L'Ottocento: biologia. L'antropologia fisica

Storia della Scienza (2003)

L'Ottocento: biologia. L'antropologia fisica

Renato G. Mazzolini

L'antropologia fisica

È difficile concepire una dissonanza maggiore tra quanto affermò il farmacista e naturalista Julien-Joseph Virey (1775-1846) nella sua Histoire naturelle du genre humain ‒ "A me pare che non si possa concludere a favore dell'unità della specie del genere umano sulla base della fecondità reciproca delle diverse razze" (Virey 1800, I, p. 412) ‒ e la dedica di tale opera alla memoria di Georges-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788), il grande naturalista che, assieme a Linneo (Carl von Linné), aveva incluso l'uomo tra gli oggetti di studio della storia naturale e aveva elevato l'interfecondità tra gli individui a fondamento della nozione di specie. Secondo Buffon, infatti, l'unicità della specie umana era fuori questione, ma riteneva che andasse spiegato perché vi fosse tanta variabilità interindividuale nel colore della pelle, nella statura, nella forma e colore dei capelli, nella forma delle labbra, del naso, del viso e degli occhi. Poiché tutti i membri della specie umana discendevano da un unico ceppo, egli era convinto che le cause della loro differenziazione andassero individuate nella migrazione di popolazioni nei più disparati luoghi della Terra ove esse erano state soggette nel corso del tempo alla lenta, ma costante azione di climi, ambienti e alimentazioni diversi. Egli non rese assolute le differenze fisiche osservate, ma le descrisse come una successione di sfumature che passavano, quasi impercettibilmente, da individuo a individuo, da popolazione a popolazione. Virey, di contro, tenne a sottolineare che "nel genere umano esistono differenze radicali, costanti, indelebili" (ibidem, p. 417). La concezione dell'unità della specie umana e della sua origine da un unico ceppo (monogenesi) venne percepita da Virey e da altri studiosi dell'Ottocento come un discutibile o infondato retaggio religioso cui andava contrapposta l'idea che le razze umane erano talmente diverse tra loro da legittimare l'ipotesi che esse potessero essere addirittura considerate specie diverse con una origine differente (poligenesi).

La storia dell'antropologia fisica del primo Ottocento, allora generalmente chiamata 'storia naturale dell'uomo', è la storia della sua costituzione come disciplina relativamente autonoma fondata sull'osservazione dei caratteri fisici delle popolazioni della Terra e, successivamente, su un loro confronto, teso a dimostrare l'esistenza di razze diverse, spesso individuate e classificate secondo schemi gerarchici in cui la valutazione del soma era strettamente associata a presunti caratteri morali e storici delle popolazioni considerate. Nei loro studi, gli autori che si occuparono di questa disciplina furono variamente influenzati dalla fisiognomica tardo-settecentesca, dalla frenologia, dall'anatomia comparata, dalla morfologia tipologica dei primi decenni del secolo, dalla linguistica comparata e, in misura maggiore, dai dibattiti storiografici che, soprattutto a partire dagli anni Venti dell'Ottocento, elevarono i concetti di razza e di lotta tra le razze a principî con i quali spiegare e comprendere i grandi processi storici quali le migrazioni, il dominio di una popolazione su un'altra, la divisione delle popolazioni in caste e/o classi, le rivoluzioni politiche e sociali. In sintonia con le coeve ricerche sul sistema nervoso centrale e con la diffusa ossessione di decifrare i rapporti ritenuti necessari tra fisico e morale, così come tra morfologia del cervello e prestazioni intellettuali, gli studiosi dell'Ottocento enfatizzarono l'indagine sui crani abbinando in tal modo alla settecentesca codificazione cromatica dell'umanità, per cui si distinguevano i bianchi, i gialli, i rossi e i neri, nuove e disparate codificazioni craniologiche.

Nelle controversie tra monogenisti e poligenisti, negli studi sulla composizione razziale delle popolazioni europee, nelle investigazioni sui primi abitanti dell'Europa, nelle indagini craniometriche delle popolazioni extraeuropee e, più in generale, nella costituzione dell'antropologia come disciplina, si può riscontrare una tensione verso un maggiore rigore scientifico non disgiunto, tuttavia, da preoccupazioni religiose e filosofiche che tradiscono la presenza di interessi politici più profondi non sempre esplicitati. Non va dimenticato, infatti, che l'antropologia fisica si è andata affermando in un periodo in cui gli europei da un lato erano impegnati in una massiccia colonizzazione dei paesi extraeuropei, dall'altro erano intenti a disegnare e quindi portare a compimento una varietà di costituzioni nazionali nell'ambito dell'Europa stessa. Nazione, popolo, colonialismo e impero non rappresentarono soltanto concetti astratti, ma una costellazione di finalità operative che investirono, anche con una forte carica emotiva, le ricerche e le teorie degli antropologi, i quali, a volte, si sentirono chiamati a legittimare, sulla scorta dei loro studi, il rapporto di dominio instaurato dagli europei nei confronti delle popolazioni extraeuropee, oppure a enfatizzare i caratteri di una determinata popolazione europea in funzione di una sua presunta discendenza da un popolo antico idealizzato. Eurocentrismo e nazionalismo caratterizzano, quindi, molte delle ricerche antropologiche ottocentesche conferendo loro un consistente spessore ideologico. Né va dimenticato, inoltre, come soprattutto nella prima metà del secolo l'indagine antropologica abbia risentito dell'ampio dibattito suscitato da quello straordinario movimento di opinione pubblica che ha portato prima all'abolizione della tratta degli africani subsahariani e, successivamente, a quella della schiavitù nelle colonie europee. Se da un lato furono pochi gli antropologi che si dichiararono esplicitamente a favore della schiavitù, dall'altro lato furono numerosi quelli che, sostenendo l'incomparabile superiorità fisica e morale degli europei nei confronti di tutte le 'popolazioni di colore', a loro volta considerate inferiori, assunsero posizioni che oggi definiremmo razziste. Bisogna sottolineare, pertanto, come la legittimazione su base razziale del comportamento adottato dagli europei nei confronti delle popolazioni non europee abbia trovato tra gli antropologi nonostante alcuni decisi avversari, soprattutto numerosi fautori. La storia dell'antropologia ottocentesca si configura, quindi, anche come storia del razzismo e dell'ideologia insita nella biologia dell'epoca.

La storia naturale dell'uomo: monogenesi 'versus' poligenesi (1800-1850)

Nei primi decenni dell'Ottocento la storia naturale dell'uomo, pur non essendo ancora una disciplina ben definita e dai contorni precisi, annoverava molti cultori non soltanto tra gli anatomisti e gli zoologi, ma anche tra i geografi e i viaggiatori, in particolare in Germania, Francia e Inghilterra. Il testo di riferimento obbligato era il De generis humani varietate nativa che il ventitreenne Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840) aveva redatto nel 1775 come tesi di laurea presso la Facoltà di medicina dell'Università di Gottinga e che aveva continuato ad arricchire e rimaneggiare fino a cambiarne quasi completamente la struttura nella terza e definitiva edizione del 1795. Oltre che dai suoi studi di anatomia comparata e dalla letteratura di viaggio, Blumenbach trasse molti dei dati confluiti nella sua opera da quella celebre collezione di crani, capelli, feti, preparati anatomici e illustrazioni che si era procurato in circa vent'anni grazie alla collaborazione di molti dei suoi corrispondenti e di alcuni dei suoi ex studenti.

Gli argomenti discussi da Blumenbach furono sostanzialmente quattro. Il primo riguardò i caratteri distintivi dell'uomo rispetto agli animali. Diversamente da Linneo, Blumenbach pose in evidenza l'esistenza di differenze sia esterne, come la posizione eretta e il possesso di due mani, sia interne, come l'assenza nell'uomo del panniculus carnosus e dell'osso intermascellare, e sostenne che l'uomo doveva essere considerato un animale bimano mentre le scimmie animali quadrumani. Notò anche che, in proporzione al corpo, la massa del cervello umano era maggiore di quella degli animali. Il secondo argomento affrontato fu il meccanismo ‒ da lui chiamato degeneratio ‒ per cui in una specie animale si formano varietà distinte per colore, dimensioni, forma del pelo e del cranio. Attingendo a una casistica ben selezionata, egli ipotizzò che i cambiamenti osservati in numerose varietà animali fossero imputabili alla deviazione della forza formatrice ‒ o nisus formativus ‒ di ciascun essere animato. La deviazione era dovuta all'azione dell'ambiente, degli alimenti, della condotta di vita, ma anche a disposizioni ereditarie. Estese quindi tale ipotesi all'uomo, poiché le medesime cause che modificano una specie animale devono agire ugualmente sull'uomo. Presentò infine una classificazione delle varietà della specie umana. Considerando il colore della pelle e, soprattutto, la forma del volto e quella del cranio osservato non soltanto di profilo o frontalmente, ma anche dall'alto (la cosiddetta norma verticalis), distinse cinque varietà umane: la caucasica, la mongolica, l'etiope, l'americana e la malese. Furono principalmente ragioni estetiche a fargli ritenere che la varietà caucasica fosse la più vicina a quella 'primigenia' da cui, per il meccanismo della degenerazione, si sarebbero formate le altre varietà.

È importante ricordare come Blumenbach abbia sottolineato a più riprese sia il carattere arbitrario delle classificazioni sia il fatto che le varietà da lui descritte non erano fisse, ma scorrevano l'una nell'altra quasi impercettibilmente attraverso una serie ininterrotta di variazioni individuali. Oltre a non attribuire una reale struttura gerarchica alla sua classificazione, se si eccettua la preminenza estetica accordata al cranio caucasico, Blumenbach si espresse non soltanto a favore dell'abolizione della tratta e della schiavitù, ma raccolse anche numerose testimonianze contro l'opinione, allora assai diffusa, secondo la quale gli africani subsahariani sarebbero stati stupidi e comunque intellettualmente inferiori agli europei. A conclusione della sua monografia, egli scrisse che non poteva più sussistere alcun dubbio sul fatto che "tutte e ciascuna varietà di uomini poteva essere riferita con grandissima verosimiglianza a una sola e medesima specie" (Blumenbach 1775, p. 322).

A Blumenbach, il più eminente dei monogenisti, dedicarono le loro opere i due maggiori antropologi inglesi del primo Ottocento, William Lawrence (1783-1867) e James C. Prichard (1786-1848), mentre numerosi anatomisti e fisiologi, seguendone l'esempio, introdussero nei loro manuali di anatomia e fisiologia umana un capitolo relativo alle razze umane e le enciclopedie mediche, di storia naturale, ma anche generali, inclusero voci sullo stesso argomento.

In Francia una sessantina di studiosi, tra i quali naturalisti e medici, storici, linguisti e archeologi, si riunirono nel 1799 nella Société des Observateurs de l'Homme dando un notevole impulso agli studi antropologici. Poco dopo la sua fondazione, infatti, la Société fu incaricata dall'Institut de France di fornire le istruzioni scientifiche per il viaggio di esplorazione delle terre australi che di lì a poco avrebbero compiuto diversi studiosi imbarcati su due corvette poste sotto il comando di Nicolas Baudin. In quella occasione Georges Cuvier (1769-1832) fornì all'allievo François Péron (1775-1810), che era stato reclutato come zoologo e antropologo della spedizione, istruzioni riguardo le ricerche da compiere sulle differenze anatomiche tra le razze umane e suggerì di collezionare crani e teste integre che potessero essere opportunamente conservate e quindi seccate. L'idéologue Joseph-Marie de Gérando (1772-1842), invece, diede indicazioni sul modo di condurre l'osservazione dei popoli selvaggi nella convinzione che la scienza dell'uomo avesse gli stessi metodi delle scienze naturali e procedesse, pertanto, dall'osservazione alla comparazione dei fatti osservati per giungere infine a svelare le leggi generali che regolerebbero il comportamento umano. Egli sostenne che lo studio dei selvaggi da parte del viaggiatore-filosofo avrebbe reso più semplice tale processo conoscitivo, poiché recandosi alle estremità della Terra questi avrebbe di fatto compiuto un viaggio nel passato "alle prime epoche della nostra stessa storia" giungendo a uno stato di civilizzazione in cui le leggi generali del comportamento umano erano più evidenti. A tale finalità conoscitiva ne era abbinata una filantropica che lo induceva a credere che il contatto con gli europei avrebbe consentito, attraverso il commercio e un "patto d'alleanza fraterna", di "ritrovare questi antichi parenti separati da un lungo esilio dal resto della famiglia comune e di tendere loro la mano per elevarli a uno stato più felice" (in Copans 1978, pp. 131-132), quello degli europei. Péron, invece, colpito dalle descrizioni fornite da alcuni viaggiatori, relative alla forza, prestanza fisica e longevità di alcune popolazioni esotiche ma anche dalla loro impassibilità quando assistevano, infliggevano oppure subivano atroci torture, riteneva che la spedizione avrebbe potuto chiarire se la 'perfezione fisica' di quelle popolazioni non fosse la causa della loro "insensibilità fisica e morale"! (ibidem, p. 184).

Il parziale insuccesso della spedizione di Baudin, il blocco continentale e i dissidi politici e culturali insorti tra i membri della Société dopo la proclamazione dell'Impero, ne portarono al definitivo scioglimento nel 1805, nonostante l'entusiasmo con cui i suoi membri si erano prefissi di fare progredire l'antropologia studiando l'uomo nei suoi rapporti fisici, intellettuali e morali, istituendo un museo etnografico e tenendo lezioni sulla storia naturale dell'uomo, come fece, due volte la settimana nel corso del 1803, il segretario della Société, Louis-François Jauffret.

Lo scioglimento della Société non significò, tuttavia, la fine della ricerca antropologica. Virey, che ne aveva fatto parte, svolse un'intensa attività pubblicistica sia per il Nouveau dictionnaire d'histoire naturelle, pubblicato in 24 volumi tra il 1803 e il 1804 e in una seconda edizione ampliata di 36 volumi tra il 1816 e il 1819, sia per il Dictionnaire des sciences médicales (1817) diffondendovi le proprie idee sulle razze umane. Egli era un trasformista, credeva cioè che la vita consistesse in un processo storico di sviluppo dal più semplice al più complesso in cui gli esseri viventi si inanellavano gli uni agli altri non però in un'unica linea ascensionale, ma divergendo come i rami di un albero. Virey riteneva che non vi fossero specie invariabili in Natura, ma nella trattazione delle razze umane era alquanto più rigido, perché attribuiva loro una sorta di preformismo fisico e psichico. Pur seguendo il sistema classificatorio di Blumenbach, era in realtà più incline ad aderire alla concezione di Christoph Meiners che negli ultimi due decenni del Settecento aveva postulato una radicale dicotomia tra genti bianche, belle e civilizzate da un lato e genti di colore, brutte e incivili dall'altro. Enfatizzando il significato dell'angolo facciale ‒ un sistema di misurazione introdotto dall'olandese Petrus Camper (1722-1789) per misurare il prognatismo rispetto alla fronte fortemente osteggiato da Blumenbach ‒, Virey distinse tra razze con l'angolo facciale superiore a 85°, cioè i bianchi e i gialli, e le razze nere in cui questo era compreso tra 75° e 80°. Per il loro prognatismo, per il colore della pelle, del sangue e della corteccia cerebrale e, infine, per dimensioni e capacità della teca cranica, Virey considerò la razza nera come una specie diversa da quella bianca. D'altra parte, lo stesso Cuvier ne Le règne animal, pur affermando che la specie umana sembrava essere una sola, insistette sul fatto che si potevano osservare "alcune conformazioni ereditarie" che consentivano di distinguere nettamente tre razze: "la bianca o caucasica, la gialla o mongolica, e la nera o etiopica". Egli riteneva, inoltre, che vi fossero "cause intrinseche" che sembravano "arrestare i progressi di certe razze" (Cuvier 1817, I, p. 94).

Una posizione analoga a quella di Virey assunse nel 1825 il viaggiatore e barone Jean-Baptiste Bory de Saint-Vincent, che distinse ben 15 razze umane in un lungo saggio pubblicato nell'ottavo volume del Dictionnaire classique d'histoire naturelle poi riproposto, in forma monografica e con l'aggiunta di numerose note, in due successive edizioni, rispettivamente del 1825 e del 1836. Il suo poligenismo, tuttavia, non lo portava a giustificare né la schiavitù dei neri ‒ "uno stato d'abiezione in cui noi li abbiamo ridotti" ‒ né il disprezzo e la tirannide con cui i francesi trattavano i mulatti, ossia "i frutti del loro amore con le donne di specie etiopica" (Bory de Saint-Vincent 1836, II, pp. 37-39). Per molti lettori coevi, tuttavia, il suo poligenismo strideva con la sua declamata filantropia o con il tentativo di "conciliarlo con i nostri libri sacri", come osservò l'abate Henri-Baptiste Grégoire (1750-1831), il decano degli abolizionisti francesi (1826, p. 27).

Di particolare importanza per tutti i dibattiti successivi fu la pubblicazione nel 1829, a opera del fisiologo William-Frédéric Edwards (1776-1842), del volume Des caractères physiologiques des races humaines indirizzato allo storico Amédée Thierry, noto per la sua Histoire des Gaulois del 1828 in cui aveva cercato di individuare attraverso il metodo storico la composizione razziale della nazione francese. Edwards si fece allora paladino di un'auspicata collaborazione tra fisiologia e storiografia, ma anche tra filologia e geografia, che più tardi avrebbe portato all'istituzione di una nuova disciplina: l'etnologia, termine con cui allora alcuni vollero designare la descrizione specifica delle razze umane nei loro caratteri fisici e culturali. Un ragionamento analogico era alla base del suo programma: "se le forme del linguaggio lasciano delle tracce negli idiomi moderni che ne svelano la loro antica origine, cosa dovremmo pensare delle forme del corpo? Non avremmo conservato nulla dei tratti dei nostri antichi antenati?" (Edwards 1829, p. 6). Occorreva rinvenire negli uomini viventi le tracce di quelli deceduti e quindi identificare "i tipi caratteristici dei popoli antichi" (ibidem, p. 44), poiché i tipi erano trasmissibili e, se erano esistiti in passato, dovevano esistere ancora. Per l'identificazione dei tipi non era necessario, però, guardare tanto a caratteri secondari, come la capigliatura o la pigmentazione, quanto a quelli essenziali come la forma e le proporzioni della testa e del volto, ossia a quei caratteri sui quali, nella vita quotidiana, era generalmente basato il riconoscimento dell'identità di un individuo. Il termine 'razza' venne così a designare per Edwards un gruppo umano che partecipava del medesimo tipo fisico che, nonostante conquiste, migrazioni, rivoluzioni politiche e sociali, era caratterizzato da una continuità temporale: ne era un esempio significativo il popolo ebraico i cui caratteri fisici si sarebbero mantenuti inalterati nel tempo come testimoniavano antichi documenti iconografici (Piguet 2000). Nel 1829 Edwards stesso dichiarò d'astenersi dal considerare se a quella continuità fisica ne corrispondesse anche una relativa a disposizioni morali e intellettuali. Successivamente, tuttavia, abbandonò questo atteggiamento prudenziale che, del resto, non era nemmeno condiviso da anatomisti come Pierre-Paul Broc il quale nel 1836, oltre a discettare dei caratteri intellettuali e morali delle popolazioni umane, reintrodusse la settecentesca classificazione cromatica dell'umanità distinta in bianchi, gialli, rossi e neri. Quest'ultimo punto è di particolare importanza, poiché, nonostante l'enfasi attribuita al cranio e al cervello, la pigmentazione umana rimase fino a metà secolo il criterio fondamentale e più popolare per distinguere le razze umane come risulta, tra l'altro, dalle indagini anatomiche della pelle compiute da Marie-Jean-Pierre Flourens (1794-1867) e dall'iconografia relativa alla sezione di antropologia inclusa nell'atlante del 1849 del Dictionnaire universel d'histoire naturelle curato da Charles d'Orbigny.

In Francia il dibattito sulle razze umane ebbe una grande diffusione pubblica. Claude-Henri de Saint-Simon (1760-1825) e i suoi seguaci, per esempio, pur mantenendo l'opinione che la specie umana fosse una, ne sottolinearono l'ineguaglianza naturale affermando che i neri erano costituzionalmente inferiori ai bianchi, la cui superiorità era testimoniata da spettacolari successi militari e scientifici. Auguste Comte (1798-1857) attribuì tali successi a un particolare sviluppo del cervello dei bianchi, mentre Gustave d'Eichthal (1804-1886) contrapponeva al cerebralismo degli europei il carattere femmineo della razza nera, la quale, come nel caso delle donne, sarebbe stata priva d'intelligenza politica e scientifica, ma dotata delle sole virtù del sentimento (Cohen 1980). Pregiudizi relativi al genere si legavano così a pregiudizi razziali.

Nel 1836 il saintsimoniano Victor Courtet de l'Isle estese a un'analisi dei sistemi sociali la tesi di Edwards relativa alla fissità della razza e alla permanenza dei suoi caratteri ereditari come il colore della pelle. Egli sostenne che le razze umane differivano per caratteri fisici, morali e intellettuali. La doppia ineguaglianza ‒ fisica da un lato, morale e intellettuale dall'altro ‒ determinava una diversa collocazione sociale delle razze, per cui tra gli uomini sarebbe esistita una scala sociale parallela a quella del colore della pelle. Egli scrisse, per esempio, che il regime delle caste rifletteva una divisione tra razze e che le ineguaglianze sociali erano la conseguenza di originarie ineguaglianze tra le razze. A suo dire, "la civiltà degli europei era l'effetto e non la causa della loro superiorità" (Courtet de l'Isle 1835 [1836, p. 81]).

Nell'Inghilterra dei primi decenni dell'Ottocento antropologi come Prichard e Lawrence, o per convinzioni religiose profonde o per una tradizione di filosofia morale diversa da quella francese, si dedicarono alla difesa della tesi dell'unità della specie umana, tuttavia, non con argomenti filosofici o teologici, ma scientifici. Prichard, in particolare, fece di questa difesa lo scopo della propria vita a partire dalla dissertazione del 1808 presentata alla Facoltà di medicina dell'Università di Edimburgo, fino alla stampa in cinque volumi della terza edizione delle sue Researches into the physical history of mankind, avvenuta tra il 1836 e il 1847, pubblicate per la prima volta nel 1813 in un unico tomo. Attraverso un paragone sistematico con gli animali egli mostrò che l'intervallo della variazione umana non era più ampio di quello osservabile in diverse specie di animali. Seguendo Blumenbach criticò l'angolo facciale di Camper osservando che esso non forniva un carattere costante nemmeno tra gli individui della stessa nazione e, inoltre, che vi erano individui di razze diverse e con crani differenti, ma con lo stesso angolo facciale. Nel 1813 Prichard non concordava con la spiegazione del processo di differenziazione razziale fornita da Blumenbach, trovando del tutto insoddisfacente considerare l'ambiente come la causa principale delle alterazioni corporee che avrebbero dovuto subire le antiche popolazioni nelle loro trasmigrazioni e successivi insediamenti nelle diverse regioni della Terra. A suo dire, era il processo di incivilimento progressivo la ragione principale delle variazioni umane, così come lo era l'addomesticamento per le piante e gli animali. Egli argomentò questa ipotesi sostenendo che la pelle era sempre scura nei selvaggi e chiara nei civilizzati. "Non vi è ‒ egli scrisse ‒ alcun esempio di una razza di selvaggi con la costituzione e i caratteri europei", per questo suggerì che "il ceppo primitivo degli uomini fosse probabilmente costituito da negri" (Prichard 1813, pp. 237-239) e che anche le più chiare razze europee discendessero da questi avendo gradualmente modificato il colore della pelle per il processo di incivilimento. Nelle edizioni successive della sua opera Prichard abbandonò tale ipotesi, limitandosi a mostrare gli elementi unificanti presenti nelle razze umane.

Nelle Lectures on physiology, zoology, and the natural history of man anche Lawrence si disse insoddisfatto della teoria ambientale, e avanzò l'idea che la variazione tra le popolazioni umane fosse dovuta a fenomeni relativi alla riproduzione e alla trasmissione dei caratteri e, in particolare, alla selezione sessuale del partner, all'isolamento geografico di una popolazione e all'endogamia tra individui simili. Egli negò, infatti, che i caratteri acquisiti da un individuo in seguito all'azione di cause esterne fossero ereditari e affermò che la progenie nasce esclusivamente con la costituzione e le proprietà originali dei genitori. Attribuì, invece, particolare rilevanza alle variazioni spontanee, ovvero al fatto che alcuni individui possono presentare alla nascita caratteri diversi da quelli dei genitori. Scrisse, tuttavia, che le conoscenze fisiologiche del tempo non erano in grado di spiegare "perché una pecora bianca a volte desse alla luce un agnello nero, oppure alcuni genitori avessero, a volte, figli albini" (Lawrence 1819, p. 510).

Nella critica della spiegazione ambientale della variabilità umana, gli scritti di Prichard e di Lawrence concordavano con molte delle convinzioni emergenti in Francia, mentre negli Stati Uniti si arrivò a sostenere che la stessa ipotesi di influenze ambientali non era necessaria, poiché le razze erano fisse ed erano esistite come tali ab origine. L'autore che più operò in tal senso fu il medico di Filadelfia Samuel G. Morton (1799-1851) che mise insieme una delle più grandi collezioni craniologiche del tempo, pagando individui senza scrupoli che operavano lungo la frontiera americana perché gli procurassero teste di indiani. Influenzato dalla frenologia e convinto che forma e capacità del cranio fossero indizi sicuri delle razze umane, egli introdusse un metodo assai semplice per quantificare la capacità cranica. Sigillati i fori di un cranio con del cotone, egli ne riempiva la cavità con granelli di pepe che successivamente travasava in un cilindro graduato per determinare il volume occupato. Utilizzando tale metodo associato ad altre misure craniometriche, egli stese una gerarchia di tipi razziali con i neri in fondo, gli aborigeni delle Americhe al centro e i bianchi in cima. Avendo ottenuto antichi crani egiziani e avendo proceduto con il medesimo metodo, in un'opera successiva, Crania Aegyptiaca (1844), sostenne che nell'antico Egitto si poteva riconoscere l'esistenza di due distinte razze a partire dal 2000 a.C.: la caucasica e la negroide. Ciò significava, a suo dire, che 1000 anni dopo il Diluvio universale queste razze erano già ben delineate e che quegli anni non erano sufficienti per spiegare una differenziazione così marcata da presunti progenitori comuni. Per i neri si prospettava, pertanto, un'origine preadamitica o comunque diversa da quella dei bianchi. Inoltre, oltre a sostenere che la teoria poligenetica era in accordo con una "interpretazione liberale" (Morton 1850-51, p. 33) dei testi sacri, egli contestò che la fecondità degli incroci tra membri di razze diverse costituisse una "prova della unità della specie umana" (Morton 1847, p. 212): una tesi che in seguito sarebbe stata ripresa da numerosi autori.

Nella prima metà del secolo anche l'antropometria ebbe alcuni sviluppi significativi. Lo svedese Anders Adolf Retzius (1796-1860), per esempio, introdusse l'indice cefalico, una nuova misura craniometrica con cui la larghezza del cranio era espressa in termini percentuali rispetto alla sua lunghezza, che ebbe notevole successo. Ciò consentì a Retzius di classificare i crani umani in dolicocefali e brachicefali, ove con il primo termine si indicavano le teste la cui lunghezza era uguale o maggiore di 1/4 della larghezza, mentre con il secondo quelle la cui lunghezza era di 1/7 o 1/8 maggiori della larghezza. Il belga Lambert- Adolphe-Jacques Quételet (1796-1874) diede, invece, un notevole impulso a indagini statistiche in cui si consideravano oltre ai dati corporei come taglia, peso e forza, anche quelli relativi alla natalità, mortalità e durata media della vita con lo scopo di fornire una sorta di fisica sociale basata su una teoria delle medie. Tale teoria si fondava sulla constatazione che per ciascuna caratteristica studiata, come per esempio la statura, vi fosse una misura media attorno alla quale si distribuiva circa il 70% della popolazione, mentre il restante 30% si distribuiva equamente ai margini estremi della media. Secondo Quételet questa media rappresentava una sorta di perfezione e "allontanarsene avrebbe significato una scivolosa deriva verso il difforme per eccesso o per difetto" (in Pogliano 1994, p. 463).

Per tutta la prima metà dell'Ottocento in Germania prevalse, con poche eccezioni, l'orientamento monogenista patrocinato da Blumenbach cui si ispirarono, tra gli altri, Rudolph Wagner in un volume del 1831, l'autorevole fisiologo Johannes Peter Müller nel suo classico manuale di fisiologia del 1833-1840, e soprattutto l'anatomista Friedrich Tiedemann che si oppose alla tesi sostenuta da Virey e Lawrence secondo la quale i neri sarebbero stati una sorta di anello intermedio tra gli europei e gli oranghi. Specializzato in anatomia del sistema nervoso egli pubblicò nel periodico della Royal Society del 1836 uno studio in cui, paragonando tra loro cervelli di neri e di bianchi, mostrò come non esistesse alcuna differenza anatomica rilevante né nella forma, né nelle dimensioni. "Il risultato principale delle mie ricerche sul cervello del Negro è ‒ egli scrisse ‒ che né l'anatomia, né la fisiologia può giustificare di collocarli al di sotto degli Europei da un punto di vista morale o intellettuale. Allora, come è possibile negare che la razza etiopica è capace di incivilimento? Ciò è altrettanto falso come lo sarebbe stato se all'epoca di Giulio Cesare si fossero considerati incapaci di incivilimento i Germani, i Britanni, gli Elvezi e i Batavi" (Tiedemann 1836, p. 525).

Pervaso da impulsi universalistici simili a quelli di Tiedemann, Alexander von Humboldt (1769-1859) ebbe a scrivere al termine del primo volume di Kosmos, un passo veramente degno di nota: "Mentre asseriamo l'unità del genere umano, nello stesso tempo ci opponiamo anche a quella infelice supposizione di razze di uomini superiori e inferiori. Vi sono stirpi culturalmente più plasmabili, più acculturate, più nobilitate dalla cultura spirituale, ma nessuna più nobile. Tutte sono ugualmente destinate alla libertà; alla libertà che, in condizioni più rozze, spetta al singolo, e nella vita degli Stati per quanto concerne il godimento di istituzioni politiche spetta di diritto alla totalità" (Humboldt 1845-62, I, p. 385).

La svolta razzista degli anni Cinquanta

Tra il 1849 e il 1859 apparve in Europa e negli Stati Uniti una serie di opere che avrebbe esercitato una profonda influenza sull'antropologia fisica per quasi un secolo, facendo pendere il dibattito decisamente a favore della tesi poligenetica e dell'ineguaglianza naturale delle razze umane. Il cosmopolitismo ottimistico di sapore settecentesco, che con il suo egualitarismo naturale ancora traspirava dagli scritti di autori come Tiedemann e Humboldt, che consideravano il processo d'incivilimento e cioè di educazione dei popoli della Terra non solo come plausibile, ma anche auspicabile, cedette il posto a una sorta di pessimismo radicale che, elevando supposte qualità naturali insite in ciascuna razza umana a stigma di un destino storico e sociale predeterminato, decretò per gli europei l'esigenza di erigere steccati che ne impedissero incroci con popolazioni non perfettibili come quelle extraeuropee, pena la inevitabile decadenza fisica e morale.

Tale svolta non fu solo una conseguenza dello sviluppo logico, associato a raccolte di nuove osservazioni trattate in maniera statistica, di tematiche discusse nelle opere degli antropologi, ma anche dell'abolizione della schiavitù nelle colonie d'oltremare. In Inghilterra essa fu decretata nel 1833 ‒ dopo oltre cinquant'anni di pressione da parte dell'opinione pubblica ‒ e in Francia il 27 aprile 1848, durante il provvisorio governo repubblicano, per il colpo di mano del ministro della Marina e delle Colonie, il fisico Dominique-François Arago (1786-1853), spronato dal sottosegretario alle Colonie, l'abolizionista e repubblicano radicale Victor Schoelcher. Inoltre, l'abbattimento di un istituto tradizionale come la schiavitù e le contemporanee rivoluzioni dell'Europa continentale suscitarono paure per gli incroci di individui di razze diverse fuori dall'Europa e di classi differenti in Europa. Per questo sembra legittimo interpretare l'ossessione con cui gran parte della letteratura antropologica di quegli anni si occupò di ereditarietà, meticciato e ibridismo come l'esito della mitizzazione di supposte razze pure del passato e delle paure per paventati incroci futuri tra razze, o tra classi diverse della razza bianca.

In Germania si sviluppò un indirizzo di studi, fortemente influenzato dall'idealismo e dalla Naturphilosophie, che ebbe i suoi maggiori rappresentanti a Dresda in Gustav Klemm (1802-1867), bibliotecario e cultore di studi etnologici che nella sua storia culturale dell'umanità divise le razze in attive e passive, e in Carl Gustav Carus (1789-1869), anatomista, letterato e pittore che, nella monografia Über ungleiche Befähigung der verschiedenen Menschheitstämme für höhere geistige Entwickelung (Sulle dissimili capacità delle diverse razze umane di giungere a un'elevata evoluzione spirituale), pubblicata nel 1849, propose una classificazione quadripartita in popoli diurni, notturni, crepuscolari d'Oriente e crepuscolari d'Occidente. L'aspetto più inquietante di tale indirizzo è il fatto che esso elevò il soma a simbolo dello sviluppo spirituale dell'uomo secondo una gerarchia ascensionale di cui i germani avrebbero occupato l'apice.

Nel 1850 l'anatomista scozzese Robert Knox pubblicò The races of men, una raccolta di conferenze che egli aveva tenuto con notevole successo e concorso di pubblico in diverse contrade del Regno Unito. Chirurgo militare, con una esperienza di studio a Parigi, Knox aveva dovuto abbandonare nel 1831 la pratica anatomica che svolgeva a Edimburgo, perché coinvolto in modo marginale nello scandalo sul reperimento, da parte di alcuni loschi individui, di cadaveri per il tavolo anatomico con l'uccisione di sedici persone (Biddiss 1976). Ripiegò allora sull'attività di giornalista e conferenziere in cui sembra abbia brillato per la capacità di drammatizzare gli argomenti trattati. La sua tesi principale è espressa in modo lapidario nella prefazione al volume: "La razza è tutto: la letteratura, la scienza, l'arte, in una parola, la civiltà discendono da essa" (Knox 1850, p. 7). Per Knox, il concetto di razza costituiva la nozione primaria per spiegare come operano politica e società, il corso della storia, lo sviluppo della cultura e la stessa morale. Gli uomini, a suo dire, appartengono a razze diverse e tra loro ineguali per genio, istinti e temperamento; ogni razza è adatta a un solo habitat e per questo il colonialismo va evitato come vanno evitati gli incroci, poiché gli ibridi umani sono sterili o instabili.

Knox concentrò la maggior parte della propria trattazione sulla composizione razziale dell'Europa, sostenendo che soltanto comprendendo quest'ultima si potevano spiegare gli eventi rivoluzionari del 1848-1849, i quali, lungi dall'essere scontri di nazionalismi, rinviavano a cause strutturali più profonde e cioè ai conflitti tra le quattro principali razze europee: i sassoni, che eccellevano nelle arti meccaniche, perseguivano ordine e libertà e abitavano i paesi scandinavi e alcune zone della Germania e dell'Inghilterra; i celti, portati al dispotismo, essendo ugualmente incapaci di applicare l'idea di libertà per sé e per gli altri, occupavano la maggior parte della Francia, della Spagna e dell'Italia settentrionale; gli slavi, forti combattenti con grandi potenzialità intellettuali e politiche; i sarmati, che erano portati a una cieca obbedienza, costituivano un pericolo per la libertà dell'Europa e abitavano la Russia. Degli Ebrei, sparsi per l'Europa, scrisse che erano incapaci di offrire una produzione artistica, letteraria e musicale degna di rilevanza.

Sintetizzando abilmente le indagini di linguisti, naturalisti e storici, il diplomatico e letterato francese Joseph-Arthur de Gobineau prospettò nell'Essai sur l'inégalité des races humaines, pubblicato in quattro volumi tra il 1853 e il 1855, una visione del processo storico i cui attori principali erano le tre razze umane e i lori incroci.

Contrariamente a una lunga tradizione storiografica che spiegava l'ascesa di una civiltà sulla base delle virtù morali dei suoi fondatori e la decadenza sulla base della corruzione dei costumi dei discendenti, Gobineau attribuì l'una e l'altra a fattori ereditari. Infatti, la fondazione di tutte le grandi civiltà del passato era merito, a suo dire, dell'azione creatrice della sola razza bianca (o ariana) nello stato di purezza. Poiché tale azione si esplicava in luoghi ove abitavano anche popolazioni appartenenti ad altre razze era inevitabile che con il passare del tempo vi fossero degli incroci. Gobineau attribuiva al mescolarsi di elementi ariani con quelli di razze inferiori la degenerazione del sangue e il conseguente e inevitabile decadimento della civiltà che essi avevano generato. Prendendo in considerazione la situazione dell'Europa a lui coeva, egli riteneva che la civiltà espressa dalla razza bianca o ariana, rappresentata dall'aristocrazia, era in uno stato di crisi per il duplice attacco della borghesia e delle masse rivoluzionarie che rappresentavano a loro volta elementi di diversa origine razziale. Di qui il suo sconsolato pessimismo. Diversamente da Knox, tuttavia, Gobineau non fu antisemita, anzi esaltò i contributi intellettuali degli Ebrei profetizzandone comunque un decadimento per contaminazione da elementi razziali inferiori.

Da poco giunto negli Stati Uniti, il naturalista svizzero Jean-Louis-Rodolphe Agassiz, che dal 1848 occupò la cattedra di storia naturale dell'Harvard College, pubblicò nel 1850 il saggio The diversity of origin of the human race in cui sosteneva che la morfologia e la distribuzione geografica degli uomini e degli animali suggerivano una loro origine policentrica. Dichiarandosi discepoli spirituali di Morton, il medico Josiah C. Nott e il diplomatico George R. Gliddon pubblicarono congiuntamente due volumi, Types of mankind (1854) e Indigenous races of the Earth (1857), contenenti contributi di diversi autori che sostenevano l'esistenza di specie differenti di uomini. Il poligenismo era formulato in questi testi in termini tali da legittimare apertamente il mantenimento della schiavitù. Poiché l'interfecondità degli uomini era evidente a qualunque osservatore, Nott fu costretto a introdurre una nuova definizione di specie che non facesse riferimento alla riproduzione e che comprendesse "un tipo, o forma organica, che è permanente, o che per secoli è rimasto inalterato sotto opposte influenze climatiche" (Nott 1854, p. 375). Sull'ibridismo, invece, continuò a insistere l'antropologo francese Pierre-Paul Broca in una serie di saggi pubblicati fra il 1858 e il 1860. Egli era un poligenista dichiarato e sostenne la fissità delle specie umane, la loro prossimità che consentiva la produzione di ibridi, ma non la loro consanguineità. Va notato, tuttavia, che diversamente dai suoi colleghi americani, egli non riteneva che la differenza di origine implicasse necessariamente l'idea della subordinazione delle razze.

Con Delle razze umane, il primo significativo manuale di antropologia fisica pubblicato in Italia, Giustiniano Nicolucci (1819-1904), scostandosi dall'atteggiamento pessimistico menzionato sopra, sostenne, difendendola, la "dottrina dell'unità della specie nostra" (Nicolucci 1857-58, I, p. 8).

Gli anni Sessanta: tra antichità dell'uomo e antropometria

Nella ricerca antropologica gli anni Sessanta furono dominati da due questioni principali: l'antichità dell'uomo e l'antropometria. Per quanto concerne la prima questione va notato che fino alla fine degli anni Cinquanta la maggior parte degli antropologi si era occupata del problema delle origini nel quadro della cronologia tradizionale, fondata cioè sull'esegesi biblica, e non aveva preso in considerazione le coeve scoperte compiute dai geologi e dagli archeologi. In sostanza, si affrontò il problema delle origini delle razze umane in un periodo di tempo limitato a circa seimila anni e non si prese in considerazione l'ipotesi che l'estensione del tempo geologico avesse potuto intaccare anche la storia dell'uomo. Cuvier, inoltre, aveva sostenuto l'inesistenza di fossili umani, rafforzando in tal modo l'idea che l'umanità fosse molto recente. Ciò impedì di apprezzare alcuni ritrovamenti, avvenuti negli anni Venti e Trenta, di fossili attribuibili a scimmie o all'uomo stesso come, per esempio, la scoperta da parte di Philippe-Charles Schmerling (1791-1836) di crani umani e manufatti associati a scheletri di mammut nelle grotte di Engis nei pressi di Liegi.

Con la pubblicazione, però, nel 1859 di On the origin of species di Charles Darwin si profilò un nuovo scenario in cui situare lo stesso sviluppo dell'umanità. In una celebre conferenza, tenuta il 26 maggio 1859 alla Royal Society, Joseph Prestwich riconobbe l'importanza delle scoperte effettuate in Francia da Jacques Boucher de Perthes e da lui divulgate in numerose pubblicazioni nelle quali postulava l'esistenza dell'uomo antidiluviano; a partire dal 1837, Boucher de Perthes aveva rinvenuto nella valle della Somme, in strati geologici contenenti resti di fauna estinta, numerosi manufatti che fornivano la prova dell'esistenza dell'uomo in un'epoca molto antica rispetto a quanto ritenuto fino ad allora. Tuttavia, la comunità scientifica francese riconobbe l'importanza delle sue scoperte soltanto quando ne parlò Prestwich.

Nel 1863 Charles Lyell raccolse tutta la documentazione a favore dell'ipotesi dell'antichità dell'uomo nel volume Geological evidences of the antiquity of man, mentre John Lubbock pubblicò nel 1865 Prehistoric times in cui introdusse i due termini 'paleolitico' e 'neolitico' per distinguere i più antichi manufatti in pietra da quelli più recenti e rese popolare il termine 'preistoria' che era stato coniato nel 1851.

Negli anni Sessanta, inoltre, il dibattito relativo alla scoperta effettuata nel 1856 nelle grotte di Feldhof nella valle di Neander, a pochi chilometri da Düsseldorf, di resti scheletrici fossilizzati molto simili a quelli umani acquisì una dimensione europea grazie ai dettagliati rapporti pubblicati dall'anatomista e antropologo dell'Università di Bonn, Hermann Schaaffhausen, e dall'insegnante Johann Karl Fuhlrott. Entrambi ritennero di trovarsi di fronte a ossa umane antichissime; in particolare, Schaaffhausen sostenne che la peculiare morfologia della calotta cranica rinvenuta fosse naturale e non una conseguenza di uno stato patologico. Egli attribuiva lo scheletro a una razza umana vissuta in Europa prima dei Celti e dei Germani; di contro, altri ritennero che quei resti fossero da attribuire a un idiota idrocefalo o, comunque, fossero di natura patologica come sentenziò Rudolf Virchow. Studi e rinvenimenti successivi avrebbero mostrato che l'eminente patologo di Berlino si sbagliava.

Per quanto riguarda l'antropometria, si può notare come essa abbia assunto un ruolo particolarmente rilevante per Broca e la sua scuola. Si trattava di sviluppare un sistema che consentisse, senza ambiguità alcuna, di misurare il corpo umano ‒ vivente o cadavere, giovane, adulto o vecchio ‒ per scoprire quali fossero le leggi relative alla crescita e all'invecchiamento, quali le proporzioni reciproche tra le varie parti del corpo e quali le differenze tra le razze umane. Per sottoporre l'uomo a tale misurazione, Broca ideò una serie di strumenti e ne migliorò altri, sforzandosi di tradurre tutti i dati d'osservazione relativi all'uomo fisico in dati misurabili e, pertanto, in dati numerici tra loro paragonabili. Per questo egli prestò attenzione anche ad aspetti meno quantificabili come il colore. Nel 1865, per esempio, pubblicando un lungo saggio contenente alcune istruzioni sulla conduzione di ricerche e di osservazioni antropologiche Broca fece stampare una tavola cromatica di cinquantaquattro colori, dove i primi venti riguardavano "la scala cromatica degli occhi" e gli altri "rappresentavano i principali tipi di colore della pelle e del sistema pilifero" (Broca 1865, p. 113). Su un apposito foglio, destinato a raccogliere i dati relativi alle osservazioni riguardanti un unico individuo, una serie di numeri indicava il colore degli occhi, della pelle e dei capelli.

L'istituzionalizzazione dell'antropologia fisica

Irritato dall'ostilità dei membri della Société de Biologie che non volevano pubblicare i suoi saggi sull'ibridismo e non condividevano il suo poligenismo, Broca fondò nel maggio del 1859 la Société d'Anthropologie de Paris di cui fu segretario fino al 1880, anno della sua morte. Poiché le autorità politiche erano sospettose nei confronti di questa nuova società, ottennero l'assicurazione che non vi si parlasse né di religione né di politica e imposero che alle riunioni fosse sempre presente un pubblico ufficiale, cosa che effettivamente si verificò nei primi due anni di vita della società. Essa riscosse immediato interesse tanto da contare quasi cento membri nel 1860 e cinquecentocinque nel 1884.

Questo successo si spiega anche con il progressivo declino e la finale chiusura nel 1864 della Société Ethnologique de Paris che era stata fondata da William Edwards nel 1839 principalmente con lo scopo di effettuare uno studio comparativo delle razze umane. La Société Ethnologique, però, aveva anche finalità filantropiche del tutto assenti nella Société d'Anthropologie che si proponeva principalmente di raccogliere dati antropologici attraverso, per esempio, appositi questionari distribuiti a quei membri della società che compivano viaggi di studio ed esplorazioni. Tali dati venivano successivamente depositati al Laboratoire d'Anthropologie istituito presso l'École Pratique des Hautes Études. La società iniziò la pubblicazione di un "Bulletin" trimestrale a partire dal 1860, di una serie di "Mémoires" più o meno regolari e, dal 1872, della "Revue d'Anthropologie".

In Inghilterra, un gruppo di cultori di studi antropologici guidati da James Hunt ‒ un razzista seguace delle idee di Knox ‒ abbandonò la londinese Ethnological Society per fondare, nel 1863, la Anthropological Society of London la quale avrebbe dovuto occuparsi maggiormente di anatomia e fisiologia piuttosto che di geografia e di linguistica.

La società, guidata dallo stesso Hunt, pubblicò sia le "Memoirs" della società, sia la "Anthropological Review", ma non sopravvisse al proprio fondatore. Infatti, dopo la sua morte, avvenuta nel 1869, Thomas H. Huxley riuscì a riunire nel 1871 le due società nell'Anthropological Institute of Great Britain and Ireland di cui furono membri personalità come John Beddoe e Francis Galton.

In Germania, dopo il tentativo, subito fallito, di fondare una società antropologica nazionale a Gottinga da parte di Rudolph Wagner (1805-1864) e Karl Ernst von Baer (1792-1876), si formarono diverse società locali con sedi a Berlino, Monaco, Francoforte, Stoccarda e nella stessa Gottinga. Nel 1870 tali società si riunirono nella Deutsche Gesellschaft für Anthropologie che elesse a suo primo presidente Virchow e fece dell'"Archiv für Anthropologie" fondato da Alexander Ecker nel 1866 il proprio organo di stampa. In Italia, infine, fu creato nel 1869 a Firenze il Museo Nazionale di Antropologia ed Etnologia alla cui direzione fu chiamato nel 1870 Paolo Mantegazza che l'anno seguente fondò la Società Italiana di Antropologia con il periodico "Archivio per l'antropologia e la etnologia".

Con la fondazione di società scientifiche nazionali e di periodici specializzati, il lento processo di istituzionalizzazione dell'antropologia fisica, che era iniziato alla fine del XVIII sec., si consolidò definitivamente nel corso degli anni Sessanta del XIX secolo. La standardizzazione delle misure antropometriche, la catalogazione di reperti scheletrici che si andavano rinvenendo un po' dovunque nei paesi europei e la raccolta di dati relativi al soma di tutte le popolazioni extraeuropee divennero fini prioritari per tracciare una storia dell'uomo biologico e delle sue culture a partire da un passato indefinito che aveva comunque superato i confini temporali della cronologia biblica. Tuttavia, al posto di finalità filantropiche ora giudicate con irrisione, che però ancora animavano le ricerche di alcuni studiosi attivi negli anni Trenta e Quaranta, si sostituì una visione apparentemente più scientifica, ma in realtà stereotipata e gerarchica della diversità umana, marcata come era da forti connotazioni nazionaliste e anche da un generale disprezzo per le genti di colore. Essa spezzò l'unità della specie umana, e, postulando una continuità tra fisico e morale, divise il mondo in razze e culture superiori e inferiori erigendo e rafforzando così, sotto il pretesto della scientificità, barriere ideologiche tuttora esistenti nella società.

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