L'opera d'arte nell'epoca della sua riproducibilità industriale

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità industriale

Enrico Morteo

L’anteguerra e una modernità incompleta

Nel 1940, lo scoppio della Seconda guerra mondiale fotografava un’Italia ambiguamente sospesa sul ciglio di un’incompleta modernizzazione.

L’industria aveva fatto molti progressi dal fatidico biennio 1906-1907, ventiquattro mesi nei quali alla periferia Nord-Est di Milano Ernesto Breda inaugurava un nuovo e grande stabilimento meccanico, la Falck avviava a poche centinaia di metri la costruzione di una moderna acciaieria alimentata elettricamente dalle turbine Edison di Paderno d’Adda e Giovanni Battista Pirelli acquistava i terreni della Bicocca sui quali di lì a poco sarebbero sorti nuovi stabilimenti per la lavorazione della gomma, mentre, a Torino, il senatore Giovanni Agnelli con un colpo di mano borsistico prendeva saldamente il controllo della Fiat.

Pur con intrecci non sempre virtuosi fra banche, Stato e imprenditori, l’economia aveva visto crescere e consolidarsi importanti realtà produttive. Milano era la piazza più sviluppata e poliedrica e sfoggiava eccellenze in vari settori: gomma, energia, meccanica, siderurgia, editoria, finanza; a Torino, con il declinare dell’astro di Riccardo Gualino, grande commerciante di materie prime e patron della SNIA Viscosa (Società Navigazione Industriale Applicazione Viscosa), messo in ginocchio dalle politiche monetarie e dalle leggi autarchiche volute dal governo di Benito Mussolini, la Fiat aveva assunto una posizione egemone; a Genova, l’Ansaldo era un conglomerato che spaziava dalla siderurgia, alla cantieristica, alla produzione di energia, alle costruzioni ferroviarie. Oltre il triangolo industriale esistevano poi realtà minori, ma non per questo meno interessanti: la Dalmine di Bergamo, la Lanerossi di Vicenza, l’Olivetti di Ivrea, la galassia emiliana della meccanica, la Buitoni-Perugina di Perugia, solo per citarne alcune. E poi ancora siderurgia a Terni, Piombino, Napoli e Trieste, chimica a Marghera, filande di lana, seta e cotone sparse alle pendici di tutto l’arco alpino.

Del resto, Mussolini, al potere dal 1922, non aveva mai visto di buon occhio le grandi concentrazioni urbane e operaie, tradizionalmente ostili al regime. Così, se a fronte della crisi scatenata dal crollo della Borsa di New York nel 1929, lo Stato aveva dovuto accollarsi attraverso l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano) e l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale) alcune delle principali industrie del Paese, assumendo il ruolo di imprenditore pubblico, contemporaneamente privilegiava il fiorire di insediamenti diffusi investendo ingenti capitali pubblici in importanti lavori di bonifica agraria.

Pur senza mai colmare del tutto il divario con le più avanzate economie straniere, che potevano contare sull’abbondanza di energia e materie prime e sulle risorse provenienti da vasti possedimenti coloniali, l’industria italiana aveva saputo compensare in parte questi limiti con un significativo sviluppo tecnologico. Recuperato il terreno perduto nei settori più tradizionali quali quello ferroviario e quello cantieristico (varato nel 1931, il Rex era l’orgoglio della marina commerciale italiana e non aveva nulla da invidiare ai migliori transatlantici stranieri; nel 1939 l’elettrotreno Breda ETR 212, al cui disegno avevano partecipato Giò Ponti e Giuseppe Pagano Pogatschnig, stabiliva un record mondiale di velocità coprendo la tratta Firenze-Milano in un’ora e quarantacinque minuti alla media di 164 chilometri orari e con una punta massima di 203 chilometri all’ora), l’Italia giocava alla pari in settori innovativi quali l’industria automobilistica, l’aeronautica e le telecomunicazioni, così come in quei campi in cui le restrizioni autarchiche del 1936 avevano favorito la ricerca di soluzioni alternative e originali, quali la chimica organica o la siderurgia degli acciai speciali e delle leghe leggere.

A ben vedere però, sebbene già nel 1924 l’industria avesse superato l’agricoltura nella composizione del prodotto interno lordo, l’identità del Paese era ancora largamente rurale e contadina. Nel periodo compreso tra il 1937 e il 1939 l’agricoltura assorbiva il 20,8% dei lavoratori italiani al di sopra dei 10 anni d’età, mentre solo il 12,8% della forza lavoro era impiegata nell’industria (e di questa la stragrande maggioranza in aziende di piccolissime dimensioni). Non solo quasi l’intero Mezzogiorno era fermo al latifondo: tutta la dorsale di Alpi e Appennini era relegata a un’agricoltura di sussistenza, mentre le pianure irrigue della Val Padana venivano in larghissima parte dedicate a coltivazioni intensive. Nel suo insieme, un’Italia di provincia, dove a un’esigua élite cosmopolita, cittadina e altoborghese, faceva da contraltare un’estesa classe rurale, di agricoltori, fittavoli e contadini; in mezzo, una ridotta quota operaia e piccolo-borghese – soprattutto commercianti e dipendenti pubblici – e una ancora più sottile fascia di piccoli imprenditori e liberi professionisti. Non è che in Italia mancasse la capacità di prefigurare il futuro o la competenza tecnica per progettare in termini moderni, ma, osservata sullo sfondo complessivo del Paese, quella italiana si rivelava una modernità parziale e disomogenea, limitata ad alcune fasce urbane, alle grandi commesse pubbliche e a spettacolari iniziative simboliche, capaci di coinvolgere l’immaginario collettivo senza però dare soddisfazione alle reali aspettative di modernizzazione del Paese o modificare lo stile di vita della gran parte degli italiani.

Modernissimi erano stati i futuristi, ma quasi nulla delle loro provocazioni si era poi sedimentato in comportamenti o oggetti quotidiani, se si eccettua un’incisiva influenza sulla produzione grafica e, forse, la tarda bottiglietta del Campari soda disegnata da Fortunato Depero nel 1932. E così gli ingegneri: se la Pirelli era leader mondiale nella tecnologia dei cavi telefonici sottomarini, in Italia il telefono era un privilegio di pochi; il velocissimo ETR 212 era un treno piccolo e lussuoso, riservato a selezionatissimi viaggiatori di prima classe e formato da tre sole carrozze; il Rex andava da Plymouth a New York in soli quattro giorni, ma la maggioranza degli italiani che era andata in America nei primi decenni del secolo non aveva fretta, essendo composta da emigranti che viaggiavano in terza classe con biglietti di sola andata; Italo Balbo stupiva il mondo con le spettacolari trasvolate atlantiche di uno stormo di bellissimi idrovolanti Savoia Marchetti S.55, ma languiva in Italia l’aviazione commerciale; le automobili italiane primeggiavano su tutti i circuiti, ma sulle strade ne circolavano poche, nonostante la Milano-Laghi, inaugurata nel 1927, fosse una fra le prime autostrade del mondo (nel 1938 il parco circolante italiano non raggiungeva le 300.000 unità, mentre negli Stati Uniti gli autoveicoli erano 25 milioni, in Francia e Inghilterra circa 2 milioni, in Germania circa 1.300.000).

Ciò che mancava era la possibilità di realizzare una modernità diffusa e quotidiana, una modernità di comportamenti condivisi, di nuove abitudini e di nuovi consumi. Non bastavano le politiche monetarie del governo di Mussolini a riorientare verso il mercato interno le produzioni di aziende che, per tradizione, avevano nello Stato il loro primo cliente e nell’esportazione il loro principale mercato. Per moltissimi italiani la modernità si limitò alla bicicletta (di certo il mezzo di locomozione più diffuso in Italia), alla moka express Bialetti (forse l’unico oggetto déco italiano di un qualche successo popolare) e alla radio (potente strumento di propaganda fortemente sostenuto dal regime che negli anni Trenta contava già un milione di abbonati).

In questo contesto non stupisce che la rete pur capillare dei grandi magazzini La Rinascente si rivolgesse quasi esclusivamente all’agiata borghesia delle grandi città, ma, simmetricamente, sarà proprio nel contrasto con l’arretratezza rurale italiana che troverà la sua dimensione epica ed eroica la celeberrima Mille miglia, corsa automobilistica che dal 1927 attraversava in una sola tappa le strade italiane da Brescia fino a Roma e ritorno. Metafora quasi perfetta della modernità italiana d’anteguerra, la Mille miglia metteva in scena, in forma di spettacolo, il confronto fra futuro e passato: da un lato, la velocità rombante delle automobili da corsa; dall’altro, l’immobilità antica delle campagne.

Talvolta avanzata, ma episodica ed elitaria, la modernità italiana tendeva ad assumere toni aulici e avventurosi, traslando l’idea del futuro in una dimensione ideale e idealizzata. Così facendo, i valori del progresso, della velocità e della tecnica finirono per entrare a far parte di un confuso pantheon mitologico in cui convivevano con la retorica della romanità, della mediterraneità, della classicità.

D’altra parte, il continuo riproporsi dell’antico rappresentava il tratto distintivo del progetto italiano. Frenato nel suo affermarsi dai limiti del contesto economico e culturale, il futuro affiorava tra le maglie di un classicismo imperante e di nostalgie rinascimentali. Perfetto esempio del procedere italiano era lo stile Novecento, movimento che aveva per protagonisti Ponti, Giovanni Muzio, Tomaso Buzzi, Piero Portaluppi. Lontano da obiettivi volti alla standardizzazione della produzione o da interessi per il mobile popolare e l’arredo economico (temi che in Europa stavano modificando il disegno della casa e della città), il Novecento funzionava come un filtro che depurava il gusto dagli eccessi eclettici e floreali, preparando il campo per nuove sperimentazioni. Fu su questo terreno che approdarono gli echi del razionalismo europeo, spogliati però di molta virulenza ideologica proprio dal classicismo novecentista e della retorica del regime. Non copia delle ricerche tedesche quanto vera rielaborazione che nutriva il progetto di rimandi futuristi, onirici, metafisici, il movimento italiano si muoveva in una dimensione sospesa fra storia e futuro, fra tecnica e lusso. Basti pensare ai disegni di Giuseppe Terragni o ai mondi rarefatti evocati da Mario Asnago e Claudio Vender, poetiche diverse accomunate però dal sottrarsi all’ingenuità modernista, avviando una riflessione sofisticata e sottile che, a partire dal dopoguerra, costituirà il differenziale qualitativo del progetto italiano.

La ricostruzione: nuove urgenze e nuovi valori

Con la sconfitta militare del 1945, la fine della monarchia nel 1946 e l’affermarsi di un’economia libera in una società per la prima volta retta da un regime democratico, questo scenario era destinato a essere radicalmente trasformato.

A dettare l’agenda dell’immediato dopoguerra furono le urgenze della ricostruzione. Ingenti i danni alle infrastrutture e al patrimonio edilizio che riguardarono 8000 km di strade, circa 7000 km di ferrovie, 2968 ponti stradali e 100 km di viadotti ferroviari, 15 porti severamente danneggiati, 40.000 aule scolastiche e 6.000.000 di vani abitativi (cfr. Dizionario della ricostruzione, 1950). Grazie ai primi aiuti forniti dagli alleati con il piano UNRRA (United Nations Relief and Rehabilitation Administration), il ripristino delle strutture danneggiate dal conflitto procedette a tappe forzate: strade, porti, ferrovie, impianti industriali vennero rimessi in sesto a tempo di record. Fu un impegno che coinvolse l’intero Paese e richiese un’imponente forza lavoro, innescando tra l’altro un primo significativo movimento di braccianti verso i cantieri edili e le imprese di costruzione.

Ripristinare i capannoni non fu però sufficiente a far ripartire a pieno regime i grandi gruppi industriali italiani. Più che ricostruire gli edifici, servì una profonda riorganizzazione di obiettivi e strategie per sostituire le produzioni belliche, le reti commerciali, l’organizzazione interna delle aziende. Tanto più che l’aiuto degli alleati non fu privo di contropartite. Da un lato, all’Italia vennero preclusi alcuni promettenti e strategici mercati (o, quanto meno, le venne limitato l’accesso a essi) quali il mercato della chimica di base, della produzione di auto di lusso, di aerei di linea transatlantici, di armi sofisticate. Dall’altro, insieme ai consistenti aiuti che, a partire dal 1948, il piano Marshall fece affluire anche in Italia, gli Stati Uniti esportarono un immaginario culturale che, dietro la fascinazione dei film hollywoodiani e dei nuovi ritmi musicali, celava un modello economico basato sulla produzione di beni di largo consumo, scelta che richiese la vigorosa espansione del mercato interno.

Così, mentre le aziende più grandi erano impegnate in laboriose riconversioni, che liberavano sul mercato risorse umane e grandi competenze tecniche, l’Italia trovò nella piccola e media industria la dimensione privilegiata in cui trasferire non soltanto le tecnologie acquisite, ma, soprattutto, l’entusiasmo di giovani imprenditori e di altrettanto giovani progettisti. Fu dunque ai margini delle logiche della grande produzione di serie che la cultura italiana del progetto iniziò a sviluppare una propria identità e un proprio linguaggio con i quali accompagnare una società avviatasi a conquistare una mai raggiunta modernità.

Piccolo, leggero, per tutti

Ottimismo e fiducia, ma anche attenzione alle condizioni del Paese reale: piccolo e leggero diventarono le parole d’ordine del progetto italiano.

Metafora di un nuovo dinamismo sociale, lo sviluppo di piccoli mezzi di trasporto restituì con precisione l’accelerazione del progetto italiano. Mentre l’industria automobilistica e motociclistica faticava a superare gli stereotipi d’anteguerra, altre aziende affrontavano il tema di una mobilità minima da posizione eccentrica, sfruttando tecnologie aeronautiche resesi disponibili con la crisi del settore. L’attenzione venne rivolta allo scooter, in origine mezzo militare ausiliario, ma perfettamente adeguato alla misura del paesaggio sociale italiano: piccolo, economico, adatto a brevi spostamenti nei centri storici, nelle periferie operaie, nel fitto reticolo degli insediamenti rurali o per rapide gite fuori porta.

Paradigmatico il caso della Piaggio, azienda aeronautica che alla fine della guerra aveva visto ridursi i suoi dipendenti da 12.000 a poche centinaia di unità. Ciò che Enrico Piaggio (1905-1965) chiese a Corradino D’Ascanio (1891-1981) era un veicolo leggero, che aiutasse l’azienda a ripartire e gli italiani a muoversi. D’Ascanio, progettista di elicotteri, fece della massima leggerezza la chiave del progetto, immaginando una struttura in lamiera con doppia funzione di telaio e carrozzeria. Lo scudo frontale, le piccole ruote e il bulbo posteriore, che alloggia il motore a due tempi e una ruota di scorta in dotazione, suggerirono il nome Vespa. Quando, nel 1946, il modello fu pronto, molti vaticinarono un suo rapido insuccesso. Le cose poi andarono diversamente e lo scooter non si limitò a interpretare l’emergenza, ma seppe proporsi quale mezzo di trasporto flessibile e divertente, antesignano di modi di vivere pratici e disinvolti.

Anche Ferdinando Innocenti (1891-1966), titolare dell’omonima azienda specializzata nella produzione di tubi e macchine utensili, cercò una diversificazione nel settore delle due ruote. Giovane generale dell’aviazione, l’ingegnere Pierluigi Torre (1902-1989) disegnò uno scooter affidando il telaio a un’embrionale struttura a traliccio che sfruttava i tubi a forte spessore di cui l’Innocenti era specialista. Più nervosa della Vespa, la Lambretta non nascondeva i componenti tecnici dietro avvolgenti carrozzerie, ma fu subito proposta in vendita nel 1947 in ben sei tinte pastello: verde, grigio, avorio, azzurro, rosso e amaranto. Come la Vespa, anche la Lambretta incontrò un buon successo di vendite: già nel 1953 erano 275.395 le unità vendute dalla Innocenti, mentre la Piaggio ne collocava lo stesso anno 282.477.

Fu la difficoltà di vendere impianti termici industriali che spinse l’ingegnere Renzo Rivolta (1908-1966) a cercare un’alternativa nel settore degli scooter. Alla richiesta di un veicolo carenato l’ingegnere aeronautico Ermenegildo Preti (1918-1986) dette però una risposta più complessa, progettando un vero e proprio abitacolo integrato. Presentata nel 1954, l’Isetta era una vera microvettura, con struttura ovoidale in acciaio, un unico sportello anteriore ad apertura frontale da cui sbarcare direttamente sul marciapiede, due posti affiancati e quattro ruote di piccolo diametro di cui le anteriori erano comandate da uno sterzo a giunto cardanico incernierato sul portellone apribile. Sembrava quasi l’abitacolo di un elicottero posato a livello della strada. Anticipando di molto l’idea della city car, l’Isetta segnava al tempo stesso il realismo del progetto italiano, ma anche la sua capacità di prefigurare un diverso futuro. L’Isetta venne prodotta in Italia tra il 1954 e il 1956 in 1420 esemplari; nel 1955 la BMW (Bayerische Motoren Werke) ne acquisì la licenza e, tra il 1955 e il 1962, ne vendette in Germania 161.000.

Occorrerà attendere ancora perché la Fiat, prima con la 600 del 1955 e, due anni dopo, con la Nuova 500, desse un esito compiuto a questo progetto di prima motorizzazione nazionale e popolare. Soprattutto la 500 soddisfò il bisogno di mobilità diffusa: due porte, quattro posti, due cilindri raffreddati ad aria, sedili imbottiti in gommapiuma. Piccola, ma non povera (la 500 infatti riproponeva in scala ridotta tutte le qualità delle vetture maggiori compreso un efficace impianto di riscaldamento), la vettura fu disegnata da Dante Giacosa (1905-1996), già progettista della Topolino, con una maniacale attenzione al risparmio dei materiali, così da poter essere messa sul mercato a un prezzo accessibile anche ai modesti redditi degli operai italiani.

Fu però un’altra intuizione italiana che nell’immediato dopoguerra seppe anticipare il futuro stesso dell’automobile. Non si tratta di una vettura popolare e l’imperativo della leggerezza e delle piccole dimensioni trovano in questo caso origine nella destinazione sportiva della vettura. A volerla fu Piero Dusio (1899-1975), eclettico imprenditore piemontese già pilota della Mille miglia. Al disegno del coupé berlinetta Cisitalia 202 (1947) concorsero Giacosa, Giovanni Savonuzzi (1911-1986) e, soprattutto, Giovanni Battista, detto Pinin, Farina (1893-1966). Questi ben conosceva l’evoluzione dell’auto da competizione, ma anche l’opulenza muscolare dell’aerodinamica statunitense e, nel disegno della Cisitalia, riuscì per la prima volta a coniugare in forma compiuta questi due approcci apparentemente tanto diversi. A renderla indimenticabile basterebbe la bellezza filante delle sue forme, ma, pur lontana da standard di comoda abitabilità, la Cisitalia segnò il superamento dell’antinomia fra velocità e turismo, indicando la via del moderno disegno dell’automobile.

Olivetti: un caso a parte

Fondata nel 1908 da Camillo Olivetti (1868-1943), l’azienda è stata una delle pochissime del panorama italiano a essere cresciuta producendo beni durevoli, ma di relativamente largo consumo come le macchine per scrivere. Di là dagli orientamenti ispirati a un socialismo paternalistico del fondatore, l’azienda risultava caratterizzata dall’impegno verso la ricerca e l’autosufficienza tecnologica. Imparato il mestiere dagli americani, Olivetti aveva avviato un proprio percorso di sviluppo che già nel 1931 gli aveva consentito di mettere sul mercato una macchina come la M40, non solo allineata ai migliori standard stranieri, ma i cui componenti erano tutti realizzati internamente alla Olivetti. Chi però impresse una netta accelerazione all’azienda fu il figlio Adriano (1901-1960), che affiancò il padre sin dalla fine degli anni Venti.

Sul fronte delle produzione Adriano fu un convinto assertore dei metodi organizzativi statunitensi, che mitigava con strategie assistenzialistiche avanzatissime. Ma fu soprattutto la scelta di investire sul capitale umano a caratterizzare la sua azione: da un lato, avviò un’intensa campagna di assunzione di tecnici e ingegneri, spina dorsale del centro ricerche tecniche di Ivrea; dall’altro, aprì a intellettuali e artisti, cui affidò l’ufficio comunicazione e pubblicità di Milano. Poeti, fotografi, grafici e artisti entrarono così nelle strutture dell’impresa, collaborando con i tecnici alla definizione dei progetti e costruendo parallelamente un linguaggio di forme e di immagini con il quale dare corpo a un vero paesaggio della modernità, fatto di campagne pubblicitarie, showroom, negozi, riviste e così via.

Così, mentre a Ivrea si progettavano cinematismi sempre più compatti, tecniche d’iniezione dell’alluminio di assoluta avanguardia e si sviluppava parallelamente alla scrittura il nuovo settore delle macchine da calcolo, a Milano Marcello Nizzoli (1895-1969) iniziò a riflettere sulla forma dell’oggetto tecnico moderno. Non più macchine, bensì veri e propri oggetti racchiusi in funzionali e levigate carrozzerie che mediavano il rapporto con l’ambiente e con le persone che le utilizzavano.

Già nel 1940 l’Olivetti sarebbe stata pronta a lanciare la prima addizionatrice scrivente sul mercato, ma la guerra interruppe i programmi. Modellata da Nizzoli, la macchina farà la sua comparsa nel 1945, seguita in rapida successione da versioni in grado di compiere un numero sempre maggiore di operazioni. Nel 1948 venne proposta nella filante linea disegnata da Nizzoli la Divisumma 14, prima calcolatrice elettrica scrivente al mondo in grado di compiere le quattro operazioni. La Olivetti era oramai leader mondiale delle macchine da calcolo. Con lo stesso spirito Nizzoli rinnovò l’identità delle macchine per scrivere. Presentata contemporaneamente alla Divisumma, la Lexikon 80 non aveva più nulla dell’asprezza della macchina: era bella e sinuosa, mentre la leva del carrello era una vera opera plastica scolpita sul palmo della mano. Due anni dopo i tecnici Olivetti si superarono, affidando a Nizzoli un meccanismo piccolo e leggero quanto mai prima di allora. Nacque così la Lettera 22, portatile, leggiadra oltre che leggera, un vero e proprio oggetto piacevole da usare e da guardare. Un successo sancito da un prestigioso invito del MoMA (Museum of Modern Art) di New York che nel 1952 allestì nelle sue sale una mostra interamente dedicata alla produzione Olivetti.

Addomesticare la tecnica

Se l’innovazione di macchine da ufficio e mezzi di trasporto non può prescindere da un incremento tecnologico del progetto e dei suoi componenti, meno scontato è il modo con cui la tecnica può contribuire a rinnovare in chiave moderna il disegno degli arredi. Nella Germania d’anteguerra, in piena espansione industriale, il sogno che la tecnologia potesse fornire risposte immediate al bisogno di adeguare gli oggetti ai nuovi modelli abitativi aveva guidato la ricerca verso la formazione di nuovi specialisti del progetto e verso la definizione di forme standardizzate in previsione di produzioni di massa.

In Italia, dove un’indagine parlamentare promossa nel 1950 ancora individuava ben 1.400.000 famiglie «indigenti» e altre 300.000 addirittura «misere», non era facile pensare a programmi di produzione industriale in grande serie. Più che generare una strategia d’insieme e un’estetica unitaria, la tecnica assunse nelle ricerche dei progettisti italiani un valore di tipo tattico e sperimentale.

Calibrato su un mercato ancora in gran parte da inventare e su un tessuto produttivo di piccole aziende, il progetto italiano non poteva non modulare tecnologia e artigianato, innovazione e tradizione, memoria e invenzione. Sottraendo alla tecnica il controllo demiurgico del progetto, fu nell’indagine tipologica o nell’elaborazione della forma che il design italiano trovò possibili momenti di sintesi. Si poteva lavorare con un modello classico senza appiattirsi su una citazione di stile. Si potevano adottare lavorazioni convenzionali, ma ricorrere a materiali inconsueti e a componenti più razionali.

Furono temi che nel quindicennio 1950-65 animarono accesi dibattiti teorici e che furono al centro della mostra Nuovi disegni per il mobile italiano organizzata a Milano nel 1960 dall’Osservatorio delle arti industriali: significativamente, nei saggi che accompagnano il catalogo (a cura di Guido Canella e Vittorio Gregotti), Gregotti evoca la ricchezza pur contraddittoria del linguaggio cinematografico per spingersi di là dalla purezza della sedia in tubo metallico; gli fa eco Canella che, lanciandosi in un aperto confronto fra progetto e romanzo, parla esplicitamente di un design della rappresentazione; Aldo Rossi, lapidariamente, constata come poche espressioni del lavoro umano fossero così povere di idee, così banali come i mobili e gli arredamenti moderni.

Più che imporsi, la tecnica si affianca, si innesta, si ibrida, convive con la tradizione, non richiede necessariamente impianti produttivi di tipo industriale, non sottende una radicale rivoluzione dello spazio domestico. A Franco Albini (1905-1977), ad es., la chiarezza del pensiero tecnico serve a riscrivere modernamente le tradizionali lavorazioni di falegnameria. La celeberrima seggiola Luisa del 1955 non sfoggia soluzioni avveniristiche, ma la sua forma discende da una sintassi degli incastri che deve alla logica meccanica la propria elegante semplicità. All’opposto, Carlo Mollino (1905-1973) brevetta tecniche nuovissime per la lavorazione del moderno compensato curvato con cui dare corpo a fantastici scheletri tridimensionali, aeree traiettorie di tendini e di costole che certo non ambivano ai grandi numeri delle produzioni popolari. Nella poltroncina Catilina del 1958 Luigi Caccia Dominioni (n. 1913) esibisce richiami classicisti e modi costruttivi settecenteschi, ma usa la secchezza del piatto metallico con essenzialità tutta moderna. Afra (1937-2011) e Tobia (n. 1935) Scarpa usano lo stesso materiale per disegnare, nel 1962, un letto etereo e trasparente: Vanessa non è che un festone d’acciaio, fermato però da un prezioso giunto d’ottone fresato.

Per Gastone Rinaldi (1920-2006), Osvaldo Borsani (1911-1985), Eugenio Gerli (n. 1923) la tecnica è invece il pretesto per evolvere le forme del comfort a partire da nuovi materiali metallici ed elastici. Reti elettrosaldate, lamierini d’alluminio, feltri sintetici, elastici tiranti di gomma: un vocabolario di semilavorati industriali assemblati in sperimentali geometrie antropomorfe.

Atteggiamenti che troveranno poetiche declinazioni nella Superleggera di Ponti (1891-1979) del 1957, riscrittura della settecentesca sedia di Chiavari; negli oggetti che Enzo Mari (n. 1932) disegna per Danese nel 1958 utilizzando sezioni di putrelle da cantiere; nella lampada Toio di Achille (1918-2002) e Pier Giacomo (1913-1968) Castiglioni, collage di crudi componenti tecnici realizzato nel 1962.

Occorrerà l’attenzione di una grande industria per introdurre vere novità nel paesaggio dell’arredamento. Alle prese con un generale riorientamento produttivo, nel 1947 la Pirelli iniziò a valutare la possibilità di utilizzare alcuni derivati delle lavorazioni della gomma per realizzare oggetti d’uso e d’arredo. Mentre Bruno Munari progetta due giocattoli morbidi e flessibili (il gatto Romeo del 1949 e la scimmietta Zizi del 1954), tra il 1948 e il 1950 Marco Zanuso, in collaborazione con i tecnici dell’azienda, getta le basi di una moderna grammatica dell’imbottito. Gommapiuma, cinghie elastiche e rivestimenti sfoderabili danno forma a morbidi insiemi che scavalcano l’eredità della falegnameria. Ma, per quanto la poltrona Lady del 1951 rappresenti il primo approccio sistematico al disegno dell’arredo, anche la Pirelli sceglierà di delegare la produzione alla Arflex, piccola azienda controllata dalla casa madre.

Ciò che dunque caratterizzò l’origine stessa del modo italiano di pensare l’oggetto moderno fu un atteggiamento laico e disincantato nei confronti della tecnologia che, svincolata dagli obblighi di una produzione in grandi numeri, non imponeva leggi o procedimenti rigidi. Del resto, in assenza di specialisti, sfumavano gli eccessi ideologici e formali: le aziende erano piccole, gli imprenditori quasi sempre di prima generazione e i progettisti uscivano dalle facoltà di Architettura. Questa situazione articolata e in fluido divenire salvaguardò una straordinaria permeabilità culturale del design, assorbendo le più diverse suggestioni, estetiche, funzionali, decorative o sperimentali, dando corpo non solo a oggetti, ma a un vero discorso sul significato della modernità.

Strutturalmente flessibile, pronto a ridefinire obiettivi e procedure, capace di aggiornare in tempo reale tecnologie, tipologie e immaginari di riferimento, il sistema italiano del design agì come un laboratorio sperimentale del presente che, gettando le premesse di un mercato ancora tutto da inventare, costituì un avamposto della produzione di grande serie.

Né l’arte, né la letteratura sapranno anticipare e restituire le trasformazioni della società italiana con la stessa fedeltà del design e per un arco di tempo altrettanto dilatato.

Una modernità possibile

Entrato in funzione nel 1953 per assicurare l’indispensabile lamiera d’acciaio alle produzioni di automobili, macchine utensili o elettrodomestici, il grande laminatoio siderurgico di Cornigliano (Genova) annunciò la definitiva ripresa dei grandi gruppi industriali che avviò l’Italia verso un rapido sviluppo economico, sociale e culturale. Accompagnata da importanti flussi migratori che spinsero verso i centri del triangolo industriale agricoltori e braccianti del Mezzogiorno, la crescita impose rapide e radicali trasformazioni. In brevissimo tempo cambiarono le strutture del lavoro e della famiglia, le abitudini domestiche, la percezione del paesaggio. Cambiamenti profondi che coincisero con il declino dell’agricoltura, l’emancipazione delle donne, l’incremento dei livelli d’istruzione, la miniaturizzazione dei nuclei familiari. Almeno nelle grandi città del Nord, cambiarono i modelli culturali e gli stili di vita, prefigurando nuove domande di consumo e nuovi modelli abitativi.

Insieme al telefono, alla lavatrice, al frigorifero e all’incipiente televisione, gli italiani scoprirono nuovi modi di vivere la casa e nuove ritualità private e collettive. Le radio e i televisori Brionvega, i frigoriferi Ignis, le lavatrici Candy, le cucine Merloni, gli orologi Solari, le poltrone Cassina e C&B, le lampade Artemide e Flos, i contenitori Driade, gli uffici Tecno, gli oggetti Danese e Alessi non furono che alcuni risultati del lavoro di una galassia di aziende dedite alla sperimentazione del nuovo. Accanto a loro, insieme a loro, i designer: tra gli altri i fratelli Castiglioni, Zanuso, Mari, Joe Colombo, Mario Bellini, Ettore Sottsass, Vico Magistretti, Angelo Mangiarotti, Gino Valle, Rodolfo Bonetto, il compito dei quali non si esauriva mai nel solo progetto, bensì mirava a dare forma a un futuro oramai presente.

Per assecondare queste nuove aspettative, i grandi magazzini La Rinascente istituirono un premio destinato a riconoscere e promuovere la migliore produzione contemporanea e stimolare la crescita di aziende orientate alla qualità del design. Lanciato nel 1954 (e giunto oramai alla sua 22° edizione), il Compasso d’oro divenne negli anni lo specchio del cambiamento e dell’innovazione. Pur senza esaurire la vertiginosa produzione del design italiano, edizione dopo edizione il Compasso d’oro registrò l’evolversi di un progetto spesso capace di precedere l’affermarsi di nuove abitudini e nuovi comportamenti, approntando un paesaggio fatto di nuovi oggetti e nuove prestazioni, nuove tecnologie e nuovi materiali.

Memorabile per molti aspetti fu l’edizione del 1957. Insieme a un lampione stradale, un microscopio di precisione, un contenitore ermetico e la Fiat 500, vennero premiati due oggetti particolarmente significativi: il grande calcolatore elettronico Olivetti Elea 9003 e il piccolo spremiagrumi Kartell KS 1481 disegnato da Gino Colombini (n. 1915).

L’Elea fu un vero primato mondiale. Si trattava, infatti, del primo elaboratore interamente transistorizzato. Forte della leadership mondiale nel settore delle macchine per scrivere e per calcolare, Adriano Olivetti sapeva di non potersi disinteressare del nuovo fronte aperto dalle ricerche elettroniche. Con l’appoggio e la collaborazione del figlio Roberto (1928-1985), Olivetti inaugurò un vero settore sperimentale.

Dopo i primi studi condotti a Ivrea già nel 1949 e il contemporaneo avvio di una collaborazione con la francese Bull, le iniziative della Olivetti procedettero con una sequenza di decisioni di straordinaria velocità e determinazione: nel 1952 venne aperto a New Caanan (Connecticut) il primo laboratorio di elettronica; nel 1954 la Olivetti assunse il giovane e brillantissimo ingegnere italo-cinese Mario Tchou (1924-1961) e decise di riportare la ricerca in Italia; lo stesso anno aderì al progetto di una calcolatrice elettronica varato su suggerimento di Enrico Fermi dall’Università di Pisa; nel 1956, vista l’impostazione troppo teorica del progetto universitario, l’Olivetti aprì una propria divisione elettronica a Barbaricina-Pisa, coordinata da Roberto Olivetti e diretta da Tchou; nel 1957, con due anni di anticipo sul programma, era pronta la prima macchina sperimentale a valvole (Macchina Zero, poi ribattezzata Elea 9001); nell’autunno dello stesso anno, durante il lavoro di sviluppo del prototipo in chiave commerciale, Tchou decise di abbandonare la tecnologia delle valvole e puntare tutto sui transistor e, contemporaneamente, l’Olivetti fondò, insieme alla Telettra, la SGS (Società Generale Semiconduttori); nel 1958 il laboratorio di elettronica venne spostato a Borgolombardo (Milano), dove fu terminata la messa a punto dell’elaboratore Elea 9003, il primo calcolatore commerciale al mondo a essere interamente transistorizzato. Un risultato nato da un’intuizione che non avrebbe potuto avverarsi senza lo straordinario tasso di cultura accumulatosi nell’azienda di Ivrea e senza una coraggiosa politica di grandi investimenti nella ricerca.

Coraggiosa fu anche la decisione di affidare il progetto dell’Elea al giovane Sottsass che si trovò a esplorare luoghi ignoti al progetto, al confine fra macchina e intelligenza, fra funzione e informazione. Non fu solo una rivoluzione di prodotto. L’apparire dell’elettronica sancì un cambio di paradigma: non si trattava più di governare l’energia applicata al movimento, come nel caso delle macchine, ma era il flusso stesso dell’energia a produrre il lavoro. Uno spostamento brusco dalla centralità della materia alla supremazia del concettuale. C’erano tutte le premesse perché l’industria italiana affrontasse con strumenti e competenze più che aggiornati il trapasso a una modernità compiuta. Purtroppo le morti premature di Adriano Olivetti (1960) e di Tchou (1961) e la vendita nel 1964 della Divisione elettronica Olivetti vanificarono il vantaggio acquisito.

Sarà altrove che l’Italia troverà modo di dar forma al proprio futuro. Un futuro che assomiglia al piccolo spremiagrumi KS 1481: leggero, colorato, di plastica. Anzi, di polipropilene isotattico. A sintetizzare nei laboratori della Montedison il nuovo e duttile materiale fu, nel 1954, Giulio Natta, docente del Politecnico di Milano. Meglio noto come Moplen®, nome commerciale datogli dalla Montedison, questo materiale assicurò all’Italia un imprevisto ruolo di primo piano sullo scacchiere internazionale della chimica e a Natta il premio Nobel che gli fu conferito nel 1963.

Allievo di Natta al Politecnico di Milano, Giulio Castelli (1920-2006) fu tra i primi a credere nelle possibilità delle materie sintetiche. Quando nel 1949 fondò la Kartell, iniziò a lavorare con semilavorati in gomma prodotti dalla Pirelli. Ma, all’inizio degli anni Cinquanta si avvicinò al polipropilene e al polietilene e, dopo due anni spesi ad analizzare la situazione e le esigenze del mercato italiano, avviò la produzione di accessori per la casa. Direttore dell’ufficio tecnico Kartell fu Colombini: il piccolo spremiagrumi KS 1481 non è che uno dei circa 200 oggetti che, progettati da Colombini in soli nove anni, ridisegnarono il paesaggio domestico italiano introducendo l’allegria del colore e un’originale funzionalità.

Economiche, facili da lavorare, perfettamente coerenti con cicli di produzione industriale, le materie sintetiche offrirono alla piccola industria italiana una straordinaria possibilità di crescita e al design un territorio tutto da esplorare. Applicato a materiali ancora privi di un’autonoma identità, come stigmatizza Roland Barthes nel celebre Mythologies, scritto proprio fra il 1954 e il 1956, l’approccio italiano conferì per la prima volta alla plastica una qualità riconoscibile e riconosciuta. Né fantascientifica né caricaturale, la duttilità della plastica diventò il supporto su cui innestare la costante ricerca di un punto d’incontro fra la componente tecnica del progetto e la spontaneità dei gesti, fra utile e divertente, fra artistico e industriale, fra reale e fantastico. Oggetto come racconto, come metafora di una modernità che sempre coniuga tecnica e bellezza, funzione e speranza.

Un atteggiamento che, d’altra parte, corrisponde alla struttura stessa del sistema italiano del design, efficiente macchina di comunicazione e di elaborazione culturale: accanto ai designer e agli imprenditori, sono le riviste, i fotografi, i rivenditori, i critici, i giornalisti a costruire un vero discorso intorno agli oggetti, scomponendone le immagini in un caleidoscopio di analisi, riproduzioni, interpretazioni.

Fra produzione e contestazione

Nel maggio 1972 si inaugurava nella sale del MoMA di New York la mostra Italy. The new domestic landscape, curata da un giovanissimo Emilio Ambasz. Fu la consacrazione dei successi del design e dell’industria italiana, la quale proprio in quegli anni stava approdando a inaspettati orizzonti produttivi che la collocarono al vertice mondiale nella produzione di imbottiti, elettrodomestici, cucine componibili, sistemi di mobili contenitori. Con grande tempismo Ambasz registrò il valore dei traguardi raggiunti e dedicò la prima parte della mostra ai migliori esempi della produzione corrente, sottolineando così sia la capacità dei produttori italiani di far evolvere le tipologie tradizionali sia di sviluppare sofisticate lavorazioni quali l’iniezione dell’ABS (Acrilonitrile-Butadiene-Stirene), la schiumatura a freddo dei poliuretani, l’ottimizzazione nell’uso dei laminati.

In anni di grande conflittualità politica e di rapide trasformazioni sociali, non erano però mancate ai progettisti sollecitazioni alternative a quelle schematicamente ottimistiche dell’industria. Dimostrando grande sensibilità critica, Ambasz inserì nella mostra sezioni dedicate a «oggetti selezionati per le loro implicazioni socioculturali» o per «la flessibilità d’uso», arrivando a offrire spazio e attenzione al cosiddetto controdesign. Ecco il libro di Mari Proposta per un’autoprogettazione (1974) a scardinare l’immagine lussuosa degli arredi; anomale sedute come il Sacco di Piero Gatti, Cesare Paolini e Franco Teodoro, il Pratone del Gruppo Strum o la gonfiabile Blow di Jonathan De Pas, Donato D’Urbino e Paolo Lomazzi a contestare l’idea di un borghese comfort; gli esperimenti con il poliuretano condotti da Gaetano Pesce per negare l’omologante ripetitività della serie; le composizioni spaziali di Sebastián Matta, Colombo, Cini Boeri a mettere in crisi la finitezza dell’ambiente domestico, quasi la casa fosse un paesaggio in cui ricomporre scene sempre diverse.

Fu un design ad alta densità culturale quello che prese corpo in Italia verso la fine degli anni Sessanta, non tanto una svolta stilistica o formale, bensì una radicale riflessione sul senso stesso degli oggetti, della tecnica, del consumo. Alle istanze libertarie che agitavano una generazione disillusa dai miti del progresso e insofferente verso l’ordine costituito, la cultura italiana rispose ripensando la rivoluzione come avventura ludica e non violenta, illusione gioiosa di trasformare la società a partire dalla sfera privata dei comportamenti. Virando etica e ideologia verso la dimensione del gioco e dell’ironia, le avanguardie italiane puntarono a scardinare l’egemonia omologante del consumismo, assecondando la libertà dei comportamenti e restituendo a ciascuno il controllo delle proprie scelte e dei propri gusti.

Forse è un caso, ma sarebbe una ben curiosa coincidenza, il contemporaneo affermarsi del fenomeno della moda italiana del prêt-à-porter che, applicando sistematicamente alla scala della piccola azienda una costante innovazione delle tecniche di lavorazione e di produzione, scavalcò i rigidi diktat dell’alta moda, offrendo un variegato ventaglio di proposte a misura di un guardaroba più libero, colorato, individuale.

Le trasgressioni delle avanguardie non facevano che segnalare la messa in crisi di quel paradigma modernista e positivista che aveva guidato gli anni felici del dopoguerra. La contestazione giovanile e la ribellione operaia mostravano i limiti di un modello di sviluppo basato sull’illusione di una crescita illimitata e sulla presunta coincidenza fra felicità e benessere materiale. Se la carica eversiva degli anni Sessanta e Settanta dette origine in alcuni casi a veri e propri movimenti di controcultura che si consolidarono ai margini della società, la flessibilità e l’apertura del sistema del design italiano, al contrario, li accolse e li coltivò. Contenute all’interno della dialettica disciplinare e della produzione, le istanze libertarie finirono per esaltare il valore semantico del progetto e la sua straordinaria versatilità.

La serie Up (1969) di Pesce; la lampada Boalum (1969) di Livio Castiglioni e Franco Frattini; la macchina per scrivere Valentine (1969) di Sottsass; la poltrona Joe del trio De Pas, D’Urbino, Lomazzi del 1971; la lampada Parentesi (1971) di Achille Castiglioni e Pio Manzù; la serie di tavoli Quaderna (1971) del Superstudio; il divano Le bambole e la calcolatrice Divisumma 18 di Mario Bellini del 1972; la seggiola Cab (1977) di Bellini; la lampada Tizio (1979) di Richard Sapper, ma anche l’automobile Panda (1980) di Giorgetto Giugiaro non sono che alcuni fra i moltissimi esempi di come il progetto italiano abbia saputo metabolizzare e accogliere il surplus di fantasia, di immagini e di senso espresso dalla cultura italiana.

Sarà proprio questa capacità del design di essere anche, se non soprattutto, linguaggio ad accompagnare il progetto italiano oltre la soglia della modernità, consentendogli d’interagire con le dinamiche della società postindustriale e postmoderna, là dove lo scambio dei segni prevale sul materiale scambio delle merci.

Di fatto, l’esigenza di riordinare i temi posti sul tappeto dalle esperienze del controdesign era inziata già a metà degli anni Settanta. A Milano, Alessandro e Adriana Guerriero, con la collaborazione di Alessandro Mendini, fondarono lo studio Alchimia, iniziativa aperta e trasversale su cui confluirono, oltre a numerosi designer, esponenti della scena artistica e culturale come Enzo Cucchi, Mimmo Paladino, Sandro Chia e i gruppi del nuovo teatro italiano quali Magazzini criminali e Falso movimento. Fulcro delle riflessioni di Alchimia fu la fine del progetto moderno inteso quale momento di positiva trasformazione del reale. Alla concretezza del fare Alchimia propose di sostituire la gentilezza del disegno e del commento. Recuperando segni e simboli tratti dal linguaggio dell’arte così come dalla cultura banale e popolare, Alchimia agì sulle superfici degli oggetti, che diventarono supporto per operazioni anche violente di maquillage, di ridisegno o di disturbo cosmetico. Oggetto per molti aspetti simbolico del progetto di Alchimia sarà la poltrona Proust disegnata da Mendini nel 1979, un autentico testo di poetica, un gesto concettuale in cui la copia di un mobile settecentesco viene trasfigurata in una vibrante superficie decorata che smaterializza l’oggetto nella mera dimensione dell’immagine.

Pur avendo aderito al progetto Alchimia, Sottsass stava stretto in un programma limitato al disegno o tutt’al più alla performance artistica. Per lui, che, forse per primo, già negli anni Sessanta aveva compreso e svelato le fragilità delle illusioni moderniste, era necessario confrontarsi con la produzione e dar forma a oggetti concreti con i quali rinnovare profondamente il senso dei prodotti e il vocabolario del linguaggio figurativo. Nel 1979 con alcuni amici (Andrea Branzi, Marco Zanini, Michele De Lucchi, Matteo Thun, Barbara Radice, Martine Bedin, Nathalie Du Pasquier, Aldo Cibic, George Sowden) avviò una riflessione che presto si concretizzò in un catalogo di proposte riunite sotto il nome di Memphis. Narra la leggenda che il nome del gruppo derivi da una strofa di una canzone di Bob Dylan; di sicuro, il programma del gruppo trovò in Ernesto Gismondi, proprietario di Artemide, un visionario imprenditore.

Memphis debuttò ufficialmente a Milano nel settembre del 1981, con una collezione fatta di arredi, ceramiche, orologi, vetri. Il tutto contenuto nella cornice di un nuovo linguaggio grafico. Non un’operazione contro: per la prima volta l’immaginario radicale assunse la forza e l’intenzione di un progetto volto a qualche cosa di nuovo. L’effetto fu dirompente e proiettò il design in un’inedita quanto ancora indefinita dimensione postmoderna, che ben presto, con l’innesto di progettisti americani, austriaci, giapponesi, spagnoli assumerà i contorni di un movimento di design transnazionale, transculturale, transgenico.

Accolta con entusiasmo, soprattutto all’estero, o giudicata non senza diffidenza, soprattutto in Italia, la svolta postmodernista del design italiano produsse un vero e proprio shock culturale, suscitando reazioni spesso più istintive che ragionate. In realtà, l’apparente cacofonia dei linguaggi nasceva da un’immediata adesione alle incertezze culturali del momento. Memphis interpretava con chirurgica quanto colorata precisione il delicato momento di trapasso tra la concretezza di un paradigma ancora moderno e le nuove regole di una società globalizzata dalle immagini, e così facendo collocò l’Italia al centro di una riflessione internazionale.

Osteggiato dalla critica italiana più accademica e tradizionalista, sarà sulle pagine delle riviste e nelle aule di alcune nuove scuole dedicate al design – prima fra tutte la Domus academy – che il pensiero postmoderno troverà ascolto e interesse, sviluppandosi in laboratori di ricerca al confine fra antropologia, sociologia, moda. Sarà intorno a questo variegato progetto che si condenseranno le attenzioni di una moltitudine di giovani straneri, che faranno di Milano il proprio centro di gravità culturale. Dopo un lungo periodo di appannamento l’Italia tornò così a ricoprire un ruolo internazionale, e Milano si scoprì polo di scala globale, capace di attrarre talenti ed esportare idee.

Un’industria culturale

Aver saputo accompagnare tutte le derive del progetto, anche quelle ideologicamente più difficili e contraddittorie, non è stato per le industrie italiane un investimento senza ritorno: ciò che hanno accumulato a partire dalla fine degli anni Sessanta è un autentico patrimonio di conoscenze tanto tecniche quanto culturali. Ed è questo bagaglio che ha consentito al sistema italiano del design di conquistare la platea planetaria di un mercato affluente che, soddisfatte ormai in larga parte le proprie necessità di natura funzionale, è ormai pronto a consumare simboli in un mondo dominato dal valore delle immagini.

Volendo individuare il momento del definitivo passaggio di consegne fra il valore funzionale e il valore narrativo degli oggetti potremmo forse indicare il 1990, anno in cui Philippe Starck disegnò per Alessi il celebre spremiagrumi Juicy salif. L’oggetto in sé era scomodo, ingombrante e poco efficiente, ma il suo successo fu immediato. In realtà, quello di Starck non era un oggetto da usare, ma da guardare, era un idolo, una piccola icona cui affezionarsi come a un cucciolo di casa.

Del resto, sulla convinzione che il design potesse rispondere al bisogno di costruire rapporti affettuosi e partecipi fra gli oggetti e le persone, un imprenditore come Alberto Alessi (n. 1964) ha giocato una vera scommessa industriale, trasformando un’azienda cresciuta con sobrie forniture alberghiere in acciaio inox in un laboratorio sperimentale del design contemporaneo. Con la regia di Mendini e la collaborazione di Stefano Giovannoni, Alessi ha dato vita a una nuova linea di prodotti in plastica a basso costo e ad alto tasso di empatia. Quasi uscissero da un mondo a fumetti, gli oggetti della Alessi sono veri personaggi che popolano la cucina e la casa di compagni di giochi.

Il fatto che la casa sia oramai un palcoscenico trova conferma nelle più recenti evoluzioni dello spazio domestico. Delegate le funzioni più ingombranti e complesse ai sofisticati sistemi componibili che le aziende italiane hanno sviluppato sino a farne duttili elementi a grande scala, lo spazio restante si apre come un vuoto disponibile alle più diverse scenografie, paesaggio teorico nel quale gli oggetti e gli arredi diventano interpreti delle più diverse rappresentazioni private.

Aprendo i propri cataloghi a culture diverse, a progettisti stranieri, a scenari fantastici e spettacolari, le aziende italiane hanno ibridato stili e tendenze, proponendo indifferentemente oggetti superfunzionali o superdecorati, modernissimi o neoromantici, minimalisti o scultorei. Ciò che alla fine emerge è un modello di casa allo stesso tempo riconoscibile e mutevole, molto chiara nella struttura degli spazi quanto sperimentale nella sua definizione formale, là dove gli arredi non descrivono un mondo, ma ne suggeriscono infinite varianti. Una casa apolide, atopica, poliglotta.

In qualche misura, all’inizio del 21° sec., ciò che il design testimonia è l’erodersi della distanza che storicamente separava l’opera d’arte dall’oggetto d’uso. Sarebbe però un errore pensare che arte e design siano oramai perfettamente intercambiabili o che non esista più una specificità disciplinare del progetto. Dietro alla conquistata libertà del design sta una costante ricerca e l’applicazione di avanzate tecniche di lavorazione. Oggi le imprese più avanzate non si identificano con la dimensione della fabbrica, ma hanno assunto le sembianze di strutture leggere ad alta concentrazione di informazione e di tecnologia. Solo questo elevato tasso d’intelligenza del lavoro consente alle industrie italiane di esprimere una costante innovazione di forme e di materiali. Proprio i materiali rappresentano forse l’ultima frontiera della sperimentazione. Una ricerca che ha visto la pietra e il marmo farsi malleabili grazie a sofisticati macchinari a controllo numerico; la ceramica diventare cangiante sino a confondersi con il legno o con il cemento; la plastica diventare brillante e trasparente come il cristallo.

Certo, in questo scenario non è più possibile pensare al design in termini univoci. In parte assimilato al linguaggio delle mode, in parte stile culturale, il design è ormai una parola che può essere declinata solo al plurale. Sicuramente, nell’accompagnare il progetto verso una conclamata postmodernità, il design ha esaurito molti dei suoi obiettivi di ricerca d’avanguardia. Tuttavia, è altrettanto certo che oggi il termine design riassume la parabola stessa della modernità, metafora e paradigma culturale dell’identità italiana contemporanea.

Bibliografia

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