da Lavoisier ‒ secondo cui i sali erano costituiti fondamentalmente da una componente acida e da una basica ‒, la teoria dell'affinità elettrochimica e quella atomistica di Dalton. I sali costituirono anche l'oggetto principale dell'attività pratica di Berzelius, che per tutto un decennio si dedicò interamente all'analisi chimica diventando uno degli scienziati più eminenti in questo campo per l'attendibilità dei risultati ottenuti. Nel 1818 egli pubblicò una tabella dei pesi atomici dei 49 elementi all'epoca conosciuti, 39 dei quali erano stati determinati personalmente dallo studioso e altri 6 dai suoi allievi, nella quale erano elencati anche i componenti di circa 2000 composti; gli stessi metodi analitici impiegati erano stati in larga misura messi a punto da Berzelius.

Soprattutto i lavori di Lavoisier esercitarono una profonda influenza sullo scienziato svedese, come attesta il ruolo preminente che egli attribuiva all'ossigeno quale elemento centrale attorno cui ruotava tutta la chimica. Originariamente Berzelius divideva gli elementi in due classi: la prima conteneva soltanto l'ossigeno, l'altra tutti gli altri corpi cosiddetti 'combustibili'. I sali venivano considerati composti da un ossido metallico basico più alcuni acidi, ovvero quelli che nella chimica attuale sono considerati anidridi degli acidi. Il solfato di rame (attualmente CuSO4), in base a tale classificazione, aveva la formula CuO3SO3 (secondo la vecchia notazione). In questo modo, se l'ossigeno perdeva la sua funzione di principio costitutivo degli acidi, restava nondimeno l'elemento che legava i componenti. Questa teoria fu all'origine della controversia sul cloro sorta con la parte avversa guidata da Davy. Berzelius classificava sia il cloro sia l'ammoniaca tra gli ossidi, soprattutto per salvaguardare una simmetria teorica che non ammetteva eccezioni; intorno al 1820, tuttavia, egli arrivò a convincersi che anche il cloro era un elemento, riconoscendo l'esistenza dei cosiddetti 'idracidi'.

Il sistema chimico di Berzelius risultava particolarmente convincente per il suo fondamento fisico riguardo alla teoria dell'affinità elettrochimica, che egli elaborò in modo assai più specifico e dettagliato rispetto a Davy. Le prime formulazioni di tale teoria apparvero in francese nel 1813 nelle "Annales de chimie et de physique" e in inglese negli "Annals of philosophy", mentre nella sua forma classica essa venne esposta nella terza parte dell'opera principale di Berzelius, Lärbok i Kemien (Trattato di chimica, 1808), pubblicata nel 1818, seguita da numerose edizioni in tedesco e poi tradotta in varie lingue. Una versione pressoché identica della teoria apparve, come trattato autonomo, a Parigi sotto il titolo Essai sur la théorie des proportions chimiques (1819).

Berzelius divise gli elementi chimici in due classi, elettropositivi ed elettronegativi, ordinandoli in base alla loro disposizione elettrochimica in una scala in cui all'estremo degli elementi elettronegativi veniva collocato l'ossigeno e all'estremo di quelli elettropositivi il potassio. Soltanto questi due elementi si comportavano in modo esclusivamente elettronegativo o elettropositivo, mentre in tutti gli altri il carattere elettrico dipendeva dall'elemento con il quale si legavano. Così, per esempio, lo zolfo rispetto all'ossigeno era positivo, mentre rispetto ai metalli era negativo; restava però da risolvere il problema di tale variazione nei comportamenti elettrochimici degli elementi intermedi. Berzelius individuava nell'elettricità la "causa prima di tutta l'attività chimica"; tutti gli atomi erano portatori delle due elettricità opposte, ma un polo risultava dominante determinando la cosiddetta "unipolarità specifica di un dato atomo". Come ulteriore criterio Berzelius introdusse la cosiddetta 'intensità di polarizzazione', per rendere conto del fatto che il legame tra alcuni elementi, come per esempio l'ossigeno e lo zolfo che possedevano una medesima unipolarità specifica, era assai più forte di quello che si instaurava, invece, tra l'ossigeno e il rame, che erano considerati dotati di una unipolarità opposta. L'idea dell'esistenza di unipolarità specifiche nelle sostanze fu in seguito occasione di una controversia con Faraday. Berzelius spiegava l'origine del legame chimico come fosse dovuto a una scarica elettrica parziale, che, per esempio, provocava il fenomeno del fuoco nella reazione della combustione. La sua teoria dell'affinità si distingueva in tre punti essenziali da quella di Davy: l'idea che ogni atomo avesse una polarità specifica; l'ipotesi che le combinazioni chimiche determinassero una scarica elettrica parziale; infine, l'idea che l'elettrolisi attraverso l'azione della pila voltaica neutralizzasse la carica degli atomi riportandoli allo stato antecedente alla combinazione.

La teoria dualistica di Berzelius si dimostrava valida soprattutto nel campo della chimica inorganica che, alla fine del XVIII sec., rappresentava il ramo più importante della disciplina. Tuttavia con i successivi sviluppi della chimica organica essa venne sempre più messa in discussione. In particolare, gli esiti delle ricerche di Jean-Baptiste-André Dumas (1800-1884) sulla sostituzione dell'idrogeno (elettropositivo) degli acidi organici con gli alogeni (elettronegativi) risultavano difficilmente conciliabili con la teoria di Berzelius.

Proporzioni chimiche e atomismo

Sebbene Berzelius contribuisse in modo decisivo all'affermazione dell'atomismo di Dalton, la sua posizione teorica relativamente al problema dei costituenti ultimi della materia è piuttosto complessa e non può essere classificata come 'realistica'. Già nel 1807 e dunque prima della pubblicazione del New system of chemical philosophy di Dalton, Berzelius, riallacciandosi ai lavori di Jeremias Benjamin Richter (1762-1807), si era dedicato allo studio delle proporzioni chimiche rifacendosi soprattutto all'esempio dell'ammoniaca.

Nel 1810 il chimico svedese presentò due leggi delle proporzioni ricavate dall'analisi di numerosi sali. La prima affermava che nei composti di due elementi uno ricorre sempre nella sua unità quantitativa minima, mentre l'altro, di norma l'ossigeno, può presentarsi con 1, 1 e 1/2, 2 o 4 unità minime. La seconda legge affermava che la quantità di ossigeno nel composto di un sale deve essere un multiplo intero della quantità di ossigeno presente nel secondo componente. Il concetto di 'unità minime' implicava un atomismo chimico empirico, ma non ancora una teoria atomica. La critica di Berzelius alla teoria di Dalton, formulata nel 1812 in uno scambio epistolare con l'autore, si basava su queste leggi empiriche delle proporzioni, non su argomentazioni filosofico-naturalistiche. Le regole di combinazione per gli atomi di Dalton, che richiedevano proporzioni espresse da numeri interi, contraddicevano i risultati dell'analisi di Berzelius. Per quanto questi ritenesse la teoria atomica una grande conquista, negli anni successivi la sua terminologia continuò a oscillare: per esempio, lo scienziato svedese impiegava spesso il termine volume, richiamandosi alla legge dei volumi di reazione di Gay-Lussac, secondo cui la combinazione di due gas avviene secondo rapporti volumetrici semplici e il nuovo gas composto è anch'esso in rapporto volumetrico semplice con il volume dei suoi componenti. Per Berzelius, quindi, in ultima istanza la teoria atomica restava subordinata alla teoria delle proporzioni. La terza parte del Lärbok i Kemien conteneva in larga misura ipotesi speculative sugli atomi, che si assumeva fossero particelle sferiche, indivisibili, impenetrabili, di grandezza determinabile e con un numero massimo di coordinazione pari a 12. Tutte queste teorie, peraltro, erano espresse volutamente in forma ipotetica. Per Berzelius i concetti di 'atomo' e di 'equivalente chimico' erano sinonimi. Problematico restò per lungo tempo il fatto che le sue leggi delle proporzioni ammettevano che i rapporti di combinazione potessero essere rappresentati da numeri frazionari: 1:1 e 1/2. La soluzione atomica di Dalton, consistente nel formulare la proporzione come 2:3, venne respinta da Berzelius per ragioni che dimostravano con chiarezza la difficoltà di arrivare al concetto attuale di 'molecola': secondo l'ipotesi di Dalton, per gli atomi erano ammissibili anche rapporti numerici come 99:100. Inoltre, la problematica collegata al concetto di molecola trovava riscontro nell'ipotesi di Berzelius che esistesse una struttura gerarchica della materia, con tre livelli di aggregazione degli atomi. Solamente dopo il 1816 egli abbandonò le sue leggi delle proporzioni, utilizzando la teoria degli atomi irriducibili come supporto teorico strumentale a rappresentare nel modo migliore i fenomeni chimici.

Le ricerche sperimentali di Michael Faraday sull'elettricità

La teoria dell'elettrolisi

Se la teoria elettrochimica di Berzelius era incentrata sempre su problemi squisitamente chimici, come la spiegazione del comportamento specifico degli elementi o quella del legame chimico, le ricerche di Faraday, il terzo padre fondatore dell'elettrochimica, investivano ambiti disciplinari al confine con la fisica. Lo stesso Faraday, del resto, rifiutava qualsiasi distinzione netta tra le due discipline e si definiva volentieri un 'filosofo sperimentale'.

Di umili origini come il suo protettore Davy, Faraday ricevette un'istruzione piuttosto disordinata e studiò in larga misura da autodidatta. In qualità di assistente di Davy alla Royal Institution di Londra fece rapidamente carriera, ma, a differenza del suo tutore, preferiva lavorare da solo e non ebbe alcun allievo. Faraday mutuò da Davy la teoria dinamica della materia ‒ privilegiando negli anni giovanili la teoria di Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787) che ipotizzava l'esistenza di forze centrali di attrazione e repulsione che promanavano da atomi puntiformi e indivisibili ‒ respingendo anch'egli la tesi che l'elettricità fosse un fluido. Assai presto Faraday intuì che la spiegazione dell'affinità costituiva la chiave per comprendere i fenomeni chimici. Pur condividendo l'idea romantica dell'unità delle forze naturali e la concezione dinamica della materia, egli si mostrava piuttosto scettico nei confronti di ogni filosofia della Natura. Seguace della piccola setta protestante dei sandemanisti ed empirista convinto, Faraday fondava le proprie convinzioni sulla rivelazione biblica e sui fatti dimostrati dagli esperimenti, considerando discutibili le ipotesi in quanto frutto di un pensiero puramente speculativo. Qualora si perdesse la consapevolezza del loro carattere speculativo, le ipotesi ‒ tra le quali Faraday annoverava anche la teoria atomistica ‒ non sarebbero altro che pregiudizi. Queste posizioni epistemologiche trovavano riscontro nel modo in cui Faraday presentava i risultati delle proprie ricerche. Le sue opere venivano redatte sotto forma di resoconti di esperimenti e di osservazioni accompagnati da brevi riflessioni occasionali, ordinati in serie e numerati progressivamente.

Durante l'estate del 1832 Faraday cominciò a realizzare i suoi esperimenti elettrochimici. Il fratello di Humphry Davy, John, aveva posto in dubbio l'identità dei fenomeni elettrici prodotti da sorgenti diverse, affermando che gli effetti elettrici derivavano dalla combinazione di forze differenti: i risultati degli esperimenti di Faraday confutarono tale ipotesi dimostrando l'identità qualitativa tra l'elettricità di strofinio e l'elettricità di Volta. Faraday, inoltre, costruì un galvanometro che consentiva di determinare la quantità di energia elettrica attraverso la misurazione della deviazione di un ago magnetico. Con l'ausilio di questo dispositivo egli studiò il rapporto tra attività chimica e quantità di elettricità, osservando il grado di colorazione di una carta reattiva imbevuta di ioduro di potassio in seguito alla somministrazione di determinate quantità di elettricità derivate alternativamente da una macchina elettrostatica e da una pila voltaica. Partendo da questa base sperimentale assai esigua Faraday enunciò la legge generale secondo cui l'attrazione chimica e quella magnetica sono direttamente proporzionali alla quantità di elettricità.

A conclusione di queste ricerche Faraday affrontò il problema del meccanismo dell'elettrolisi, formulando una teoria basata interamente su una concezione dinamica della materia, e sui concetti di 'linea di forza' e di 'campo di forza' sviluppati in connessione con gli esperimenti sulle interazioni elettromagnetiche. Faraday respinse la tesi di Davy e di Johann Christian Dietrich von Grotthus (1785-1822) secondo cui i poli esercitano un'azione a distanza di attrazione e repulsione sulle particelle in soluzione. Nei propri esperimenti, infatti, egli era riuscito a ottenere alcune decomposizioni chimiche attraverso scariche elettrostatiche nell'atmosfera, senza utilizzare poli metallici; inoltre, aveva stabilito che tra due dischi di platino immersi in un liquido attraversato da corrente elettrica, passava sempre la stessa quantità di corrente indipendentemente dalla distanza dai poli. Da ciò Faraday trasse la conclusione che i poli non erano necessari per la decomposizione elettrochimica e che la forza elettrica che scindeva gli elementi presenti nel composto veniva esercitata laddove avveniva la scissione e non ai poli: dunque, non si trattava di un'azione a distanza. Contro l'idea, all'epoca dominante, che le forze fisiche fossero forze centrali, Faraday concepiva una successione di decomposizioni e di legami che avvenivano parallelamente alla direzione della corrente elettrica; le decomposizioni potevano avvenire secondo linee rette od oblique e l'elettricità produceva una tensione di decomposizione (strain) nella massa del liquido, la quale si sovrapponeva all'affinità chimica che legava le particelle tra loro superandola in direzione delle linee di forza. Le particelle si separavano, migrando in direzioni opposte, e si legavano nuovamente, per poi separarsi ancora una volta e così via; nel complesso, dunque, si aveva una separazione delle componenti attraverso la migrazione delle particelle, che infine si depositavano sulle superfici in cui terminava il conduttore liquido. La nuova teoria dell'elettrolisi consentì a Faraday di innovare la terminologia dell'elettrochimica. Oltre a introdurre il concetto di 'elettrolisi', egli chiamò 'elettrodi' le superfici verso cui migravano le particelle e 'ioni' le particelle mobili, distinguendole a seconda della direzione dello spostamento in 'cationi' e 'anioni' (per tutte queste innovazioni terminologiche Faraday si ispirò ai suggerimenti di Whewell).

L'idea delle linee di forza curve aveva le sue radici nei primi lavori di Faraday sull'elettromagnetismo, risalenti all'inizio degli anni Venti dell'Ottocento. Hans Christian Oersted (1777-1851) aveva constatato che ogniqualvolta una corrente percorre un filo conduttore posto vicino a un ago magnetico mobile, l'ago viene deviato. Faraday spiegò il fenomeno sostenendo l'esistenza di una forza circolare come forza fondamentale semplice. Tuttavia tale ipotesi era priva di ogni fondamento matematico, limite che ha le sue ragioni unicamente nella carente preparazione di Faraday in materia. Su questo terreno egli entrò in accesa polemica con la spiegazione di tale effetto fornita da Ampère.

Quest'ultimo proponeva un modello matematico che rappresentava la forza circolare come risultante di forze centrali di particelle di corrente elettrica nel filo. Faraday, come 'filosofo sperimentale', non poteva accettare il carattere ad hoc di tale modello, tanto più che le particelle di corrente postulate da Ampère non erano accessibili all'osservazione.

Le leggi di Faraday

Le leggi di Faraday costituiscono senza dubbio il contributo più importante dello scienziato inglese all'elettrochimica. Le ricerche sperimentali che stanno alla base di tali leggi si ricollegano direttamente a quelle da lui compiute negli anni precedenti; alla dimostrazione dell'identità delle correnti elettriche prodotte da diverse sorgenti fece seguito la determinazione dei rapporti quantitativi delle loro trasformazioni chimiche. Il nucleo centrale della legge era stato enunciato da Faraday già nel 1833, in relazione all'ossidazione elettrica dello ioduro di potassio e tuttavia soltanto il trattato pubblicato nell'anno successivo fornì una base empirica sufficientemente ampia da legittimarne una generalizzazione. La legge in questione, enunciata nelle Experimental researches in electricity, afferma che la forza chimica di una corrente elettrica è direttamente proporzionale alla quantità assoluta di elettricità che attraversa il circuito. Il rapporto che in questo caso viene espresso in una singola proposizione, a partire dalla fine dell'Ottocento venne riformulato in due differenti leggi: la prima afferma che l'azione chimica è proporzionale alla quantità di elettricità che attraversa il circuito; la seconda che le sostanze decomposte dal passaggio di una determinata quantità di elettricità sono proporzionali ai rispettivi equivalenti chimici.

Nei manuali moderni, di solito, le leggi di Faraday vengono considerate una dimostrazione dell'esistenza di unità di carica di tipo atomico. Tale interpretazione risale a Hermann von Helmholtz (1821-1894) che la introdusse nel 1881. Lo stesso Faraday concepiva la legge come una conferma della 'bella idea' secondo cui l'affinità chimica non era che una conseguenza dell'attrazione elettrica tra le particelle di diverse sostanze, senza però vedere in ciò una dimostrazione nel senso ipotizzato da Helmholtz.

In un primo tempo la legge venne piuttosto trascurata dai chimici. Uno dei suoi critici più accesi fu Berzelius, che la respinse sulla base del concetto di unipolarità specifica presente, come si è visto, nella sua teoria dualistica: secondo tale teoria, l'affinità chimica dipenderebbe dal rapporto delle quantità di elettricità presenti negli atomi. Per superare un'affinità forte si renderebbe allora necessaria una quantità di elettricità maggiore di quella richiesta per superarne una più debole.

La teoria dinamica della materia

La scoperta dell'equivalenza elettrochimica sollevava il problema del modo in cui l'elettricità era associata alle particelle di materia. Faraday, che pure rifuggiva dalle spiegazioni puramente speculative, in questo caso ritenne 'impolitico' non prendere posizione al riguardo. Peraltro, con la sua interpretazione secondo cui la quantità di elettricità determinerebbe il legame chimico e quindi l'equivalente chimico, egli non intendeva fondare una teoria atomistica. "Devo confessare ‒ scriveva Faraday in proposito nelle Experimental researches in electricity ‒ che diffido del termine atomo; poiché sebbene sia assai facile parlare di atomi, è molto difficile farsi un'idea precisa della loro natura" (in Levere 1971, p. 88). Anche se il termine 'atomo' compare, occasionalmente, nelle sue opere, Faraday preferì sempre utilizzare l'espressione "particelle di materia"; l'idea dell'atomo come corpuscolo solido indivisibile e impenetrabile che si muove nello spazio vuoto gli appariva oltremodo dubbia. Soltanto nel 1844 Faraday attaccò ufficialmente la teoria atomistica nello scritto A speculation touching electrical conduction and the nature of matter, che suscitò un certo scalpore per la sua impronta speculativa, sino ad allora completamente estranea al carattere dello scienziato. La critica principale di Faraday riguardava l'ipotesi del vuoto, che contrastava con l'idea, radicata nelle sue convinzioni religiose, di un Universo pervaso di forze fisiche, in cui si manifestava la potenza di Dio. Faraday elencava otto tipi di forze: il calore, la luce, l'elettricità, il magnetismo, la gravitazione, la coesione, l'affinità chimica e l'inerzia. In contrasto con i fautori del meccanicismo, egli considerava il movimento esclusivamente come un effetto di tali forze. Le sue argomentazioni miravano a dimostrare che il presunto spazio vuoto possedeva determinate proprietà e di conseguenza non era realmente tale. Faraday, per esempio, osservava che secondo la teoria atomistica gli spazi tra gli atomi di un conduttore metallico conducevano l'elettricità, mentre negli isolanti questi stessi spazi vuoti ostacolavano il passaggio di corrente. Altre argomentazioni facevano riferimento alle linee di forza dei magneti e alla forza gravitazionale; Faraday ne traeva la conclusione che le particelle di materia erano circondate da campi di forza. Anche negli anni successivi egli privilegiò il modello degli atomi puntiformi intesi come centri di forze piuttosto che come particelle materiali, richiamandosi ancora una volta alla teoria di Boscovich, che peraltro conosceva soltanto indirettamente in quanto ignorava il latino.

Faraday condivideva con Davy la convinzione che la materia fosse costituita da un numero limitato di elementi e, come si è già detto, quando spiegava l'affinità il più delle volte faceva uso piuttosto del concetto di particella di materia che di quello di atomo; egli, inoltre, credeva nell'identità tra forze chimiche e forze elettriche postulata da Berzelius, del quale peraltro respingeva la teoria dell'unipolarità, ritenendo piuttosto che l'attrazione chimica derivasse dalla tendenza di determinate particelle ad assumere stati opposti quando si avvicinavano: al diminuire della distanza tali stati guadagnavano forza e intensità, fino a dar luogo al legame chimico; egli spiegava poi l'elettività dell'affinità con il fatto che i vari tipi di particelle potevano raggiungere solamente un determinato grado di forza.

In conclusione, è possibile affermare che l'elettrochimica si sviluppò all'inizio del XIX sec. allorché la precedente teoria dell'elettricità come fluido lasciò il posto a un nuovo modello esplicativo costituito da particelle dotate di forza. Mentre la teoria dinamica della materia di Davy e di Faraday si ricollegava alla tradizione delle teorie speculative della Naturphilosophie dei romantici e a quelle dei newtoniani, Berzelius propose un modello strumentale costituito da atomi elementari unipolari e irriducibili che trovò ampi consensi nella chimica dell'epoca. Se da un lato gli esperimenti con la pila voltaica dimostravano chiaramente la connessione tra forze chimiche e forze elettriche, offrendo così il fondamento empirico per una teoria elettrochimica dell'affinità, dall'altro lato si andò delineando una separazione tra teorie chimiche e teorie fisiche della materia.

Bibliografia

Abbri 1994: Abbri, Ferdinando, Romanticism versus Enlightenment. Sir Humphry Davy's idea of chemical philosophy, in: Romanticism in science. Science in Europe, 1790-1840, edited by Stefano Poggi and Maurizio Bossi, Dordrecht-Boston, Kluwer Academic, 1994, pp. 31-45.

Archer 1976: Archer, Mary, Electrochemistry since Davy and Faraday, "Proceedings of the Royal Institution of Great Britain", 49, 1976, pp. 209-242.

Brown 1972: Brown, Theodore M., Galvani, in: Dictionary of scientific biography, edited by Charles Coulston Gillispie, New York, Scribner's Sons, 1970-1990, 18 v.; v. V, 1972, pp. 267-269.

Cantor 1991: Cantor, Geoffrey N., Michael Faraday. Sandemanian and scientist. A study of science and religion in the nineteenth century, Houndmills, Basingstoke, Macmillan, 1991.

Crosland 1980: Crosland, Maurice P., Davy and Gay-Lussac. Competition and contrast, in: Science and the sons of genius. Studies on Humphry Davy, edited by Sophie Forgan, London, Science Reviews, 1980, pp. 95-120.

Dubpernell 1978: Proceedings of the Symposium on selected topics in the history of electrochemistry, edited by George Dubpernell and Jack Hall Westbrook, Princeton, Electrochemical Society, 1978.

Eriksson 1992: Eriksson, Gunnar, Berzelius and the atomic theory. The intellectual background, in: Enlightenment science in the romantic era. The chemistry of Berzelius and its cultural setting, edited by Evan M. Melhado and Tore Frängsmyr, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1992, pp. 56-84.

Forgan 1980: Science and the sons of genius. Studies on Humphry Davy, edited by Sophie Forgan, London, Science Reviews, 1980.

Fullmer 1975: Fullmer, June Z., Davy's Priority in the iodine dispute. Further documentary evidence, "Ambix", 22, 1975, pp. 39-51.

Golinski 1990: Golinski, Jan, Humphry Davy and the 'Lever of Experiment', in: Experimental inquiries. Historical, philosophical and social studies on experimentation in science, edited by Homer E. Le Grand, Dordrecht, Kluwer Academic, 1990, pp. 99-136.

‒ 1992: Golinski, Jan, Science as public culture. Chemistry and enlightenment in Britain, 1760-1820, Cambridge, Cambridge University Press, 1992.

Gooding 1985: Faraday rediscovered. Essays on the life and work of Michael Faraday, 1791-1867, edited and introduced by David Gooding and Frank A.J.L. James, Basingstoke-London, Macmillan, 1985.

Goupil 1991: Goupil, Michelle, Du flou au clair? Histoire de l'affinité chimique de Cardan à Prigogine, Paris, Comité des Travaux Historiques et Scientifiques, 1991.

Guralnick 1979: Guralnick, Stanley M., The contexts of Faraday's electrochemical laws, "Isis", 70, 1979, pp. 59-75.

Heilbron 1976: Heilbron, John L., Volta, in: Dictionary of scientific biography, edited by Charles Coulston Gillispie, New York, Scribner's Sons, 1970-1990, 18 v.; v. XIV, 1976, pp. 69-82.

‒ 1979: Heilbron, John L., Electricity in the 17th and 18th centuries. A study of early modern physics, Berkeley-London, University of California Press, 1979.

James 1989: James, Frank A.J.L., 'The optical mode of investigation'. Light and matter in Faraday's natural philosophy, in: Faraday rediscovered. Essays on the life and work of Michael Faraday, 1791-1867, 2. ed., edited and introduced by David Gooding and Frank A.J.L. James, Basingstoke, Macmillan, 1989, pp. 137-161 (1. ed.: 1985).

Knight 1967: Knight, David M., Atoms and elements. A study of theories of matter in England in the nineteenth century, London, Hutchison, 1967.

‒ 1985: Knight, David M., Davy and Faraday. Fathers and sons, in: Faraday rediscovered. Essays on the life and work of Michael Faraday, 1791-1867, edited and introduced by David Gooding and Frank A.J.L. James, Basingstoke-London, Macmillan, 1985, pp. 33-49.

‒ 1992: Knight, David M., Humphry Davy. Science and power, Oxford, Blackwell, 1992.

Laidler 1993: Laidler, Keith J., The world of physical chemistry, Oxford-New York, Oxford University Press, 1993.

Lefebure 1990: Lefebure, Molly, Humphry Davy. Philosophical alchemist, in: The Coleridge connection. Essays for Thomas McFarland, edited by Richard Gravil and Molly Lefebure, New York, St. Martin's, 1990, pp. 83-110.

Leicester 1970: Leicester, Henry M., Berzelius, in: Dictionary of scientific biography, edited by Charles Coulston Gillispie, New York, Scribner's Sons, 1970-1990, 18 v.; v. II, 1970, pp. 90-97.

Levere 1971: Levere, Trevor H., Affinity and matter. Elements of chemical philosophy, 1800-1865, Oxford, Clarendon, 1971.

‒ 1989: Levere, Trevor H., The lovely shapes and sounds intelligible. Samuel Taylor Coleridge, Humphry Davy, science and poetry, in: Nature transfigured. Science and literature, 1700-1900, edited by John Christie and Sally Shuttleworth, Manchester-New York, Manchester University Press, 1989, pp. 85-101.

Lundgren 1992: Lundgren, Anders, Berzelius, Dalton and the chemical atom, in: Enlightenment science in the romantic era. The chemistry of Berzelius and its cultural setting, edited by Evan M. Melhado and Tore Frängsmyr, Cambridge, Cambridge University Press, 1992, pp. 85-106.

Melhado 1981: Melhado, Evan M., Jacob Berzelius. The emergence of his chemical system, Stockholm, Almqvist & Wiksell International; Madison, University of Wisconsin Press, 1981.

‒ 1992: Enlightenment science in the romantic era. The chemistry of Berzelius and its cultural setting, edited by Evan M. Melhado and Tore Frängsmyr, Cambridge, Cambridge University Press, 1992.

Mertens 1998: Mertens, Joost, Shocks and sparks. The Voltaic pile as a demonstration device, "Isis", 89, 1998, pp. 300-311.

Miller 1983: Miller, David Philip, Between hostile camps. Sir Humphry Davy's presidency of the Royal Society of London, 1820-1827, "The British journal for the history of science", 16, 1983, pp. 1-47.

Pancaldi 1990: Pancaldi, Giuliano, Electricity and life. Volta's path to the battery, "Historical studies in the physical and biological sciences", 21, 1990, pp. 123-160.

‒ 1995: Pancaldi, Giuliano, The social uses of past science. Celebrating Volta in Fascist Italy, in: Natural sciences and human thought, edited by Robert Zwilling, Berlin-New York, Springer, 1995, pp. 217-224.

Partington 1964: Partington, James R., A history of chemistry, London, Macmillan; New York, St. Martin's, 1961-1970, 4 v.; v. IV, 1964.

Pera 1986: Pera, Marcello, La rana ambigua. La controversia sull'elettricità animale tra Galvani e Volta, Torino, Einaudi, 1986 (trad. ingl.: The ambiguous frog. The Galvani-Volta controversy on animal electricity, translated by Jonathan Mandelbaum, Princeton, Princeton University Press, 1992).

Ritter 1968: Ritter, Johann Wilhelm, Die Begründung der Elektrochemie und Entdeckung der ultravioletten Strahlen, ausgewählt und kommentiert von Armin Hermann, Frankfurt a.M., Akademische Verlagsgesellschaft, 1968.

Ross 1991: Ross, Sydney, Nineteenth century attitudes. Men of science, Dordrecht-Boston-London, Kluwer Academic, 1991.

Russell 1959: Russell, Colin A., The electrochemical theory of sir Humphry Davy, "Annals of science", 15, 1959, pp. 1-13, 15-25.

‒ 1963: Russell, Colin A., The electrochemical theory of Berzelius, "Annals of science", 19, 1963, pp. 117-126, 127-145.

‒ 1968: Russell, Colin A., Berzelius and the development of the atomic theory, in: John Dalton and the progress of science, edited by Donald S.L. Cardwell, Manchester, Manchester University Press; New York, Barnes and Noble, 1968, pp. 259-273.

Siegfried 1963: Siegfried, Robert, The discovery of potassium and sodium, and the problem of chemical elements, "Isis", 54, 1963, pp. 247-258.

Söderbaum 1899: Söderbaum, Henrik Gustaf, Berzelius' Werden und Wachsen 1779-1821, Leipzig, Barth, 1899.

Sudduth 1978: Sudduth, William M., Eighteenth-century identifications of electricity with phlogiston, "Ambix", 25, 1978, pp. 131-147.

‒ 1980: Sudduth, William M., The Voltaic pile and electro-chemical theory in 1800, "Ambix", 27, 1980, pp. 26-35.

Sutton 1981: Sutton, Geoffrey, The politics of science in early Napoleonic France. The case of the voltaic pile, "Historical studies of the physical sciences", 11, 1981, pp. 329-366.

Volpati 1927: Volpati, Carlo, Alessandro Volta nella gloria e nell'intimità, Milano, Treves, 1927.

Whittaker 1951: Whittaker, Edmund Taylor, A history of the theories of aether and electricity, London-New York, Nelson, 1951-1953, 2 v.; v. I: The classical theories, 1951.

Williams 1965: Williams, Leslie Pearce, Michael Faraday. A biography, London, Chapman & Hall, 1965.

‒ 1971: Williams, Leslie Pearce, Faraday, in: Dictionary of scientific biography, edited by Charles Coulston Gillispie, New York, Scribner's Sons, 1970-1990, 18 v.; v. IV, 1971, pp. 527-540.

‒ 1985: Williams, Leslie Pearce, Faraday and Ampère. A critical dialogue, in: Faraday rediscovered. Essays on the life and work of Michael Faraday, 1791-1867, edited and introduced by David Gooding and Frank A.J.L. James, Basingstoke-London, Macmillan, 1985, pp. 83-104.

CATEGORIE