L'impiego pubblico

Storia di Venezia (1996)

L'impiego pubblico

Andrea Zannini

L'immagine dell'amministrazione veneziana quale possente ed efficace "macchina statale" regolata da un complesso di norme che prescindevano da singoli avvenimenti o fatti congiunturali fu uno dei tratti mitografici di maggior successo della Venezia dell'età moderna: prima favorì la creazione del mito rinascimentale della Repubblica quale forma ideale di "stato misto", poi, tramontata la possibilità di sostenere la supremazia della costituzione veneziana, contribuì alla fama europea dello stato marciano quale "modello d'una efficiente e quasi perfetta aristocrazia" (1).

Un apparato amministrativo complesso ed evoluto quale quello marciano può essere considerato in vari modi: come un insieme articolato di organi istituzionali che detengono porzioni disuguali di potere, come un complesso di incarichi amministrativi organizzati gerarchicamente e soggetti a regolamenti e consuetudini, o come un corpo di funzionari inseriti professionalmente nel settore pubblico. In queste pagine si concentrerà l'attenzione su questi ultimi due aspetti, e pur tenendo in considerazione il ruolo istituzionale dell'ufficiale veneziano, particolarmente rilevante a proposito degli incarichi patrizi, si darà per quanto possibile rilievo al punto di vista del singolo - patrizio o meno - che intraprendeva la carriera amministrativa pubblica come scelta professionale.

L'arco di tempo che farà da sfondo a questa analisi, il periodo compreso tra gli inizi del secolo XV ed il 1540 circa, coincide con la fase in cui venne messo a punto quel criterio di reclutamento del personale pubblico secondo il ceto sociale di appartenenza del singolo che, nei suoi tratti generali, sarebbe rimasto in vigore fino alla caduta della Repubblica di San Marco.

Il reclutamento del personale amministrativo

Agli inizi del Quattrocento solo il ceto patrizio è un ordine sociale dai contorni ormai nitidi. Il lungo processo di definizione che lo ha condotto alla guida dello stato, iniziato oltre un secolo prima con le leggi della "serrata del maggior consiglio", si può ritenere concluso nel 1381, quando trenta nuove famiglie non nobili vengono premiate del loro sostegno allo stato nel corso della guerra di Chioggia con la cooptazione nel novero dell'aristocrazia (2).

Da questo momento, infatti, fino alle nuove cooptazioni che ebbero inizio nel 1646, il patriziato veneziano rimase politicamente un corpo chiuso che detenne in esclusiva la possibilità di partecipare al maggior consiglio e, di conseguenza, di coprire tutti gli uffici in esso distribuiti. Queste cariche civili, valutabili prima dell'espansione quattrocentesca in Terraferma attorno alle 450 unità (3), si possono considerare di fatto gli uffici di governo della Serenissima, anche se un'ancora incompiuta distinzione tra funzioni politiche ed amministrative faceva sì che i patrizi, accanto a numerose ed eterogenee mansioni di governo, svolgessero nel concreto anche atti amministrativi.

Una prima suddivisione di questi uffici era tra cariche "di città", che avevano sede nella capitale lagunare, e cariche "di fuori", che comprendevano tanto i diversi "reggimenti" nei territori di Levante o di Terraferma con durata prestabilita, quanto incarichi temporanei senza scadenza precisa come i vari provveditorati (4).

All'interno delle cariche cittadine la distinzione tra uffici "di San Marco" e "di Rialto" rispondeva essenzialmente ad un criterio topografico, anche se nel centro politico della città avevano sede le cariche giudiziarie ed amministrative, mentre nel polo commerciale realtino erano collocati perlopiù uffici economico-finanziari.

Nella terminologia politica veneziana si usava distinguere tra "consigli" ed "uffici", a seconda che la carica venisse svolta collegialmente o singolarmente: vi erano consigli anche molto numerosi, come le tre quarantie, che accoglievano ognuna quaranta patrizi, o il senato, che arrivò a contare fino a trecento partecipanti, benché con differenti gradi di responsabilità politica. La partecipazione al maggior consiglio non era invece considerata un impiego: prendere parte alla massima assemblea patrizia esprimeva il diritto-dovere del nobile a reggere il governo della Repubblica.

Non era in uso distinguere gli uffici patrizi per aree di competenza, né sarebbe molto corretto oggi suddividere schematicamente le magistrature tra giudiziarie, fiscali, amministrative ed altro. Al pari dei sistemi statali coevi, anche l'architettura istituzionale della Repubblica si era venuta creando in modo sostanzialmente empirico, determinando nel concreto una generale e continua sovrapposizione di competenze ed un'approssimativa specificità di ruoli. Vi erano magistrature quali i provveditori di comun che si occupavano contemporaneamente di mercatura, di medici e chirurghi, delle scuole minori di devozione, della manutenzione di strade e canali, di navi e naufragi e delle concessioni di cittadinanza ai forestieri; oppure ambiti della vita dello stato, come quello fiscale, sul quale avevano competenza almeno una decina di organi diversi (5).

Con il termine "uffici" si indicavano inoltre gli "uffici di ministero", vale a dire un insieme di cariche ausiliarie, il cui numero agli inizi del XV secolo è difficilmente quantificabile, distribuite tra i vari comparti dell'amministrazione, subordinate ai magistrati patrizi e affidate a personale di estrazione non nobile. Erano gli uffici di notaio, scrivano, quaderniere e simili, presenti in ogni magistratura e preposti allo svolgimento di mansioni amministrative pratiche, dalle quali tuttavia dipendeva la routine di lavoro dell'ufficio.

Tra queste e le cariche patrizie, in una scala che tenga conto del ruolo istituzionale e del prestigio sociale che derivava dall'incarico pubblico, va collocato un settore affatto particolare che riunì gli ufficiali non patrizi più preparati e di maggiore rilevanza culturale: la cancelleria ducale. Questo ufficio era strutturato in maniera originale: non vi lavoravano patrizi bensì "notai" non nobili - una settantina a metà Quattrocento (6) - che assistevano i lavori dei più importanti consigli cittadini, avendo competenze di grande responsabilità anche su materie segrete e diplomatiche.

Il processo di strutturazione della burocrazia non patrizia veneziana conobbe una decisa accelerazione a seguito delle conquiste di Terraferma quattrocentesche, quando lo stato veneziano dovette adattare la propria fisionomia ad una nuova dimensione territoriale e ad una politica fiscale e militare di più ampio respiro. Questa evoluzione, comune alle maggiori amministrazioni statali europee, per Venezia avvenne senza sostanziali cambiamenti istituzionali, sulla scorta dell'esperienza maturata nel governo dello "stato da mar"; tutto il settore intermedio dell'amministrazione fu tuttavia soggetto ad un generale riassetto dei criteri di assunzione e formazione del proprio personale.

Agli inizi del Quattrocento era infatti ancora cospicua la presenza nell'amministrazione centrale della Serenissima di sudditi del dominio, stranieri ed ecclesiastici. Nel 1419 una legge dispose che i cancellieri e i notai che accompagnavano i patrizi in missione fuori della città dovessero essere cittadini originari o "per privilegio" (7). Nel 1433, una bolla papale diretta contro i preti-notai veneziani diede il via all'espulsione degli ecclesiastici dagli uffici statali, un processo che durò alcuni decenni, almeno fino agli anni Settanta del secolo quando tra il personale delle corti di Palazzo si contavano ancora dei sacerdoti (8). Nel 1444 un'importante disposizione legislativa regolamentò il sistema di distribuzione degli "uffici di ministero", sancendone l'assegnazione ai soli popolani veneziani (9). Un anno prima il maggior consiglio aveva deliberato di far eleggere dodici giovani "Veneti" ad un tirocinio, stipendiato, all'interno della cancelleria ducale, affinché fossero preparati a servire in questo delicato ufficio (10).

Con questa articolata normativa la Repubblica affrontava il duplice problema della preparazione specifica del proprio personale amministrativo, e della sua lealtà alle istituzioni in un sistema allargato non più fondato su rapporti di fedeltà personale tra detentori della sovranità ed ufficiali. La risposta statale si mosse in un primo momento secondo un modello di intervento sostanzialmente non originale, allontanando i clerici e gli stranieri, mentre fu decisamente inedita l'operazione di creare un ceto di cittadini non nobili, i "cittadini originari", cui affidare in esclusiva il servizio nei posti più importanti non coperti da patrizi: la cancelleria e gli uffici di ministero. Così descrisse l'operazione lo storico Vettor Sandi a metà Settecento: si volle "separare dalla mole de' sudditi abitanti in Venezia un corpo di civili persone con titolo di cittadini originarj", mantenendolo "sempre purgato, e come un conservatorio, di cui valersi alle pubbliche occorrenze" (11). Si venne così a soddisfare l'esigenza di creare una categoria di ufficiali saldamente fedeli ai destini dello stato aristocratico che garantissero la continuità di esercizio nelle magistrature, in modo da controbilanciare il continuo ricambio dei patrizi nelle cariche; al tempo stesso si conferirono utili ed onori ad un numero cospicuo di famiglie che per tradizione e rango sociale avrebbero potuto aspirare ad una rappresentanza politica che la costituzione oligarchica invece negava.

Nell'arco di poco meno di un secolo, tra gli anni Settanta del Quattrocento e il 1569, si compì dunque la "serrata cittadinesca", il processo di formazione di un ordine intermedio tra quello patrizio e il popolo, regolato da severe procedure di iscrizione, cui vennero affidate in esclusiva funzioni cruciali nell'apparato statale (12). Al termine di questo processo il disegno complessivo dell'amministrazione veneziana acquistò il profilo che avrebbe mantenuto fino alla caduta della Repubblica: le cariche "di governo" erano riservate alle sole famiglie patrizie che sedevano in maggior consiglio, una fascia intermedia di uffici era coperta dai cittadini originari, i posti di minor responsabilità infine venivano lasciati ai nativi di Venezia o, in alcuni casi, ai sudditi.

L'ufficio patrizio

Nel considerare il patriziato come un corpo di ufficiali al servizio della Repubblica si deve sempre tenere presente come il singolo nobile facesse costituzionalmente parte di quel "sovrano collettivo" - l'aristocrazia patrizia appunto - che deteneva la titolarità del potere; nel valutare il funzionamento della burocrazia patrizia non si può quindi prescindere dalla considerazione che per il patrizio-burocrate l'impiego pubblico fosse non solo una scelta professionale ma anche un dovere civico a cui egli si sentiva storicamente destinato (13).

Per poter meglio osservare la posizione del singolo è utile riepilogare brevemente le caratteristiche principali del sistema burocratico patrizio.

Il maggior consiglio, cui prendevano parte di diritto tutti i nobili maschi che avessero compiuto i venticinque anni, oltre a rappresentare l'organo che, teoricamente, avrebbe dovuto indicare la linea politica generale dello stato, era l'assemblea nella quale veniva distribuita la maggior parte delle cariche di governo della Serenissima, anzi, a causa della complessità del sistema delle nomine e dello spostamento dell'azione esecutiva verso altri consigli, l'attività di questo consesso veniva quasi interamente assorbita dalle operazioni elettive.

Benché l'età minima di ammissione fosse fissata in venticinque anni, alcune eccezioni consentivano tuttavia di sedere in maggior consiglio anche prima di questo limite: dal 1319 infatti vi venivano ammessi un certo numero di giovani di vent'anni estratti a sorte nel giorno di santa Barbara, e nel 1441 tale opportunità venne estesa a chi avesse compiuto diciotto anni. Vi era inoltre la possibilità di essere nominato, dai vent'anni in poi, "avvocato pizolo" presso alcuni tribunali civili, una carica di secondo piano che dava però il diritto di prender parte alla maggiore assemblea patrizia. In conclusione le occasioni di entrare in maggior consiglio prima dei venticinque anni erano tali che coloro che non riuscivano a beneficiare di una delle eccezioni erano detti "tristi" (14). Questa espressione probabilmente sottolineava anche il fatto che coloro che intraprendevano la carriera pubblica dall'età di venticinque anni non dovevano appartenere ad una famiglia economicamente rilevante. Era infatti comune, perlomeno nel primo Quattrocento, che il giovane patrizio nell'età in cui era maggiormente sostenuto dalla salute si dedicasse al faticoso esercizio della mercatura, rivolgendosi alla carriera politica una volta maturata una buona esperienza del mondo e consolidato il patrimonio familiare. È il caso di importanti figure pubbliche, come i dogi Nicolò Tron (1399-1473), Nicolò Marcello (1399-1474) e Antonio Grimani (1434-1523) (15).

Una simile consuetudine potrebbe far pensare che i patrizi veneziani fossero anch'essi dei "dilettanti" dediti alla politica senza una preparazione specifica od ambizioni particolari (16). In realtà l'esperienza che un giovane nobile poteva maturare nel settore imprenditoriale commerciale, magari su scala internazionale, diventava preziosa una volta che, accantonati i traffici privati, egli fosse entrato in un sistema costituzionale strutturato come "una grande e ben ordinata compagnia di cui il Senato era l'organo direttivo" (17).

Per favorire l'inserimento nel settore commerciale e la conoscenza di quella diffusa rete di scali nell'Adriatico e nel Mediterraneo orientale che costituiva lo stato veneziano "da mar", era stato creato l'impiego di "balestriere della popa", al seguito delle galere di linea che collegavano il fondaco realtino con i maggiori porti del Levante e dell'Occidente. Formalmente si trattava di un posto da arciere ma in realtà a questi "nobili di galia" veniva concesso, come ai marinai, di trasportare una certa quantità di mercanzia senza pagare dazio, in modo da poter guadagnare qualcosa sperimentando, a fianco di capitani e mercanti, la dura vita delle galere da trasporto (18).

Per coloro che invece sceglievano dalla più giovane età la strada dell'impiego pubblico, o vi erano costretti dall'esiguità del patrimonio familiare, l'entrata in maggior consiglio rappresentava la possibilità concreta di venir subito eletti a qualche incarico remunerato. Il sistema delle elezioni adottato nella massima assemblea aristocratica, una sorta di "rito di ceto" che si ripeteva ogni settimana ed accendeva l'interesse di tutto il patriziato, appare oggi assai complesso e macchinoso, a causa delle minuziose procedure che lo regolavano ed erano formalmente ispirate dal principio di una distribuzione equa e meritocratica degli uffici.

Semplificando, si può dire che fosse articolato in due momenti: dapprima venivano sorteggiati tra tutti i partecipanti al consiglio alcuni patrizi che formavano delle commissioni ("mani"); queste commissioni proponevano quindi all'intera assemblea una rosa di candidati tra i quali, per scrutinio, i patrizi dovevano scegliere; chi riceveva il maggior numero di voti otteneva la carica. Ogni passaggio di questa procedura, anche il più irrilevante, era regolamentato da una fitta maglia di norme che arrivavano a stabilire anche dettagli apparentemente trascurabili come la posizione da assumere nelle varie fasi della votazione o come tenere in mano le "ballotte" usate per votare. Tutte queste regole miravano a mantenere segreto il voto di ogni patrizio e quindi ad impedire che si esercitasse il "broglio", vale a dire la pratica in virtù della quale chi aspirava ad un posto, aiutato da un gruppo di elettori, riusciva a garantirsi la nomina.

Gli studiosi statunitensi Robert Finlay e Donald E. Queller hanno raccolto una vasta documentazione normativa, corredata da una consistente casistica, sul funzionamento del sistema elettorale veneziano fra Trecento e Cinquecento (19). Lo sciame di leggi prodotto in questo periodo sembra indicare che tale metodo fu inefficiente a selezionare meritocraticamente i candidati e che nella realtà, soprattutto nella distribuzione delle cariche minori, fu sopraffatto dalla corruzione e dal clientelismo. In ciò si è voluto leggere una controprova dell'"irresponsabilità civica" della classe dirigente veneziana, confutando quindi l'interpretazione mitografica quattro-cinquecentesca che descriveva un patriziato disinteressatamente dedito al governo della cosa pubblica (20); meno moralisticamente invece la sistematica inosservanza delle leggi che vietavano il "broglio" sta a dimostrare come nella costituzione pratica veneziana la propaganda elettorale e lo scambio di voti fossero passaggi funzionali all'organizzazione politica e burocratica della classe dirigente e si rivelassero strumenti efficaci per la distribuzione degli incarichi di governo.

Che vantaggi aveva dunque questo sistema, di cui il "broglio" costituiva un caposaldo? Innanzitutto il singolo era costretto a raccogliere l'appoggio di un numero consistente di patrizi ai quali avrebbe dovuto poi ricambiare il favore, restituendo il proprio aiuto elettorale. I nobili delle famiglie minori avevano dunque bisogno dell'appoggio dei "grandi" e viceversa, cosicché le diverse classi economiche interne al patriziato trovavano modo di dialogare e di integrarsi nella gestione comune dello stato (21). Questo continuo scambio di favori, questo incessante brulicare di contatti che contraddistingueva la vita politica patrizia, una società "sempre sul piano elettorale" (22), favoriva l'amalgama delle diverse componenti sociali del patriziato, ne agevolava la coesione interna.

Era poi sconveniente per il singolo porsi in contrasto con la maggioranza da cui sarebbe dipesa la sua carriera futura. Ciò scoraggiava le posizioni originali ed i comportamenti ambiziosi e favoriva il mantenimento della consuetudine ed il rispetto della tradizione, valori supremi per una classe di governo intrinsecamente conservatrice.

È più che legittimo chiedersi se il sistema premiasse il merito e la capacità individuale o se invece il livello medio dell'"efficienza burocratica" non fosse sistematicamente compresso verso il basso. La dedizione allo stato veniva senza dubbio generosamente riconosciuta, mentre le capacità individuali lo erano forse meno. La lotta per gli uffici riguardava soprattutto le cariche minori, tuttavia anche quando un soggetto incapace giungeva a un posto di rilievo, la collegialità delle cariche, la loro durata limitata e la sovrapposizione delle funzioni tra diversi organi determinavano che i danni che costui poteva provocare fossero limitabili o comunque riparabili. Tutto il sistema di distribuzione degli uffici patrizi era insomma informato a un realistico pessimismo sulle capacità e sull'onestà del singolo, e quindi raramente - se non nei momenti di guerra - grandi responsabilità venivano accentrate in una sola persona.

Una volta entrato in maggior consiglio il patrizio veneziano poteva teoricamente essere eletto ad ogni ufficio purché, per determinati incarichi, fossero assolti alcuni requisiti di età ed esperienza. Non esistevano dei cursus honorum prestabiliti, il sistema delle carriere era assai labile e congegnato in maniera tale per cui il nobile acquisiva una conoscenza generale - forse generica - di tutti gli aspetti dell'attività dello stato.

Philip M. Giraldi ha calcolato che dei 70 membri della famiglia Zen, una casata "media" sotto molti punti di vista, che ebbero uffici pubblici tra 1500 e 1550, ben 48 sostennero incarichi militari (castellano, capitano, comandante di galea, ecc.) ed altri 3 ebbero uffici con competenze militari (23). Pur tenendo conto che si tratta di uno dei periodi più movimentati della storia della Serenissima, questo dato induce a considerare come una percentuale assai sostenuta di patrizi avesse concrete esperienze operative anche in un settore che tradizionalmente si ritiene poco consono alla mentalità della classe dirigente veneziana, evidenziando quindi come la rotazione negli incarichi coinvolgesse tutto il corpo patrizio.

Una conferma viene dal settore delle cariche di Terraferma, un gruppo di uffici solitamente coperti da patrizi di giovane età. Giuseppe Del Torre ha preso in considerazione le elezioni a questo tipo di cariche per un periodo, gli anni tra il 1506 e il 1540, durante il quale il governo dei domini italiani si rivelò cruciale per la politica della Repubblica. Dei 1.282 patrizi che coprirono un "reggimento" di questo tipo due terzi non tornarono più a servire la Repubblica in Terraferma, meno di un quinto occupò una seconda carica ed una percentuale minima venne eletta più di due volte; questi ultimi "quasi mai ottennero di volta in volta posti di valore crescente" (24).

La rotazione continua nei vari posti di governo e gli spostamenti frequenti da un comparto all'altro dell'amministrazione erano dovuti alla generale brevità delle cariche che non potevano quasi mai essere immediatamente reiterate, prevedendo solitamente un periodo di allontanamento, detto "contumacia". Sfogliando le pagine del De magistratibus urbis di Marin Sanudo, la più vivida descrizione quattrocentesca delle istituzioni veneziane, si nota come la maggior parte delle nomine avesse durata compresa tra i sei ed i sedici mesi, superando in pochi casi questo limite (25). Erano eccezioni tutte particolari le cariche di procuratore di San Marco e di doge, uffici del massimo prestigio, attribuiti a vita a personalità di rilievo solitamente in età avanzata, ma di scarso peso politico o soggette ad uno stretto controllo istituzionale. Vi erano poi vari incarichi ad beneplacitum dominii, vale a dire dalla durata indeterminata, creati per particolari missioni od operazioni fuori città.

Il fatto che non esistesse una scala gerarchica di progressione delle carriere non significa però che il corpo patrizio si dividesse in maniera compiutamente democratica al proprio interno tutti gli incarichi di governo, anzi quella "inclinazione all'oligoplutocrazia" (26), che è stata vista come una costante della storia istituzionale veneziana dal Quattrocento in poi, era al tempo stesso causa ed effetto di caratteristiche salienti del sistema delle nomine: la maggiore brevità delle cariche nei principali organi di governo rispetto alla durata degli uffici meno importanti, la loro minore od inesistente retribuzione. Questi due elementi favorivano il mantenimento nella ristretta cerchia del potere, l'inner circle del sistema istituzionale veneziano, di una fascia di patrizi abbastanza ricchi da non aver bisogno per il proprio sostentamento di incarichi di durata prolungata che prevedessero salari di rilievo, mentre i patrizi meno abbienti, di scarse capacità o per qualche motivo svantaggiati nel "broglio", ripiegavano sugli uffici minori. Non è dunque appropriato parlare di una piramide delle carriere mentre appare evidente l'esistenza di una stratificazione degli uffici patrizi, con un livello superiore in cui ruotavano le figure di maggior spicco e varie fasce di importanza decrescente nelle quali si collocavano patrizi di secondo piano, che spesso seguivano una propria specializzazione personale nel settore militare, negli incarichi di Terraferma, come comandanti di galea, ecc. L'elezione in quarantia criminal, ad esempio, consentiva di passare automaticamente nella quarantia civil servendo per complessivi dodici mesi; dal 1455 la doppia carica venne prolungata a sedici mesi e dal 1492, con l'istituzione della terza quarantia, il "giro" iniziava con l'elezione alla quarantia civil nuova, considerata la meno importante, proseguiva nella civil vecchia e infine in quella criminal, che dava diritto all'ingresso in senato. In seguito venne aggiunto anche l'incarico nei collegi dei venti e dei dodici savi sicché una sola elezione dava impiego per 32 mesi. È evidente l'intento di creare una specializzazione professionale nel settore giudiziario e, contemporaneamente, di assicurare una meno precaria assistenza economica ai nobili che vi fossero eletti; le quarantie divennero infatti uno dei settori di impiego maggiormente ricercati dai nobili meno abbienti (27).

Tale struttura era certo più elastica di quanto non risulti da questa descrizione, consentendo eccezioni - anche numerose - ed alternative, e, soprattutto nella prima parte del XV secolo, dovette essere appena abbozzata, acquisendo sempre maggiore rigidità ed importanza. Nei primi anni del Cinquecento, poi, a seguito della grave crisi internazionale che oppose Venezia alla coalizione di Cambrai, il metodo di assegnazione di alcuni importanti uffici patrizi fu, come si vedrà, profondamente alterato.

La mancanza di precisi modelli di carriera rende impossibile isolare singoli curricula professionali rappresentativi dei diversi livelli sociali. Le difficoltà abituali insite nell'interpretazione dei diversi stadi di una carriera nell'amministrazione pubblica sono accentuate dalla qualità delle fonti ufficiali sulle nomine pubbliche, che diventano affidabili solo dagli inizi del Cinquecento, e dalla grande complessità del sistema di reclutamento dei patrizi che rende assai arduo discernere per quali motivi un determinato nobile venisse proposto ad una carica ed interpretare l'esito della conseguente votazione. Analizzando nel concreto le carriere di due patrizi di famiglia non particolarmente agiata emergono con chiarezza tali difficoltà (28).

Alvise di Francesco del ramo di Riva de Biasio della famiglia Zen venne sorteggiato a far parte del maggior consiglio nel 1471, all'età di vent'anni; fino al 1497-1498 si è a conoscenza di un suo unico incarico pubblico, un provveditorato a Marano nel 1483, ed è assai probabile che il giovane fosse impegnato in una diversa attività professionale. A 46 anni cominciò comunque a impiegarsi stabilmente in uffici pubblici, dapprima nella Zecca, quindi in quarantia; nel 1499 fu candidato a coprire un posto resosi vacante nella zonta del senato ma alla conseguente votazione non venne eletto pur raccogliendo un discreto numero di voti. L'incarico successivo, del 1501, fu di sovrintendere alla riscossione delle decime, carica che reiterò l'anno seguente. Nel gennaio 1504 fu eletto conte di Cefalonia ma evidentemente rifiutò la nomina perché pochi mesi dopo entrò in servizio come provveditore alla sanità. Nel novembre dello stesso anno partì per Cattaro, per sostenere in quell'importante base veneziana il carico di provveditore; rientrò a Venezia nel luglio 1506, quindi fino al febbraio 1508, quando venne nominato a completare un ufficio rimasto scoperto, rimase senza incarichi pubblici. Nell'agosto dello stesso anno fu eletto capitano di Ravenna, missione assai delicata per il formarsi della coalizione antiveneziana che minacciava in primis proprio i territori della Romagna (29). Lo Zen, come diretto responsabile del settore militare, si trovò nel cuore delle operazioni belliche con mansioni di rilievo nell'organizzazione delle truppe e nella gestione della campagna militare, che registrò la sconfitta delle forze ritiratesi verso la laguna. Dal momento del suo rientro in città, nel maggio 1509, per quattro anni Alvise fu con continuità in servizio: per quattro volte in senato e nel 1513 a Padova, partecipando in prima persona alla difesa della città. Le sue condizioni economiche non dovevano essere floride, dato che nel 1512 è elencato tra i debitori dello stato, e nel 1513 e 1515, nei momenti di maggior sforzo economico per la guerra, il Sanudo lo inserisce tra coloro che "non hanno offerto cossa alcuna" e "non prestono nulla". Forse per questa ragione fino al 1517 non ricoprì altre cariche pubbliche; venne quindi eletto tre volte in senato e, nel 1519, provveditore alle biave. Morì nel 1520, all'età di 69 anni.

Vicenzo di Pietro del ramo di Santa Sofia della stessa casata Zen entrò anch'egli a vent'anni, nel 1487, in maggior consiglio. I suoi primi uffici non sono noti ma nel 1500 iniziò una veloce sequenza di incarichi quasi senza soluzione di continuità: fu eletto giudice al forestier, un tribunale minore con varie competenze, in quarantia, podestà di Caravaggio presso Crema, signore di notte, vale a dire responsabile dell'ordine pubblico, per il sestiere di San Polo, castellano di Faenza, ancora in quarantia e di nuovo signore di notte, quindi podestà di Antivari in Dalmazia. Nell'agosto del 1512 scrisse da questa località al senato chiedendo la sostituzione, considerato che si trovava in reggimento da tre anni e tre mesi; il senato rispose che il patrizio già nominato a sostituirlo era recluso in Francia, e si rese così necessaria una nuova elezione. Il tutto prese più di un anno, sicché Vicenzo poté rientrare in città solo nell'ottobre del 1513. Dopo due mesi era già, con quindici uomini a proprie spese per un mese, a difendere Padova. A questo punto la sua carriera "improvvisamente ed inspiegabilmente" (30) finiva. Nel 1515 prestava allo stato trecento ducati, nel 1519 veniva eletto provveditore alle legne e ricoprendo questo ufficio moriva nel 1521. Non vi sono notizie di malattie, infortuni giudiziari o rovesci di fortune; tra il 1512 e il 1521 venne nominato per undici uffici ma i voti che raccolse furono insufficienti per l'elezione.

Come risalta bene in questi due casi il sistema della rotazione delle cariche determinava per un consistente numero di patrizi un continuo cambio di funzioni di governo ed una bassa specializzazione professionale. A tale inconveniente poneva in parte riparo la struttura della burocrazia non patrizia che vide il formarsi di specifiche figure ausiliarie: il cancelliere seguiva il patrizio nei reggimenti, il segretario lo assisteva nelle missioni più importanti, il funzionario di cancelleria per l'intero arco della sua vita nei consigli di città, il contabile si specializzava in determinati settori dell'amministrazione, e così via.

Seguono un iter maggiormente standardizzato le carriere dei patrizi più importanti, che presentano solitamente due diversi percorsi iniziali: per coloro che entravano in giovane età nell'amministrazione pubblica era considerato un buon viatico per una carriera di rilievo il posto di savio agli ordini, che consentiva l'ingresso immediato in senato e soprattutto la partecipazione al pien collegio; seguiva sovente un incarico in una sede di buon livello in Terraferma. Per quanti invece preferivano dedicarsi alla cura degli interessi familiari e alla mercatura, oppure agli studi umanistici, l'ingresso nella vita politica veneziana avveniva in età più avanzata, attorno ai quarant'anni come per il doge Andrea Gritti che, dopo aver seguito in giovane età il nonno Triadano nelle ambascerie in Inghilterra, Francia e Spagna, si dedicò a lungo al commercio in Levante (31); o addirittura ancora più tardi, come per Domenico Morosini, uno dei patrizi più influenti dell'ultimo quarto del Quattrocento, che entrò stabilmente nella politica attiva a 55 anni (32).

Un caso abbastanza tipico di carriera di livello superiore è quello di Leonardo di Zuane Emo, un patrizio nato nel 1475 ed eletto savio agli ordini nel 1502 dopo un incarico in quarantia (33). Nel 1510 è sopracomito (capitano) di galea, siede quindi in senato per due anni per poi rivestire negli anni 1512-1514 importanti cariche strategiche nella contingenza bellica: provveditore in campo nel Bresciano e luogotenente della Patria del Friuli, con l'intermezzo della difesa di Padova. Dal 1515 viene eletto con continuità nei principali organi di governo della Dominante: è consigliere ducale nel 1515, 1523, 1528 e 1531, decemviro nel 1518, 1519, 1521 e quasi ininterrottamente tra 1524 e 1531 rivestendo più volte la funzione di capo del consiglio dei dieci; siede in collegio come savio del consiglio tra 1527 e 1536, come savio cassier nel 1526, come savio di zonta nel 1527 e 1529; viene nominato ad importanti provveditorati quali quello generale in Terraferma nel 1522 e ad alcuni dei principali reggimenti, di Verona nel 1520 e di Padova nel 1521.

Il periodo di massima attività politica si estrinseca, per questi patrizi di primo piano, in una ininterrotta presenza negli organi centrali delle istituzioni veneziane: la signoria, il collegio ed il consiglio dei dieci, uffici che davano diritto a partecipare ai lavori del senato e che permettevano di ricoprire più incarichi contemporaneamente. Sovente, a coronamento di una carriera di alto livello, giungeva la nomina a procuratore di San Marco, un ufficio secondo, in quanto a prestigio, solo al dogado, ma di relativa importanza politica. Emblematica è la carriera di Luca di Marco Zen, uomo politico di grandi doti personali che seppe emergere nonostante l'appartenenza ad una famiglia finanziariamente mediocre (34). Nato nel 1426, di lui non si hanno notizie fino a quando assume la carica di capitano di Candia nel 1492, e provveditore in campo nel 1495. In 17 anni, fra 1499 e 1516, ricopre 52 uffici; alla fine del 1503, all'età di 74 anni, è contemporaneamente savio grande e procuratore di San Marco de citra, siede nella zonta del consiglio dei dieci e nel collegio dei XV "super aquis".

Prendendo in considerazione dal punto di vista dell'età anagrafica la carriera dei politici patrizi, Robert Finlay ha parlato della classe dirigente veneziana come di una gerontocrazia che si formava tra i 25 e i 45 anni in una serie di incarichi minori o nell'attività commerciale, tra i 45 e i 55 entrava nella fascia esterna degli incarichi di governo, a partire dai 55 anni aspirava ai maggiori posti istituzionali e considerava i 65 anni la soglia inferiore per aspirare al dogado (35). Queste fasce d'età, abbastanza normali per la vita politica contemporanea, erano decisamente inusuali per un uomo del Quattro-Cinquecento, la cui speranza di vita era sensibilmente ridotta rispetto all'attuale, anche se i patrizi veneziani dimostrarono sempre una considerevole longevità. Stanley Chojnacki ha sottolineato la funzione propedeutica dei primi anni di servizio dei giovani patrizi, riflettendo che incarichi come i principali rettorati della Terraferma in effetti non si possono considerare posti di scarsa responsabilità per un giovane (36). Tuttavia la cerchia del potere era ristretta ad un gruppo di uomini solitamente anziani; gli svantaggi di ciò sono abbastanza evidenti, considerando come, nei momenti di crisi, mancò all'aristocrazia veneziana l'animo di intraprendere la strada delle riforme. Tale caratteristica tuttavia si dimostrò perfettamente funzionale al sistema perché favoriva l'amalgama di una classe di governo i cui componenti passavano decine di anni lavorando gomito a gomito, votandosi l'uno con l'altro, conoscendo le rispettive famiglie e imparando ad accondiscendere alle reciproche manchevolezze; spingeva importanti personalità che entravano in politica ad un'età non più giovane a mettere da parte la sicurezza di sé acquisita nel settore privato e l'ambizione personale, per entrare in un sistema dominato dal giudizio dei propri simili, nel quale era deplorato sopra ogni altra cosa lo spirito individualistico e la mancanza di umiltà; costituiva infine un deterrente contro la possibilità che le cariche maggiori, appannaggio dei più vecchi e quindi soggette ad un più veloce ricambio, venissero monopolizzate da un partito, una famiglia o da qualche personalità egemone. Non a caso dopo Francesco Foscari, eletto doge a soli 49 anni e deposto dal consiglio dei dieci dopo 24 anni di dogado, i dogi quattrocenteschi sedettero al vertice della gerarchia patrizia ad un'età mediana di 72 anni.

È dunque possibile individuare con buona approssimazione e sufficiente chiarezza quali elementi si rivelassero utili o indispensabili ad un patrizio veneziano del Quattrocento e del primo Cinquecento per "fare carriera" nell'amministrazione pubblica. Fondamentale era, alle proprie spalle, la presenza di una famiglia di peso sociale, tradizione di servizio e disponibilità finanziaria. Il termine "famiglia" va tuttavia meglio specificato: sovente lo si è considerato sinonimo di insieme di individui e nuclei familiari aventi lo stesso cognome, sulla scorta delle frequenti descrizioni del patriziato suddiviso per "case". Non è detto però che tutti i patrizi del medesimo cognome fossero parenti, né che formassero un unico clan politico; Marin Sanudo, ad esempio, attribuiva le sue sconfitte elettorali ai conflitti interni alla sua famiglia, lamentandosi di non ricevere alcun aiuto dai fratelli e di essere contrastato in ogni modo da un suo primo cugino (37).

E più esatto dunque considerare in tale contesto la famiglia come un gruppo parentale che comprendeva spesso i parenti della moglie, e quindi più ampio rispetto all'household e diverso rispetto alla stirpe, del quale conveniva poter disporre nella prospettiva di un'interminabile competizione elettorale. Maggiore era il prestigio sociale di tale rete parentale d'appoggio, più facile diventava affrontare la lotta politica, ed una buona condizione economica di base - che abitualmente connotava le famiglie di peso sociale superiore - tornava utile al momento di sostenere reggimenti ed incarichi "di spesa", finanziariamente pesanti ma indispensabili per la formazione professionale, ed utili per il conseguimento di meriti di servizio.

Per saper emergere nelle continue schermaglie elettorali e riuscire a cogliere nel reticolo dei rapporti politici le condizioni più adatte ad un proprio avanzamento, era poi necessario impadronirsi di quell'aritmetica sociale e politica che risulta indispensabile per muoversi in una società dominata dal clientelismo e dal patronato. Si doveva saper stringere alleanze ed essere disposti ad onorarle, saper capire a chi si poteva chiedere un favore e ricordarsi di ricambiarlo.

Non che le capacità individuali o il buon comportamento nel sostenere un ufficio fossero un elemento trascurabile per chi intendesse progredire nell'amministrazione (38), ma anche il più ambizioso dei patrizi doveva celare le proprie aspirazioni politiche dietro un atteggiamento esteriore informato al massimo disinteresse personale, riservandosi di giustificare il proprio operato con la necessità di onorare il nome della propria famiglia e il desiderio di servire lo stato, valori supremi dell'etica politica dell'aristocrazia veneziana. La modestia non doveva però ridursi a debolezza di carattere, la moderazione ad incapacità di prendere decisioni, lo zelo nel servizio non doveva scadere nella puntigliosità, il rispetto delle leggi doveva sapersi piegare alle condizioni concrete. La duttilità politica e la deferenza verso le tradizioni erano infine caratteristiche irrinunciabili del patrizio di successo.

Meno evidenti, ma forse ancora più interessanti, appaiono i fattori che potevano interrompere o stroncare una carriera. La corruzione elettorale ed i reati pecuniari contro l'amministrazione pubblica erano di solito sanzionati abbastanza severamente, ma le pene comminate venivano nella pratica ridotte ed i rei potevano spesso ritornare in breve tempo all'attività politica. Emblematica è la vicenda di Antonio Grimani, comandante della flotta veneziana nel 1499 nello scontro navale contro il Turco, sul quale ricadde la colpa della sconfitta. Processato nel 1500, venne condannato al confino perpetuo in una piccola isola dalmata, da dove riuscì a fuggire a Roma per preparare il proprio ritorno in patria, che avvenne nel 1509 quando il maggior consiglio votò la sua grazia. Nel 1521, all'età di 87 anni, venne eletto al dogado.

Curiosa e significativa è la storia di Giovanni Bembo, un patrizio minore dalla biografia assai originale: a 24 anni, nel 1497, sposò una giovane corfiotta, quindi si arruolò nell'esercito mercenario di Giovanni Sforza per ricoprire in seguito alcuni incarichi nell'amministrazione veneziana. Nel 1525 venne inviato come rettore nelle isolette greche di Skiathos e Skopelos, presso l'Eubea; accortosi che il cancelliere che lo accompagnava aveva sedotto una delle sue figlie, lo fece evirare in piazza di fronte al popolo. La sua severità venne giudicata inopportuna in patria e da quel momento gli venne rifiutato ogni incarico pubblico (39). Sorte in parte simile toccò a Pietro Boldù, un avogadore di comun che nel 1528-1529 denunciò e fece arrestare per malversazioni il collega Michele Trevisan, chiedendone la condanna a morte e la confisca dei beni; il Trevisan venne esiliato a vita a Cherso, in compenso il Boldù non ottenne per due anni altri incarichi pubblici (40). Più che il giudizio dei tribunali, contava insomma il verdetto che l'intero corpo elettorale aristocratico emetteva nei confronti di un certo comportamento, di una determinata posizione: una sentenza che poteva pesare per sempre sulla carriera di un patrizio.

Robert Finlay ha analizzato con acutezza la carriera politica di Marin Sanudo, il noto diarista le cui opere rappresentano una fonte ineguagliabile per la conoscenza di Venezia in età rinascimentale, e lo ha definito "il più grande fallito della sua generazione" (41). Il Sanudo ambiva a diventare lo storiografo ufficiale della Repubblica e, politicamente, a raggiungere le cariche di avogadore di comun o censore, ed anche sedere più a lungo di quanto non gli fu concesso, appena sette anni, in senato: la sua aspirazione era insomma di entrare nella cerchia dei "primi". Ottenne numerose nomine a posti di rilievo ma raccolse quasi sempre sconfitte elettorali. Dei tre requisiti-base per il successo in politica - una famiglia numerosa, un buon patrimonio e conoscenze importanti - non si può dire che al Sanudo ne mancasse alcuno. Le ragioni del suo fallimento, riflette lo storico statunitense, sono da ricercare piuttosto nel suo carattere particolare, associato alla congiuntura politica della guerra contro la Lega di Cambrai. Il Sanudo era uomo di legge e di lettere assai colto, di quella sapienza che, non confortata dal senso dell'equilibrio, sconfina nella pedanteria e nell'arroganza. Si riteneva - probabilmente a ragione - uno dei massimi conoscitori dell'ordinamento della Repubblica ed avvertiva con senso di frustrazione di non godere del prestigio che avrebbe meritato; così, quando si trovava in servizio in qualche consiglio, non si esimeva dallo scagliarsi contro chi violava qualche norma o avanzava proposte contrarie alla tradizione. Subito dopo la sconfitta d'Agnadello, sedendo in collegio come savio agli ordini, s'impuntò sul merito di alcune sue proposte ed ottenne che il senato, appoggiandolo, umiliasse il collegio. I senatori si congratularono a lungo con lui ma, non a caso, da allora non ottenne più la nomina in collegio. Alcuni anni dopo, mentre era in vigore la possibilità di offrire somme di denaro per ottenere incarichi pubblici, il Sanudo fu proposto dal fratello alla carica di provveditore ai dazi, che egli riteneva inferiore alle proprie capacità. Recatosi alla tribuna della signoria per dichiarare la propria offerta il Sanudo esordì dicendo che, contro la sua volontà e per senso di dovere, era disposto ad offrire 400 ducati per ottenere la nomina. Con suo grande disappunto gli venne preferito un nobile che ne aveva offerti solamente 200. D'altro canto la stessa visione politica del Sanudo mal si adattava a quegli anni; egli era fautore di una concezione repubblicana ed antioligarchica dello stato aristocratico, mentre invece nei difficili anni d'inizio Cinquecento il potere si concentrò in alcuni organi e si accrebbero le differenze sociali e politiche interne al patriziato.

Esaminando le carriere di ufficiali aristocratici nell'amministrazione veneziana si nota che talvolta il patrizio rifiutava l'ufficio cui era stato eletto venendo "scusato" in virtù di esigenze oggettive o pagando l'ammenda prevista dalla legge per questo comportamento. Si tratta di una questione apparentemente secondaria, ma che in realtà induce a considerare quale fosse il carico di lavoro dell'ufficio patrizio, in che misura la retribuzione remunerasse gli incarichi e infine se vi fossero nobili sufficienti a coprire tutti i posti ad essi riservati nello stato, vale a dire se, tra Quattro e Cinquecento, fossero sorti problemi di reclutamento dei magistrati patrizi.

Si è a conoscenza di norme che vietavano di rifiutare la nomina ad un ufficio pubblico che risalgono almeno al XII secolo (42). Per il XIV e XV secolo si dispone di una casistica decisamente ampia, che non consente però di valutare in che misura tale fenomeno incidesse concretamente sul funzionamento della macchina statale (43). Se ne deduce tuttavia che i casi erano abbastanza frequenti, le pene non erano sufficienti o non venivano applicate con rigore adeguato a disincentivare tale pratica, che ad essere ricusati erano quasi sempre incarichi fuori città e soprattutto in Levante e, per invogliare i patrizi a ricoprire uffici poco attraenti, le autorità di governo ricorrevano ad un aumento del salario.

È stato osservato che l'alto numero di rifiuti di uffici e la prassi frequente di richiedere, da parte di patrizi e segretari-"cittadini", il ritorno anticipato in patria per attendere agli affari personali, dimostra come gli uffici pubblici non fossero affatto delle sinecure (44). Questo è certamente vero per i reggimenti fuori Venezia che, quando non davano la possibilità di intraprendere un'attività commerciale sul posto, impedivano all'ufficiale-mercante di seguire da vicino i propri affari dai quali dipendeva il sostentamento della casa. Spesso poi, tra Quattro e Cinquecento, le comunicazioni rimasero sospese per lunghi periodi a causa dei conflitti bellici, limitando od impedendo la navigazione commerciale e ritardando il periodico avvicendarsi dei rappresentanti veneziani.

Il carattere individuale dei reggimenti fuori città e la corrispondenza spesso frequente che i rappresentanti veneziani intrattenevano con gli organi di governo della Serenissima consentono di valutare con buona approssimazione il carico di lavoro che gli ufficiali patrizi nello stato "da terra" e "da mar" sostenevano. Si trattava di incarichi di responsabilità che richiedevano un'ampia disponibilità di tempo e di energie. Frequentemente alle funzioni amministrative e giudiziarie venivano aggiunte quelle militari, sicché l'ufficiale veneziano si trovava a rappresentare lo stato in tutti i suoi poteri, con margini di discrezionalità spesso assai ampi ed accentuati dalle suddette difficoltà di comunicazione, anche se soggetti al controllo a posteriori del governo centrale veneziano. Alle sue dipendenze si trovava di solito almeno un cancelliere, nominato e stipendiato dal governo, che si incaricava della segreteria, e vari ufficiali subalterni che venivano scelti e pagati dal patrizio. Quando ad esempio venne istituito il rettorato di Legnago, nel novembre 1405, il maggior consiglio dispose che il patrizio avrebbe mantenuto a proprie spese un notaio, un vicario veneto approvato dalla signoria, e due famigli (45).

Considerando questi vari fattori risulta evidente come gli incarichi fuori Venezia rappresentassero nel Quattro e Cinquecento un impegno concreto tanto di lavoro quanto economico, sia per le spese personali che sovente era necessario affrontare nelle sedi più prestigiose, sia per le scarse possibilità di commercio offerte dalle località minori. Più complesso è invece valutare quale onere rappresentassero gli uffici veneziani, assai diversi l'uno dall'altro, esercitati per la maggior parte in forma collegiale e con l'ausilio difficilmente quantificabile di segretari e personale subalterno. Sebbene non manchino monografie sul ruolo istituzionale di singole magistrature veneziane, lo studio del funzionamento concreto degli uffici della Serenissima associato ad un'analisi delle mansioni svolte dalle diverse figure burocratiche è un campo di indagine ancora in gran parte inesplorato. Gli studi che se ne sono interessati (46) hanno messo in risalto l'importanza, ai fini dello svolgimento della routine di lavoro, dell'operato del personale subalterno non patrizio, che seguiva spesso in prima persona l'iter burocratico di una certa pratica ed arrivava a sostituire i magistrati patrizi esercitando anche mansioni sostanzialmente politiche.

Uno dei pochi indici dai quali è possibile desumere il carico di lavoro degli uffici di città è dato dagli orari di riunione dei principali consigli patrizi. La quarantia, il tribunale giudiziario organizzato in tre corpi distinti di quaranta patrizi, si riuniva ad esempio tutte le mattine dei giorni feriali ed il sabato pomeriggio; i suoi membri entravano di diritto nel senato, che a sua volta si riuniva tre-quattro volte la settimana nel pomeriggio. Se si aggiunge che l'assemblea del maggior consiglio aveva luogo la domenica mattina e nei giorni festivi, si può ben dire che l'impiego in quarantia era, almeno sulla carta, un lavoro a tempo pieno. Riunioni altrettanto regolari avevano il collegio e il consiglio dei dieci, i cui membri, come si è visto, potevano anche rivestire altre cariche; una legge del senato del 1440 stabiliva per i savi del consiglio, i membri più importanti del collegio, l'obbligo di prender parte per due ore e trenta ogni mattina ai lavori del collegio; per Enrico Besta il lavoro dei savi era un "carico assiduo e grave" che occupava l'intera giornata lavorativa (47). I giudici della curia di petizion, uno dei tribunali detti "di Palazzo", avevano l'obbligo della presenza tutti i giorni fino alla terza ed il lunedì, mercoledì e venerdì si tenevano anche sedute pomeridiane; nel 1325 veniva sancita l'incompatibilità fra le cariche di giudice di petizion e di senatore (48). Notizie frammentarie si hanno sugli orari di ufficio di molte magistrature minori.

Queste indicazioni assumono valore solo in presenza di informazioni abbastanza precise sulla presenza effettiva dei nobili veneziani sul posto di lavoro. Per saggiare tale elemento la sola analisi della legislazione sull'assenteismo si presta ad interpretazioni contraddittorie: se ci si limita ad accostare cronologicamente le numerosissime disposizioni in materia, l'impressione è quella di un ceto burocratico dedito pervicacemente all'elusione dei propri obblighi; al tempo stesso la rilevazione minuziosa delle inadempienze da parte delle autorità di governo può far pensare ad un'azione capillare di controllo e sanzione. Si prenda per esempio la creazione, nel 1406, di un'apposita magistratura, gli apontadori, incaricati di "apontar", cioè annotare il personale amministrativo patrizio e non in servizio ogni mattina a Rialto e San Marco. La loro istituzione testimonia senza dubbio la necessità e la volontà di tenere sotto controllo l'assenteismo; di assai meno facile lettura è la loro momentanea soppressione, nel 1414, seguita dopo sette anni da una reintroduzione; se poi si spogliano i registri del segretario alle voci che raccolgono le nomine a questa doppia carica, si notano vuoti abbastanza frequenti, che testimoniano forse la difficoltà a ricoprire il posto (49).

Più proficuo è accertare, anche per induzione, quale percentuale di patrizi prendesse realmente parte alle votazioni nelle principali assemblee patrizie. Il Sanudo, ad esempio, annotava che nel 1493 il numero di nobili che avevano diritto a partecipare al maggior consiglio, secondo un "libro" apposito dove erano riportati tutti i loro nomi, era di 2.600 persone, "delli qual molti n'è fuora in rezimenti viazi et merci [...] et il consueto in questo tempo si ritrovamo esser alli nostri Consegij [cioè alle riunioni del maggior consiglio] 1400 in 1500 et più; et quando si fa Procurator - ch'è il più degno officio che si faza - semo 1800 et più, et satis" (50). Tale indicazione, accostata ad alcune stime relative a periodi successivi, lascia intendere che una percentuale media di presenze del 50-60% della classe nobiliare adulta alle sedute della sua massima assemblea è un dato abbastanza affidabile e, tenendo conto di quanti si trovavano all'estero e di coloro che non partecipavano all'attività politica, non sembra una cifra disprezzabile. Per altri organi di governo non sono state elaborate serie numeriche delle presenze effettive; qualche indicazione può venire dall'entità del numero legale ritenuto sufficiente per rendere valide le deliberazioni dei diversi organi. Il senato nel suo momento di massima espansione arrivò a comprendere circa 300 membri, 230 dei quali con diritto di voto. Frederic C. Lane ha stimato che il numero medio dei votanti si aggirasse intorno ai 180 (78%), una cifra decisamente alta considerando che molti membri potevano essere in missione e che, fra le cariche più alte dello stato, non erano pochi gli anziani che andavano soggetti ad indisposizioni, malattie ed assenze dovute alle condizioni atmosferiche (51).

Alla luce delle conoscenze attuali, non è dunque possibile arrivare ad indicazioni esaustive sul carico effettivo di lavoro delle magistrature veneziane. I posti di maggiore responsabilità nella signoria, nel collegio, nel consiglio dei dieci avevano orari più elastici ma all'occorrenza i consigli si protraevano anche per molte ore e i patrizi che li ricoprivano spesso rivestivano incarichi multipli. Un certo lassismo aveva modo di manifestarsi nelle magistrature minori, anche se nel XV secolo e nella prima parte del XVI non si può dire che questi uffici fossero sinecure concesse dallo stato a sostegno dell'aristocrazia più povera.

Un patrizio che nel Quattrocento intendesse inserirsi nell'amministrazione pubblica pur continuando a svolgere un'attività imprenditoriale propria aveva comunque la possibilità di seguire entrambi i settori. Anzi il motivo più frequente che i patrizi adducevano per richiedere un rientro anticipato da un reggimento e la causa che si cela dietro a tanti rifiuti di cariche era proprio questa, la frequente commistione fra l'attività politica e quella imprenditoriale, che spiega anche la bonomia con cui le autorità giudicavano i fenomeni di lassismo ed assenteismo. Casi di ufficiali-mercanti se ne potrebbero produrre molti, valga per tutti quello di Francesco Foscari, doge tra il 1423 e il 1457, che disponendo di una sostanza di 150.000 ducati non disdiceva di tenerne 15.000 investiti in Rialto in affari commerciali (52).

Un'attività economica diversa dall'impiego pubblico era per molti patrizi più che una forma di diversificazione degli investimenti o di integrazione dei proventi degli uffici statali il cespite principale da cui dipendeva il sostentamento della casata e la conservazione del patrimonio familiare. Come la maggior parte degli ufficiali della prima età moderna, anche i magistrati veneziani erano in linea di massima sottopagati. Se per altre amministrazioni l'analisi delle retribuzioni rappresenta un settore assai complicato d'indagine che richiede considerazioni approfondite sul contesto economico generale, uno studio dei proventi dei patrizi veneziani deve tener conto innanzitutto della doppia natura degli amministratori patrizi della Repubblica di San Marco: servitori dello stato e, contemporaneamente, detentori della titolarità del potere. Ciò determinava che gli emolumenti corrisposti dalle casse statali al singolo fossero concepiti più come una sorta di sostegno dello stato alle sostanze delle famiglie nobili, che come una mera remunerazione del servizio prestato. Molti dei principali incarichi di governo, infatti, non erano retribuiti affatto: secondo la descrizione del Sanudo, a fine Quattrocento non avevano salario né i membri del collegio, né quelli del senato, né i dieci e i loro capi (53). Percepivano 6 ducati al mese i sei consiglieri ducali - che assieme al doge e ai tre capi di quarantia formavano la signoria - mentre i membri delle quarantie, probabilmente per stimolare la loro partecipazione alle sedute giornaliere dei tre consigli giudiziari, ricevevano dal 1480 un salario giornaliero di 10 grossi (54). Gli avogadori di comun, i magistrati ai quali era attribuito il ruolo di garanti della legge e senza la presenza di almeno uno dei quali nessun consiglio avrebbe dovuto aver luogo, non avevano salario fisso "acioché, volendo vadagnar, si affatichi a trovar li mensfatti, et quelli convenzerli" (55).

Molto vario era l'ammontare delle retribuzioni delle magistrature minori di città, come pure la busta paga di patrizi in servizio fuori Venezia. Giuseppe Del Torre ha calcolato il salario relativo a 44 reggimenti di Terraferma nel 1520. Le cifre variavano dai 4 ducati e I o soldi mensili del podestà di Caorle, un piccolo centro di pescatori ad una sessantina di chilometri da Venezia, ai 36 ducati e 4 soldi del luogotenente del Friuli, il massimo rappresentante della Repubblica in questa importante provincia. Il valore mediano si aggirava tra i 10:2 e gli 11 ducati mensili con un'estrema variabilità sia delle condizioni sussidiarie - spese di mantenimento, salario di servitori e collaboratori, ecc. - sia dell'entità degli emolumenti incerti che, come dimostra una lista di salari del 1549, potevano costituire una voce importante nella retribuzione del rappresentante veneziano (56).

Discorso solo in parte simile per gli uffici nello stato "da mar" che, come si è detto, potevano rappresentare un impegno ben più gravoso. Anche in questa serie di incarichi le differenze di salario erano notevoli, inoltre vari reggimenti venivano pagati direttamente dalle comunità, sulla scorta dei patti medievali che avevano legato quelle terre alla Serenissima. Nell'aprile del 1504, ad esempio, una parte del maggior consiglio rivelava che i rappresentanti dell'isola di Cerigo si trovavano a Venezia da molti mesi, richiedendo che nella loro isola "se li metta tal governo che de cetera sia ben governata. Et che quelli sudditi nostri possino ricever iustitia et rason da alcuno zentilhuomo nostro de più experentia di quello sono stati fin'hora". Al posto del castellano che vi veniva inviato con un salario di ducati 200 netti annui, si decideva di crearvi la carica di "provveditor e castellan" e, fatto più rilevante per i sudditi, di elevare lo stipendio del governatore veneziano a 25 ducati d'oro netti al mese. Molto interessanti le disposizioni accessorie: il patrizio si sarebbe trattenuto il salario dalle entrate dell'isola che egli avrebbe amministrato; non avrebbe potuto "per alcun modo, via o inzegno far marcadantia di sorte alcuna", né investire detto salario per spese in biade; i diritti derivanti dall'amministrazione della giustizia dovevano infine essere versati interamente alla signoria (57).

Per assicurare amministratori tecnicamente preparati e meno esposti alla tentazione di abusi le autorità intervenivano dunque alzando il grado di "appetibilità economica" dell'incarico, rendendolo di conseguenza invitante anche per patrizi di un certo status sociale. Vi erano dei casi in cui l'interesse della comunità per il salario del rappresentante veneziano era ancora più diretto. Gli ambasciatori delle comunità dalmate di Cherso ed Ossaro offrivano nel 1538 10 ducati in più al mese al rettore, affinché venisse eletto "per quattro mani" e per due anni con il titolo di "conte e capitano di Cherso et Ossaro"; era la comunità che pagava salario, "regalie et utilità" al governatore veneziano. Sembra probabile che l'interesse maggiore dei Dalmati fosse rivolto a rendere più severa l'elezione e più ambita la carica, per migliorare il livello professionale del loro rettore (58).

Le "utilità et regalie" erano spesso importanti quasi quanto il salario. Nel caso del podestà di Caneva, eletto per la prima volta nel 1449, "in complacentia et satisfactione" della comunità friulana, il salario veniva fissato in 140 ducati annui, a carico della comunità, ai quali venivano aggiunti: "un carro di vino per ogni anno, legna a sufficienza per suo uso, fieno e paglia a sufficienza per i suoi cavalli". Anche il cancelliere ed il vicario erano a spese degli abitanti, il primo per 100 lire di piccoli all'anno, una casa ed "ogni guadagno ed emolumento" per ogni atto civile e criminale, il secondo per 40 lire annue, una casa "ed ogni emolumento conveniente al suo ufficio". A spese del rettore erano infine due famigli e due cavalli (59).

Nel XV secolo gli stipendi dei funzionari pubblici furono in vari tempi assoggettati a tassazioni regolari, ma saltuariamente gli emolumenti delle cariche potevano essere oggetto anche di prelievi speciali. Nel corso della guerra di Chioggia, a fine Trecento, era stato diminuito il salario ad un numero cospicuo di cariche, ugualmente avvenne per lo scontro con i Carraresi (1404) e per la guerra in Dalmazia (1411-1412). Nel 1434, per le forti spese determinate dal nuovo dominio di Terraferma venne imposta una trattenuta del 10% su tutti i salari inferiori ai 400 ducati e del 15% su quelli superiori; per lo scaglione di reddito superiore l'aliquota venne presto elevata al 30 e 40% e rimase in vigore, a quanto sembra, fino all'inizio del Cinquecento (60). Singoli uffici venivano poi gravati da imposte speciali che sovente finivano con il deprimere a tal punto il reddito netto da rendere difficilmente assegnabile la carica. Nel 1489 viene fatto notare che i rettori dell'isola dalmata di Arbe, una volta eletti, "per el poco salario suo refudano". Avevano un tempo 400 ducati netti annui ed in seguito "per le angarie date in diversi tempi" giunsero a ricevere 9 ducati ed 8 soldi netti al mese (61).

Ricostruendo il contesto politico e sociale in cui si svolse il reggimento del podestà di Rovereto Alvise Querini tra 1473 e 1476, Michael Knapton ha messo in luce come la crescita del peso fiscale sugli uffici potesse aumentare la frequenza delle vessazioni nei confronti dei sudditi ed i reati di corruzione e peculato a carico degli ufficiali veneziani. Il salario del rettore di Rovereto, un governatorato di Terraferma di buon livello, venne infatti aumentato nel 1424 da 300 a 400 ducati annui, ma negli anni Settanta del secolo, per il deprezzamento del ducato di conto e a seguito dell'aggravio fiscale, il reddito reale di questa carica si era ridotto a poco più di 150 ducati. Seguendo i capitoli del processo Knapton ha dedotto che il Querini abbia arrotondato le proprie entrate con proventi illeciti quantificabili, per difetto, in 250-300 ducati (62).

Si tratta di uno fra i tanti casi di sopruso da parte degli ufficiali veneziani, un fenomeno endemico nelle amministrazioni della prima età moderna che si suole generalmente mettere in relazione con l'esiguità dei salari corrisposti dagli stati ai propri dipendenti e con la pratica frequente di ritardarne il pagamento. Si trattò di una sorta di "tassazione indiretta", con la quale le nascenti amministrazioni centralizzate riuscirono in parte a scaricare il costo di un apparato burocratico in via di formazione direttamente sui sudditi.

Non si dispone purtroppo di studi che prendano in considerazione il movimento complessivo dei salari degli ufficiali veneziani tra XV e XVI secolo, in relazione al deprezzamento della moneta e al livello retributivo di altri settori economici. Un posto in quarantia, ad esempio, aveva nel 1559 il medesimo stipendio del 1480, 10 grossi al giorno, ma nello stesso periodo il corso della lira di piccoli rispetto allo zecchino d'oro si era svalutato di un 30% circa (63). È assai difficile, per la complessità e la grande varietà di voci che componevano il salario pubblico, paragonare i proventi derivanti da un ufficio nell'amministrazione marciana con i redditi percepiti da lavoratori di altri settori produttivi. Pierre Sardella ha riunito alcune cifre relative al periodo 1496-1510, collocando i proventi dei nobili al vertice della scala dei salari cittadini: per i domestici ha indicato un salario fra i 4 e 10 ducati annui, per soldati e marinai 22 ducati, 94 ducati per i magistrati patrizi che servivano ai cinque alla pace, un tribunale minore di città, tra 140 e 240 ducati annui per i podestà, 300 ducati un direttore di dogana, tra 280 e 1.400 ducati per non meglio specificati "governeurs de provinces", tra 1.200 e 2.400 ducati per un console o un ambasciatore e 3.000 ducati per il doge (64).

Altri autori hanno diversamente considerato l'importanza degli emolumenti percepiti dai patrizi. Peter Burke, per un periodo posteriore, nota che tra questi uffici ve n'erano alcuni con "high salaries" (65), mentre Ugo Tucci sottolinea come proprio gli incarichi apparentemente meglio retribuiti, quello di ambasciatore ad esempio, implicavano consistenti spese di rappresentanza che richiedevano sovente un esborso diretto da parte del patrizio; per il resto solo le cariche "più modeste e periferiche" davano luogo a qualche magro introito per i patrizi meno abbienti che erano disposti a ricoprirle (66). Frederic C. Lane sembra invece più incline a considerare che gli stipendi pagati dalla Repubblica fossero se non elevati, almeno tali da consentire ad alcuni patrizi un dignitoso sostentamento. In un suo saggio famoso racconta la vicenda del patrizio Andrea Barbarigo, che nel primo Quattrocento aveva accumulato una discreta sostanza con i commerci; il suo patrimonio venne oculatamente gestito dall'unico erede, i cui quattro figli si dedicarono a tempo pieno all'attività politica, integrando i loro redditi con gli emolumenti delle cariche e riuscendo a conservare un discreto patrimonio (67).

La questione della ricchezza del patriziato e del mutare tra Quattro e Cinquecento delle sue fonti di reddito è un nodo centrale per comprendere la propensione della classe aristocratica all'impiego pubblico e per cogliere le modificazioni di questo settore burocratico. Come è stato recentemente osservato (68), la tesi secondo cui agli inizi del XVI secolo l'impoverimento della nobiltà era tale da costringere la grande maggioranza del corpo patrizio a intraprendere la carriera pubblica per sostenersi si basa, più che su concreti dati di fatto, su impressioni e ricordi di singoli patrizi, e la memoria degli uomini, massime dei conservatori, tende a ricordare il passato come un'epoca felice. Il pericolo è duplice: di anticipare al XV e XVI secolo una trasformazione economica del patriziato che se ebbe certamente allora le sue radici si manifestò apertamente solo dal Seicento in poi; oppure si rischia di mitizzare la Venezia tardomedievale, attribuendo un valore esemplare alla già citata vicenda di Andrea Barbarigo che creò una fortuna con il commercio partendo da 200 ducati, ed inferendo che vi fu un'epoca d'oro in cui a tutti era relativamente facile accumulare ricchezze con la mercatura.

È più proficuo probabilmente partire da un aspetto apparentemente secondario, il problema del numero complessivo di patrizi impiegati nell'amministrazione pubblica. Per il periodo in esame si dispone solo di due testimonianze specifiche, quella di un anonimo cronista che indica per gli anni Trenta del Quattrocento un numero di 720 funzionari patrizi, 220 in cariche di città e 500 fuori (compresi capitani di galea, balestrieri e patroni di nave), e la particolareggiata descrizione delle magistrature del Sanudo che elenca oltre 800 uffici distribuiti in maggior consiglio e senato alla fine del XV secolo (69). Queste due indicazioni, che prese per buone sarebbero in contraddizione con l'opinione comune di una consistente crescita quattrocentesca della burocrazia patrizia, non sono state oggetto di confronti con dati di provenienza documentaria, perché è sempre stato giudicato assai difficile distinguere gli uffici che potevano essere esercitati contemporaneamente ad altri da quelli che richiedevano invece una dedizione esclusiva, e quindi individuare con buona precisione il numero di patrizi necessari in un dato momento all'amministrazione per funzionare regolarmente o senza troppi inconvenienti. Alcune cifre sono state tuttavia presentate: James C. Davis valuta - per un periodo assai ampio, tra XVI e XVIII secolo - in 800 unità la consistenza dei posti governativi patrizi, ritenendo probabile un impiego contemporaneo di 400 o 500 nobili. Gaetano Cozzi considera restrittiva questa stima e sulla stessa linea si muove Philip M. Giraldi che ha registrato 976 diversi posti elettivi assegnati tra 1500 e 1550 - 693 in città, 152 in Terraferma e 131 nello stato "da mar" - indicando una cifra di 700 nobili necessari al governo repubblicano.

Analizzando un ampio ventaglio di fonti bibliografiche oltre ai conosciuti riepiloghi delle magistrature veneziane, è stato possibile giungere ad una valutazione abbastanza precisa del numero di patrizi effettivamente in servizio nell'amministrazione civile della Repubblica, che non si discosta di molto da alcune delle stime presentate ma che offre uno sviluppo diacronico della burocrazia patrizia marciana (70).

Nei primi quattro decenni del XV secolo, il periodo di massima espansione dello stato di Terraferma, la fascia di uffici "di governo" dello stato marciano crebbe del 30% circa e fino alla fine del Quattrocento aumentò ancora di una percentuale simile: nel volgere di un secolo dunque l'organico della burocrazia patrizia si dilatò di circa due terzi. Sarebbe importante poter considerare questi dati in relazione alla consistenza demografica dell'ordine patrizio. Alcune testimonianze indicano con sufficiente affidabilità che il numero di patrizi abili a reggere incarichi di governo si

Tabella 1

aggirasse fra 1493 e 1550 attorno alle 2.600-2.700 unità (71), per cui in questo arco di tempo la percentuale di nobili impiegata nell'amministrazione risulterebbe del 27-29%. Tenendo anche conto che per varie particolarità del sistema di distribuzione delle cariche un certo numero di patrizi rimaneva inevitabilmente senza ufficio, appare abbastanza ridimensionata l'immagine di un patriziato quasi per intero dedito all'impiego pubblico. Se poi si riflette che parte di questi posti non erano retribuiti e comunque non davano la possibilità di accedere a proventi non ufficiali o illeciti, appare ancora più sfumato il ruolo economico del servizio statale nella globalità dei cespiti del patriziato della Serenissima.

Non si hanno dati paragonabili per affidabilità per il primo Quattrocento. Una stima "molto approssimativa" di Frederic C. Lane, basata sullo studio della ricchezza patrizia secondo l'estimo del 1379 compiuto da Gino Luzzatto, indica che i nobili dovessero essere, tra XIV e XV secolo, 1.500 (72), il che significherebbe un tasso di inserimento nell'amministrazione del 28% agli inizi del Quattrocento; non è da escludere che i nobili abili al maggior consiglio, nonostante la scarsa partecipazione alle sedute dell'assemblea, fossero di più, nel qual caso questa percentuale diminuirebbe, ma non di molto.

In sintesi, nel corso del Quattrocento la burocrazia patrizia conobbe certamente una considerevole espansione, che procedette tuttavia quasi parallelamente alla crescita demografica del patriziato. L'offerta statale di uffici riservati agli aristocratici, nei quali comunque trovava spazio solo una minoranza di essi, non deve però essere confusa con la crescente partecipazione del patriziato alla vita politica della Repubblica, testimoniata dall'aumento di quanti si iscrivevano per i sorteggi alla Balla d'oro e dalla crescita delle presenze in maggior consiglio (73). Questi due fatti testimoniano una maggiore domanda di posti pubblici, non un aumento indiscriminato degli stessi; lo stato rinascimentale mantenne impiegato un numero abbastanza costante di nobili nell'amministrazione ed ebbe cura di non generare una pletora di uffici inutili e dispendiosi per le casse statali. Esemplare di questo atteggiamento è una disposizione del 1494 con la quale il maggior consiglio, riflettendo sul fatto che la Camera fiscale di Brescia era di "non exigue utilitatis" tanto che vi potevano stare convenientemente due nobili e non uno, disponeva che i patrizi eletti a questo reggimento fossero due e che si dividessero salario ed utilità (74).

Una certa dilatazione dei posti pubblici patrizi che avevano evidenti finalità assistenziali si ebbe solo a partire dal primo Cinquecento, quando la Serenissima, costretta a rinunciare ad importanti territori in Levante - Modone e Corone, Negroponte - e in Italia, ampliò il novero delle magistrature cittadine; negli stessi anni però si assiste alle prime significative soppressioni di uffici, una reazione che doveva intensificarsi solo dopo la metà del secolo con la creazione di una magistratura apposita per l'eliminazione degli uffici superflui.

Fu, questo d'inizio secolo, il periodo delle guerre d'Italia, del lungo conflitto contro la Lega di Cambrai, uno dei cardini della storia della Repubblica. Il medesimo sistema di assegnazione degli uffici venne stravolto dalla necessità di raccogliere denaro per le operazioni belliche, che spinse le autorità di governo ad instaurare tra 1510 e 1530 il metodo dei prestiti volontari per un nutrito numero di cariche, tra cui quella prestigiosissima di procuratore di San Marco, cosicché i consueti criteri di selezione degli ufficiali patrizi vennero scavalcati dal requisito della disponibilità finanziaria del singolo, che divenne il criterio discriminante del reclutamento patrizio (75).

Le conseguenze di questa svolta, seppure limitata nel tempo, furono decisive per la storia politica e sociale del patriziato: il potere esecutivo si concentrò nei due organi più ristretti ed esclusivi, il consiglio dei dieci ed il collegio; la stratificazione economica e sociale del patriziato si manifestò più apertamente dal punto di vista politico e portò con sé una crescente corruzione elettorale; la cerchia di persone che più saldamente deteneva il potere comprese infine che una delle forme per mantenere sotto controllo la nobiltà povera era legata alla possibilità di garantire un numero costante di uffici pubblici ai patrizi meno abbienti.

La cancelleria ducale

Nello stato marciano non esisteva una carta costituzionale che sancisse l'ordinamento della Repubblica, né uno statuto che descrivesse compiutamente la suddivisione dei poteri e delle competenze fra i diversi organi ed apparati. Una rappresentazione complessiva della struttura dello stato si può desumere di conseguenza solo da fonti di natura diversa, come le opere a carattere storiografico o trattatistico, oppure la ritualità civica veneziana.

Fra le varie cerimonie civili e religiose che si svolgevano nella capitale lagunare particolare valore rivestiva ad esempio la processione ducale, che aveva luogo più volte all'anno in ricorrenze significative o in occasione di avvenimenti particolari, alla quale prendevano parte i rappresentanti dei diversi corpi di ufficiali della Repubblica. Alla fine del XV secolo il corteo era suddiviso in tre tronconi: in testa, dopo i portatori di stendardi ed i trombettieri, procedevano i ministri addetti alla persona del doge, seguiti da alcuni ufficiali minori e, inframezzati alle principali figure ecclesiastiche della città, dai funzionari della cancelleria ducale in ordine crescente di importanza: i notai del maggior consiglio, i segretari del senato ed infine il cancelliere grande. Alle spalle di quest'ultimo il segmento centrale del corteo era occupato dal doge, accompagnato da due fra i più prestigiosi ambasciatori esteri presenti in città, e seguito dai rappresentanti di importanti magistrature patrizie, i consiglieri ducali, i procuratori di San Marco, i membri del collegio, dei dieci, del senato.

Secondo Edward Muir, acuto commentatore della ritualità civica veneziana, la minuziosa disposizione gerarchica delle figure nel corteo evidenzia come la processione costituisse ben più di una semplice rappresentazione simbolica: "in effetti, la processione ducale era la costituzione" (76). In questo senso la posizione del personale della cancelleria ducale, immediatamente prima del doge e al vertice della burocrazia non patrizia, è emblematica del ruolo cardine di questo ufficio nel disegno complessivo delle istituzioni veneziane.

Quando a metà Quattrocento una disposizione governativa descrive la cancelleria come il "cuore dello stato", non si tratta infatti di una definizione retorica (77): l'espressione va interpretata in senso letterale e testimonia uno stadio ben preciso del processo di sviluppo dell'amministrazione veneziana, un apparato che era cresciuto costantemente tra XIV e XV secolo e che necessitava di un ufficio che fungesse da centro di coordinamento tra i principali organi esecutivi della Repubblica, nel quale prestasse servizio personale fidato, qualificato e soprattutto specializzato.

Nella cancelleria ducale lavoravano già, almeno dal secondo Duecento, personalità di un notevole spessore culturale, non di rado provenienti da altre città italiane, assunti in virtù della loro preparazione umanistica e investiti di incarichi di prestigio ed importanti missioni diplomatiche (78). Del 1268 è la prima nomina conosciuta a cancellier grande ed un ordo curiae redatto alla metà del Trecento presenta una struttura già articolata con 21 notai dalle competenze specifiche, ribadita nel 1386 da un regolamento minuzioso che suddivideva compiti ed attribuzioni tra le diverse figure burocratiche (79). La storia moderna della cancelleria ha tuttavia inizio verso la metà del XV secolo quando, nel volgere di qualche decennio, le autorità patrizie procedettero ad una sostanziale riforma che ridefinì il profilo interno di questo ufficio, restringendo il bacino di reclutamento dei funzionari ad un ordine ben preciso di sudditi.

Nel 1443 infatti il maggior consiglio deliberava di far eleggere dalla signoria dodici giovani "veneti" affinché, con un tirocinio retribuito di studio e servizio in maggior consiglio, dove avrebbero servito durante le votazioni, si preparassero al difficile ruolo di notai di cancelleria (80). È ormai assodato che con l'espressione "veneti" si intendessero, a metà Quattrocento, i cittadini originari veneziani, un gruppo di sudditi di cui è tuttavia difficile, per questo periodo, dare una compiuta definizione giuridica e sociale; non è ben chiaro infatti quale procedura venisse seguita per provare tale status che comunque, anche in virtù delle leggi che stabilirono i requisiti necessari per entrare in cancelleria, venne precisandosi come la condizione di chi poteva dimostrare la nascita legittima a Venezia propria, del padre e dell'avo (81). Se tale condizione serviva a selezionare in partenza giovani provenienti da famiglie di comprovata tradizione cittadina, inserire questi adolescenti in un apprendistato nel quale aveva uno spazio rilevante l'educazione scolastica sta a dimostrare come fosse avvertita la necessità di una formazione specialistica del personale della cancelleria. Nel 1446 il senato istituì infatti una specifica scuola per la cancelleria, con una cattedra di lettere cui, dopo qualche anno, si affiancò l'insegnamento di oratoria, completando un'impostazione scolastica prettamente retorico-umanistica (82).

Fino al 1457, quando la soglia minima d'età venne alzata a diciotto anni, venivano ammessi in cancelleria anche ragazzini di dieci-quattordici anni (83), comunemente indicati come "ballottini", perché il compito principale loro affidato era quello di svolgere alcune operazioni manuali durante le complesse votazioni del maggior consiglio, come raccogliere e portare le diverse "balle" usate per il voto. Il loro numero crebbe progressivamente fino a 53 unità nel 1487, quando venne deciso un blocco delle assunzioni ed una riduzione del numero degli iuvenes a 30 elementi. Nel 1496, dopo che nel 1492 un'importante innovazione tecnica aveva modificato il sistema delle votazioni, la carriera dei "ballottini" venne separata da quella dei "giovani di cancelleria", che pure continuarono a svolgere alcune funzioni nelle votazioni del maggior consiglio (84). Per selezionarli furono sottoposti per la prima volta ad un esame scritto, corretto dall'insegnante di latino: coloro che svolsero con maggior profitto l'esercitazione, dopo esser passati al vaglio del voto dei dieci, vennero per la prima volta assunti come membri "estraordinari" della cancelleria; l'esame venne definito fructuosus, diventò obbligatorio e fu presto esteso ai successivi scatti di carriera (85).

Anche i membri permanenti dimostrano a partire dalla metà del Quattrocento un'individualità più marcata. Verso il 1450 venivano infatti tutti indistintamente denominati "notai", acquisendo la qualifica di "segretari" solo quando si recavano all'estero al seguito di patrizi in missione od ambasciata; si affermò invece gradualmente la consuetudine di chiamare segretari coloro che avevano accesso alla "cancelleria secreta", un preciso locale all'interno del palazzo Ducale dove venivano conservate le carte del senato e del collegio (86). Nel 1481 si stabilì che il loro numero fosse ridotto da 62 a 50 attraverso il blocco delle assunzioni, fissando contestualmente una somma complessiva destinata ai salari di tutta la cancelleria che non poteva essere superata, in modo da scoraggiare nuove assunzioni che sarebbero quindi andate a detrimento dei salari dell'intero corpo. Giuseppe Trebbi ha osservato che, assieme alla legge del 1487 che ridusse il numero dei giovani da assumere, questa parte del 1481 segnò una svolta nella storia della cancelleria, il cui organico era rimasto fino ad allora fluttuante, con periodiche dilatazioni che immettevano in ruolo personale scarsamente qualificato. Con le leggi del 1478 e del 1484 che disposero che l'ingresso in cancelleria fosse riservato ai soli cives originarii Venetiarum - vale a dire "fioli legitimi e de vero matrimonio, de boni citadini nostri venitiani originarii" - si venne infine a completare quella riforma quattrocentesca della cancelleria ducale che fissò definitivamente i caratteri salienti di questo importante ufficio (87).

Gli Ordines et regulae approvati nel luglio del 1512 consentono di analizzare le attribuzioni e le competenze dei funzionari della cancelleria (88). Ormai assestata era la divisione gerarchica tra i notai straordinari e il personale ordinario, che godeva di una maggiore autonomia operativa e poteva essere destinato a seguire con funzioni di segreteria provveditori, capitani, sindaci ed ambasciatori patrizi fuori dello stato. Dal novero del personale fisso venivano quindi selezionati gli addetti agli incarichi di maggiore responsabilità: i deputati alla cancelleria "secreta ", coloro che seguivano i lavori del collegio e del senato, il segretario addetto alla "zifra", vale a dire alla redazione e decodificazione della corrispondenza in codice con i rappresentanti all'estero, il "segretario alle voci", cioè colui che teneva i registri delle elezioni alle cariche patrizie. Nel senato e nel collegio i segretari non si limitavano a svolgere una semplice funzione subordinata: il segretario "leggista" era incaricato di riferire i precedenti legislativi relativi ad ogni disposizione in discussione, operazione quanto mai complessa data la farraginosità dell'apparato legislativo della Repubblica, che spesso si risolveva in una selezione dagli impliciti contenuti politici; al segretario era poi affidata la stesura e la lettura delle disposizioni di legge elaborate nel corso delle sedute, compito anche questo di grande importanza e responsabilità.

Si trattava di funzioni essenziali per l'attività esecutiva e legislativa dei consigli patrizi, e venivano svolte da personale che giungeva in posizioni di tale rilievo solo dopo una lunga carriera nei ruoli minori della cancelleria, durante la quale questi funzionari di estrazione cittadinesca giungevano a conoscere a fondo l'articolazione concreta dello stato marciano, la sua tradizione legislativa, gli uomini e le idee che vi si confrontavano, gli aspetti anche più reconditi dell'azione politica aristocratica. Una conoscenza delle leggi e dello stato sovente superiore a quella della maggioranza dei patrizi che, servendo spesso per lunghi anni in magistrature di secondo piano, raramente giungevano nella "stanza dei bottoni" del governo repubblicano.

Esemplare è in questo senso la figura di segretario del consiglio dei dieci. L'"eccelso tribunale" avocò a sé, a metà Quattrocento, la giurisdizione sulle nomine dei segretari sancendo definitivamente nel 1462 il proprio controllo esclusivo sulla cancelleria e sulle nomine dei suoi ufficiali, con la sola eccezione dell'elezione del cancellier grande che venne lasciata al maggior consiglio (89). Da questo momento il legame tra i dieci e la cancelleria divenne uno dei pilastri su cui questo consiglio ristretto costruì la propria crescita quale organo esecutivo, ed i segretari del consiglio - passati da due a quattro agli inizi del Cinquecento (90) -, in virtù della durata vitalizia del loro incarico che consentì loro una continuità di servizio ben maggiore di quella dei consiglieri, vi acquisirono un peso crescente, tale da rappresentare, nel corso del XVI secolo, il punto di massima partecipazione di elementi non patrizi al governo dello stato.

Il servizio quotidiano nei locali della cancelleria a ricopiare ed archiviare lettere, scritture e deliberazioni o nei consigli patrizi ad assistere allo svolgimento delle sedute poteva venire interrotto dall'ordine di partire per qualche missione fuori Venezia. Anzi, una volta terminato il periodo di apprendistato in qualità di notaio straordinario, gli anni di maggior vigore fisico venivano solitamente spesi in un susseguirsi di missioni all'estero, durante le quali il giovane cittadino viaggiava per i lontani domini della Serenissima, frequentava l'ambiente delle principali corti europee, entrava in contatto con lo spiegarsi concreto dell'attività diplomatica che aveva potuto solo intravedere sui registri "ingrossati" in cancelleria. Accadeva poi non di rado che per indisposizione dell'oratore patrizio capitasse al funzionario cancelleresco di farne temporaneamente le veci, in caso di morte addirittura di sostituirlo per settimane in attesa del nuovo rappresentante nominato a Venezia. Per particolari compiti, quali rappresentare la Serenissima in sedi politicamente minori o relativamente vicine, assoldare condottieri o condurre negoziazioni segrete e veloci, le autorità di governo si rivolgevano direttamente ai principali membri della cancelleria che per consuetudine sostenevano ad esempio le residenze alle corti milanese, napoletana ed altre italiane.

Acquisita una vasta esperienza anche all'estero, il notaio ordinario poteva aspirare alla segreteria del senato, superando l'esame scritto che, sull'impronta di quello per entrare in cancelleria, venne esteso agli inizi del Cinquecento ai successivi passaggi di carriera. Giunto a questo ufficio, la possibilità di essere destinato a missioni fuori città veniva di conseguenza ristretta alle ambasciate o agli incarichi di maggior peso; se si rivestiva poi un ruolo particolare, segretario leggista ad esempio, non era difficile potersi "scusare" adducendo la necessità della propria presenza a Venezia.

La segreteria dei dieci era lo scalino più alto nella progressione gerarchica cancelleresca; al di sopra si trovava solo il cancellier grande, una figura carica di significati extraburocratici che doveva rappresentare la più prestigiosa carica assegnata ai non nobili. La sua funzione concreta era duplice: da un lato sovrintendeva al buon funzionamento della cancelleria, avendo la responsabilità di suddividere razionalmente il carico di lavoro tra il personale; contemporaneamente aveva l'obbligo di presenziare ai lavori di tutti i principali consigli patrizi, nei quali svolgeva alcune funzioni minori ma rappresentative, come leggere l'ordine del giorno in maggior consiglio e "comandare" le elezioni, senza tuttavia diritto di intervento o di voto. Era insomma una sorta di "spettatore muto", secondo l'efficace espressione di un commentatore seicentesco (91), che nel simbolismo politico veneziano raffigurava la partecipazione del popolo alle decisioni dell'autorità di governo.

Come è stato recentemente osservato (92), nel corso del Quattrocento il cancellier grande perse alcune importanti attribuzioni, come la presenza alla stesura dei trattati con potenze straniere e il servizio all'estero, mentre venne accentuata la sua valenza simbolica quale "doge del popolo": si fece più intensa la sua partecipazione alle cerimonie ufficiali, e vennero sottolineati con maggiore enfasi alcuni compiti formali, come il porre la "berretta a tozzo" sul capo del nuovo doge, e alcune prerogative prestigiose come quella di avere funerali paragonabili a quelli del doge patrizio. Contemporaneamente si evitò che potessero giungere a tale dignità personalità troppo marcate ed originali, o uomini giovani che sfruttando la durata vitalizia della carica arrivassero ad esorbitare dalle limitate funzioni formali: dai primi decenni del Cinquecento il gran cancelliere venne scelto unicamente tra i segretari del consiglio dei dieci, portando quindi a compimento la piramide gerarchica del servizio in cancelleria, e garantendo al maggior consiglio la possibilità di scegliere una personalità di alto valore rappresentativo tra uomini di comprovata fedeltà avvezzi da decenni a servire la Repubblica ed i magistrati patrizi (93).

Mary Neff, che ha studiato a fondo la cancelleria nel periodo rinascimentale, ha analizzato l'estrazione sociale di 409 giovani ammessi al notariato straordinario tra 1450 e 1530. Per 114 di loro ha individuato la professione del padre - 92 ricoprivano un posto pubblico e di questi 42 servivano in cancelleria -, per i restanti 295 è invece logico presumere che il padre non fosse inserito nell'amministrazione statale (94). Il bacino di reclutamento del personale cancelleresco appare quindi, in questo periodo, ampio e variegato socialmente; per salire il primo gradino di questa prestigiosa carriera non era determinante il fatto che il padre avesse prestato servizio nell'amministrazione, anche se tale condizione doveva certamente tornare utile al momento di presentarsi ai successivi concorsi.

Quest'ordine di considerazioni invita a riflettere, al pari di quanto si è fatto riguardo agli ufficiali patrizi, su quali elementi fossero utili ad un giovane cittadino per far carriera nella cancelleria ducale. Il ruolo della famiglia non appare, tra secondo Quattrocento e primo Cinquecento, così determinante come sarebbe diventato in seguito (95): sebbene il grado di endogamia professionale all'interno del ceto delle famiglie di cancelleria fosse considerevolmente alto, tanto da dar vita ad estese "reti" parentali, non ci si trova di fronte in questo periodo a vere e proprie dinastie cancelleresche con più funzionari della medesima casata contemporaneamente in servizio. Il dato presentato da Mary Neff secondo cui tra 1450 e 1533 solo sei volte due giovani della stessa famiglia rimasero impiegati simultaneamente per un periodo apprezzabile, conferma questa ipotesi ed evidenzia come l'ordine dei cittadini originari, di cui le famiglie di cancelleria rappresentarono il livello socialmente più prestigioso, fosse ancora un gruppo fluido in via di formazione (96).

Un secondo possibile elemento decisivo, la disponibilità finanziaria, induce a considerare come fossero retribuiti questi ufficiali. Un elenco di notarii cancelleriae del 1480 presenta salari variabili tra i 15 e i 200 ducati, con 37 funzionari nella fascia fino a 50 ducati annui, 11 tra 51 e 100, 8 fino a 150 ducati e solamente 6 tra questa cifra e i 200 ducati (97). La carriera in cancelleria offriva dunque una considerevole progressione di salario, al quale vanno inoltre aggiunti vari emolumenti incerti, purtroppo di difficile quantificazione, come il beneficio della "cassetta" o "casselletta", vale a dire i diritti provenienti dalla stesura di atti che, conservati in un'unica cassa, venivano periodicamente suddivisi tra il personale della cancelleria (98). A discrezione del cancellier grande, ogni funzionario ordinario poteva essere deputato a seguire in qualità di segretario il lavoro di singole magistrature, derivandone introiti consistenti. Per le missioni all'estero, poi, vi era un compenso fisso straordinario assieme ad uno o più donativi di entità diversa, commisurati alla natura dell'incarico; è tuttavia evidente come alcune missioni, che comportavano lunghi soggiorni all'estero o il mantenimento in corti prestigiose, costituissero una voce di spesa piuttosto che di guadagno e non sono rari i casi di segretari che per sostenere incarichi di tal genere furono costretti a vendere beni immobili di famiglia.

Il numero di missioni onerose assegnate a segretari cittadineschi crebbe dagli ultimi anni del Quattrocento, quando la congiuntura politica internazionale dilatò l'impegno diplomatico della Serenissima. Aumentò contemporaneamente il rilievo istituzionale della cancelleria ed il carico di lavoro che notai e segretari ebbero a sopportare in tale difficile situazione. Questa evoluzione si riflesse sui meccanismi di retribuzione indiretta del personale: nei primi anni del Cinquecento vennero meno due fonti tradizionali di reddito aggiuntivo, i donativi di appezzamenti di terreno e i prestiti concessi per le doti di figlie e nipoti, mentre aumentò considerevolmente una voce prima trascurabile, le "grazie" di uffici nell'amministrazione statale. Mary Neff ha calcolato che un funzionario stabile avesse, negli anni Venti del Cinquecento, concrete possibilità di ottenere in grazia un ufficio del valore di 60-120 ducati annui (99).

In conclusione, anche se è impossibile tracciare un profilo numerico della retribuzione che tenga conto degli emolumenti incerti e dei compensi indiretti come grazie e simili, si può senza dubbio affermare che, rispetto ad altri uffici pubblici aventi sede a Venezia, il lavoro di cancelleria, per il grande impegno professionale che implicava, godeva di una retribuzione elevata. Era una carriera che iniziava con salari bassi, anche se non trascurabili perché assegnati ad ufficiali molto giovani, e che, dopo un lungo cursus honorum, anche in sedi disagiate, poteva apportare cespiti ragguardevoli. Se si paragona il salario di questi funzionari con i redditi complessivi del patriziato - secondo Lane si poteva definire ricco un nobile che avesse una rendita di almeno un migliaio di ducati annui (100) - certamente essi non usufruirono di redditi tali da arricchire la propria famiglia per più generazioni, ma nel panorama dell'impiego pubblico veneziano il loro lavoro era certamente tra i meglio retribuiti.

Per quanto riguarda poi l'importanza del denaro per avere successo in cancelleria, è decisamente ovvio che senza dubbio un buon patrimonio alle spalle poteva aiutare un giovane ad affrontare i disagi iniziali con minori preoccupazioni e, nella fase cruciale della carriera, poteva permettergli di sostenere missioni impegnative finanziariamente ma molto utili per il prestigio ed il merito. Tuttavia per una carriera di medio livello la consistenza del patrimonio familiare non era determinante, mentre lo diventava per chi volesse giungere ai gradi più elevati della gerarchia cancelleresca, anche se non sono rari i casi di funzionari importanti costantemente alle prese con preoccupazioni economiche. In questo periodo, osserva Mary Neff, la maggior parte dei segretari non aveva sostanziosi mezzi finanziari a disposizione e dipendeva economicamente dalle proprie entrate professionali (101). Ciò sottolinea come l'impiego in cancelleria fosse aperto ad un ampio spettro di persone e conferma che la disponibilità patrimoniale non era, da sola, un fattore discriminante.

Un ulteriore elemento va tenuto in considerazione, l'importanza dei rapporti di patronato che il funzionario poteva stringere con i patrizi, massime con i decemviri attraverso il voto dei quali passava ogni scatto di carriera. Nel tardo Cinquecento appare con evidenza l'esistenza all'interno di questo ufficio di varie reti clientelari che legavano i patrizi influenti a notai e segretari, i quali potevano rendersi utili in mille modi per ricambiare un appoggio o un voto favorevole. Tra Quattro e Cinquecento certamente rapporti di questo tipo ebbero modo di manifestarsi, ma chi ha studiato a fondo la cancelleria in epoca rinascimentale è dell'opinione che "nel primo Cinquecento, tuttavia, il patronato, nel senso di un legame stabile di dipendenza e fedeltà, sembra infrequente" (102). Nel corso di una normale carriera un notaio o un segretario aveva modo di "servire" decine di patrizi, con alcuni dei quali passava lunghi periodi all'estero in totale comunione di lavoro. Se un funzionario operava proficuamente conquistava la fiducia del superiore patrizio, che lo avrebbe richiesto al cancellier grande per una successiva missione, e che si sarebbe adoperato per fargli avere facilitazioni, donativi, eventualmente anche promozioni. Tutto il sistema era tuttavia incentrato sul riconoscimento delle capacità, della fedeltà e dell'abnegazione dell'ufficiale, e il fatto che ai posti di maggior rilievo giungessero gli ufficiali più meritevoli assicurava ai principali organi patrizi la certezza di un servizio più efficiente ed efficace.

In conclusione la cancelleria ducale rappresentava la punta di diamante dell'intera amministrazione veneziana. Per molti versi il suo sistema organizzativo interno, basato su una continua competizione tra i funzionari per la progressione delle carriere, si avvicina più a quello di apparati più recenti che a comparti simili in amministrazioni coeve. In questo senso non deve ingannare la somiglianza tra la piramide gerarchica della cancelleria, con incarichi in consigli via via più importanti fino al cancellierato grande, con il profilo dell'architettura istituzionale degli organi patrizi di governo: la differenza sostanziale risiede nel continuo avvicendamento dei patrizi tra le varie magistrature, e la permanenza vitalizia, salvo promozioni, dei notai e segretari nel medesimo incarico. Anzi, proprio in conseguenza o a correttivo del sistema distributivo patrizio, venne conformata la struttura della cancelleria ducale.

Nei drammatici momenti della guerra contro la Lega di Cambrai, di fronte al pericolo di non disporre del denaro per pagare l'esercito, le autorità patrizie si risolsero a mettere in vendita gli uffici intermedi e quelli minori nelle diverse magistrature, a promuovere il sistema dei prestiti per acquisire l'entrata in maggior consiglio, il seggio in senato, perfino la dignità procuratoria, seconda in prestigio al solo dogado. Ancora: alla vigilia della guerra di Candia, nel 1636, venne decisa l'alienazione di tutti gli uffici intermedi. Mai, nel corso della sua storia, lo stato patrizio accettò l'idea di vendere gli uffici della cancelleria.

Gli "uffici di ministero"

La cancelleria ducale non era il solo settore dell'amministrazione marciana nel quale un giovane Venetus potesse impegnarsi professionalmente, né l'unico ufficio di rilievo aperto ai non patrizi. Dopo che tra 1478 e 1484 i posti di cancelleria furono riservati in esclusiva a coloro che potevano provare lo status di cittadino originario, nel volgere di qualche decennio altri incarichi particolari, concessi già per consuetudine ai membri delle principali famiglie non patrizie della città, vennero destinati per legge a quest'ordine privilegiato: i notariati dell'avogaria di comun, le gastaldie delle procuratie, i cancellierati inferiori, i priorati dei lazzaretti; si trattava di un numero ristretto di cariche, poco più di una decina, di secondo piano in quanto a rilevanza politica ma di forte significato rappresentativo, in quanto contigue a prestigiose cariche patrizie o impegnate in settori delicati di controllo sociale (103).

Nell'ambito di questo processo di definizione del ceto burocratico cittadinesco, fondamentale fu l'assegnazione in esclusiva all'ordine degli originari del più consistente gruppo di cariche non patrizie, gli uffici "distribuiti dalla quarantia", così chiamati perché l'organo preposto alla loro distribuzione venne individuato, tra XIV e XV secolo, nella quarantia criminal, uno tra i principali consigli giudiziari della Repubblica. Si trattava dei vari uffici di nodaro, scontro, quadernier, scrivano, masser e simili presenti in ogni consiglio ed ufficio della Serenissima, sui quali ricadeva la parte più cospicua del lavoro di routine delle varie magistrature. Una loro quantificazione numerica, fino a tutto il XVI secolo, è praticamente impossibile: un registro del primo Cinquecento ne elenca una sessantina ma, come si vedrà, molti di questi uffici venivano assegnati secondo procedure irrituali e sfuggivano al controllo della quarantia; non è improbabile che il loro numero effettivo fosse almeno tre-quattro volte superiore (104).

Le mansioni affidate a questi ufficiali variavano sensibilmente a seconda della magistratura cui collaboravano. Generalmente il nodaro era incaricato di tenere le scritture più importanti, le "terminationi", i rapporti con i principali organi di governo; lo scrivano ed il cogitor aiutavano il notaio in queste incombenze ma potevano anche avere mansioni particolari, come la tenuta di un singolo libro o registro. Il masser svolgeva un'opera di supporto al lavoro degli altri ufficiali, assolvendo quindi ad una funzione meno specializzata. Le figure di scrivano, scontro, quadernier, cassiere e ragionato si possono genericamente riferire alla parte più strettamente amministrativa del lavoro degli uffici, soprattutto quelli economico-finanziari dove la presenza di ufficiali di questo tipo era più consistente.

Nel complesso questi funzionari costituivano l'ossatura portante della burocrazia veneziana. Nell'importante ufficio dei savi alle decime di Rialto, ad esempio, a cui era demandato il controllo del gettito delle imposte dirette, era loro affidata la redazione dei registri sui quali venivano descritti i beni soggetti a tassazione (105). Non di rado le loro mansioni erano esplicitamente dirette a controllare l'operato del magistrato patrizio: lo scrivano della Zecca prendeva nota di tutti i movimenti di metallo e denaro che avevano luogo nel processo di fabbricazione della moneta; questa registrazione era separata - almeno in teoria - da quella tenuta dagli ufficiali patrizi, che periodicamente dovevano render conto delle spese e della produzione, in maniera conforme a quanto descritto dallo scrivano. Costui poteva essere rimosso unicamente dalla signoria, alla quale riferiva direttamente (106). Ancora più appariscente era la funzione di questi ufficiali nelle magistrature giudiziarie: in varie corti essi giungevano ad avere un ruolo determinante nello svolgimento del processo, in conseguenza anche della posizione passiva assunta dal giudice patrizio che tendeva a lasciare al notaio del tribunale la conduzione pratica del dibattimento (107).

La posizione di questi ufficiali veniva di conseguenza ad essere centrale nel rapporto biunivoco tra società civile ed amministrazione pubblica, tra sudditi e sovrano. Erano loro, spesso attraverso il filtro dei fanti o degli impiegati di livello inferiore dell'ufficio, a ricevere coloro che si rivolgevano ad una magistratura per un'istanza, una causa, una transazione; attraverso di loro passavano poi gli atti emessi dall'autorità diretti a singoli o comunità.

Tra XIV e XV secolo la funzione di controllo su questa fascia di uffici passò progressivamente dai diversi magistrati alla quarantia criminal. Alla fine del Duecento la loro nomina appare ancora affidata ai singoli ufficiali patrizi che potevano eleggere i propri ministri "come loro paresse". Un secolo dopo tutti i notai e scrivani degli uffici di Venezia dovevano invece essere "provati" annualmente in quarantia criminal: si trattava con ogni probabilità di una ratifica formale, ma lo spostamento della competenza appare già in atto (108).

Nel 1444 un'importante disposizione del maggior consiglio fissò definitivamente il criterio per la distribuzione di queste cariche, dando vita ad un sistema di assegnazione che sarebbe rimasto in vigore per i due secoli successivi, fino alla vendita generale degli uffici intermedi del 1636. Venne innanzitutto stabilito che qualsiasi ufficio di "scriba, notarius sive massarius" dovesse essere assegnato per elezione della quarantia per soli quattro anni, senza la possibilità di riottenere la carica alla successiva elezione; nessuno poteva espletare il proprio incarico in un ufficio dove un consanguineo deteneva già una carica; infine la possibilità di ricevere tali uffici per grazia venne drasticamente limitata aumentando le "strettezze" dei consigli deliberanti, vale a dire elevando le maggioranze qualificate necessarie per approvare una disposizione di grazia (109).

Nei decenni che seguirono si vietò il cumulo della cariche in un solo ufficiale, la procedura di nomina si arricchì di una preselezione operata dal collegio dei dodici savi di Rialto, presso cui doveva darsi in nota chiunque desiderasse concorrere per l'elezione, si affinò quindi il principio di ceto che informava il reclutamento, riservando questi posti ai "nostri cittadini laici" e definitivamente nel 1517 ai "cittadini originari venetiani". Reiterate furono infine le disposizioni mirate ad impedire l'assegnazione di questi uffici per grazia (110).

È naturale chiedersi come mai le istituzioni di governo della Serenissima si determinarono a creare per questa fascia di uffici un sistema di distribuzione caratterizzato dal continuo avvicendarsi di uomini in uffici diversi, simile a quello che regolava l'assegnazione dei posti di governo patrizi, anche se con una maggiore durata delle cariche. Il proemio della legge del 10 maggio 1444 richiama la necessità di permettere ai "populares nostri" - che "tamquam digni, et benemeriti non possunt in officiis nostriis praedictis partecipare nisi per longi temporis spatium" - di "gustare dulcedinem gratiae nostrae", una formulazione che, al di là della retorica paternalistica, richiama l'attenzione sul problema concreto di garantire ad un ceto sociale ancora in fieri un canale privilegiato di accesso agli impieghi pubblici che consentisse un'equa distribuzione degli stessi tra il numero più alto possibile di casate "civili" della città (111).

Evidentemente, però, le preoccupazioni principali della classe dirigente veneziana erano di due ordini diversi: da un lato evitare che singoli ministri di estrazione non aristocratica giungessero ad acquisire un ruolo preponderante in magistrature minori poco o punto controllate dai principali organi di governo, dove servivano uno o pochi patrizi, solitamente di non grande pratica specifica ed esperienza amministrativa; dall'altro premunirsi contro la possibilità che singoli magistrati disponessero, mediante la nomina di propri subordinati di fiducia, di un potere extracostituzionale di difficile controllo. Tra l'ipotetico inconveniente che si venissero a trovare in uno stesso ufficio magistrati patrizi e ministri cittadineschi tutti a digiuno delle pratiche d'ufficio, ed il pericolo che si creassero situazioni anomale dove o i magistrati o i ministri gestissero in maniera personalistica un qualche ufficio di governo, si preferì scongiurare il secondo, con una decisione che, come per il sistema delle cariche patrizie, privilegiava la tenuta sociale e politica del sistema a scapito di una forse migliore efficienza burocratica dello stesso.

Assume per contrasto quindi ancora maggiore rilievo il comparto della cancelleria ducale, l'unico dell'amministrazione civile strutturato dichiaratamente con una progressione verticale delle carriere ed una marcata specializzazione funzionale, un'impostazione burocratica scelta non a caso per affiancare il lavoro degli organi centrali di governo, i quali potevano mantenere uno stretto controllo sui loro preparatissimi funzionari. Per gli uffici intermedi, per i quali non si ritenne ad esempio indispensabile una specifica formazione scolastica, si preferì un'organizzazione meno rigida, cercando di limitare in partenza con la durata quadriennale della carica il potere che, si sapeva, gli ufficiali tendevano ad acquisire all'interno dell'ufficio.

Alcune magistrature vennero escluse da questo sistema di distribuzione e i loro ministri continuarono ad essere eletti direttamente dai signori patrizi dell'ufficio: si trattava dell'avogaria di comun, cui era affidato il ruolo di supremo custode della legalità istituzionale (112), la camera degli imprestidi, che gestiva il debito pubblico, gli auditori vecchi e nuovi, tribunali d'appello, e due magistrature dipendenti dai dieci, gli esecutori contro la bestemmia e i camerlenghi di comun. In più rimase sganciato dalla giurisdizione della quarantia un numero non quantificabile di uffici intermedi, che continuarono ad essere assegnati per consuetudine da vari magistrati, dal senato o dal collegio (113). È difficile stabilire per ognuno di questi casi la causa effettiva che determinò l'eccezione; per gli uffici più importanti, come quelli sopra elencati, si trattò con ogni probabilità di una scelta che privilegiava la specializzazione dei ministri chiamati a funzioni particolarmente difficili ed importanti, per molti altri si trattò invece semplicemente della resistenza che da più parti venne attuata contro il processo di razionalizzazione della burocrazia veneziana secondo un organico criterio di reclutamento di ceto.

Se il sistema disegnato a partire dalla legge del 1444 fu una cosa, altra cosa fu infatti la sua realizzazione pratica. Al processo di centralizzazione degli uffici intermedi si opposero sia i singoli magistrati patrizi che perdendo la giurisdizione sulla nomina dei propri ufficiali vedevano diminuire il proprio potere di controllo sui subordinati dell'ufficio, sia i ministri stessi che, non in forma organizzata e corporativa ma con isolate strategie personali o familiari comuni tuttavia ad un largo ceto di ufficiali, utilizzando l'appoggio di magistrati patrizi compiacenti e facendo sistematicamente ricorso allo strumento della supplica, dell'istanza per la deroga ad personam, cercarono di impedire la concretizzazione del carattere precipuo della riforma: la durata limitata delle cariche associata alla selettività dell'elezione in quarantia.

Anche a tale riguardo l'analisi può contare quasi esclusivamente sulla fonte normativa, che comunque rinvia ad un'immagine abbastanza chiara della realtà. Le leggi che ribadirono il divieto di assegnare gli uffici vacanti per grazia, se non osservando le "strettezze" di specie, e l'illiceità del cumulo degli uffici si susseguirono dopo il 1444, a testimonianza di un continuo interessamento delle autorità per l'attuazione del sistema di distribuzione ma anche dell'inefficacia delle disposizioni precedenti. Una parte dei dieci del 1494 riportava che le sedute del consiglio venivano molestate quotidianamente da cittadini ed altri che avendo un qualche "merito" verso il consiglio, richiedevano uffici di qualsiasi tipo "ad vitam, vel ad tempus"; coloro che poi ne disponevano per quattro anni per elezione della quarantia "petunt sibi confirmari ad vitam aut dari filii, fratribus aut nepotibus ad vitam seu ad tempus" (114).

Si manifestò dunque in maniera inarrestabile quella tendenza a trattare l'ufficio come un patrimonio che Roland Mousnier ha individuato come una costante del rapporto tra ufficiali ed uffici in questo segmento della burocrazia veneziana (115). Una tendenza che aveva modo di concretizzarsi sia attraverso il canale teoricamente illecito dell'assegnazione dell'ufficio a vita da parte di un qualche magistrato o consiglio, sia attraverso quello formalmente consentito della "grazia" concessa dai principali organi di governo, anche se raramente rispettando le severe norme sulle "strettezze". Anche quando un ufficio veniva assegnato per elezione della quarantia, non sempre alla scadenza dei quattro anni ritornava a disposizione dello stesso consiglio, perché l'ufficiale riusciva a conseguire una "grazia di continuatione" che gli permetteva di rimanere in carica per qualche altro anno, durante il quale si sarebbe dato da fare per ottenere una grazia vitalizia.

Agli inizi del Cinquecento la difficile situazione economica della Repubblica concorse ad accentuare tale tendenza. Nel marzo 1510 il maggior consiglio si risolse a deliberare la vendita di tutti gli uffici intermedi - scrivanie, nodarie, cogitorie, ecc. - ed anche di quelli minori, come le fanterie, per risollevare le casse dello stato. Coloro che detenevano tali uffici con carica vitalizia potevano acquisire, ad un prezzo pari a dieci volte quello degli introiti netti annui della carica, il diritto di intestare l'ufficio ad un figlio, un fratello od un nipote, che dopo la loro morte avrebbe continuato a goderlo "in vita"; coloro che invece lo detenevano con carica temporanea, per un prezzo pari a otto volte il reddito netto dell'ufficio potevano appropriarsene "in vita"; infine se qualcuno non voleva approfittare di tale occasione, "cadaun Cittadin Nostro Venetian" poteva acquistare i medesimi diritti (116).

Purtroppo non sembrano disponibili documenti che testimonino della riuscita di tale operazione, certo è che la pratica di acquisire un ufficio per grazia, cercando quindi di intestarlo a qualche membro della propria famiglia, magari giovane, ne sortì incoraggiata; nel 1532 il consiglio dei dieci riconosceva che "la maggior parte di quelli che essercitano al presente li offitii nostri hanno quelli in vita", ed un registro di elezioni in quarantia che riporta informazioni per l'arco di buona parte del XVI secolo per un certo numero di uffici, dimostra come frequentemente un ufficio rimaneva solo per un periodo a disposizione della quarantia, venendo quindi ben presto assegnato in grazia con una disposizione del maggior consiglio, dei dieci o di altro organo (117).

Si è già accennato come nei primi decenni del Cinquecento fosse cresciuta una nuova forma di remunerazione indiretta dei funzionari di cancelleria, che supplicarono con maggiore insistenza provvisioni di uffici ed ottennero numerose grazie di questo genere. In questa gara ad evadere il sistema centralizzato di distribuzione degli uffici, in effetti notai e segretari di cancelleria furono in prima fila, in virtù della continua frequentazione che avevano con i patrizi più influenti dei maggiori consigli di governo, che poteva garantire loro il buon esito di una supplica, l'elargizione di una grazia.

Il fenomeno degli uffici "di quarantia" assegnati per grazia ai funzionari di cancelleria, associato all'evasione frequente del divieto di cumulo degli uffici, comportava un'altra evidente distorsione del sistema, la necessità da parte del titolare dell'ufficio di porre un proprio sostituto ad esercitare la carica. Una legge del 1502 rileva "introdotta una mala et perniciosa abitudine": coloro che detengono uffici "costituiscono altri in luoco suo", vale a dire delegano un sostituto a svolgere le mansioni assegnate all'ufficio (118). Nel 1532 le conseguenze di tale pratica vengono esposte chiaramente: "quelli tali, che hanno avuto li offitii [...] per el deposito [cioè acquistandoli] et gratia, mettono in quelli sostituti, li quali sia per el poco denaro li vien dato per li principali di essi offitii, come etiam per che essercitano quelli per più che per una persona, et molti de loro forsi non essendo idonei, et etiam infami, commettono cose non conveniente [...] non havendo in ciò quel rispetto, che havevino li principali" (119).

La parte sanzionatoria di queste disposizioni mette in luce l'atteggiamento irresoluto che le autorità assunsero riguardo al problema dei sostituti, uno degli aspetti più caratteristici dei sistemi burocratici nel periodo di formazione dello stato moderno, che a Venezia si poneva solo per questa fascia di uffici e per quelli inferiori, non per le cariche patrizie o quelle di cancelleria per le quali era concretamente impossibile farsi sostituire. Se da un lato le leggi vietarono dunque tale pratica disponendo la perdita dell'ufficio per i titolari che non esercitassero in prima persona, dall'altro ordinarono che i titolari si costituissero "piezi", vale a dire mallevadori, dei propri sostituti per i quali si disponeva che almeno fosse provata dalla quarantia la "sufficienza", accettandone di fatto l'esistenza.

Nel momento in cui si accettava di derogare al rigido principio di assegnazione per quattro anni degli uffici e se ne distribuivano per grazia a persone chiaramente non in grado di esercitarli, come vedove, infanti o funzionari di cancelleria, si doveva di conseguenza accettare che i titolari di un ufficio in grazia delegassero un sostituto. E poiché l'esigenza di distribuire un certo numero di cariche in forma prebendale era nel suo complesso dovuta alla necessità di remunerare un consistente gruppo di persone e di famiglie civili che servivano lo stato con fedeltà e dedizione pur sapendo di non poter aspirare alla nobiltà e ad una partecipazione al governo oligarchico, la scelta di tollerare il fenomeno dei sostituti, e più in generale quella di mantenere elastico il rigido sistema di assegnazione degli uffici di quarantia tracciato a partire dal 1444, dimostra come lo stato aristocratico mirò a mantenere il più possibile alto il livello di consenso popolare verso le istituzioni repubblicane.

I cognomi che, dalla metà del Quattrocento, ricorrono nelle elezioni della quarantia ad uffici di questo genere, sono quelli delle principali casate cittadinesche che si ritrovano anche nelle assunzioni alla cancelleria ducale. È frequente assistere a fenomeni di progressione socio-professionale verticale con un membro di una famiglia che si inserisce negli uffici della quarantia, più familiari lo seguono in uffici del medesimo livello e un figlio od un nipote che, dopo una o più generazioni, riesce a superare l'esame di ammissione alla cancelleria. Come si è visto, sia per l'assunzione nel comparto cancelleresco che per la nomina ad ufficio intermedio la professione del padre non era un elemento formalmente determinante ma il fatto che la propria casata fosse inserita nel settore pubblico e potesse vantare una tradizione di servizio alla Repubblica poteva diventare un fattore importante. Anche la funzione di sostituto, specialmente per soggetti con alle spalle una famiglia non inserita nell'impiego pubblico, poteva fungere da punto di partenza per una carriera nell'amministrazione; in questo senso la pratica della sostituzione nelle cariche si rivelò un fattore di mobilità sociale e di ricambio del ceto degli ufficiali.

Dove invece avveniva più frequentemente che un individuo trasmettesse la carica ad un suo parente od affine, era nella fascia di uffici inferiore rispetto a quelli distribuiti dalla quarantia, vale a dire in quegli incarichi che i commentatori sette-ottocenteschi hanno descritto come di "basso ministero": i posti di fante, una sorta di inserviente dell'ufficio con funzioni anche di guardia, incaricato ad esempio nelle dogane di effettuare ispezioni o nei tribunali di garantire l'ordine pubblico, di comandador, messo incaricato di intimare gli atti giudiziari e di pubblicare gli editti, di sagomador, cioè stazzatore, mesurador de biave, impiegato nei vari "fondaci" delle farine, ed altri simili.

La normativa su questi uffici è, per il periodo qui considerato, ancor più frammentaria rispetto alle cariche di livello superiore. Le mansioni loro assegnate variavano decisamente da un ufficio all'altro, ed anzi dipendevano dalla discrezionalità dei magistrati patrizi e degli ufficiali cittadineschi cui essi erano sottoposti gerarchicamente: tra le altre cose a comandadori e fanti degli uffici spettava di "tener netto il Palazzo dell'immondizia" (120).

Una delle ragioni per cui più frequentemente questi ufficiali si ritrovano citati in disposizioni di legge è in merito agli abusi che commettevano nell'esercizio della propria funzione. Emblematico è il caso dell'ufficio "alle pompe", la magistratura incaricata di controllare l'evasione delle leggi suntuarie, alle cui dipendenze servivano negli anni Sessanta del Cinquecento dodici fanti e un capitano, incaricati di effettuare ronde di controllo per la città alla ricerca di episodi di lusso smodato. Nel 1533 il senato disponeva sei mesi di prigione e sei ore di berlina per quei fanti che si fosser fatti corrompere con "manzarie [cioè vivande] et robbe over denarj", rilevando che usavano andar per le case ove si svolgevano banchetti per verificare se venissero infrante le leggi a riguardo e si fermavano invece a consumare il pasto nelle medesime case, portandosi inoltre via delle vivande, colludevano con i querelati e, ricevendo donativi, si astenevano dalle denunce. Le estorsioni degli stessi dovevano in effetti avere carattere endemico se, due anni dopo, si deliberavano pene contro coloro che li aggredivano per ragioni d'ufficio (121).

La posizione che questi ufficiali rivestivano nel disegno complessivo dell'amministrazione era quella più prossima al multiforme mondo popolare veneziano, il 90% circa di una città che contava centomila abitanti e per la sua funzione amministrativa ed economica accoglieva colonie di Turchi, Tedeschi, Ebrei, Greci, decine di migliaia di immigrati e naturalizzati, una realtà continuamente in movimento e dalle gerarchie sociali molto più labili rispetto alle coeve società terriere. Anche per questo motivo il reclutamento di questa fascia di ufficiali non venne limitato alla sola categoria degli originari ma a chiunque fosse nato in Venezia, o naturalizzato con il titolo de intus et extra.

Con gli uffici di "basso ministero" si chiude il disegno complessivo della burocrazia civile veneziana tra XV e XVI secolo, un apparato che si è cercato di indagare sia come struttura istituzionale preposta al concretizzarsi pratico della sovranità statale, sia come settore di impiego professionale per una porzione consistente e differenziata della società veneziana. Caratteri ampiamente diversi ebbe invece la burocrazia non veneziana, quel vasto e sfuggente mondo di uffici anche minori ed ufficiali locali su cui, di fatto, si resse il governo marciano in Terraferma ed in Levante; un campo di indagine che penetra a fondo il complesso nodo del rapporto tra il dominio marciano ed i ceti sudditi, un settore di ricerca storica in gran parte inesplorato.

1. Franco Gaeta, Alcune considerazioni sul mito di Venezia, "Bibliothèque d'Humanisme et Renaissance", 23, 1961, p. 70 (pp. 58-75) Stanley Chojnacki, In Search of the Venetian Patriciate: Families and Factions in the Fourteenth Century, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 47-90.

2. Stanley Chojnacki, In Search of the Ventian Patriciate: Families and Factions in the Fourteenth Century, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 47-90.

3. Cf. Tab. 1.

4. Questa suddivisione risale almeno al 1282. Cf. Giovanni I. Cassandro, Concetto, caratteri e struttura dello stato veneziano, "Rivista di Storia del Diritto Italiano", 36, 1963, p. 39 (pp. 23-49). Cf. anche Giorgio Zordan, L'ordinamento giuridico veneziano, Padova 1980, pp. 102 ss.

5. Andrea Da Mosto, L'Archivio di Stato di Venezia, I, Roma 1937, pp. 178 e passim.

6. Mary Neff, Chancellery Secretaries in Venetian Politics and Society, 1480-1533, Ph.D. Diss., University of California, Los Angeles, 1985, p. 38.

7. A.S.V., Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 22, c. 33, 24 giugno 1419.

8. Giorgio Cracco, Relinquere laicis que laicorum sunt. Un intervento di Eugenio IV contro i preti-notai di Venezia, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, pp. 179-189; A.S.V., Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 23, c. 153, 19 gennaio 1475. Cf. Giovanni I. Cassandro, La curia di Petizion, "Archivio Veneto", ser. V, 19, 1936, p. 114 (pp. 72-144); 20, 1937, pp. 1-210.

9. A.S.V., Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 26, c. 156, 10 maggio 1444.

10. Giuseppe Trebbi, La cancelleria veneta nei secoli XVI e XVII, "Annali della Fondazione Luigi Einaudi", 14, 1980, p. 69 (pp. 65-125).

11. Vettor Sandi, Principi di storia civile della Repubblica di Venezia dalla sua fondazione sino all'anno di N.S. 1700, III, Venezia 1755, pp. 345-346.

12. Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id. - Michael Knapton, Storia della Repubblica di Venezia. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986, p. 144 (pp. 3-271).

13. Alberto Tenenti, Nuove dimensioni della presenza veneziana nel Mediterraneo, in Venezia centro di mediazione tra Oriente ed Occidente (secoli XV-XVI), a cura di Hans-G. Beck - Manoussos Manoussacas - Agostino Pertusi, I, Firenze 1977, pp. 5-6 (pp. 3-10).

14. Marin Sanudo Il Giovane, De origine, situ et magistratibus urbis venetae ovvero La città di Venezia (1493-1500), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Milano 1980, p. 146. Sul significato dell'iniziativa politica dei giovani patrizi cf. Stanley Chojnacki, Measuring Adulthood: Adolescence and Gender in Renaissance Venice, "Journal of Family History", 17, nr. 4, 1992, pp. 371-395.

15. Robert Finlay, La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982, pp. 175, 195; Andrea Da Mosto, I dogi di Venezia nella vita pubblica e privata, Milano 1960, pp. 185, 190, 227.

16. Il riferimento è ai funzionari britannici: cf. Wolfram Fischer - Peter Lundgreen, Il reclutamento e l'addestramento del personale tecnico e amministrativo, in La formazione degli stati nazionali nell'Europa occidentale, a cura di Charles Tilly, Bologna 1984, pp. 300 ss. (pp. 297-395); Gerald E. Aylmer, The King's Servants. The Civil Service of Charles I, 1625-1642, London-Boston 1974, pp. 1-68, 422 ss.

17. È un'espressione di Domenico Malipiero divenuta famosa. Cf. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p. 121.

18. Ugo Tucci, Dans le sillage de Marco Polo, in Venise au temps des galères, a cura di Jacques Goimard, Paris 1968, p. 105 (pp. 89-111).

19. R. Finlay, La vita politica; Donald E. Queller, Il patriziato veneziano. La realtà contro il mito, Roma 1987.

20. D.E. Queller, Il patriziato, pp. 9-14.

21. R. Finlay, La vita politica, pp. 279-280.

22. Gaetano Cozzi, Una vicenda della Venezia barocca: Marco Trevisan e la sua "eroica amicizia", "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 2, 1960, p. 69 (pp. 61-154).

23. Philip M. Giraldi, The Zen Family (1500-1550): Patrician Office Holding in Renaissance Venice, Ph.D. Diss., London University, 1975, p. 109.

24. Giuseppe Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo la guerra di Cambrai. Fiscalità e amministrazione (1515-1530), Milano 1986, pp. 213 ss.

25. M. Sanudo, De origine, pp. 85 ss.

26. Pietro Del Negro, recensione a Donald E. Queller, The Venetian Patriciate. Reality versus Myth, "Società e Storia", 45, 1989, p. 766 (pp. 763-766).

27. Giuseppe Maranini, La Costituzione di Venezia, II, Dopo la serrata del Maggior Consiglio, Firenze 1931, pp. 147-148; Ceferino Caro Lopez, Di alcune magistrature minori veneziane, "Studi Veneziani", n. ser., 1, 1977, pp. 37-67.

28. P.M. Giraldi, The Zen Family, pp. 223 ss.

29. Sulla presenza veneziana a Ravenna cf. Marino Berengo, Il governo veneziano a Ravenna, in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, pp. 31-67.

30. P.M. Giraldi, The Zen Family, p. 232.

31. A. Da Mosto, I dogi, pp. 235 ss.; James C. Davis, Shipping and Spying in the Early Career of a Venetian Doge, 1496-1502, "Studi Veneziani", 16, 1974, pp. 97-108.

32. Claudio Finii, Introduzione a Domenico Morosini, De bene instituta re publica, a cura di Claudio Finzi, Milano 1969, pp. 2 ss.; Gaetano Cozzi, Domenico Morosini e il "De bene instituta re publica", "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 408-409 (pp. 405-458).

33. G. Del Torre, Venezia e la Terraferma, pp. 227 ss.

34. P.M. Giraldi, The Zen Family, pp. 78 ss.

35. R. Finlay, La vita politica, pp. 165-184.

36. Stanley Chojnacki, Political Adulthood in Fifteenth-Century Venice, "The American Historical Review", 91, 1986, pp. 791-810.

37. R. Finlay, La vita politica, p. 332.

38. G. Maranini, La Costituzione di Venezia, p. 98, sottolinea come convenisse "tenere con virile dignità il [...] seggio, mostrandosi degni dei posti di comando" e "lasciar memoria d'uomo coraggioso, onesto, obbediente alle leggi e zelante della ragion di stato aristocratica".

39. Luigi Moretti, Bembo, Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, VIII, Roma 1966, pp. 117-119.

40. Angelo Ventura, Boldù, Pietro, ibid., XI, Roma 1969, pp. 272-273.

41. R. Finlay, La vita politica, pp. 318-353. Cf. anche la recensione di Michael Knapton su "Società e Storia", 21, 1983, pp. 742-744.

42. Vittorio Lazzarini, Obbligo di assumere pubblici uffici nelle antiche leggi veneziane, "Archivio Veneto", ser. V, 19, 1936, pp. 184-198.

43. D.E. Queller, Il patriziato, pp. 203-249.

44. P.M. Giraldi, The Zen Family, p. 54.

45. A.S.V., Archivio Proprio Balbi, f. 14, Reggimenti Terra Ferma e Dogado, cc. n.n.

46. Bernardo Canal, Il collegio, l'ufficio e l'archivio dei Dieci Savi alle Decime in Rialto, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 16, 1908, pp. 115-150, 279-310; Giulio Bistort, Il Magistrato alle Pompe nella Repubblica di Venezia. Studio storico. Con premessa di Giulio Zorzanello e di Ugo Stefanutti, Venezia 1912 (riprod. anast. Bologna 1969), pp. 29-33; Ugo Mozzi, L'antico veneto magistrato dei Beni Inculti, "La Terra", 1, fascc. 7-9, 1921; Maria Borgherini - Scarabellin, Il Magistrato dei Cinque Savi alla Mercanzia dalla istituzione alla caduta della repubblica, Venezia 1925, pp. 24-28; Marcello Forsellini, L'organizzazione economica dell'Arsenale di Venezia nella prima metà del Seicento, "Archivio Veneto", ser. V, 7, 1930, pp. 67-68; Giovanni I. Cassandro, La curia di Petizion, 19, pp. 112-144; Jean-Claude Hocquet, Le sel et la fortune de Venise, II, Voiliers et commerce en Mediterranée 1200-1650, Lille 1979 (trad. it. Il sale e la fortuna di Venezia, Roma 1990), pp. 190-199; Renzo Derosas, Moralità e giustizia a Venezia nel '500-'600. Gli Esecutori contro la bestemmia, in Stato, società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), a cura di Gaetano Cozzi, Roma 1980, pp. 431-528; Silvia Gasparini, I giuristi veneziani e il loro ruolo tra istituzioni e potere nell'età del diritto comune, in Diritto comune, diritto commerciale, diritto veneziano, a cura di Karin Nehlsen von Stryk - Dieter Nörr, Venezia 1985, pp. 67-105.

47. D.E. Queller, Il patriziato, p. 252; Enrico Besta, Il senato veneziano (origine, costituzione, attribuzioni e riti), "Miscellanea di Storia Veneta, edita per cura della R. Deputazione Veneta di Storia Patria", ser. II, t. V, Venezia 1899, p. 185 (pp. 1-290).

48. G.I. Cassandro, La curia di Petizion, 19, pp. 101 Ss.

49. A.S.V., Segretario alle Voci, reg. 6, sub voce.

50. M. Sanudo, De origine, p. 146; Maria Teresa Todesco, Andamento demografico della nobiltà veneziana allo specchio delle votazioni del Maggior Consiglio (1297-1797), "Ateneo Veneto", 176, 1989, p. 120 (pp. 119-164).

51. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 297-298.

52. A. Da Mosto, I dogi di Venezia, p. 171.

53. M. Sanudo, De origine, pp. 93-100.

54. C. Caro Lopez, Di alcune magistrature, p. 44.

55. M. Sanudo, De origine, p. 98.

56. G. Del Torre, Venezia e la Terraferma, p. 225 n. 20; A.S.V., Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 27, cc. 166v-168v. Informazioni sui salari delle cariche di Terraferma assieme a considerazioni più generali sul sistema degli uffici nei domini da terra in John E. Law, Lo Stato veneziano e le castellanie di Verona, in Dentro lo "Stado Italico". Venezia e la Terraferma fra Quattro e Seicento, a cura di Giorgio Cracco-Michael Knapton, Trento 1984, pp. 117-138.

57. A.S.V., Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 25, cc. 24v-25v, 14 aprile 1504. Cf. anche Freddy Thiriet, A propos de la Seigneurie des Venier sur Cerigo, "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 199-210.

58. A.S.V., Archivio Proprio Balbi, f. 13, Reggimenti Levante Dalmazia ed Istria, 8 aprile 1538, cc. n.n.

59. Ibid., reg. 22, c. 173, 15 aprile 1449. In seguito sorsero liti tra la comunità ed i rettori per il pagamento del dovuto.

60. Bilanci generali della Repubblica di Venezia, a cura di Fabio Besta, I/1, Venezia 1912, pp. CLXVII ss., 104-105, 143-145; Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au moyen dge. Le développement et l'exploitation du domaine colonial vénitien (XIe-XVe siècles), Paris 1959, pp. 195-196; Michael Knapton, La condanna penale di Alvise Querini ex rettore di Rovereto (1477): solo un'altra smentita del mito di Venezia?, "Atti dell'Accademia Roveretana degli Agiati", 238, 1988, p. 311 (pp. 303-332).

61. A.S.V., Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 24, cc. 101-102v, 14 giugno 1489.

62. M. Knapton, La condanna, p. 313.

63. C. Caro Lopez, Di alcune magistrature, p. 53; Reinhold C. Mueller, Monete coniate e monete di conto nel Trevigiano. Medioevo e epoca moderna, in Due villaggi della collina trevigiana. Vidor e Colbertaldo, a cura di Danilo Gasparini, II, Vidor 1989, pp. 333-335 (pp. 323-335).

64. Pierre Sardella, Nouvelles et spéculations à Venise au début du XVIe siècle, Paris 1948, pp. 52-53.

65. Peter Burke, Venice and Amsterdam. A Study of Seventeenth-Century Elites, London 1974, p. 51.

66. Ugo Tucci, Carriere popolane e dinastie di mestiere a Venezia, in Gerarchie economiche e gerarchie sociali secoli XII-XVIII. Atti della "Dodicesima Settimana di Studi" dell'Istituto Internazionale di storia economica "F. Datini", Prato 18-23 Aprile 1980, Prato 1980, p. 817 (pp. 817-851).

67. Frederic C. Lane, I mercanti di Venezia, Torino 1982, pp. 13 ss. Cf. anche Piergiovanni Mometto, L'azienda agricola Barbarigo a Carpi, Venezia 1992.

68. Volker Hunecke, Matrimonio e demografia del patriziato veneziano (sett. XVII-XVIII), "Studi Veneziani", 21, 1991, pp. 278-279 (pp. 269-319).

69. Padova, Biblioteca Civica, C.M. 279, c. 224v, segnalato da Angelo Ventura, Considerazioni sull'agricoltura veneta e sulla accumulazione originaria del capitale nei secoli XVI e XVII, in AA.VV., Agricoltura e sviluppo del capitalismo, Roma 1970, p. 681 (pp. 675-722); M. Sanudo, De origine, pp. 71-82. Secondo R. Finlay, La vita politica, p. 87, il Sanudo descriverebbe 831 posti distribuiti dal maggior consiglio. Secondo S. Chojnacki, Political Adulthood, p. 796 n. 18, questa cifra starebbe invece ad indicare il numero di uomini in servizio, non gli uffici.

70. Per le fonti ed i criteri di compilazione cf.l'Appendice.

71. James C. Davis, The Decline of the Venetian Nobility as a Ruling Class, Baltimore 1929, pp. 55, 133-134; M.T. Todesco, Andamento demografico, p. 120.

72. F.C. Lane, I mercanti, p. 11; Gino Luzzatto, Les activités économiques du patriciat venitien (Xe-XIVe siècles), "Annales d'histoire économique et sociale", 9, 1937, pp. 32-34, 35 (pp. 25-37).

73. S. Chojnacki, Political Adulthood, p. 802; M.T. Todesco, Andamento demografico, pp. 131 ss.

74. A.S.V., Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 24, cc. 134v-135v, 16 marzo 1494.

75. Gaetano Cozzi, Autorità e giustizia a Venezia nel Rinascimento, in Id., Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 109 ss. (pp. 81-145); R. Finlay, La vita politica, pp. 211 ss.; Innocenzo Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974, pp. 419 ss.

76. Edward Muir, Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984, p. 221. Cf. anche Matteo Casini, I gesti del principe. Cerimoniali e rituali del potere politico a Venezia e Firenze nel Cinquecento, Tesi di dottorato di ricerca, Università di Venezia, 1992, pp. 142-198.

77. A.S.V., Consiglio dei Dieci Misti, reg. 15, cc. 168v-169, 24 gennaio 1459. Sulla storia della cancelleria ducale e della cittadinanza originaria nel tardo medioevo mi corre, comunque, l'obbligo di rinviare ai lavori di Lev G. Klimanov che non ho potuto però consultare.

78. Antonio Carile, Caresini, Rafaino, in Dizionario Biografico degli Italiani, XX, Roma 1977, pp. 80-83; Id., Caroldo, Gian Giacomo, ibid., pp. 514-517; Mario Poppi, Ricerche sulla vita e cultura del notaio e cronista veneziano Lorenzo de Monacis, cancelliere cretese (ca. 1351-1428), "Studi Veneziani", 9, 1967, pp. 153-186.

79. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 78-79.

80. Ibid., p. 69.

81. Per M. Neff, Chancellery Secretaries, p. 15, ancora nel primo Cinquecento la cittadinanza originaria non presupponeva necessariamente la nascita in città da tre generazioni, mentre per Andrea Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna. I cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Venezia 1993, pp. 23-60, 63, tale carattere è rintracciabile anche nella nozione trecentesca di cittadinanza originaria.

82. Arnaldo Segarizzi, Cenni sulle scuole pubbliche a Venezia nel secolo XV e sul primo maestro d'esse, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 75, 1915-1916, pt. II, pp. 640-641 (pp. 637-667).

83. M. Neff, Chancellery Secretaries, p. 42.

84. Ead., A Citizen in the Service of the Patrician State: the Career of Zaccaria de' Freschi, "Studi Veneziani", n. ser., 5, 1981, pp. 43-44 (pp. 33-61)

85. G. Trebbi, La cancelleria veneta, p. 87.

86. M. Neff, Chancellery Secretaries, p. 38.

87. G. Trebbi, La cancelleria veneta, pp. 82-83.

88. A.S.V., Consiglio dei Dieci Misti, reg. 35, cc. 113-116, 14 luglio 1512.

89. G. Trebbi, La cancelleria veneta, p. 81.

90. M. Neff, Chancellery Secretaries, pp. 62-63.

91. Saint-Didier (A.T. De Limojon), La Ville et la république de Venise, Paris 1680, p. 148, cit. da Armand Baschet, Les archives de Venise. Histoire de la chancellerie secrète, Paris 1870, p. 135.

92. Matteo Casini, Realtà e simboli del Cancellier Grande veneziano in età moderna (Secc. XVI-XVII), "Studi Veneziani", n. ser., 22, 1991, pp. 221 ss. (pp. 195-251).

93. Ibid., p. 226; Felix Gilbert, The Last Will of a Venetian Grand Chancellor, in Philosophy and Humanism: Renaissance Essays in Honor of Paul Oskar Kristeller, a cura di Edward P. Mahoney, Leiden 1976, pp. 506-507 (pp. 502-517).

94. M. Neff, Chancellery Secretaries, pp. 31-32.

95. A. Zannini, Burocrazia e burocrati, pp. 151-163.

96. M. Neff, Chancellery Secretaries, p. 32.

97. A.S.V., Consiglio dei Dieci Misti, cc. 83-84, 8 febbraio 1480.

98. Traité du gouvernement de la cité et seigneurie de Venise, in Paul-Michel Perret, Histoire des relations de la France avec Venise du XIIe siècle à l'avènement de Charles VIII, II, Paris 1896, p. 279 (pp. 239-304)

99. M. Neff, Chancellery Secretaries, pp. 171 ss.

100. L'osservazione sembra relativa al Cinquecento: F.C. Lane, Storia di Venezia, pp. 385-386.

101. M. Neff, Chancellery Secretaries, p. 234.

102. Ibid., p. 81.

103. Ibid, p. 15; A. Zannini, Burocrazia e burocrati, p. 41.

104. Gli unici dati disponibili sono relativi al Seicento: un registro databile al 1613 ne elenca solo 241, ma alla prima ricognizione affidabile, avvenuta nel 1632, se ne individuarono invece 477; cf. ibid., p. 186.

105. B. Canal, Il collegio, p. 297.

106. Frederic C. Lane-Reinhold C. Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, I, Coins and Moneys of Account, Baltimore - London 1985, pp. 213-216.

107. R. Derosas, Moralità e giustizia, p. 479; S. Gasparini, I giuristi veneziani, pp. 67-105.

108. A. Zannini, Burocrazia e burocrati, p. 184 n. 2.

109. A.S.V., Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 22, c. 156.

110. A. Zannini, Burocrazia e burocrati, pp. 191-192.

111. Ibid., p. 191 n. 15.

112. Sull'avogaria di comun cf. Alfredo Viggiano, Fra governanti e governati. Legittimità del potere ed esercizio dell'autorità sovrana nella Terraferma veneta della prima età moderna, Venezia 1993.

113. A. Zannini, Burocrazia e burocrati, pp. 184-185, 190-191. I governatori delle entrate, una delle massime magistrature finanziarie della Repubblica, eleggevano molti dei propri ministri: cf. A.S.V., Governatori delle Entrate, b. 424, "Registro di elezioni", reg. 1, che riporta numerose elezioni fra 1485 e 1511.

114. A.S.V., Consiglio dei Dieci Misti, reg. 26, c. 144r-v.

115. Roland Mousnier, Le trafic des offices à Venise, in Id., La piume, la faucille et le marteau. Institutions et Société en France du Moyen Âge à la Revolution, Paris 1970, pp. 387-401.

116. A.S.V., Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 25, c. 65r-v; A. Zannini, Burocrazia e burocrati, pp. 41, 230.

117. A.S.V., Consiglio dei Dieci Comuni, reg. 7, cc. 154v-155, 29 gennaio 1532; ivi, Quarantia Criminal, b. 255 ter.

118. Ivi, Maggior Consiglio deliberazioni, reg. 24, cc. 195v-196, 23 gennaio 1501.

119. Ivi, Consiglio dei Dieci Comuni, reg. 7, cc. 154v-155, 29 gennaio 1532.

120. Ivi, Compilazione Leggi, ser. II, b. 21, fasc. 156, c. 3v, legge maggior consiglio 13 maggio 1523.

121. G. Bistort, Il Magistrato alle Pompe, pp. 31 ss.

APPENDICE

CALCOLO DEI PATRIZI IN SERVIZIO, 1400-1540

Sono Stati fissati quattro punti di osservazione. Il primo ed il quarto, 1400 e 1540, sulla base di considerazioni di ordine storiografico relative all'espansione del dominio territoriale della Repubblica. Il secondo, 1437, riferendosi alla probabile data di compilazione della Cronaca Veneta in Padova, Biblioteca Civica, C.M. 279, cc. 224 ss., che è stata confrontata con i registri di elezioni A.S.V., Segretario alle Voci Misti-Universi, reg. 4, 1438-1455; reg. 5, 1437-1490. Il terzo punto d'osservazione, 1493, è stato infine riferito alla descrizione sanudiana degli uffici della Repubblica redatta tra il 1493 e il 1497, M. Sanudo, De origine, pp. 71-82, similmente confrontata con i registri di elezioni della serie A.S.V., Segretario alle Voci Misti - Universi. Oltre ai registri del fondo A.S.V., Segretario alle Voci, la ricerca documentaria si è basata su ivi, Secreta Commissioni Formulari; Archivio Proprio Balbi, f. 13, "Reggimenti Levante Dalmazia ed Istria"; f. 14, "Reggimenti Terra Ferma e Dogado"; Capi del consiglio dei Dieci, Giuramenti ai rettori; Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2034 (= 8834), cc. 81v-92, oltre che su una vasta indagine bibliografica. I dati presentati nella Tab. 1 non comprendono le cariche diplomatiche, di ambasciatore od oratore, a causa di difficoltà nel reperimento di informazioni continuative. Per alcuni uffici si è poi dovuto procedere a valutazioni approssimative, quindi i singoli totali annui presentano un certo margine di indeterminatezza: è possibile che il primo dato, relativo al 1400, sia inferiore dell' 8-10% alla realtà (per i punti di osservazione successivi tale margine diminuisce). Gli uffici elencati di seguito rappresentano comunque i casi certi o con un ampio margine di sicurezza.

ANNO 1400

UFFICI DI CITTÀ

10 avvocati curiarum o piccoli, 6 avvocati per omnes curias, 3 auditori vecchi, 3 avogadori di comun, 2 massari alla moneda d'arzento, 2 massari all'oro, 2 camerlenghi di comun, 6 capi di sestier, 10 consiglieri del consiglio dei dieci, 40 consiglieri della quarantia criminal, 40 consiglieri della quarantia civil vecchia, 6 consiglieri ducali, 3 consoli dei mercanti, 1 doge, 4 officiali alla beccaria, 3 officiali alla camera d'imprestidi, 3 officiali al canevo, 3 officiali al cattaver, 4 officiali al datio del vin, 3 officiali alla doana da mar, 3 officiali all'estraordinario, 2 officiali al frumento, 3 officiali alla giustitia nuova, 3 officiali alla giustitia vecchia, 4 officiali alla messetteria, 2 officiali ai panni d'oro, 3 officiali alle rason nuove, 3 officiali alle rason vecchie, 4 officiali alla tavola d'entrata, 3 officiali alla tavola d'uscita, 2 officiali alla ternaria nuova, 4 officiali alla ternaria vecchia, 3 pagadori all'armamento, 3 patroni all'Arsenale, 6 procuratori di San Marco, 3 provveditori alle biave, 4 provveditori al sal, 3 provveditori di comun, 5 savi agli ordini, 5 savi alla pace, 6 savi del consiglio, 5 savi di Terraferma, 60 senatori, 20 senatori di zonta, 6 signori di notte al criminal, 4 sopraconsoli dei mercanti, 3 visdomini del fontego dei Tedeschi, 3 zudesi dei piovegi, 18 zudesi nelle 6 corti di Palazzo.

Totale = 347 uffici.

UFFICI DI FUORI

Stato da mar

Dogado. Podestà a Caorle, podestà a Cavarzere, podestà a Chioggia, 2 salineri a Chioggia, podestà a Grado, podestà a Le Bebbe, podestà a Loredo, podestà a Malamocco, podestà a Murano, podestà a Torcello.

Istria. Podestà a Capodistria, camerlengo a Capodistria, castellano a Castel Lion, podestà a Cittanova, podestà a Dignano, podestà a Grisignana, podestà a Isola, podestà a Montona, podestà a Muggia, podestà a Parenzo, podestà a Pirano, podestà a Pola, podestà a Raspo, podestà a Rovigno, podestà a San Lorenzo, podestà a Umago, podestà a Valle.

Albania. Provveditore ad Alessio, bailo e capitano a Durazzo, conte e capitano a Scutari, castellano e camerlengo a Scutari.

Grecia. Provveditore (?) ad Argos, castellano e provveditore a Corone, capitano e provveditore a Corone, capitano del Borgo a Corone, castellano e provveditore a Modone, capitano e provveditore a Modone, capitano del Borgo a Modone, capitano e provveditore a Napoli, camerlengo a Napoli, bailo e capitano a Negroponte, 2 consiglieri a Negroponte, capitano del Borgo a Negroponte.

Isole Ionie. Bailo e capitano a Corfù, castellano a Corfù, capitano del Borgo a Corfù, 2 camerlenghi a Corfù.

Altre isole. Rettore a Tino e Micono.

Candia. Duca, capitano, 2 consiglieri, 3 camerlenghi, 2 zudesi, 2 officiali di notte, rettore a Cania, rettore a Rettimo, rettore a Setia.

Consoli, baili e capitani di galee di stato. Capitani sulle linee: Alessandria, Creta, Fiandre, Peloponneso, Siria e Tana.

Totale = 71 uffici.

Stato da terra

Treviso. Podestà ad Asolo, podestà a Castelfranco, podestà a Conegliano, podestà e capitano a Mestre, podestà a Motta, podestà a Noale, podestà ad Oderzo, podestà a Portobuffolè, podestà a Serravalle, podestà e capitano a Treviso, 2 camerlenghi a Treviso.

Rovigo e Polesine. Podestà a Badia, podestà a Lendinara, podestà e capitano a Rovigo.

Ferrara e Romagna. Visdomino a Ferrara.

Totale uffici = 16

ANNO 1437

UFFICI DI CITTÀ

2 appontadori, 20 avvocati curiarum o piccoli, 6 avvocati per omnes curias, 3 auditori vecchi, 3 auditori nuovi, 3 avogadori di comun, 2 massari alla moneda d'arzento, 2 massari all'oro, 2 camerlenghi di comun, 6 capi di sestier, 1 o consiglieri del consiglio dei dieci, 40 consiglieri della quarantia criminal, 40 consiglieri della quarantia civil vecchia, 6 consiglieri ducali, 3 consiglieri inferiori, 4 consoli dei mercanti, 1 doge, 3 governatori alle entrate, 4 officiali alla beccaria, 3 officiali alla camera d'imprestidi, 3 officiali al canevo, 3 officiali al cattaver, 3 officiali alle cazude, 4 officiali al datio del vin, 3 officiali alla doana da mar, 3 officiali all'estraordinario, 2 officiali alla foia d'oro, 2 officiali al frumento, 3 officiali alla giustitia nuova, 3 officiali alla giustitia vecchia, 4 officiali alla messetteria, 2 officiali ai panni d'oro, 3 officiali alle rason nuove, 3 officiali alle rason vecchie, 4 officiali alla tavola d'entrata, 3 officiali alla tavola d'uscita, 2 officiali alla ternaria nuova, 4 officiali alla ternaria vecchia, 3 officiali su i levanti, 3 pagadori all'armamento, 3 patroni all'Arsenale, 3 pesadori all'arzento, 6 procuratori di San Marco, 3 provveditori alle biave, 4 provveditori al sal, 3 provveditori di comun, 3 provveditori sopra camere, 5 savi agli ordini, 5 savi alla pace, 6 savi del consiglio, 5 savi di Terraferma, 6o senatori, 40 senatori di zonta, 6 signori di notte al criminal, 4 sopraconsoli dei mercanti, 3 visdomini del fontego dei Tedeschi, 3 zudesi dei piovegi, 18 zudesi nelle 6 corti di Palazzo, 3 zudesi per le corte.

Totale uffici = 406.

UFFICI DI FUORI

Stato da mar

Dogado. Podestà a Caorle, podestà a Cavarzere, podestà a Chioggia, 2 salineri a Chioggia, podestà a Grado, podestà a Le Bebbe, podestà a Loredo, podestà a Malamocco, podestà a Marano, podestà a Murano, podestà a Torcello.

IIstria. Podestà ad Albona-Fiannona, podestà a Capodistria, camerlengo a Capodistria, castellano a Castel Lion, podestà a Cittanova, podestà a Dignano, podestà a Grisignana, podestà a Isola, podestà a Montona, podestà a Muggia, podestà a Parenzo, podestà a Pinguento, podestà a Pirano, podestà a Pola, podestà a Raspo, podestà a Rovigno, podestà a San Lorenzo, podestà a Umago, podestà a Valle.

Dalmatia. Podestà ad Arbe, conte a Brazza, podestà a Budua, conte a Cattaro, conte a Cherso e Ossaro, conte a Lesina, conte a Nona, conte a Pago, camerlengo a Pago, conte e capitano a Sebenico, camerlengo a Sebenico, castellano a Sebenico, conte a Spalato, conte a Traù, conte a Zara, capitano a Zara, camerlengo a Zara, 2 castellani del Castel vecchio a Zara.

Albania. Provveditore ad Alessio, conte e capitano a Dulcigno, bailo e capitano a Durazzo, conte e capitano a Scutari, castellano e camerlengo a Scutari.

Grecia. Provveditore (?) ad Argos, castellano e provveditore a Corone, capitano e provveditore a Corone, capitano del Borgo a Corone, rettore e provveditore a Lepanto, castellano e provveditore a Modone, capitano e provveditore a Modone, capitano del Borgo a Modone, capitano e provveditore a Napoli, camerlengo a Napoli, bailo e capitano a Negroponte, 2 consiglieri a Negroponte, capitano del Borgo a Negroponte.

Isole Ionie. Bailo e capitano a Corfù, castellano a Corfù, capitano del Borgo a Corfù, 2 camerlenghi a Corfù.

Altre isole. Castellano a Cerigo, rettore a Legena, rettore a Tino e Micono.

Candia. Duca, capitano, 2 consiglieri, 3 camerlenghi, 2 zudesi, 2 officiali di notte, rettore a Cania, rettore a Rettimo, rettore a Setia.

Consoli, baili e capitani di galee di stato. Capitani delle galee di: Acque Morte, Alessandria, Barbaria, Beirut, Creta, Fiandre, Riviera della Marca, Romània, Trafego; capitano del Golfo; bailo di Cipro e Costantinopoli; consoli a: Alessandria, Damasco, Tana, Trebisonda, Tunisi e Tripoli.

Totale = 109 uffici78

Stato da terra

Treviso. Podestà ad Asolo, podestà a Castelfranco, podestà a Conegliano, podestà e capitano a Mestre, podestà a Motta, podestà a Noale, podestà ad Oderzo, podestà a Portobuffolè, podestà a Serravalle, podestà e capitano a Treviso, 2 camerlenghi a Treviso.

Belluno. Podestà e capitano a Belluno, podestà e capitano a Feltre.

Friuli. Podestà a Monfalcone, podestà a Portogruaro, podestà a Sacile, luogotenente a Udine.

Padova. Podestà a Camposampiero, podestà a Castelbaldo, podestà a Cittadella, podestà a Este, podestà a Monselice, podestà a Montagnana, podestà a Padova, capitano a Padova, 2 camerlenghi a Padova, podestà a Piove di Sacco.

Rovigo e Polesine. Podestà a Badia, podestà a Lendinara, podestà e capitano a Rovigo.

Ferrara e Romagna. Visdomino a Ferrara, podestà e capitano a Ravenna, 2 camerlenghi a Ravenna.

Vicenza. Podestà e capitano a Bassano, podestà a Cologna, castellano a Cologna, podestà a Lonigo, podestà a Marostica, podestà a Vicenza, capitano a Vicenza, 2 camerlenghi a Vicenza.

Verona. Capitano e provveditore a Legnago, podestà a Rovereto, podestà a Verona, capitano a Verona, 2 camerlenghi a Verona, castellano del Castel vecchio, castellano di Castel S. Pietro a Verona, capitano a Soave, castellano a Nogarole.

Brescia. Podestà a Brescia, capitano a Brescia, camerlengo a Brescia.

Bergamo. Podestà a Bergamo, capitano a Bergamo, camerlengo a Bergamo.

Totale uffici = 61

ANNO 1493

UFFICI DI CITTÀ

2 appontadori, 2 avvocati a Rialto, 20 avvocati curiarum o piccoli, 1 avvocato de' prisonieri, 16 avvocati per omnes curias, 3 auditori vecchi, 3 auditori nuovi, 3 avogadori di comun, 2 massari alla moneda d'arzento, 2 massari all'oro, 2 camerlenghi di comun, 6 capi di sestier, 10 consiglieri del consiglio dei dieci, 40 consiglieri della quarantia criminal, 40 consiglieri della quarantia civil vecchia, 40 consiglieri della quarantia civil nuova, 6 consiglieri ducali, 3 consiglieri inferiori, 4 consoli dei mercanti, i doge, 4 governatori alle entrate, 4 officiali alla beccaria, 3 officiali alla camera d'imprestidi, 3 officiali al canevo, 3 officiali al cattaver, 3 officiali alle cazude, 5 officiali al datio del vin, 3 officiali ai dieci offici, 3 officiali alla doana da mar, 3 officiali all'estraordinario, 2 officiali alla foia d'oro, 4 officiali al frumento, 3 officiali alla giustitia nuova, 3 officiali alla giustitia vecchia, 4 officiali alla messetteria, 2 officiali ai panni d'oro, 3 officiali alle rason nuove, 3 officiali alle rason vecchie, 4 officiali alla tavola d'entrata, 3 officiali alla tavola d'uscita, 2 officiali alla ternaria nuova, 4 officiali alla ternaria vecchia, 3 officiali su i levanti, 3 pagadori all'armamento, 3 patroni all'Arsenale, 3 pesadori all'arzento, 3 provveditori alle biave, 9 procuratori di San Marco, 3 provveditori agli offici e cose di Cipro, 3 provveditori alle pompe, 4 provveditori al sal, 3 provveditori di comun, 3 provveditori sopra camere, 10 savi alle decime, 5 savi agli ordini, 5 savi alla pace, 6 savi del consiglio, 5 savi di Terraferma, 3 savi in Rialto, 60 senatori, 60 senatori di zonta, 6 signori di notte al criminal, 3 sopra gli atti del sopragastaldo, 4 sopraconsoli dei mercanti, 3 sopragastaldi, 3 visdomini del fontego dei Tedeschi, 3 zudesi dei piovegi, 18 zudesi nelle 6 corti di Palazzo, 3 zudesi per le corte.

Totale uffici = 514.

UFFICI DI FUORI

Stato da mar

Dogado. Podestà a Caorle, podestà a Cavarzere, podestà a Chioggia, 2 salineri a Chioggia, podestà a Grado, podestà a Le Bebbe, podestà a Loredo, podestà a Malamocco, podestà a Marano, podestà a Murano, podestà a Tortello.

Istria. Podestà ad Albona-Fiannona, podestà a Buje, podestà a Capodistria, camerlengo a Capodistria, castellano a Castel Lion, podestà a Cittanova, podestà a Dignano, podestà a Grisignana, podestà a Isola, castellano a Mocho, podestà a Montona, podestà a Muggia, podestà a Parenzo, podestà a Pinguento, podestà a Pirano, podestà a Pola, podestà a Portole, podestà a Raspo, podestà a Rovigno, podestà a San Lorenzo, podestà a Umago, podestà a Valle.

Dalmatia. Podestà ad Arbe, conte a Brazza, podestà a Budua, conte a Cattaro, camerlengo e capitano a Cattaro, castellano a Cattaro, conte a Cherso e Ossaro, conte a Curzola, castellano a Laurana, conte a Lesina, castellano a Lesina, conte a Nona, castellano a Novegrad, conte a Pago, camerlengo a Pago, conte e capitano a Sebenico, camerlengo a Sebenico, castellano a Sebenico, conte a Spalato, camerlengo e castellano a Spalato, conte a Traù, castellano a Traù, conte e provveditore a Veglia, camerlengo e castellano a Veglia, conte a Zara, capitano a Zara, camerlengo a Zara, 2 castellani del Castel vecchio a Zara, castellano della Cittadella a Zara.

Albania. Podestà ad Antivari, castellano ad Antivari, conte e capitano a Dulcigno, bailo e capitano a Durazzo.

Grecia. Castellano e provveditore a Corone, capitano e provveditore a Corone, capitano del Borgo a Corone, rettore e provveditore a Lepanto, camerlengo e castellano a Lepanto, podestà a Malvasia, castellano e provveditore a Modone, capitano e provveditore a Modone, capitano del Borgo a Modone, capitano e provveditore a Napoli, provveditore a Napoli, camerlengo a Napoli, 2 castellani a Napoli.

Isole Ionie. Bailo e capitano a Corfù, 2 castellani a Corfù, capitano del Borgo a Corfù, capitano dell'Isola a Corfù, 2 consiglieri a Corfù, provveditore a Zante.

Altre isole. Castellano a Cerigo, rettore a Legena, rettore a Schiati e Scopulo, rettore a Tino e Micono, rettore a Sciro.

Candia. Duca, capitano, 2 consiglieri, 3 camerlenghi, 2 zudesi, 2 officiali di notte, rettore a Cania, 2 consiglieri a Cania, rettore a Rettimo, 2 consiglieri a Rettimo, rettore a Setia.

Cipro. Bailo e luogotenente, 2 consiglieri, 2 camerlenghi, capitano a Famagosta, 2 castellani a Famagosta, capitano a Baffo, castellano a Cerines, capitano a Saline.

Consoli, baili e capitani di galee di stato. Capitani delle galee di: Acque Morte, Alessandria, Barbaria, Beirut, Fiandre, Riviera della Marca, Romània, Trafego; capitano del Golfo, capitano generale da mar; bailo di Costantinopoli; consoli a: Alessandria, Damasco e Tunisi.

Totale = 138 uffici.

Stato da terra

Treviso. Podestà a Castelfranco, podestà a Conegliano, podestà e capitano a Mestre, castellano a Mestre, podestà a Motta, podestà a Noale, podestà ad Oderzo, podestà a Portobuffolè, podestà a Serravalle, podestà e capitano a Treviso, 2 camerlenghi a Treviso.

Belluno. Podestà e capitano a Belluno, castellano a Belluno, castellano a Butistagno, capitano del Cadore, podestà e capitano a Feltre, castellano a Feltre, castellano a Quero.

Friuli. Podestà a Caneva, provveditore a Gradisca, podestà a Monfalcone, castellano a Monfalcone, podestà a Portogruaro, podestà a Sacile, castellano a Schiusa, luogotenente a Udine, mariscalco a Udine, tesoriere a Udine.

Padova. Podestà a Camposampiero, podestà a Castelbaldo, castellano a Castelbaldo, podestà a Este, castellano a Este, castellano a Limena, podestà a Monselice, castellano a Monselice, podestà a Montagnana, podestà a Padova, capitano a Padova, 2 camerlenghi a Padova, castellano a Padova, castellano alla Saracinesca di Padova, podestà a Piove di Sacco, castellano a Ponte della Torre.

Rovigo e Polesine. Podestà a Badia, podestà a Lendinara, castellano a Lendinara, podestà e capitano a Rovigo, camerlengo a Rovigo, castellano a Rovigo.

Ferrara e Romagna. Podestà a Cervia, camerlengo e salinero a Cervia, visdomino a Ferrara, podestà e capitano a Ravenna, 2 camerlenghi a Ravenna, castellano a Ravenna.

Vicenza. Podestà e capitano a Bassano, podestà a Cologna, castellano a Cologna, castellano a La Scala, podestà a Lonigo, castellano a Lonigo, podestà a Marostica, podestà a Vicenza, capitano a Vicenza, camerlengo a Vicenza, castellano a Vicenza.

Verona. Castellano a Lazise, capitano e provveditore a Legnago, castellano della Rocca a Legnago, castellano a Nogarole, castellano a Peneda, provveditore a Peschiera, castellano della Rocca a Peschiera, castellano a Porto Legnago, provveditore a Riva, castellano a Riva, podestà a Rovereto, capitano di Soave, podestà a Verona, capitano a Verona, 2 camerlenghi a Verona, 2 castellani del Castel vecchio, castellano di San Felise, castellano di Castel S. Piero.

Brescia. Castellano a Anfo, provveditore a Asola, castellano a Asola, podestà a Brescia, capitano a Brescia, camerlengo a Brescia, castellano della Rocca a Brescia, castellano della Saracinesca a Brescia, provveditore a Lonato, provveditore a Orzi Nuovi, castellano a Pontevico, provveditore a Salò, castellano in Valcamonica.

Bergamo. Podestà a Bergamo, capitano a Bergamo, camerlengo a Bergamo, castellano a Bergamo, castellano della Cappella a Bergamo, capitano della Cittadella a Bergamo, podestà e provveditore a Romano, podestà e provveditore a Martinengo.

Crema. Podestà e provveditore a Crema, camerlengo a Crema.

Totale = 113 uffici.

ANNO 1540

UFFICI DI CITTÀ

2 appontadori, 2 avvocati a Rialto, 2 avvocati de' prisonieri, 16 avvocati per omnes curias, r avvocato fiscale, 3 auditori vecchi, 3 auditori nuovi, 3 avogadori di comun, 2 massari alla moneda d'arzento, 2 massari all'oro, 3 camerlenghi di comun, 6 capi di sestier, 2 censori, 30 consiglieri del collegio dei XX, 10 consiglieri del consiglio dei dieci, 40 consiglieri della quarantia criminal, 40 consiglieri della quarantia civil vecchia, 40 consiglieri della quarantia civil nuova, 6 consiglieri ducali, 3 consiglieri inferiori, 4 consoli dei mercanti, 1 doge, 3 esecutori alle acque, 3 esecutori contro la biastema, 5 governatori alle entrate, 4 officiali alla beccaria, 3 officiali alla camera d'imprestidi, 3 officiali al canevo, 3 officiali al cattaver, 3 officiali alle cazude, 5 officiali al datio del vin, 3 officiali ai dieci offici, 3 officiali alla doana da mar, 3 officiali all'estraordinario, 2 officiali alla foia d'oro, 4 officiali al frumento, 3 officiali alla giustitia nuova, 3 officiali alla giustitia vecchia, 4 officiali alla messetteria, 2 officiali ai panni d'oro, 3 officiali alle rason nuove, 3 officiali alle rason vecchie, 4 officiali alla tavola d'entrata, 3 officiali alla tavola d'uscita, 2 officiali alla ternaria nuova, 4 officiali alla ternaria vecchia, 3 officiali su i levanti, 3 pagadori all'armamento, 3 patroni all'Arsenale, 3 pesadori all'arzento, 3 provveditori alle biave, g procuratori di San Marco, 3 provveditori agli offici e cose di Cipro, 3 provveditori alle pompe, 4 provveditori al sal, 3 provveditori di comun, 3 provveditori sopra banchi, 3 provveditori sopra camere, 3 provveditori sopra il cottimo di Alessandria, 3 provveditori sopra il cottimo di Damasco, 3 provveditori sopra il cottimo di Londra, 3 provveditori sopra dazi, 10 savi alle decime, 5 savi agli ordini, 5 savi alla pace, 6 savi del consiglio, 5 savi di Terraferma, 3 savi sopraconti, 60 senatori, 60 senatori di zonta, 6 signori di notte al criminal, 3 sopra gli atti del sopragastaldo, 4 sopraconsoli dei mercanti, 3 sopragastaldi, 3 visdomini del fontego dei Tedeschi, 3 zudesi dei piovegi, i 8 zudesi nelle 6 corti di Palazzo, 3 zudesi per le corte.

Totale uffici = 551.

UFFICI DI FUORI

Stato da mar

Dogado. Podestà di Adria, podestà a Caorle, podestà a Cavarzere, podestà a Chioggia, 2 salineri a Chioggia, podestà a Grado, podestà a Loredo, podestà a Malamocco, podestà a Murano, podestà a Torcello.

Istria. Podestà ad Albona-Fiannona, podestà a Buje, podestà a Capodistria, camerlengo a Capodistria, castellano a Castel Lion, podestà a Cittanova, podestà a Dignano, podestà a Grisignana, podestà a Isola, podestà a Montona, podestà a Muggia, podestà a Parenzo, podestà a Pirano, podestà a Pola, podestà a Portole, podestà a Raspo, podestà a Rovigno, podestà a San Lorenzo, podestà a Umago, podestà a Valle.

Dalmatia. Provveditore ad Almissa, podestà ad Arbe, conte a Brazza, podestà a Budua, conte a Cattaro, camerlengo e capitano a Cattaro, castellano a Cattaro, conte a Cherso e Ossaro, conte a Curzola, castellano a Laurana, conte a Lesina, castellano a Lesina, conte a Nona, castellano a Novegrad, conte a Pago, camerlengo a Pago, conte e capitano a Sebenico, camerlengo a Sebenico, castellano a Sebenico, conte a Spalato, camerlengo e castellano a Spalato, conte a Traù, castellano a Traù, conte e provveditore a Veglia, camerlengo e castellano a Veglia, conte a Zara, capitano a Zara, camerlengo a Zara, 2 castellani del Castel vecchio a Zara, castellano della Cittadella a Zara.

Albania. Podestà ad Antivari, castellano ad Antivari, conte e capitano a Dulcigno.

Grecia. Podestà a Malvasia, capitano e provveditore a Napoli, provveditore a Napoli, camerlengo a Napoli, 2 castellani a Napoli.

Isole Ionie. Provveditore a Cefalonia, bailo e capitano a Corfù, 2 castellani a Corfù, capitano del Borgo a Corfù, 2 consiglieri a Corfù, provveditore a Zante.

Altre isole. Castellano a Cerigo, rettore a Legena, rettore a Schiati e Scopulo, rettore a Tino e Micono, rettore a Sciro.

Candia. Duca, capitano, 2 consiglieri, 3 camerlenghi, rettore a Cania, 2 consiglieri a Cania, rettore a Rettimo, 2 consiglieri a Rettimo, rettore a Setia.

Cipro. Bailo e luogotenente, capitano, 2 consiglieri, 2 camerlenghi, capitano a Famagosta, 2 castellani a Famagosta, capitano a Baffo, castellano a Cerines, capitano a Saline.

Consoli, baili e capitani di galee di stato. Capitani delle galee di: Alessandria e Beirut; capitano del Golfo, capitano generale da mar; bailo di Costantinopoli; consoli a: Alessandria, Damasco.

Totale = 117 uffici

Stato da terra

Treviso. Podestà a Asolo, podestà a Castelfranco, podestà a Conegliano, podestà e capitano a Mestre, podestà a Motta, podestà a Noale, podestà ad Oderzo, podestà a Portobuflòlè, podestà a Serravalle, podestà e capitano a Treviso, 2 camerlenghi a Treviso.

Belluno. Castellano a Belluno, capitano del Cadore, podestà e capitano a Feltre, castellano a Feltre, castellano a Quero.

Friuli. Podestà a Caneva, podestà a Monfalcone, podestà a Portogruaro, podestà a Sacile, castellano a Schiusa, luogotenente a Udine, mariscalco a Udine, tesoriere a Udine.

Padova. Podestà a Camposampiero, podestà a Castelbaldo, podestà a Este, provveditore alle Gambarare, podestà a Monselice, podestà a Montagnana, podestà a Padova, capitano a Padova, 2 camerlenghi a Padova, castellano a Padova, castellano alla Saracinesca di Padova, podestà a Piove di Sacco, castellano a Ponte della Torre.

Rovigo e Polesine. Podestà a Badia, podestà a Lendinara, podestà e capitano a Rovigo, camerlengo a Rovigo.

Vicenza. Podestà e capitano a Bassano, podestà a Cologna, podestà a Lonigo, podestà a Marostica, podestà a Vicenza, capitano a Vicenza, camerlengo a Vicenza.

Verona. Capitano e provveditore a Legnago, provveditore a Peschiera, capitano di Soave, podestà a Verona, capitano a Verona, 2 camerlenghi a Verona, castellano del Castel vecchio, castellano di San Felise.

Brescia. Castellano a Anfo, provveditore a Asola, castellano a Asola, podestà a Brescia, capitano a Brescia, 2 camerlenghi a Brescia, castellano della Rocca a Brescia, provveditore a Lonato, provveditore a Orzi Nuovi, castellano a Pontevico, provveditore a Salò.

Bergamo. Podestà a Bergamo, capitano a Bergamo, camerlengo a Bergamo, podestà e provveditore a Romano, podestà e provveditore a Martinengo.

Crema. Podestà e provveditore a Crema, camerlengo a Crema.

Totale = 78 uffici.

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