L'Ottocento: chimica. Chimica e farmacia

Storia della Scienza (2003)

L'Ottocento: chimica. Chimica e farmacia

Anne-Claire Déré

Chimica e farmacia

Probabilmente uno speziale francese della fine del XVIII sec. avrebbe trovato strano, se non addirittura sconveniente, vedersi porre la questione del complesso rapporto tra chimica e farmacia, discipline che considerava come due facce (una teorica e l'altra pratica) di un'unica scienza. È soltanto durante il XIX sec. che viene progressivamente alla luce la complessità di questo rapporto, dopo il duplice sconvolgimento causato dalle due rivoluzioni, quella politica e quella scientifica, che hanno avuto come scenario la Francia. Queste rivoluzioni, infatti, conferiranno alla chimica un'autonomia che porterà alla professionalizzazione della disciplina, al di fuori dell'ambito dei farmacisti.

Durante l'Ancien Régime erano riconosciute solamente le professioni della corporazione medica, che comprendeva medici, farmacisti e chirurghi; esse, perciò, beneficiavano di regole e di un insegnamento organizzato secondo le discipline necessarie alle diverse funzioni. Molto presto, infatti, in tutta Europa, gli uomini che provvedevano alla salute dell'umanità ‒ e in particolare a quella dei principi presso i quali erano a servizio ‒ ottennero favori che contribuirono a conferire loro una condizione di privilegio.

Già nel 1242, la professione di farmacista venne riconosciuta in Germania dalle Novae constitutiones di Federico II; nel 1441 Maria d'Aragona e di Sicilia fondava a Valenza il primo collegio di farmacisti. Nel 1776, a Granada, falliva un tentativo d'insegnamento di questa disciplina, mentre a Parigi, nello stesso periodo (1777), con la creazione del Collège Royal des Pharmaciens si ebbero i primi insegnamenti gratuiti di chimica, botanica e farmacia galenica impartiti presso il Jardin des Apothicaires.

Se è vero che i sovrani dell'Europa centrale e settentrionale, dove fiorivano miniere e industrie, fornivano ai medici sontuosi laboratori per la ricerca chimica e alchimistica e che le grandi università li incaricarono presto dell'insegnamento della chimica, vi sono tuttavia numerose eccezioni alla predominanza di questa professione. In Inghilterra, per esempio, né Henry Cavendish (1731-1810) né Joseph Priestley (1733-1804) seguirono corsi di medicina, e Humphry Davy (1778-1829) lasciò la farmacia nella quale era apprendista per lavorare con Thomas Beddoes (1760-1808) sulla chimica dei gas. In Svezia, infine, se Carl Wilhelm Scheele (1742-1786), che scoprì l'ossigeno contemporaneamente a Priestley, era in effetti un farmacista, il suo professore, il grande naturalista e mineralogista svedese Torbern Olof Bergman (1735-1784), iniziò la carriera con una tesi in matematica pura e ricoprì un posto di professore di matematica e fisica prima di succedere a Johan Gotscholk Wallerius (1709-1785) nella cattedra di chimica e farmacia presso l'Università di Uppsala. In Francia tuttavia le cose andarono diversamente.

La chimica monopolio dei farmacisti francesi

Nella maggior parte dei paesi europei quanti provenivano da famiglie povere trovarono nell'apprendistato presso un laboratorio farmaceutico un mezzo per guadagnarsi presto da vivere; in Francia tuttavia, non avrebbe potuto verificarsi il caso del giovane Davy, il cui padre era un intagliatore di legno che morì quando egli aveva quindici anni, o quello di Scheele, anch'esso di modeste origini. Infatti, lo statuto delle diverse comunità di speziali vietava l'accesso alla professione a qualunque aspirante issu de gens mécaniques, cioè i cui genitori esercitavano un mestiere manuale.

Tale chiusura corporativa, che ha dato origine a vere e proprie dinastie, collocava i farmacisti al primo posto tra i notabili, assieme ai gioiellieri, ma essi ambivano soprattutto a colmare l'abisso che li separava dai medici, che erano docenti universitari. Umiliati dal fatto di trovarsi da troppo tempo sotto una tutela che autorizzava persino i loro rivali a redigere le farmacopee e i formulari, i farmacisti videro nella pratica della chimica il mezzo per diventare finalmente autonomi.

Negli orti di cui disponeva la gran parte delle comunità per la coltivazione delle droghe necessarie alla preparazione dei medicinali, furono costruiti laboratori per dimostrazioni pubbliche di farmacia, sia galeniche sia chimiche. Le prime davano luogo alla fabbricazione dei rimedi in uso, le seconde insegnavano "l'analisi, la natura e le proprietà dei medicamenti semplici e gli effetti che essi hanno gli uni sugli altri nelle mescolanze che di essi vengono fatte", come scriveva Antoine Baumé nella Preface ai suoi Élémens de pharmacie théorique et pratique del 1777. Poco inclini a sporcarsi le mani, i medici lasciarono volentieri ai farmacisti il ruolo di dimostratori e fu in tal modo che, progressivamente, questi ultimi cominciarono a impartire lezioni pubbliche di chimica, come Guillaume-François Rouelle (1703-1770) al Jardin du Roi a Parigi, o private, come Baumé, Pierre-Joseph Macquer (1718-1784) e numerosi altri, pubblicando successivamente trattati di farmacia e di chimica.

Forti di questo privilegio ufficioso, i farmacisti accettarono di buon grado la chimica moderna, poiché permetteva loro di praticare esperimenti che aumentavano il prestigio di cui godevano presso i clienti. Ciò si verificò non solo al Collège Royal des Pharmaciens a Parigi, dove l'insegnamento, organizzato intorno a quattro corsi gratuiti, includeva naturalmente la chimica, ma anche in provincia, dove, nel settembre del 1784, uno speziale fu incaricato di produrre l'idrogeno necessario per gonfiare il primo pallone aerostatico alzatosi in volo nel cielo di Nantes, in Bretagna.

Così, mentre in quel periodo la Germania avviava una riforma che consentiva ai farmacisti l'accesso a un insegnamento fino ad allora riservato a professioni di utilità più pratica ‒ come l'arte mineraria, la lavorazione della porcellana o, ancora, il mestiere del colorista ‒, sarebbe improbabile pensare in Francia un farmacista che, come tale Dingler, lasciava l'officina per andare a istruirsi a Mulhouse sull'arte della tintura e ritornava poi nel proprio paese per aprire una manifattura. I grandi farmacisti, peraltro, padroneggiavano tutti i principali settori della chimica. Balthazar-Georges Sage (1740-1824) fondò la prima scuola di ingegneria mineraria, l'École des Mines, mentre Macquer aveva in mano l'intera industria francese, quale direttore della Manifacture Royale de Sèvres e quale accademico incaricato di riferire sui privilegi richiesti dai professionisti desiderosi di aprire una fabbrica per mettere a frutto i loro procedimenti.

Sarebbe stato difficile immaginare che l'interesse per le scienze sperimentali e naturali che caratterizzò il secolo dei Lumi avrebbe presto minacciato il monopolio dei farmacisti. A Digione un avvocato del locale parlamento, Louis-Bernard Guyton de Morveau (1737-1816), si dedicava all'industria chimica e teneva una corrispondenza con tutti i chimici europei; a Parigi un altro giovane giurista, Antoine-Laurent Lavoisier (1742-1794), allievo di Rouelle, preparava, nel laboratorio che grazie alle sue fortune si poté permettere, ciò che egli stesso definiva 'una rivoluzione'. Tutto ciò non destava in loro, tuttavia, una preoccupazione maggiore di quella concernente gli esperimenti sulla respirazione delle piante ai quali si dedicava il pastore ginevrino Jean Sénebier (1742-1809), né di quelli sui gas espulsi dalle fabbriche di birra ai quali attendeva il religioso inglese Priestley.

L'instaurazione di uno 'status quo'

Gli eventi, peraltro, sembravano dar loro ragione, poiché a partire dal 1800 gli ex mastri speziali, divenuti farmacisti, presentavano già quel doppio volto che farà di loro personaggi centrali nella letteratura del XIX sec.: borghesi grazie alla Rivoluzione francese e scienziati grazie alla rivoluzione chimica. Se da un lato l'abolizione delle corporazioni avrebbe dovuto mettere fine alle prerogative acquisite dalle comunità, dall'altro la legge del germinale dell'anno XI (aprile 1803) confermava i loro diritti e, con la trasformazione del Collège Royal des Pharmaciens del 1777 in École de Pharmacie, professionalizzava il loro insegnamento della chimica portandolo al livello di quello dei medici.

Certo, questa scuola non era né la prima né l'unica fondata dalle istanze rivoluzionarie. I farmacisti, tuttavia, non potevano considerare rivali né l'effimera École Normale dell'anno III destinata a formare gli insegnanti della repubblica, né l'École Centrale des Travaux Publics ‒ futura École Polytechnique ‒ riservata alla formazione degli ingegneri statali. Peraltro, le lezioni di chimica vennero affidate a due farmacisti, François Chaussier (1746-1828) e Nicolas-Louis Vauquelin (1763-1829), e a tre medici, Claude-Louis Berthollet (1748-1822), Jean-Antoine-Claude Chaptal (1756-1832) e Antoine-François de Fourcroy (1755-1809). Inoltre, il fatto che il generale Napoleone Bonaparte avesse incluso il farmacista Jean-Pierre Boudet (1748-1829) nell'élite di uomini dotti che lo avrebbe accompagnato in Egitto non può che confortare la loro opinione: il XIX sarà il secolo della chimica francese promulgata dai farmacisti. La figura di Vauquelin, definito da alcuni 'il più grande chimico d'Europa' ne è una prova evidente. Professore di chimica all'École Polytechnique, all'École des Mines, al Collège de France, poi al Muséum d'Histoire Naturelle di Parigi, Vauquelin accolse nel proprio laboratorio non soltanto allievi farmacisti, ma anche stranieri di passaggio come Alexander von Humboldt (1769-1859). Maestro nell'arte di unire la tradizione delle dinastie dell'Ancien Régime ai vantaggi della rivoluzione, come il cumulo di funzioni e gli sbocchi industriali della chimica, Vauquelin, formato nel laboratorio di Jean-Pierre-René Cheradame (1738-1824), suocero di Fourcroy e protetto di quest'ultimo, vegliava a sua volta sulla carriera di Louis-Jacques Thenard (1777-1857) e del cugino di Fourcroy, André Laugier (1770-1832). Riuscì in tal modo a coprire quasi l'intero campo d'insegnamento e di ricerca in chimica. Accademici, membri della Société Philomatique e della Société d'Encouragement pour l'Industrie Nationale, i quattro studiosi orientarono tutti gli sforzi verso i due grandi settori aperti dalla rivoluzione chimica: l'analisi e l'industria. Due ambiti di cui si occupavano anche i paesi vicini alla Francia, in particolare la Germania dove i farmacisti, approfittando della riforma delle università e garantendo che buone conoscenze nel campo della chimica avrebbero avvantaggiato sia la clientela sia la qualità dei medicinali, ottennero la creazione di scuole nelle quali beneficiarono, assieme agli industriali, di un insegnamento di alto livello. La prima di queste scuole fu quella che Johann Christian Wiegleb (1732-1800) avviò in Turingia, nel 1779.

Anche in Francia si ebbe un avvicinamento tra industria e farmacia. Numerosi erano i farmacisti che, parallelamente alla propria occupazione principale, si interessavano ai problemi dell'imbianchimento o ai processi di fabbricazione dell'allume. La questione della formazione dell'etere, che prelude alla nascita dell'industria farmaceutica, era anch'essa oggetto di un dibattito nel quale erano coinvolti i farmacisti di Bordeaux e quelli di Nantes, impegnati a discutere le conclusioni di Fourcroy e di Vauquelin.

Le "Annales de chimie", fondate da Lavoisier e dai suoi amici come portavoce della nuova chimica, accolsero polemiche scientifiche nelle quali i farmacisti erano sempre più presenti, tenuto conto anche del fatto che alcuni membri della redazione esercitavano questa professione: Nicolas Deyeux (1745-1837), Antoine-Augustin Parmentier (1737-1813), Edme-Jean-Baptiste Bouillon-Lagrange (1764-1844) e Laugier. Non c'è da stupirsi, quindi, che nomi di farmacisti figurino anche nell'albo d'oro delle scoperte consentite dalla nuova chimica, come quella degli elementi cromo e glucinio (berillio) isolati da Vauquelin e lo iodio isolato da Bernard Courtois (1777-1838), mentre François-René Curaudau (1765-1813), contrariamente a Berthollet, sosteneva che il cloro non contenesse ossigeno.

Tuttavia, il fatto che riguardo a queste ultime due scoperte la storia abbia ricordato unicamente la rivalità tra il chimico inglese Davy e i francesi Joseph-Louis Gay-Lussac (1778-1850) e Thenard, prediligendo il primo, più che la trasposizione sul piano scientifico della competizione tra Francia e Gran Bretagna alimentata dai conflitti politici di Bonaparte, è indice di una diminuzione del prestigio dei farmacisti, che rimette in discussione il loro monopolio sulla chimica. Che il modesto Courtois fosse dimenticato a beneficio dei chimici della Société d'Arcueil, fondata dal medico Berthollet e dal matematico Pierre-Simon de Laplace (1749-1827), non è tanto un segno del rifiuto delle idee dell'oscuro e originale Curaudau da parte dei grandi colleghi dell'Académie Royale des Sciences, quanto la prova dell'emergere di una nuova impostazione della chimica e di un campo che sfuggiva ai farmacisti: la 'ricerca di leggi' in vista della matematizzazione della chimica. La formazione politecnica era largamente rappresentata fino a divenire dominante nella Société d'Arcueil, ed entro breve tempo si videro gli ospiti di Berthollet e Laplace occupare le cattedre offerte nel 1808 dalla Facoltà di scienze, nuovamente creata a Parigi.

Destati dai sogni di gloria, i farmacisti presero coscienza del pericolo già dall'anno successivo. Infatti, Charles-Louis Cadet de Gassicourt in apertura del primo numero del "Bulletin de pharmacie", nel 1809, constatava malinconicamente:

Prima che le scienze naturali e fisiche, sottoponendosi al metodo analitico che oggigiorno rende il loro studio così facile e i loro progressi così rapidi, avessero ognuna un ambito particolare e limiti ben definiti, si confondevano tutte nella farmacia. Non vi erano altri chimici o naturalisti se non i farmacisti o i medici che si occupavano di farmacia […]. Quando [, però,] Lavoisier, Priestley, Berthollet, Guyton, Fourcroy e Chaptal abbatterono il vecchio edificio di Stahl per sostituirlo con il solido ed elegante tempio della chimica moderna, si avvertì presto che lo sviluppo di questa scienza sarebbe stato tale che avrebbe finito con il separarla dalla farmacia.

Quasi a confermare le parole dell'articolo nel quale Fourcroy annunciava brutalmente che "sarebbe un'esagerazione vedere la chimica nella farmacia; non ve ne è di più di quanta non ve ne sia nella cucina o nel mestiere del confettiere o del profumiere" (1797, p. 307), Cadet de Gassicourt, dal canto suo, aggiungeva inoltre: "Bisogna ammettere che la linea di demarcazione è oggi così chiara che per molti la farmacia non è niente di più che una pratica più o meno abile, e che si può considerare come indipendente dalle scienze che la illuminano. Per alcuni è un'arte, ma un'arte che è rimasta statica" (1809, pp. 5-6).

La chimica negli orti

La diminuzione del loro potere costrinse i farmacisti ad assumere nuove posizioni. Infatti, se la chimica non era più soltanto farmacia, questa non si riduceva alla sola chimica. In particolare, il legame costante con le scienze della vita e della Natura faceva sì che la farmacia dovesse tener conto di elementi che la chimica, in quanto scienza fisica, poteva trascurare; la complessità delle droghe presenti nella farmacopea, in gran parte organiche, era per i farmacisti un problema quotidiano. Fu così che, lasciando i 'fisici' della Société d'Arcueil alle loro ricerche sulla composizione degli acidi, sull'affinità chimica e sulla misurazione del calore, essi scelsero di muoversi su un terreno contemplato nel vasto programma di Lavoisier, ma che egli non aveva avuto il tempo di esplorare: la chimica delle sostanze organiche.

Soddisfatti di aver comunque dato alla chimica, con Joseph-Louis Proust (1754-1826), una delle sue prime leggi, ossia quella relativa alle proporzioni definite, i farmacisti si lanciarono in una ricerca ancora più difficile concernente la natura dei prodotti vegetali e animali. Tale argomento risultava difficile da diversi punti di vista, poiché sollevava il delicato problema della forza vitale e si scontrava con la boria dei naturalisti che, come Jean-Baptiste Lamarck (1744-1829), sostenevano che le operazioni sulle sostanze composte omogenee "si riducono a due effetti ben distinti e cioè o a distruggere l'aggregazione delle molecole o ad alterare la loro natura e a decomporle". Tuttavia distruggendo le molecole omogenee "non si ritrova alcun composto già presente in esse; e i nuovi composti così ottenuti risultano dalle alterazioni prodotte sui composti originari".

La labilità delle materie organiche, e quindi l'impossibilità di dimostrare mediante la sintesi che i prodotti ottenuti con la decomposizione fossero effettivamente i costituenti della sostanza di partenza, rendeva di fatto il problema insolubile per i chimici, i quali, peraltro, consideravano spesso omogenee sostanze che non lo erano, come gli oli, le resine, i balsami, i succhi, e così via, accrescendo ancora di più le difficoltà. Malgrado l'elegante equazione stabilita da Lavoisier a partire dalla fermentazione del vino, enunciata come 'legge di conservazione della materia', s'impone una constatazione, quale quella espressa da Michel-Eugène Chevreul (1786-1889):

L'analisi dei principî immediati dei vegetali è ancora ben lontana dalla perfezione dell'analisi inorganica. I vantaggi di quest'ultima sono grandi; si può confrontare la somma dei prodotti con la quantità di materia esaminata. I principî inorganici si riconoscono con facilità, poiché hanno proprietà ben distinte; su essi è possibile condurre numerosi esperimenti senza temere di snaturarli; si possono impiegare, per separarli, i solventi più energici. Nell'analisi vegetale, invece, sono pochi i casi in cui la bilancia prova che i prodotti sono pari al peso della materia analizzata; pertanto, è difficile essere certi di aver ottenuto i principî immediati di una sostanza. (1812, pp. 257-258)

Chevreul non era un farmacista bensì, oltre ad appartenere a un'importante dinastia di medici di Angers, era aiuto-naturalista di Vauquelin al Muséum d'Histoire Naturelle. Di fronte alle difficoltà che presentava l'estrazione e soprattutto la caratterizzazione della sostanza colorante del legno di campeggio, Chevreul mise a punto un metodo che, noto come 'analisi organica immediata', lo condusse alla scoperta della glicerina e degli acidi grassi e, più in generale, a quella dei principî attivi delle piante sia medicinali sia tintorie. Lo stretto legame che Chevreul mantenne durante tutta la sua lunga vita con il Muséum appare come un fattore determinante nella rinnovata alleanza tra i farmacisti e l'ex Jardin du Roi. In effetti, se l'École de Pharmacie dispensava un insegnamento sulla storia dei medicinali, che poteva peraltro essere completato all'École de Médecine con il corso di chimica tenuto prima da Vauquelin, poi da Guibert e infine da Deyeux, né l'una né l'altra, tuttavia, potevano considerarsi centri di ricerca. Per la parte pratica gli allievi continuarono a formarsi in modesti laboratori o nel retrobottega delle officine farmaceutiche. Solo l'Hôpital du Val de Grâce, fondato nel 1793, offriva ai farmacisti militari la possibilità di fare ricerca in modo serio. Per gli altri il Muséum era provvidenziale, dato che l'École de Pharmacie garantiva in cambio agli allievi dei corsi del Muséum, che non rilasciava alcun tipo di diploma, lo status sociale conferito da un diploma di farmacista.

Nasceva così, tra il 1810 e il 1830, una nuova branca della chimica, primo passo verso la sintesi organica, ma soprattutto prima tappa della farmacognosia e della chimica terapeutica, che costituiscono oggi una parte importante degli studi medici. In soli venti anni Pierre-Jean Robiquet, Pierre-Joseph Pelletier, Joseph-Bienaimé Caventou, Jean-Jacques Colin, Antoine Bussy, Boudet e Chevreul chiarirono la composizione dei grassi vegetali e animali e isolarono i principî medicamentosi, tossici o coloranti delle droghe più diffuse. Dopo il primo tentativo del farmacista Charles Derosne che nel 1803 aveva estratto un 'sale d'oppio' non meglio definito, lasciando al collega tedesco Friedrich Wilhelm Sertürner la gloria di scoprire per primo, nel 1805, la morfina, Pelletier e Caventou inaugurarono la serie degli alcaloidi con la stricnina, trovata nel 1818 nella fava di sant'Ignazio, e ritrovata l'anno seguente anche nella noce vomica assieme alla brucina e, infine, nel 1820, con la chinina, considerata per più di un secolo come una delle più importanti scoperte terapeutiche.

Nello stesso periodo il farmacista di Rennes Robiquet, stanco della vita militare che però gli aveva permesso di incontrare durante la campagna d'Italia Alessandro Volta, si impegnava anch'egli in questa ricerca riuscendo a isolare con Vauquelin l'asparagina dall'asparago, poi la glicirrizina dalla liquirizia, la cantaridina dalle cantaridi, la caffeina dal caffè, mentre Friedleb Runge isolava l'amigdalina dalle mandorle e la codeina dall'oppio nel 1832. Parallelamente Robiquet si interessava anche alle droghe tintorie e, dopo Chevreul che aveva già caratterizzato l'ematossillina del legno di campeggio, egli estrasse dal chermes l'acido rufigallico e l'acido citraconico e, infine, nel 1828, la sostanza tintoria della garanza, alla quale attribuì il nome di 'alizarina'.

Questa serie di scoperte attirò l'attenzione dei chimici stranieri sull'attività dei farmacisti francesi, ispirando anche alcune applicazioni industriali. Così, Thomas N.R. Norton, tra i futuri fondatori della Pharmaceutical Society of Great Britain, dopo aver lavorato in una farmacia in Francia, al suo ritorno in Inghilterra si dedicò all'estrazione della chinina. Soddisfatto dei risultati, nel 1834 egli aprì una fabbrica di creosoto, due anni dopo la scoperta di questo prodotto a opera del chimico tedesco Karl Reichenbach. In Polonia, Joseph Sawiczewski, professore a Cracovia, era considerato il fondatore dell'industria polacca per aver aperto, nel 1823, in quella città, una manifattura di solfato di chinina.

Il successo di tali esperimenti, che mettevano in luce l'importanza della chimica vegetale, orientò gli studi anche verso nuovi campi di ricerca. Nel 1857, con lo sviluppo dell'agronomia, si creò al Muséum d'Histoire Naturelle una cattedra di 'fisica vegetale' affidata al farmacista Georges Ville, allievo di Henri-Victor Regnault e di Jean-Baptiste Boussingault; negli anni Ottanta dell'Ottocento venne associata a questa cattedra quella di fisiologia vegetale, il cui titolare Pierre-Paul Dehérain ebbe come assistente un altro celebre chimico e farmacista: Ferdinand-Frédéric-Henri Moissan (1852-1907).

Oltre le frontiere

Negli anni Trenta dell'Ottocento "la chimica, scienza francese, fondata da Lavoisier di immortale memoria", come scriveva enfaticamente Charles-Adolphe Wurtz nel Dictionnaire de chimie pure et appliquée (1869), divenne una scienza europea, diffondendosi oltre frontiera. Ben presto, malgrado le resistenze dei sostenitori della teoria del flogisto, la rivoluzione chimica trovò al di fuori della Francia importanti continuatori: il Belgio, per esempio, seppe trarre profitto da questa 'fertilizzazione', e la chimica moderna ebbe un acceso difensore in Karel van Bockhaus (1732-1793) e un prezioso collaboratore in Jean-Baptiste van Mons (1765-1842), ma anche i chimici italiani, in particolare Giovanni Fabbroni (1752-1822), si mobilitarono in tal senso. In Germania Martin Heinrich Klaproth (1743-1817), Sigismund Friedrich Hermbstaedt (1760-1833) e soprattutto Johann Bartholomäus Trommsdorff (1770-1837), 'il Nestore dei farmacisti tedeschi', contribuirono con i loro scritti alla divulgazione della nuova chimica, mentre in Inghilterra Davy con le sue scoperte ne mise in luce tutta la ricchezza.

Nel primo decennio del XIX sec., benché gli insegnamenti di Lavoisier fossero sempre molto diffusi, l'Europa teneva gli occhi puntati sui lavori dei suoi eredi. Così Adolf Ferdinand Gehlen, fondando nel 1815 il "Repertorium für die Pharmacie" intendeva tenere informati sulle scoperte francesi tutti i farmacisti tedeschi. Fino al 1851 il giornale pubblicò 874 articoli o recensioni di articoli principalmente sugli alcaloidi, ma anche informazioni sulle scuole francesi di farmacia, sui primi disinfettanti al cloro o sull'invenzione di nuovi rimedi galenici. Furono peraltro numerosi i farmacisti tedeschi che risposero all'invito implicito e raccolsero la sfida entrando nella competizione. Così nel 1817 Ludwig Reimann e Wilhelm Heinrich Posselt scoprirono l'emetina dell'ipecacuana e nel 1828 la nicotina del tabacco, nel 1818 Karl Friedrich Wilhelm Meissner scoprì la veratrina dell'elleboro e nel 1833 furono scoperte da P.L. Geiger e L. Hesse la daturina della datura, da Mein l'atropina della belladonna e ancora da Hesse l'aconitina dell'aconito.

In tutta la prima metà del XIX sec., il prestigio della chimica francese spinse i chimici dei paesi vicini ad andare a istruirsi in Francia. Dopo i viaggi di Fabbroni e Jöns Jacob Berzelius, Justus von Liebig soggiornò per lungo tempo a Parigi presso Gay-Lussac e Thenard; Raffaele Piria frequentò nel 1836 le lezioni di Jean-Baptiste-André Dumas e Stanislao Cannizzaro quelle di Chevreul e Regnault nel 1848.

Tuttavia, lungi dal contribuire a conferire omogeneità all'atteggiamento dei chimici europei, il ritorno nel proprio paese accentuò alcune differenze che ebbero ripercussioni sul rapporto tra chimica e farmacia. Nella seconda metà del XIX sec. l'Europa era divisa in due: una parte latina (Francia e Italia) dove la chimica rimase strettamente legata alla farmacia; una anglosassone, che comprendeva la Germania, l'Inghilterra e la Grecia, dove la chimica, predominante, si applicava solo secondariamente ai medicinali. Una così netta dicotomia dipese, ovviamente, dall'importanza attribuita dai diversi paesi alla farmacia e soprattutto ai farmacisti.

Benché l'Italia e la Germania condividessero una storia piuttosto simile ‒ entrambe erano nazioni formate da Stati indipendenti che si sarebbero poi unificati ‒ avevano concezioni del rapporto tra chimica e farmacia molto lontane tra loro; l'Italia era più vicina in questo alla Francia, la Germania all'Inghilterra. Oltre alla comune origine latina, ulteriormente accentuata dall'occupazione degli Stati dell'Italia del Nord da parte delle truppe francesi e poi dall'essere governati da membri regnanti della famiglia Bonaparte, l'Italia e la Francia erano unite nel conferire uno statuto privilegiato alle scienze mediche e fisiologiche. Segnata dai lavori di un uomo come Lazzaro Spallanzani (1729-1799), l'élite scientifica italiana riunita in congresso a Pisa nel 1839 incentrava naturalmente il dibattito sulle scienze della vita e della Natura, mentre la presenza della chimica era limitata ai lavori di Piria sulla salicina, primo glucoside estratto dalla corteccia del salice bianco dal farmacista francese Leroux (1829) e successivamente distinto dagli alcaloidi da Gay-Lussac. In un tale contesto la chimica era strettamente dipendente dalla farmacia. Oltretutto, questa influenza non doveva neanche fare i conti con le richieste dei manifatturieri, poiché, come sostengono alcuni storici, fino al 1880 la chimica rimase chiusa nel circolo vizioso di tecniche limitate, di scarsa qualità e poco esigenti.

In Italia l'unificazione non portò cambiamenti rilevanti, se non la centralizzazione del sistema educativo; si verificò addirittura un aumento delle discipline chimiche negli studi farmaceutici universitari, spiegabile con le figure di Piria e Cannizzaro, nomi che segnarono la chimica italiana dell'epoca. Entrambi avevano studiato medicina e fisiologia prima di dedicarsi alla chimica e avevano scelto di orientare le loro ricerche verso la composizione e la struttura delle sostanze naturali ‒ come la salicina o la santonina, sostanza vermifuga estratta dal 'seme santo' e della quale Cannizzaro evidenziò la parentela chimica con il naftalene ‒ piuttosto che entrare nella competizione delle sintesi organiche di prodotti artificiali che vedeva allora impegnate l'Inghilterra, la Germania e anche la Francia.

In Germania, invece, l'attività industriale rimase l'obiettivo principale dei chimici, anche quando la riforma invitava i farmacisti ad approfittare degli insegnamenti impartiti nelle scuole che vennero create a tale scopo a opera dei chimici più importanti: quella di Hermbstaedt a Berlino (1789), ma soprattutto quella di Liebig a Giessen (1825), quella di Friedrich Wöhler a Gottinga o quella di Robert Bunsen a Heidelberg (1850) per citare soltanto le principali. Il metodo analitico di Lavoisier, perfezionato da Liebig, estremamente utile ai farmacisti per saggiare la qualità delle droghe e rivelare eventuali falsificazioni, lo era ancor di più per conoscere la composizione delle nuove sostanze organiche isolate. Anche gli industriali erano interessati a questa conoscenza che poteva consentire loro di riprodurre le sostanze senza ricorrere all'estrazione.

Fu così che, tra i farmacisti, nacque una generazione di chimici il cui obiettivo non era più la vendita di medicinali debitamente verificati, ma la produzione di sostanze chimiche destinate all'industria. La scissione divenne allora inevitabile e mentre tra il 1825 e il 1835 i farmacisti erano in maggioranza nel laboratorio di Liebig, dopo il 1837 vi fu una predominanza di chimici. Allo stesso modo, la scuola di Giessen, nata come scuola di farmacia secondo la tradizione inaugurata da Trommsdorff, negli anni Quaranta dell'Ottocento divenne uno dei laboratori d'avanguardia della ricerca tedesca nel quale andarono a formarsi i migliori chimici europei, quando non furono gli stessi allievi di Liebig a insegnare all'estero la chimica tedesca.

Dalla ricerca chimica ai prodotti farmaceutici

Su richiesta della regina Vittoria, August Wilhelm von Hofmann (1818-1892) fondò una scuola in Gran Bretagna, paese in cui i medicinali non erano affatto appannaggio dei farmacisti e dove si dovette attendere fino al 1868 perché la distinzione tra il titolo di chemist druggist e quello di pharmaceutical chemist fosse sanzionata da due esami di diverso livello. Quindi era naturale che nel 1856 Hofmann affidasse a uno dei suoi allievi, William H. Perkin, l'esecuzione di una reazione che avrebbe dovuto portare alla sintesi di una chinina artificiale a partire dal catrame di carbon fossile. La scoperta della malveina, e poi di tutta una serie di nuovi coloranti nata da questo esperimento fallito, non mancò di accentuare la distanza tra chimica e farmacia, spostando l'attenzione dei ricercatori verso prodotti di interesse più immediato rispetto alle droghe medicinali: i coloranti derivati dall'anilina.

L'obiettivo della ricerca era ormai una competizione a scopo di lucro, che esigeva un grado sempre più elevato di professionalità da parte dei chimici e laboratori industriali assolutamente diversi da quelli delle officine o delle scuole di farmacia. Si rese necessaria, in tal senso, una ricerca puramente chimica, che andava oltre l'analisi elementare e l'isolamento delle sostanze naturali, per impegnarsi nella comprensione della struttura delle molecole organiche e delle reazioni che permettevano di formarle.

In questa prospettiva sarebbe impossibile distinguere la chimica dei medicinali da quella dei coloranti, dei profumi o di altri prodotti chimici utili all'industria. Lo dimostrano i lavori su un alcaloide, come la cocaina, svolti tra il 1853 e il 1898. Se l'effetto stimolante delle foglie di coca era noto in Francia da più di un secolo (1750) grazie al lavoro del botanico Joseph de Jussieu, fu soltanto durante la seconda metà dell'Ottocento ‒ quando si credeva di aver ormai raggiunto un grado di conoscenza della composizione di alcuni alcaloidi come la chinina tale da tentare confronti tra essi ‒ che Gaedecke estrasse nel laboratorio di Franz Leopold Sonnenschein a Berlino il principio attivo (1855), annunciato come alcaloide due anni prima da Wilhelm Ferdinand Wackenroder e da James F.W. Johnston.

Wöhler, interessato a sua volta, approfittò di una spedizione austriaca in America Meridionale per farsi portare foglie della pianta indigena affidandone l'analisi al suo assistente Albert Niemann, un giovane farmacista arrivato a Gottinga per specializzarsi in chimica. Nel 1859 egli riuscì a isolare la cocaina cristallizzata, ma la sua difficile struttura continuava a incuriosire le diverse scuole tedesche. Nel 1865 un nuovo passo avanti fu compiuto da Wilhelm Lossen, un ex allievo del laboratorio di Giessen che lavorava con Wöhler: mediante l'idrolisi, dimostrò che la cocaina era un sale-etere dell'acido benzoico e dell'ecgonina, la cui struttura doveva ancora essere scoperta. Infine fu nel laboratorio di Adolf von Baeyer, famoso per aver compiuto la sintesi dell'indaco, che Alfred Einhorn avanzò l'ipotesi, poi rivelatasi giusta, di una possibile parentela strutturale tra l'ecgoneina e gli alcaloidi delle piante della famiglia delle solanacee, come l'atropina, sulla quale lavorò con successo il suo allievo Richard Willstätter, dopo aver stabilito, nel 1898, la formula della cocaina.

Se questo percorso sottolinea la qualità della formazione dei chimici tedeschi e dello scambio fra i diversi laboratori, esso dimostra altresì che il loro oggetto di studio era solamente la molecola chimica, senza che, parallelamente, venisse svolta alcuna ricerca di tipo medico. A tale proposito va sottolineato che proprio in un ambito totalmente estraneo a tali lavori, nel 1884 Sigmund Freud vantò le proprietà euforizzanti della cocaina, l'anno seguente Louis Lewin ne denunciò i pericoli e, a Heidelberg, Karl Koller, utilizzando l'effetto analgesico locale di questa sostanza, scoperto nel 1879 dal medico russo Vassilij van Anrep, fondò la chirurgia oculistica moderna.

Queste scoperte tarde dimostrano l'assenza di collegamenti tra la ricerca chimica e l'individuazione dell'azione terapeutica sempre presente in farmacia; per la chimica è determinante solamente la nozione di 'parentela strutturale' e, attraverso essa, il progresso nella conoscenza dei prodotti chimici organici in vista della loro sintesi. I nomi più insigni della chimica tedesca, Heinrich Caro, Carl Graebe, Carl Theodor Liebermann erano figli di industriali e non di farmacisti; alcuni di loro non avevano frequentato la facoltà di medicina, bensì le scuole politecniche che fiorivano allora in Germania: un dato comprensibile, soprattutto se si tiene conto del fatto che tra il 1860 e il 1880 l'industria dei coloranti rappresentava un mercato ben più importante di quello dei prodotti farmaceutici, anche se questi ultimi facevano qualche timida comparsa nelle esposizioni universali. Una formazione non medica non escludeva necessariamente un qualche interesse per la chimica farmaceutica, anzi vi furono chimici come Otto Wallach che, benché si fosse formato a Gottinga e avesse lavorato per diciannove anni in un'industria, si interessò ai derivati aromatici delle piante in occasione del corso di farmacia affidatogli nel 1879 e, mettendo a profitto i suoi vecchi lavori sull'isomeria dei terpeni, diede inizio nel laboratorio di Friedrich August Kekulé a una ricerca che condusse infine alla caratterizzazione di tre terpeni, tra i quali la canfora, e alla sintesi del mentolo.

Negli ultimi venti anni del XIX sec., l'interesse della potente industria chimica tedesca verso la farmacia fu conseguenza di due fattori distinti. Il primo era puramente chimico, poiché dipendeva dai risultati accumulati dai chimici nel corso dei lavori sui prodotti organici ‒ la cui struttura è spesso meno complessa di quella delle sostanze naturali ‒ e dalle nuove scoperte, quali la formula esagonale del benzene proposta da Kekulé nel 1860 e senza la quale la chimica non poteva fare passi avanti. Il secondo era un fattore di tipo politico: l'unificazione della Germania sotto l'impulso della Prussia dove, come in Francia, la fabbricazione di medicinali era appannaggio dei farmacisti e l'ingresso della Facoltà di scienze di Strasburgo nel sistema educativo tedesco in seguito all'annessione dell'Alsazia. Paul Erlich (1854-1915), nato nella Slesia prussiana, si occupò di scienze naturali prima di andare a Strasburgo dove scoprì la sua vocazione per la batteriologia, ancora segnata dall'influenza di Louis Pasteur (1822-1895) che vi aveva insegnato. La mancanza di sostegno finanziario da parte dei laboratori tedeschi per le sue ricerche fondamentali nel campo dell'immunologia, quando invece i lavori sui coloranti cellulari avevano ottenuto l'appoggio del direttore e di un chimico della casa Cassella & Co, può essere interpretata come una conseguenza diretta del predominio della chimica sulla farmacia; tale inclinazione spiega altresì perché la scoperta dello stovarsol ‒ un derivato dell'arsenico ‒, da parte di Ernst Forman (1782-1849), che aprì la strada alla chemioterapia, non abbia mobilitato immediatamente l'industria tedesca.

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