L'illusione del nucleare

Il Contributo italiano alla storia del Pensiero - Tecnica (2013)

L’illusione del nucleare

Fabio Catino

Il 26 aprile del 1986, alle 01:24 (ora locale) esplode l’edificio che contiene il reattore nucleare della centrale di potenza di Černobyl´ (Ucraina, allora Unione Sovietica). Una catena di eventi procurata da imperizia umana, che ha coinvolto un impianto non caratterizzato da massimi livelli di sicurezza, ha provocato l’incidente nucleare ‘perfetto’. L’impatto sull’opinione pubblica mondiale è simultaneo e sensazionale e prescinde, nell’immediato periodo dopo l’incidente, dalle cause del disastro. L’onda dell’orrore raggiunge rapidamente ogni parte dell’ecumene industrializzato evocando l’immagine dell’olocausto nucleare e precede la nube radioattiva che nei giorni successivi sarà rilevata su tutto l’emisfero settentrionale del pianeta. Il nocciolo che arde a cielo aperto ad altissima temperatura (circa 2000 °C), le ceneri, le polveri e i gas radioattivi che salgono in quota a qualche chilometro, tirati dal potente effetto camino, richiamano gli spettri prometeici che popolano il subconscio dell’uomo moderno dopo le esplosioni delle bombe nucleari di Hiroshima e Nagasaki.

Le conseguenze sulle prospettive del nucleare sono notevoli, in modo particolare in Italia, dove vengono messe in atto misure con ripercussioni determinanti sulla struttura del sistema energetico. È il canto del cigno del programma nucleare italiano. Già indebolito dalla pluriennale incertezza nelle politiche di indirizzo industriale e dal farraginoso assetto nella configurazione degli organi istituzionali di coordinamento e di controllo del settore (mai risolto con tempismo rispetto alle necessità di ordine generale, nelle more di equilibri funzionali a esigenze particolari), il nucleare nazionale per usi pacifici, che pur nelle difficoltà e nelle controversie aveva vissuto una fase ‘spontaneistica’ di notevole sviluppo conclusasi nel 1964 con il conseguimento del record di terzo Paese occidentale per potenza nucleare installata (preceduto soltanto da Stati Uniti e Gran Bretagna), è sostanzialmente accantonato nel 1987 per via referendaria.

Non interpellando i cittadini esplicitamente sulla liceità dell’energia nucleare per usi pacifici, i referendum ne decretano l’abolizione facendo leva sulle norme impopolari previste dal legislatore a salvaguardia delle procedure per la localizzazione degli impianti. L’esito plebiscitario della consultazione conferma la larga diffusione delle tesi antinucleari propugnate dai movimenti ambientalisti in grande crescita dagli anni Settanta, che traevano forza ancora dall’eco dei recenti movimenti di protesta contro il dispiegamento in Italia dei missili statunitensi a testate nucleari Cruise, anche con il sostegno di avanguardie culturali in funzione di opinion leader.

Se ne era avuta riprova pochi anni prima con il film statunitense The China syndrome (1979, Sindrome cinese) di James Bridges, un’opera dichiaratamente di denuncia riguardo i rischi del nucleare che aveva beneficiato di una ‘fortunata’ coincidenza: essere presentata nelle sale precedendo soltanto di dodici giorni il primo significativo incidente nucleare della storia (Three Mile Island, Stati Uniti, 28 marzo 1979). La trama, incentrata sulla circostanza realistica di un possibile malfunzionamento, coperto per ragioni economiche, tale da mettere a repentaglio la sicurezza della centrale con annessa minaccia di fusione del combustibile nucleare (nocciolo) e disastro ambientale conseguente, accredita peraltro, per potenza di suggestione filmica, un’ipotesi scientificamente assurda, ossia che la completa fusione del nocciolo possa comportare la perforazione in fusione contaminante degli strati rocciosi sottostanti fino alle estreme conseguenze di trapassare mantello e nucleo terrestri per raggiungere gli antipodi (la cosiddetta sindrome cinese). Distorsioni di questo tipo saranno frequenti nel dibattito pubblico italiano sulla questione nucleare, spesso condizionato da pulsioni sensazionalistiche e/o da ravvedimenti autorevoli di matrice fideistica. Non casualmente le scelte ostative su indicazione popolare seguiranno a breve giro i due più gravi incidenti nucleari di risonanza globale.

Oltre vent’anni dopo i referendum del 1987, trascorso un oblio caratterizzato per le applicazioni industriali dalla cura della dismissione degli impianti e dalla gestione dei rifiuti radioattivi, in cui soltanto il settore della ricerca aveva trovato interesse per l’innovazione dei sistemi nucleari, nel vivo di una campagna per la riattivazione di un programma nucleare nazionale, in un contesto dai contorni geopolitici, economici e ambientali completamente rinnovati che avrebbe richiesto valutazioni critiche aggiornate e libere da qualsivoglia spinta revanscista, il drammatico incidente occorso nella centrale di Fukushima (Giappone, marzo 2011) interviene come elemento dirimente primario e soffoca sul nascere tale prospettiva. La dinamica dell’incidente amplia la gamma degli eventi potenzialmente catastrofici, rinforzando le tesi antinucleariste: questa volta la causa è un fenomeno naturale (tsunami), di proporzioni superiori a quelle previste dalle specifiche progettuali di sicurezza dell’impianto. Una nuova tornata referendaria (giugno 2011) respinge ancora lo sfruttamento dell’energia nucleare. Industria e ricerca nucleari rimangono ai margini del settore energetico nazionale, anche se non ne è escluso in futuro un rilancio, pronosticabile per il possibile aumento del rischio sicurezza energetica e per l’incombenza del problema climatico (fattori entrambi associati all’uso intensivo dei combustibili fossili).

Agli albori del nucleare italiano, eccellenza e foschi presagi

Le premesse del nucleare italiano risplendono d’eccellenza. Quella delle ricerche di fisica nucleare del gruppo di Enrico Fermi a Roma negli anni Trenta del 20° sec., che, coronate dal conferimento del premio Nobel (1938) al fisico italiano, condussero alla scoperta dell’effetto di rallentamento neutronico indotto dalle sostanze idrogenate (in quel caso acqua o paraffina) sui neutroni utilizzati per la produzione (allora con finalità di studio) di radionuclidi e radioattività artificiali, aumentandone l’efficacia. Fu il primo passo per la realizzazione della pila atomica (CP1, Chigago Pile 1), che Fermi realizzò poi negli Stati Uniti (1942), a Chicago, nell’ambito del progetto Manhattan per la costruzione dell’ordigno atomico.

Trasferitosi negli Stati Uniti nel 1938 a seguito delle leggi razziali che avrebbero colpito la moglie, ma anche a causa della mancanza di garanzie di finanziamento per il necessario potenziamento delle dotazioni sperimentali di laboratorio (un idoneo acceleratore), venute meno le autorevoli figure di sostegno politico e istituzionale di Orso Mario Corbino e Guglielmo Marconi (entrambi defunti nel 1937), Fermi contribuì oltreoceano a gettare le basi dell’industria nucleare.

L’epilogo tragico del regime fascista, con le implicazioni drammatiche delle vicende belliche, provocò la diaspora dei giovani fisici di via Panisperna (eponimo toponomastico del gruppo di Fermi): Franco Rasetti, allontanatosi per motivi etici dalle applicazioni militari dell’energia nucleare e poi dalla fisica, andò in Canada per dedicarsi alle scienze della Terra; Emilio Segrè (premio Nobel nel 1955 per la scoperta dell’antiprotone), anche lui impegnato inizialmente nel progetto Manhattan, negli Stati Uniti; Bruno Pontecorvo si recò prima negli Stati Uniti, poi in Canada per la realizzazione del reattore anglo-canadese (1943), e quindi in Gran Bretagna nel centro di ricerca di Hartwell, infine, dopo controverse accuse di spionaggio filosovietico, in URSS presso l’Istituto nucleare di Dubna. Rimase invece in Italia, nella prestigiosa cattedra di fisica sperimentale dell’Università di Roma (in precedenza tenuta prima da Pietro Blaserna e poi da Corbino), Edoardo Amaldi, il quale avrebbe successivamente riconosciuto come le vicende di quel periodo fossero state indirizzate da un destino ineluttabile vincolato all’ordine di un sistema di cui gli individui non possono prevedere compiutamente gli sviluppi facendone parte:

il nostro piccolo mondo era stato sconvolto, anzi quasi certamente distrutto, da forze e circostanze completamente estranee al nostro campo d’azione. Un osservatore attento avrebbe potuto dirci che era stato ingenuo pensare di costruire un edificio così fragile e delicato sulle pendici di un vulcano che mostrava così chiari cenni di crescente attività. Ma su quelle pendici eravamo nati e cresciuti e avevamo sempre pensato che quello che facevamo fosse molto più durevole della fase politica che il paese stava attraversando (Da via Panisperna all’America, 1997, p. 63).

Amaldi, oltre a fornire importanti contributi scientifici, operò brillantemente nel dopoguerra per ricostruire il fronte della ricerca in fisica nucleare e subnucleare, e nella politica energetica svolse il ruolo essenziale di coordinamento tra le sfere universitaria, della ricerca, industriale e politico-istituzionale. L’enorme potenziale dell’energia atomica, non soltanto per le applicazioni militari, dagli anni Venti era tema di speculazioni accademiche – ci si era soffermato già Fermi nel 1923. Ne erano consapevoli parimenti gli ingegneri del settore industriale elettrico che, anche prima delle accelerazioni prodotte dai programmi di ricerca finalizzati alle esigenze del periodo bellico, potevano spingersi a preconizzare che

per quanto l’energia di disintegrazione [dell’atomo] non può ancora mettersi in diretta concorrenza con l’energia di combustione, e se anche non se ne potrà disporre tanto presto, non è lecito agli ingegneri scartare senz’altro l’eventualità che un giorno essi abbiano a doversi occupare di quelle che saranno vere e proprie “centrali” per lo sfruttamento dell’energia nucleare (E. Severini, Accenni sulla costituzione della materia, 1941, p. 170).

Il primo impulso alla pianificazione, il CISE e i suoi risultati

Nell’immediato dopoguerra, la fisica nucleare applicata per usi pacifici si avviò in Italia senza il coordinamento e la supervisione strategica di un organismo pubblico opportunamente costituito, come invece avveniva negli Stati Uniti, in Francia e in Gran Bretagna – rispettivamente con l’USAEC (United States Atomic Energy Commission), il CEA (Commissariat à l’Énergie Atomique) e l’UKAEA (United Kindom Atomic Energy Authority) – peraltro non casualmente Paesi belligeranti vincitori. Questa lacuna, successivamente colmata con l’istituzione del CNRN (Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari) e poi del CNEN (Comitato Nazionale per l’Energia Nucleare), è probabilmente all’origine della conflittualità esasperata che coinvolse i protagonisti del programma nazionale nucleare, inoculando quegli agenti disgreganti che ne decreteranno, già dalla seconda metà degli anni Sessanta, il rallentamento.

In un contesto scientifico nazionale stimolato dall’operosità autorevole di Amaldi, l’avviamento degli studi nucleari applicati non militari si deve all’iniziativa di alcuni giovani scienziati di Milano: Mario Silvestri, ingegnere della Edison; Giorgio Salvini, assistente di Giuseppe Bolla in fisica superiore; Carlo Salvetti, incaricato di fisica teorica all’università. Nel 1945 Amaldi aveva promosso la costituzione di un Centro di studio per la fisica nucleare e le particelle elementari, in sede CNR (Consiglio Nazionale delle Ricerche) e presso l’Istituto Guglielmo Marconi di Roma, in linea di continuità con il corso delle ricerche non interrotte dal periodo bellico e nella prospettiva di potenziare gli studi nella fisica delle alte energie, che si concretizzerà nel 1951 coordinando nel neoistituito INFN (Istituto Nazionale di Fisica Nucleare) le attività omologhe dei centri di ricerca delle università di Torino (Centro sperimentale e teorico di fisica nucleare), Padova (Centro di studi degli ioni veloci) e Milano (Istituto di fisica).

Per gli aspetti tecnico-scientifici e applicativi, Amaldi si era anche curato di condividere, in particolare con Salvini, i contenuti del cosiddetto rapporto Smyth, avendone portato con sé una copia da un viaggio professionale negli Stati Uniti. Si trattava di un documento in cui erano registrati in termini descrittivi ed economici gli esiti del programma nucleare bellico americano (Manhattan project). Pur non essendo un rapporto scientifico – la materia nucleare era vincolata a segretezza assoluta dal McMahon act del 1946, in vigore fino al 1954, quando sarà sostituito dall’Atomic act dopo il varo del programma Atoms for peace del presidente Dwight D. Eisenhower – tale documento rinforzava gli intenti di Silvestri, Salvini e Salvetti. La fissione nucleare controllata a catena dell’235U consentiva di produrre grandi quantità di energia termica utilizzabile: la pianificazione di un programma di ricerca e sviluppo nucleare per la costruzione di un reattore di potenza non era quindi più una chimera. Dell’argomento fu investito l’amministratore delegato della Edison, Vittorio De Biasi, che sostenne l’iniziativa interrogandosi in primo luogo in termini economici (quanto sarebbe costato il kWh nucleare?).

Verificata la compatibilità di un programma nucleare italiano per usi civili con gli accordi di pace allora ancora in corso – condizione confermata estemporaneamente da una commissione ufficiosa (Bolla, Silvestri, Salvini e Salvetti) in visita esplorativa presso la delegazione italiana in sede negoziale a Parigi – e conquistata alla causa l’adesione di altre società private (inizialmente Fiat e Cogne), il 19 novembre 1946 fu costituito a Milano, come società a responsabilità limitata senza fini di lucro, il CISE (Centro Informazioni Studi Esperienze), la prima struttura italiana orientata allo sviluppo delle tecnologie nucleari. Si unirono di lì a poco le industrie Montecatini, SADE (Società Adriatica Di Elettricità), Pirelli e Falck.

Nel consiglio di amministrazione della società, presieduto da De Biasi, sedettero in rappresentanza della ricerca di base, oltre ad Amaldi, i fisici del gruppo romano Gilberto Bernardini e Bruno Ferretti, vincolando la loro partecipazione al riconoscimento che «il beneficio e il frutto [delle attività di ricerca, sviluppo e realizzazione] non [fosse] garantito solo per alcune industrie ma per tutta la collettività» (E. Amaldi, Verbale del Consiglio di Amministrazione del CISE del 18 febbraio 1947, archivio del Dipartimento di Fisica dell’Università La Sapienza di Roma, sc.211.4.1, p. 2). Dal 1947, per favorire un consolidamento istituzionale e la prospettiva di allargamento dei soggetti finanziatori, fu insediato nel CdA anche il presidente del CNR Gustavo Colonnetti.

Successivamente (1950), anche per rispondere all’esigenza di attribuire un valore nazionale all’impresa nucleare, riconosciuta in particolare dai fisici, entrarono nel CISE anche industrie centromeridionali partecipate dallo Stato attraverso l’IRI (Istituto per la Ricostruzione Industriale), quali Terni acciai e SME (Società Meridionale di Elettricità). Quest’ultimo sviluppo, veicolato dall’ingegnere minerario napoletano Felice Ippolito (che era stato avvicinato al CISE da Amaldi per pianificare l’aspetto delle prospezioni geominerarie di minerali uraniferi sul territorio nazionale), fu il prodromo dei conflitti che si intensificarono negli anni successivi tra gli industriali, paladini del primato dei privati nella gestione del programma nucleare, e i sostenitori di un intervento sempre più rilevante dello Stato, sullo sfondo delle croniche carenze economiche del CISE e della disputa sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica che andava montando.

Inizialmente finanziato da ogni socio con sei milioni di lire l’anno, per uno stanziamento complessivo che nel primo quinquennio valse 200 milioni di lire (60 milioni nel 1951, da stimare a confronto con i 360 milioni forniti nello stesso anno dallo Stato al CNR per il complesso delle sue attività), il CISE riuscì a conseguire parte delle sue finalità statutarie, formando ricercatori e tecnici specializzati altamente qualificati e realizzando laboratori e attrezzature connesse che consentirono di sviluppare una teoria originale dei reattori nucleari e misure dei parametri nucleari fondamentali dell’uranio: la sezione teorica (diretta da Salvetti); il laboratorio per i neutroni (diretto da Ugo Facchini); il laboratorio per le sorgenti di ioni (diretto da Emilio Gatti); un impianto pilota per la produzione di acqua pesante mediante elettrolisi; un impianto sperimentale per la metallurgia dell’uranio. Le risorse non erano tuttavia sufficienti a realizzare l’obiettivo più ambizioso, ossia la costruzione di un reattore nucleare italiano. La scelta progettuale del CISE, indirizzata da Silvestri e giustificata anche da ragioni di carattere industriale e geopolitico, si era configurata in un reattore alimentato a uranio naturale metallico moderato ad acqua pesante. Non considerare l’uranio arricchito significava svincolarsi dalla sua importazione, visto che il processo di arricchimento dell’uranio superava le capacità tecnologiche del sistema nazionale, che era invece in grado di approvvigionare acqua pesante.

L’ipotesi di una partecipazione italiana alla realizzazione di un impianto di arricchimento dell’uranio in Francia, ventilatasi (1957) nell’ambito di una prospettata cooperazione trilaterale – con Francia e Germania – per un programma nucleare militare comune volto a limitare la prevalenza tecnologico-strategica statunitense, tramontò insieme alla constatazione di una impraticabilità politica. Silvestri, che si era speso senza riserve a favore dell’autonomia del CISE e della ricerca applicata in quota ai privati, dovendo infine denunciare il fallimento di tale impostazione – nel 1968 firmò un felice e fortunato pamphlet (Il costo della menzogna) sui limiti, secondo i suoi parametri, del programma nucleare italiano –, sostenne il progetto del reattore nazionale fino a vederlo attuato. Sarà tuttavia un compimento amaro, in quanto, anche se completato, il reattore non verrà mai avviato: nelle parole dello stesso Silvestri, «subirà il supplizio dell’inumazione da vivo» (cit. in Spezia 2009, p. 115).

Dopo aver ottenuto l’avallo del CNEN e un finanziamento Euratom (la Comunità europea dell’energia atomica, istituita nel 1957 dall’omonimo trattato), il progetto, che nel 1959 si era sviluppato in un reattore a uranio debolmente arricchito, moderato e refrigerato rispettivamente con acqua pesante e acqua leggera in cambiamento di fase, e aveva assunto la denominazione CIRENE (CIse REattore a NEbbia), prese quota nel periodo successivo alla defenestrazione di Ippolito, che con la sua azione intraprendente aveva caratterizzato più di un quinquennio di attività CNRN/CNEN. Del reattore fu riconosciuta la validità nel nuovo corso del CNEN, nel quale Silvestri vide confermato, e per alcuni versi incrementato, il proprio peso (anche per il suo profilo di autorevole referente tecnico-scientifico dello schieramento politico-industriale in palese conflitto con Ippolito, per quanto in posizione in linea di principio critica rispetto a un assetto istituzionale ormai decisamente spostato sulla gestione pubblica). CIRENE fu operativamente approvato nel 1967, secondo un accordo CNEN-ENEL. Il reattore da 40 MW, da collocare presso Latina nel sito della centrale nucleare già operativa di Borgo Sabotino, subì una lentissima fase costruttiva. Fu pronto per l’esercizio nel 1987, in coincidenza temporale con i referendum antinucleare che ne sanciranno lo smantellamento prematuro.

Le implicazioni militari e la ‘strategia nucleare’ italiana in politica estera

Il comparto militare si interessò direttamente della ricerca nucleare applicata dalla seconda metà degli anni Cinquanta, in modo complementare alle sue necessità di ordine strategico relativamente agli armamenti. Nel 1956 fu istituito presso l’Accademia navale di Livorno il CAMEN (Centro Applicazioni Militari Energia Nucleare), con le finalità di rilasciare al personale militare le specifiche conoscenze tecnico-scientifiche, di studiare le applicazioni dell’energia nucleare per la propulsione di unità sottomarine e di fornire consulenza alle forze armate in campo atomico. Laboratori appositamente realizzati in prossimità della località di San Piero a Grado (Pisa) furono allestiti per attività di ricerca e di manipolazione del combustibile nucleare irraggiato. Fu soprattutto collocato un reattore di ricerca a piscina da 5 MW (RTS-1, denominato Galileo Galilei), acquistato negli Stati Uniti e operativo dal 1963. Anche se il programma di propulsione nucleare non conseguì risultati risolutivi – i progetti del sommergibile Guglielmo Marconi e della nave Enrico Fermi, che avrebbero dovuto essere condotti rispettivamente dai consorzi CAMEN, CNEN-Fiat-Ansaldo e marina militare, CNEN, Fiat, non giunsero a conclusione – il reattore condusse l’esercizio sperimentale fino al 1980, quando fu spento.

In un contesto geopolitico radicalmente mutato, il CAMEN fu trasformato nel 1985 in CRESAM (Centro Ricerche, Esperienze e Studi per Applicazioni Militari), ampliandone le finalità oltre il campo della sicurezza e della difesa nucleari, e poi nel 1994 in CISAM (Centro Interforze Studi per Applicazioni Militari). Secondo l’autorevole fonte dell’allora ministro della Difesa Lelio Lagorio, poco prima di essere riformato il CAMEN fu tentato dallo sviluppo di armi nucleari (Lagorio 2005). Seppure fosse confermata, questa opzione, per quanto estrema – avrebbe infatti costituito una violazione del Trattato internazionale di non proliferazione (TNP) degli ordigni nucleari ratificato dall’Italia nel 1975 –, sarebbe in continuità (a maggior ragione se consistente più in un’azione di persuasione pianificata sulle capacità realizzative tecnico-scientifiche-industriali che nella effettiva volontà di costruire una bomba) con la linea strategica nazionale adottata in politica estera perlomeno dalla fine degli anni Cinquanta per acquisire pari rango con le altre potenze NATO (North Atlantic Treaty Organization) europee, in primo luogo Francia e Gran Bretagna.

A partire dal folcloristico episodio del poligono militare di Nettuno, dove nel 1952 si sarebbero svolti fantomatici esperimenti sull’innesco di ordigni nucleari a idrogeno – di cui s’interessò diffusamente il quotidiano «Il Giornale d’Italia» con ripetuti articoli di grande effetto, tanto da indurre il ministro della Difesa Randolfo Pacciardi a pubbliche precisazioni e il fisico Amaldi a stigmatizzarne il valore scientifico –, ma in particolare dopo l’avvento del programma statunitense Atoms for peace, il governo e la diplomazia italiani disposero geopoliticamente del tema dei limiti della gestione e del controllo delle armi nucleari.

Atoms for peace, introdotto nel 1953 per l’apertura allo sviluppo degli usi pacifici delle tecnologie per l’energia nucleare – che porterà alla Conferenza ONU di Ginevra (1955) in materia e l’anno successivo alla costituzione dell’IAEA (International Atomic Energy Agency), l’agenzia internazionale per la cooperazione in campo nucleare –, comportò per l’amministrazione Eisenhower anche un non irrilevante risultato in campo militare. Superare il vincolo della preclusione dell’accesso alle informazioni in materia nucleare per i Paesi stranieri (anche alleati), sancito dal McMahon act, consentì agli Stati Uniti di prevedere la riduzione consistente delle spese militari fondando la strategia di contenimento dell’URSS non più sull’incremento delle forze convenzionali in Europa, ma sulla deterrenza nucleare favorita dal dispiegamento di armi nucleari nei Paesi aderenti all’alleanza atlantica (NATO).

Nel nuovo quadro, un Paese militarmente non nucleare come l’Italia, ma strategico geograficamente per la collocazione delle testate (almeno prima dell’introduzione dei missili a medio raggio), ebbe modo di incrementare il proprio peso politico rispetto agli alleati nucleari facendo leva su un bipolarismo preferenziale con gli Stati Uniti in sede atlantica – volto al riconoscimento di uno status di potenza quasi nucleare dotata di una capacità operativa specifica autonoma (anche se sempre condivisa in una forma di nuclear power sharing) – e talvolta su opportuni scantonamenti eccentrici in sodalizio multilaterale o bilaterale europeo, come in occasione della già citata prospettiva italo-franco-tedesca per l’impianto di arricchimento dell’uranio, successivamente riproposta in chiave esclusivamente italo-francese nei primi anni Settanta.

Si avrà riprova della linea italiana nel caso del ritardo con cui avvenne la formalizzazione in Parlamento dell’adesione al TNP (sei anni), anche in considerazione dell’avversione a un trattato che non riconosceva la condizione, propria dell’Italia, di ‘stato militarmente non nucleare’, ovvero, secondo la definizione del ministro degli Esteri Roberto Gaja, dotato della capacità di optare per una rapida realizzazione della bomba, che però sceglieva di non esercitare. Ulteriore conferma verrà dalla disputa con gli Stati Uniti per la salvaguardia «del potere decisionale del governo italiano nel caso di uso su o dal territorio italiano» (Nuti 2007, p. 380) dei nuovi missili Cruise (in grado di indirizzare a 1500 km, volando a bassa quota e seguendo l’orografia, singole testate nucleari W84 di capacità da 10 a 50 kilotoni), resi operativi all’inizio del 1984 a Comiso (Sicilia) e poi smantellati in forza del trattato USA-URSS sulle armi intermedie del 1987 (INF Treaty, Intermediate Nuclear Forces Treaty).

La nascita dei comitati nazionali e il dibattito culturale verso la nazionalizzazione

Il CNRN nacque con decreto del presidente del Consiglio (26 giugno 1952), concertato in primo luogo dal ministro dell’Industria Pietro Campilli, che riuscì nell’intento, dove altri avevano fallito, di ottenere l’assenso fattivo di un poco motivato Alcide De Gasperi (allora presidente del Consiglio dei ministri), il quale autorizzò il percorso legislativo confortando il ministro: «se proprio vuoi farla questa cosa nucleare, falla!» (Curli 2000, p. 146). Lo strumento legislativo del decreto consentì di superare la freddezza politica in materia nucleare che aveva impedito il concretizzarsi di precedenti iniziative, come nel caso del tentativo di istituire il CISA (Centro Italiano Studi Atomici), che sarebbero state, per impostazione marcata dai proponenti, più favorevoli alla difesa della connotazione privatistica del CISE, il quale peraltro perdurava nella necessità di reperire finanziamenti e opportuni contributi statali (all’inizio del 1952, la Cogne era in ritardo con il conferimento delle proprie quote, la Falck era propensa a uscire dal consorzio, Pirelli ne intravedeva i limiti nel ritenerlo troppo ambizioso).

Di contro, la mancata istituzione per legge impedì al CNRN di acquisire una personalità giuridica, dipendendo amministrativamente dal CNR e, per quanto riguardava gli indirizzi programmatici industriali e della ricerca, dal presidente del Consiglio e dai ministri dell’Industria e dell’Istruzione (cofirmatario del decreto). Fu favorita di conseguenza una gestione improntata a un certo decisionismo non statutario che, se per un verso era funzionale all’imperativo di crescita del settore nucleare, per un altro comportò discrezionalità nelle scelte di merito; in particolare, il segretario del CNRN Ippolito ebbe ampi margini operativi, di cui successivamente ebbe a patire nella vicenda giudiziaria che lo coinvolse (il cosiddetto caso Ippolito). Ippolito fu insediato nel suo incarico, per affinità culturali, dall’appena nominato presidente del CNRN Francesco Giordani, chimico in cattedra all’Università Federico II di Napoli, allora presidente del Comitato per la chimica del CNR e già figura di primo piano della politica industriale e della ricerca nazionali, essendo stato presidente dell’IRI dal 1936 al 1943 e del CNR dal 1940 al 1943 (lo sarà di nuovo dal 1956 al 1960).

Giordani, illustre esponente del movimento meridionalista di matrice nittiana (secondo cui in economia era auspicabile l’intervento dello Stato per lo sviluppo delle zone depresse e dei settori carenti di spinta propulsiva privata), sotto gli auspici di Amaldi, aveva avuto il merito di muovere all’azione per la causa nucleare il ministro Campilli, anche lui incline all’intervento statale (aveva da poco favorito la concentrazione nell’IRI delle partecipazioni pubbliche nel settore elettrico, attraverso Finelettrica, una finanziaria appositamente costituita). Amaldi vedeva infatti di buon grado, in osservanza delle aspirazioni dei fisici atomici, la formazione di un ente in posizione di coordinamento rispetto alle attività di ricerca sia teorica sia applicata e sopratutto autonomo nella dimensione dei finanziamenti dal CNR.

Ippolito e Giordani furono protagonisti del progressivo orientamento verso la gestione prioritariamente pubblica del programma nucleare nazionale, lungo un arco di tempo più lungo il primo (fino alla formazione dell’ENEL), e più breve il secondo, corrispondente al primo mandato del Comitato (tre anni). Giordani, in particolare, ebbe modo a più riprese di prodursi in aspri confronti con il presidente del Consiglio di amministrazione del CISE, De Biasi, avendo peraltro aperto un secondo fronte dichiaratamente critico con il presidente del CNR Colonnetti, che aveva in precedenza cercato invano di attivare differenti canali governativi (il ministro del Bilancio, Giuseppe Pella, e il ministro del Tesoro, Ezio Vanoni), tracciando una linea più sensibile alle richieste del CISE. Successivamente si trovò in conflitto con il CNRN, sia rispetto alla titolarità della rappresentanza in sede CERN (Conseil Européen pour la Recherche Nucléaire, l’ente europeo predisposto a fronteggiare il modello statunitense della big science), alla fine di appannaggio CNRN, sia riguardo la scelta della collocazione dell’acceleratore di particelle voluto dall’INFN.

Di contro, De Biasi, a fronte della conferma delle sovvenzioni per i piani applicativi del CISE (in primis il reattore nazionale), ne vedeva minacciati i margini di autonomia operativa, sia nella configurazione del consiglio di amministrazione, il cui rapporto pubblico-privato era stato spostato a favore del pubblico, seppur leggermente (6 consiglieri contro 5), sia a causa di una provenienza dei capitoli di finanziamento di carattere prevalentemente statale, con qualche responsabilità dei privati protagonisti di alcune scelte inopportune. Il CNRN per il primo anno di attività prevedeva contribuzioni del ministero dell’Industria (600 milioni), del CNR (200 milioni) e del settore industriale (200 milioni, di cui 100 in quota pubblica, di provenienza IRI, e 100 in quota dei privati, da Confindustria); tuttavia, la parte confindustriale non fu erogata, e coperta parzialmente con ulteriori 50 milioni dal ministero dell’Industria.

Il conflitto CNRN-CISE si estese alla disputa sul contenuto della nuova legge che avrebbe dovuto regolamentare definitivamente e omogeneamente la pianificazione, la gestione e il controllo del settore nucleare, promossa da Giordani fin quando fu in carica (si dimise nel 1956, ufficialmente per motivi di salute, per poi tornare a presiedere il CNR). La legge fu osteggiata da De Biasi, che ne temeva l’impostazione per la funzione propedeutica alla nazionalizzazione dell’energia elettrica, mentre fu caldeggiata da Ippolito, che fu confermato nell’incarico di segretario del CNRN nel secondo mandato triennale del comitato, potendo così esprimere con maggiore autorevolezza un potere di persuasione e di indirizzo.

Dopo il blocco del quasi approvato disegno di legge Villabruna (in sostanza per la caduta del governo Scelba, nel 1955), e di altri disegni di legge successivi, la legge nr. 933 del 21 agosto 1960 giunse infine a promulgazione istituendo il CNEN, ente con personalità giuridica che ebbe, ai fini delle «applicazioni pacifiche dell’energia nucleare» (art. 2), tra i vari compiti assegnati, lo scopo statutario di «esercitare il controllo e la vigilanza tecnica sulla costruzione e l’esercizio di impianti di produzione dell’energia nucleare» (art. 2, 3° co.), con «facoltà di finanziare, sovvenzionare e dare contributi ad istituti universitari o ad altri istituti pubblici di ricerca e di sperimentazione scientifica e tecnica per studi, ricerche e sperimentazioni nel campo dell’energia nucleare» (art. 2). La gestione del CNEN, la cui presidenza spettava al ministro dell’Industria, fu assegnata a una commissione direttiva, che ereditava diversi membri dal comitato CNRN (tra cui Amaldi, Ferretti e Arnaldo Maria Angelini, ingegnere, vicepresidente di Finelettrica e direttore generale della Terni) e che presentava qualche ingresso (per es., Salvetti) e prevedeva l’organo esecutivo del segretario generale, il riconfermato Ippolito. La dotazione finanziaria del CNEN fu stabilita su base pluriennale (75 miliardi per cinque anni, dal 1960 al 1964), consentendo di consolidare una prassi pianificatoria quinquennale (già introdotta dal CNRN pur in mancanza di tempistiche di finanziamento certe, in quanto vincolate a erogazioni confermate per via legislativa, in genere con frequenza annuale).

La gestazione del CNEN fu accompagnata dal dibattito sulla nazionalizzazione dell’energia elettrica. Ne rappresentò l’apice politico-culturale l’attività pubblicistica degli Amici del mondo, l’associazione sorta nell’ambito del circolo intellettuale del settimanale «Il Mondo», diretto da Mario Pannunzio, che si assunse l’onere di ingaggiare una lotta contro i monopoli privati in economia, interpretando una visione liberista in senso democratico, da sviluppare politicamente prima con l’ipotesi di una ‘terza via’ (alternativa alla DC e al PCI) e poi – verificatane l’impraticabilità – con il sostegno della nascita del primo centrosinistra.

Difesa la logica delle nazionalizzazioni come mezzo estremo di ottimizzazione economica in settori tecnicamente sensibili a scivolare in condizioni di monopolio (E. Rossi, Il mezzo estremo delle nazionalizzazioni, 1955), e affrontato il tema degli idrocarburi a difesa dell’esclusiva ENI (Ente Nazionale Idrocarburi) sullo sfruttamento delle risorse in pianura padana (nel convegno Petrolio in gabbia, 1955), gli Amici del mondo inquadrarono il problema dell’ineluttabilità della gestione pubblica dell’energia nucleare in un convegno del 1957, Atomi ed elettricità, introdotto nei mesi precedenti da alcuni felici articoli di Ernesto Rossi su «Il Mondo», I dialoghi plutonici.

Rossi fu economista di formazione giurisprudenziale, allievo di Piero Calamandrei, sodale politico di Gaetano Salvemini e dei fratelli Carlo e Nello Rosselli, ideatore insieme ad Altiero Spinelli del movimento federalista europeo (nel confino di Ventotene, dove fu detenuto dal regime fascista). Utilizzando l’espediente espositivo del dialogo, nella fattispecie tra cinque personaggi – «un deputato socialista, un professore di storia, un ingegnere della Edison, un fisico nucleare e un economista radicale» (E. Rossi, Dialoghi plutonici, 1956, p. 3) –, egli propose argomentazioni di carattere tecnico-economico, su informazioni probabilmente fornite, secondo Silvestri (Spezia 2009), da membri del CNRN (Giordani, Amaldi, Ferretti, Ippolito e Salvetti), a sostegno della nazionalizzazione del nucleare nel quadro di un sistema elettrico anch’esso da nazionalizzare, perché strutturalmente monopolistico e, se in mano ai privati (le cosiddette baronie elettriche), incapace di adempiere equamente alla funzione propria di servizio di pubblica utilità (per es., sul piano infrastrutturale, l’elettrificazione di zone remote o rurali in prima istanza economicamente non remunerative).

Queste tesi furono ampliate durante il convegno Atomi ed elettricità, a cui parteciparono, tra gli altri autorevoli esponenti riformisti e progressisti, Eugenio Scalfari e il biofisico Mario Ageno (già assistente nel gruppo di via Panisperna), autori, rispettivamente, delle relazioni Le leggi nucleari dei paesi moderni e L’energia atomica oggi. Le due strade. Nell’ultima relazione, in particolare, era sviluppato un argomento di grande rilievo tecnologico nel settore nucleare, quello dell’alternativa tra reattori alimentati a uranio arricchito o a uranio naturale, rispetto a cui gli Amici del mondo prendevano nettamente posizione a favore della seconda. La via dell’uranio naturale (o plutogena, per l’accesso allo sfruttamento nella produzione di energia elettrica anche del plutonio prodotto nei reattori a partire dall’238U), espressamente caldeggiata anche in sede parlamentare durante lo svolgimento delle proposta di legge Villabruna, La Malfa, Lombardi sulla produzione e utilizzazione dei combustibili nucleari (Atti parlamentari 33739, Camera dei deputati, seduta 16 luglio 1957), avrebbe consentito di sviluppare meglio una filiera nucleare nazionale, eliminando la dipendenza dall’uranio arricchito statunitense con i relativi rischi connessi a un suo eventuale contingentamento. Queste argomentazioni omettevano tuttavia le finalità di tipo militare incluse nell’opzione plutogenica (il caso di Francia e Gran Bretagna), come fu prontamente rilevato da Silvestri attraverso interventi polemici sul «Il Mondo», e sarebbero state smentite sul versante sia geopolitico – la politica statunitense di fornitura di uranio arricchito fu prodiga oltre le necessità – sia tecnologico (i reattori a ciclo uranio-plutonio richiesero ancora decenni di sviluppo).

Non soltanto la disputa sulla legge nucleare acuì le tensioni CISE-CNRN; fu logorante anche la controversia riguardo il Centro studi nucleari, che sarà infine collocato a Ispra (Varese). Stabilito l’acquisto di un reattore CP-5 a uranio arricchito (al 20% in 235U) e acqua pesante dalla società statunitense ACF Atomics (American Car & Foundry), per agevolare l’acquisizione presso le strutture di ricerca nazionali delle tecnologie disponibili, l’iniziale mandato di gestione e controllo del progetto (laboratori più reattore), conferito al CISE, fu trasferito dal 1957 al CNRN, che intanto, sotto la guida di Ippolito, era stato riformato e potenziato nelle strutture e nel personale. Non godendo ancora il CNRN di personalità giuridica, i trasferimenti patrimoniali del caso furono gestiti discrezionalmente attraverso opportune società di diritto privato, l’immobiliare ISPRA e NUCLIT SpA (quest’ultima, in quote azionarie distribuite tra Giordani e Ippolito, prese in carico buona parte del personale CISE già sul progetto). Tale anomalia fu sanata dal loro successivo scioglimento in conferimento al CNEN.

La controversia Ispra diede luogo a una vertenza arbitrale intentata dal CISE di De Biasi, che si risolse con un risarcimento di 250 milioni del CNRN (a titolo di versamento transattivo). Il Centro studi di Ispra fu inaugurato il 13 aprile 1959, appena in tempo per essere ceduto all’Euratom (il successivo 22 luglio), in forza degli accordi per la collocazione in Italia di un centro ricerche comune europeo (conseguentemente il CNRN avrebbe potenziato il nascente Centro ricerche della Casaccia, nei pressi di Bracciano, Roma), con roventi polemiche riguardo il valore economico dell’operazione (Salvetti, direttore del Centro, si dimise), che si riverbereranno poi sul caso Ippolito.

L’epoca d’oro del nucleare italiano

L’era inaugurata dal programma americano Atoms for peace, con le implicazioni industriali che ne derivavano (gli Stati Uniti potevano esercitare un ruolo dominante sul mercato dei reattori, rispetto a Gran Bretagna, Francia e Canada, fornendo anche quote in contributo per il loro acquisto), provocò lo spostamento degli interessi nucleari italiani dalla costruzione del reattore nazionale all’acquisizione di reattori, anche di potenza (per la produzione di energia elettrica). Pur nel contesto conflittuale descritto, e forse anche a causa del clima competitivo tra i protagonisti del settore volti a conquistare posizioni di rilievo in mancanza di chiari indirizzi di pianificazione (temendone l’intervento atteso e imminente eventualmente sfavorevole), nella seconda metà degli anni Cinquanta si realizzò in Italia la sfida alla costruzione di tre centrali nucleari. Edison, CNRN ed ENI ne furono gli artefici, peraltro con il non irrilevante esito di aver optato per tre filiere tecnologiche diverse (oltretutto sperimentali, per ognuna esistendone un gemello in costruzione parallela da collocarsi all’estero): circostanza favorevole per effettuare verifiche di processi funzionali riguardo le scelte che si riteneva dovessero interessare il potenziamento del sistema nucleare nazionale.

La Edison prese per prima, nel 1955, la decisione di realizzare una centrale per la produzione di energia elettrica, anche in ragione del percorso difficoltoso del CISE, di cui era azionista di primo piano, e dell’opportunità strategica di collocarsi all’avanguardia tecnologica di un settore critico per il peso nel dibattito sulla nazionalizzazione (che vedeva Edison in posizione di netta contrarietà).

L’impianto fu tuttavia l’ultimo dei tre a entrare in esercizio. Con un nucleo costituito da un reattore PWR (Pressurizzed Water Reactor) a uranio arricchito da 270 MWe (inizialmente era previsto avesse una potenza di 134 MWe), moderato ad acqua e raffreddato ad acqua pressurizzata (acquistato dalla Westinghouse), fu collocato a Trino vercellese (Vicenza), dopo una prima ipotesi di posizionamento a Moneglia (Genova). La SELNI (Società ELettroNucleare Italiana) fu appositamente costituita da Edison per il progetto con capitali privati (parteciparono con quote minoritarie SADE, SELT-Valdarno, Falck, Italcementi e la francese EDF, Electricité De France) e inizialmente pubblici provenienti da IRI-Finelettrica. Quest’ultima ne uscirà nel 1957 per formare la SENN (Società ElettroNucleare Nazionale), per la costruzione della centrale del Garigliano (Caserta), in cui confluiranno in partecipazione minoritaria anche alcuni privati (Romana e SGES) inizialmente coinvolti nella SELNI; SELNI incontrò rilevanti difficoltà nel beneficiare dell’erogazione, prevista attraverso l’IMI (Istituto Mobiliare Italiano), dello specifico finanziamento di 34 milioni di dollari che aveva ottenuto dalla Eximbank.

Sulla richiesta inoltrata allo Stato di garanzia di cambio (copertura del rischio variazioni cambio valutario) si registrò il parere negativo del governatore della Banca d’Italia, Donato Menichella, per il rischio inflattivo, e dei ministri del Bilancio e del Tesoro, rispettivamente Adone Zoli e Giuseppe Medici. Si ebbe infine la sospensiva del ministro dell’Industria Guido Cortese, anche a seguito delle sollecitazioni di Ippolito a tutela del primato del CNRN rispetto ai privati sulla tempistica di realizzazione delle rispettive centrali (Ippolito 1974; Curli 2000). Il finanziamento fu erogato, con ritardo, nel 1960, mentre i lavori iniziarono l’anno successivo; il reattore raggiunse la criticità (la condizione operativa in cui la catena di fissione nucleare si autosostiene) il 21 giugno del 1964, e iniziò a immettere in rete elettricità il 22 ottobre.

Diverso corso seguì il progetto caldeggiato dal CNRN: risoltosi nella costruzione di una centrale collocata in prossimità della foce del fiume Garigliano, con reattore BWR (Boilign Water Reactor) a uranio arricchito, moderato e raffreddato ad acqua bollente, da 150 MWe (acquistato da General electric), fu il coronamento del progetto ENSI (Energia Nucleare Sud Italia), sostenuto dalla Banca mondiale e dal governo italiano attraverso il coordinamento di merito del CNRN e della BIRS (Banca Internazionale per la Ricostruzione e lo Sviluppo), sotto la direzione, rispettivamente, di Ippolito e di Corbin Allardice.

ENSI, ideato per coltivare un doppio vantaggio – contribuire sia allo sviluppo del Mezzogiorno sul piano infrastrutturale e industriale attraverso la realizzazione di un polo energetico, obiettivo caro alla parte italiana, sia alla valutazione tecnico-economica degli impianti nucleari, secondo un vincolo imposto dalla Banca mondiale –, comportò un multidisciplinare studio di fattibilità. Furono presi in esame gli aspetti sia logistici e di sicurezza (collocazione dell’impianto rispetto alle esigenze degli approvvigionamenti delle acque di processo, sismicità e condizioni idrologiche e geomorfologiche del sito ecc.), sia economici (costi d’impianto secondo diverse opzioni tecnologiche, collocazione rispetto alla densità dei consumi previsti e al potenziale di industrializzazione ecc.). Intento primario della BIRS fu inoltre quello di svolgere una valutazione comparativa tra i costi di una centrale termonucleare e di una convenzionale termica. I risultati preliminari dello studio furono presentati nel 1958 alla II Conferenza di Ginevra (Rigano 2002). La costruzione della centrale del Garigliano, in carico alla SENN, fu sostenuta con l’erogazione di un finanziamento BIRS da 40 milioni di dollari – per la prima volta rilasciato per un progetto di utilizzazione dell’energia nucleare per usi pacifici –, veicolato dalla Cassa del Mezzogiorno. I lavori presero avvio nel 1960 e la centrale entrò in esercizio nel gennaio del 1964.

La terza centrale, collocata a Torre Astura, presso Borgo Sabotino (Latina), ideata per ultima, fu realizzata per prima, secondo le tempistiche accelerate tipiche dell’ENI di Enrico Mattei. Fu costruita dalla SIMEA (Società Italiana Meridionale per l’Energia Atomica), appositamente costituita nel 1957 dall’AGIP (Azienda Generale Italiana Petroli) nucleare (con capitale al 75%, essendo il rimanente 15% in quota IRI), un’azienda, questa, a sua volta di recente formazione con la finalità di occuparsi del ciclo dei combustibili nucleari. Questa centrale rispondeva al piano ENI d’integrazione industriale rispetto alla produzione di energia elettrica con posizionamento tecnologico avanzato. L’ipotesi di un ente nazionale per la gestione complessiva del sistema energetico (ENE), sostenuta dall’ENI in quanto naturale ambito di suo insediamento e poi non concretizzata, ne completava il contesto in modo coerente. In ottemperanza alla strategia ENI di politica industriale autonoma per l’incremento delle capacità tecnologiche del Paese, fu scelto un reattore con potenza di 200 MWe a uranio naturale, moderato a grafite e raffreddato a gas (GCR, Gas Cooled Reactors, MAGNOX), acquistato dall’inglese NPPC (Nuclear Power Plant Co.), che raggiunse la soglia di criticità il 27 dicembre 1962. La centrale iniziò a immettere energia elettrica in rete il 13 maggio 1963.

Alla terza conferenza mondiale sull’energia atomica di Ginevra (1964), l’Italia si presentava come terza potenza nucleare per usi pacifici, dopo Stati Uniti e Gran Bretagna: nel 1965 la produzione dei 600 MWe nucleari installati fu di 3,5 miliardi di kWh, pari al 4,2% della produzione totale di energia elettrica.

Oltre al risultato delle centrali elettronucleari, anche il settore della ricerca applicata e teorica faceva registrare interessanti prospettive. A Ispra, si erano aggiunti i centri di ricerca CNRN-CNEN della Casaccia (per fisica nucleare, calcolo e tecnologia dei reattori, radioprotezione, studi geominerari, ceramiche e metallurgia, genetica vegetale ecc., nonché sperimentazioni di vari reattori di ricerca), di Bologna (inizialmente per il calcolo numerico e poi anche per lo studio di reattori di ricerca, sulla neutronica e sui comportamenti dei reattori moderati a grafite e acqua pesante), di Saluggia (per ricerche sui combustibili nucleari), nel Vercellese nei pressi del centro SORIN (Fiat, Montecatini), dove era stato collocato il reattore di ricerca Avogadro; infine si era dato inizio alla costruzione del centro della Trisaia (Matera), che ospiterà un impianto di trattamento e rifabbricazione di elementi di combustibile nucleare (ITREC) da ciclo uranio-torio.

Pur nell’intento di sostenere ricerche per dotare il settore nazionale della competitività industriale sull’intera filiera nucleare, alcuni programmi CNRN-CNEN non conseguiranno i migliori risultati attesi: per es., il Progetto reattore organico (PRO), un reattore da 30 MWe moderato e refrigerato a fluido organico (miscela di difenili e terfenili), sperimentò problemi sulla circolazione del refrigerante che ne determinarono l’abbandono; il programma PCUT (Programma Ciclo Uranio Torio), per lo studio di elementi di combustibile basati su 233Th fissile prodotto per irraggiamento da 232Th fertile, trovò un limite invalicabile nella mancanza di un’opportuna filiera nazionale; il progetto EUREX (Enriched URanium EXtraction), per il ritrattamento di combustibili uranio-plutonio, originò la realizzazione di un impianto pilota a Saluggia che non troverà pieno impiego (cesserà di essere operativo nel 1984, e nel 2003, l’ENEA, che ne aveva acquisito la titolarità, lo cederà in gestione alla Sogin, la società dello Stato per la bonifica ambientale dei siti nucleari e la realizzazione del Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi).

Verso la fine degli anni Cinquanta la ricerca teorica dell’INFN, finanziata dal CNRN con il 20% delle sue risorse finanziarie, aveva intanto realizzato nei laboratori di Frascati un elettrosincrotrone da 1,1 GeV (un’energia record al tempo). Costruita dal 1957 al 1959, la macchina, un acceleratore circolare di elettroni, mise in condizione i fisici di ottenere notevoli risultati per lo sviluppo della teoria della classificazione delle particelle (risonanze pione-nucleone, diffusione elettrone-protone, decadimenti del pione neutro ecc.) e fornì il patrimonio di conoscenze tecniche e sperimentali per realizzare successivamente (1960) il primo anello a fasci incrociati per elettroni e positroni (AdA, Anello di Accumulazione), sulla base di un esperimento di Bruno Touschek, e l’anello di collisione per elettroni e positroni ADONE, da 1,5 GeV, che nel 1969 vantava il primato mondiale di energia.

La nazionalizzazione dell’energia elettrica, il caso Ippolito e l’inizio del declino

La legge di nazionalizzazione dell’energia elettrica (l. nr. 1643 del 6 dicembre 1962), con la relativa istituzione dell’ENEL (Ente Nazionale Energia Elettrica), comportò l’affermazione di un modello che superava quello delle partecipazioni statali, a favore della totale acquisizione da parte dell’ENEL delle aziende private nazionalizzate e conseguentemente indennizzate economicamente. Tale soluzione non fu ostile ai grandi gruppi elettrici privati che, attraverso i corposi indennizzi ricevuti ed erogati dall’ENEL, furono in condizione d’intraprendere iniziative in altri settori industriali. Nel periodo che precedette l’avvio del primo centrosinistra, ne sostenne le sorti un ampio schieramento politico che andava dalla destra economica ai partiti di sinistra preoccupati dall’eventuale e alternativo intervento dell’IRI (prevalentemente controllato dalla DC). Di contro l’ENEL, di cui era diventato direttore generale Angelini – più attento alle ragioni di economicità di breve termine del settore elettrico che alle prospettive di crescita del settore nucleare – e con Ippolito nel consiglio di amministrazione (insieme ad alcuni altri consiglieri di provenienza dalle nazionalizzate), si trovò a dover corrispondere un oneroso rateo annuale per gli indennizzi elettrici. Questa condizione compromise non poco le disponibilità dell’ente per lo sviluppo del programma nucleare.

Alla legge di nazionalizzazione era inoltre finalmente seguita la legge sugli usi pacifici dell’energia nucleare (l. nr. 1860 del 31 dicembre 1962), che specificava, limitandone lo spettro, i ruoli del CNEN (ricerca applicata, ricerca fondamentale, mediata dall’INFN, controllo degli impianti). In questo contesto deflagrava nell’estate del 1963 il caso Ippolito.

Con in carica il governo di transizione di Giovanni Leone, il cosiddetto governo balneare, per la sua breve durata (21 giugno-4 dicembre 1963), che aveva prodotto lo spostamento dal ministero dell’Industria al ministero del Tesoro di Emilio Colombo, uno dei referenti politici di Ippolito, una disputa a mezzo stampa sull’operato di Angelini in ENEL fu il pretesto per promuovere una vasta azione di denuncia contro Ippolito e la sua gestione del CNEN. Alcune critiche mosse da Scalfari su «l’Espresso», circa l’indirizzo a favore delle ex municipalizzate del direttore generale dell’ENEL, offrirono l’occasione all’esponente più autorevole del PSDI, Giuseppe Saragat, prossimo presidente della Repubblica (dicembre 1964), di criticare (inizialmente tramite l’agenzia di stampa di partito «Agenzia democratica»), al fine di difendere la linea Angelini, il modello gestionale di Ippolito al CNEN, a suo dire dispendioso al limite dello spreco:

Le polemiche sono sempre utili e proprio l’utilità dell’attacco s’è venuta rivelando a me, poiché esso era notoriamente ispirato da un membro del consiglio di amministrazione dell’ENEL e perché veniva quasi a proporre come modello da imitare nella gestione del grande ente elettrico i metodi e la mentalità che presiedono la gestione del Comitato nazionale per l’energia nucleare (cit. in Barrese 1981, p. 94).

Le argomentazioni di Saragat, peraltro ignaro di questioni energetiche e tanto più nucleari, riprese dal «Corriere della sera» e dal «Sole-24ore», innescarono eventi che porteranno all’arresto e alla condanna di Ippolito. Un dossier prodotto in Senato da una commissione di senatori democristiani (tra cui Giovanni Spagnolli, presidente della Confederazione per le municipalizzate elettriche) e giunto contestualmente alla visione del presidente del Consiglio, costituì la materia di reato per l’avvio di un’indagine da parte della magistratura; tale indagine faceva riferimento in particolare a società di comodo intestate a Ippolito e al padre Girolamo – professore di costruzioni idrauliche a Napoli, già dirigente IRI, presidente delle industrie SGES e Terni, e vicino alla posizioni meridionaliste di Giordani –, i quali avrebbero goduto di indebite consulenze dal CNEN.

Malgrado in sede dibattimentale non fosse provato il danno patrimoniale per lo Stato e il dolo nelle attività di mandato, potendole l’imputato motivare con la ricerca della massima efficienza per l’operatività del Comitato senza vantaggi personali, e malgrado gli attestati di stima provenienti sia dal mondo accademico nazionale (per es., attraverso una lettera di solidarietà firmata da 65 dei 70 titolari di cattedra di fisica) sia da esponenti della ricerca internazionale (lettera di conferma di correttezza inviata ai giudici da Hetienne Hirsch, ex presidente Euratom), Ippolito fu condannato a 11 anni di reclusione (avendone il pubblico ministero Romolo Pietroni richiesti 20), all’interdizione perpetua dai pubblici uffici e a sette milioni di lire di ammenda. Fu riconosciuto colpevole dei reati di interesse privato in pubblico ufficio e peculato internazionale – quest’ultimo relativamente alla cessione del centro Ispra a Euratom, per avere anticipato arbitrariamente un pagamento rispetto alla decisione poi formalizzata dal CNEN, pur in presenza della conferma del ministro competente Colombo di essere stato informato dei fatti –, secondo un impianto accusatorio ben descritto nel dispositivo della sentenza:

Non è necessario per la sussistenza del reato che l’attività dell’agente sia in conflitto con il pubblico interesse essendo sufficiente che essa sia incompatibile funzionalmente. Per ugual motivo il profitto o il danno patrimoniale non sono elementi necessari alla ipotesi del reato di interesse privato (cit. in Londero 2013, p. 167).

Il pubblico ministero Pietroni fece in seguito parte della Commissione nazionale antimafia e fu poi estromesso dall’ordine giudiziario – e tratto in arresto – per contiguità mafiose. Ippolito vide in appello ridotta la pena a cinque anni e tre mesi, essendo state ritenute infondate le accuse sulle società di comodo (tutti gli altri imputati dello stesso reato furono prosciolti), ma confermate quelle per distrazione di denaro in prassi non conforme ai fini del CNEN. Paradossalmente, Ippolito fu poi graziato dallo stesso Saragat dopo circa quattro anni di detenzione (marzo 1968), riacquistando i diritti civili e potendo tornare ad assumere incarichi istituzionali (fu parlamentare europeo nel periodo 1976-79, vicepresidente della Comissione scientifica nazionale per l’Antartide, membro della Commissione grandi rischi della Protezione civile). Tra le attività di rilievo di Ippolito, dopo la vicenda giudiziaria, spicca l’iniziativa editoriale per la divulgazione della cultura scientifica, che porterà alla realizzazione del periodico «Le Scienze».

Il caso Ippolito costituì un confine emblematico nel percorso del nucleare italiano. Esaurita la prima fase espansiva con l’entrata in esercizio delle tre centrali nucleari realizzate, che saranno acquisite dall’ENEL in forza della nazionalizzazione, il CNEN cessò di svolgere attività propulsiva per la realizzazione degli impianti, limitandosi, nella filiera industriale, al controllo degli stessi. Acquisirà importanza la Direzione sicurezza e protezione (DISP), anche per le sue competenze autorizzative nello sviluppo impiantistico, poi ammessa all’ENEA (Comitato nazionale per la ricerca e per lo sviluppo dell’Energia nucleare e delle energie alternative), in seguito alla trasformazione del CNEN nel 1982, e di nuovo funzionalmente assorbita da unità equivalenti nelle agenzie per l’ambiente succedutesi nel corso del tempo per gli adeguamenti istituzionali intercorsi: ANPA (Agenzia Nazionale per la Protezione dell’Ambiente), APAT (Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i servizi Tecnici), ISPRA (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale).

La pianificazione e la realizzazione del potenziamento del parco centrali nucleari passarono nelle facoltà dell’ENEL e il programma nazionale per la produzione di energia elettrica nucleare subì un oggettivo rallentamento, di particolare significato relativamente al decennio 1965-75 per gli effetti negativi sull’economia che ne conseguirono durante le crisi petrolifere degli anni Settanta.

Il panorama internazionale del nucleare per usi civili andava rapidamente mutando: il clima estremamente favorevole della fine degli anni Sessanta (negli Stati Uniti un settore ormai maturo che faceva registrare, nel solo 1967, ordinativi per 30 centrali) si trasformò nel decennio successivo in un contesto reso più problematico da vari fattori, con ricadute onerose sui costi d’impianto (inasprimento delle norme di sicurezza, aumento dei tempi di costruzione delle centrali, incremento del rischio di proliferazione di armi nucleari, nascita dei movimenti politici ambientalisti organizzati).

In Italia il settore declinava verso la stagnazione, zavorrato prima principalmente da insufficienti capacità di investimento (per es., il fondo di dotazione concesso all’ENEL dallo Stato per il programma nucleare con l. 253/1973, 250 miliardi in cinque anni, non consentiva di coprire neanche la differenza di costo, 300 miliardi in più, tra due unità da 1000 MWe e due termiche convenzionali corrispondenti in potenza) e poi, intervenute aggiuntive garanzie finanziarie da deliberazioni CIPE a sostegno di misure contro la crisi petrolifera, da problemi legati alla localizzazione degli impianti (la l. 393/1975 per l’agevolazione delle relative procedure non fu sostanzialmente mai applicata).

La misura di tale inerzia è fornita dalle dimensioni della potenza realmente installata rispetto agli intenti dichiarati nei piani ENEL e nei Piani energetici nazionali (PEN), con cui avrebbero dovuto integrarsi. Dopo il 1965, fu realizzata soltanto una centrale nucleare, collocata a Caorso (Piacenza), in prossimità del Po. Bandita nel 1967 la gara di appalto per il reattore, attivato il cantiere nel 1970, la centrale BWR da 850 MWe, l’unica costruita dall’ENEL, in sodalizio con il consorzio AMN (Ansaldo Meccanico Nucleare)-GETSCO (General Electric Technical Services COmpany), entrò commercialmente in funzione nel 1980.

Esemplare invece è il caso della centrale che non divenne mai la quinta. Nel 1971 ne fu deliberata la realizzazione, da collocarsi nel comune di Montalto di Castro (nell’alto Lazio), ma la costruzione dell’unità BWR da 1000 MWe, di cui si decretò anche la duplicazione in corso d’opera per portare la potenza dell’impianto a 2000 MWe, fu osteggiata con determinazione a livello sia locale sia nazionale (in particolare dal Partito radicale) da movimenti le cui prese di posizione furono rinforzate dai due incidenti nucleari di Three Mile Island e Černobyl´. Nel 1988 il governo De Mita stabilì la riconversione dell’unità ai combustibili fossili che, resasi tecnicamente non realizzabile, lasciò il campo al relitto della centrale nucleare (completa all’80%) e a un nuovo impianto a olio (4 gruppi) e turbogas (8 gruppi), da complessivi 3600 MWe.

Le pianificazioni ENEL, e in particolare quella governativa, si erano nel frattempo prodigate in proiezioni impegnative, aggiornate secondo l’evoluzione delle contingenze economiche e politiche, che risulteranno tuttavia sistematicamente vane: una centrale l’anno (relazioni ENEL 1971 e 1972); due unità l’anno da 1000 MWe dal 1973 al 1976 (ordinativi intenzionali ENEL); 8 unità da 1000 MWe (diramazione inviti ENEL alla presentazione di offerte, 1977); 20 unità da 1000 MWe entro il 1985, tra cui le quattro unità già ordinate dall’ENEL, due di Montalto e altre due che avrebbero dotuto essere situate in Molise, e le 8 di cui si sollecitava la diramazione delle offerte (PEN 1975, con previsione del soddisfacimento della domanda elettrica nazionale nel 1990 al 64% con fonte nucleare); 4 unità PWR da 1000 MWe entro il 1990, oltre ai 2000 MWe di Montalto di Castro, e 2 analoghe aggiuntive dopo il 1990 (secondo il piano standardizzato PUN, Progetto Unificato Nucleare, in attuazione del PEN 1981 con attribuzione di circa 13.000 miliardi di stanziamento per il nucleare nel decennio 1981-90, poi differito al 1995 attraverso l’aggiornamento PEN 1985).

Da Černobyl´ a Fukushima: rischio nucleare e sua percezione

Gli incidenti nucleari occorsi nelle centrali di Černobyl´ e Fukushima hanno fornito drammatici elementi per ridurre l’approssimazione nella definizione della portata del rischio associato agli impianti nucleari per la produzione di energia in merito a eventi non controllati. Hanno anche offerto ulteriore materiale di riflessione sul modo in cui tale rischio è percepito dalla popolazione, in particolare in Italia.

Černobyl´, senza dubbio uno spartiacque nella storia del nucleare, ha causato una catastrofe ambientale, economica e sociale, con gravi implicazioni sanitarie (ma minori di quanto generalmente ritenuto). L’unità 4 della centrale fu portata in condizioni di fondere, determinando la peggiore condizione incidentale possibile in un reattore nucleare (la fusione a cielo aperto).Il reattore interessato, di concezione sovietica RBMK da 1000 MWe ad acqua leggera e moderato a grafite, era privo della struttura di contenimento in cemento armato (vessel), esterna ai moduli di contenimento a vani dei singoli componenti, prevista negli impianti occidentali per scongiurare il rilascio in atmosfera di materia radioattiva in caso di incidente grave. A determinare l’incidente fu la deliberata imperizia di alcuni operatori incaricati di effettuare un test di funzionamento dei sistemi di emergenza in condizioni critiche (al limite del dolo, come fu confermato dalle successive condanne dei tribunali sovietici). Condotto manualmente il controllo del reattore, avendone disattivato il sistema automatico (in questa configurazione di nocciolo, in particolare, necessario e complesso vista la singolare geometria) per raggiungere la potenza di esperimento, e disattivati anche i sistemi automatici di spegnimento e refrigerazione, ne venne provocata la forte instabilità che giunse al limite provocando due forti esplosioni capaci di scoperchiare l’edificio e incendiare la grafite a contatto con l’aria atmosferica.

Fuoriuscì tra il 2,8 e il 4% della massa del nocciolo, pari a un contenuto radioattivo di circa 80 milioni di Curie (1 Curie [Ci]=3,7 miliardi di Becquerel [Bq]; 1 Bq=1 decadimento al secondo), distribuendosi per lo 0,3-0,5% sul sito della centrale, per l’1,5-2% in un raggio di 20 km, e dall’1 all’1,5% estensivamente oltre questo raggio verso tutto l’emisfero boreale. Iodio 131 (tempo di dimezzamento, 8 giorni), cesio 134 (tempo di dimezzamento, 2 anni), cesio 137 (tempo di dimezzamento, 30 anni) furono i principali radionuclidi a cui risultarono esposte le persone colpite da radiazioni. Nelle prime settimane, 28 operatori della centrale rimasero vittime dell’incidente, in un gruppo di 134 esposti ad alte dosi di radiazioni, 0,8-16 Gy (1 Gray=1 J/Kg), che subirono danni biologici, su 600 presenti. Entro un raggio di 30 km dall’impianto furono evacuate 115.000 persone, esposte a dose equivalente di radiazione pari a 30 mSv (1 Sievert=1 J/Kg); per confronto, la radiazione media di fondo naturale è pari a 2,4 mSv/anno, in Italia 3 mSv/anno con variazioni locali, e una TAC comporta un’esposizione fino a 15 mSV. Si calcola che coloro che hanno continuato a risiedere nelle zone contaminate siano stati esposti a ulteriori 9 mSv nelle successive due decadi.

Negli anni successivi, circa 220.000 persone sono state rimosse dalle zone di residenza nelle aree più colpite di Bielorussia, Russia e Ucraina. I circa 530.000 operatori, tra militari e civili, delle attività di bonifica condotte dal 1986 al 1990, i cosiddetti liquidatori, hanno ricevuto dosi di radiazioni da 0,02 a 0,5 Gy. I più gravi effetti sanitari si sono manifestati a carico di bambini e adolescenti al tempo dell’incidente, circa 6000 casi di tumore alla tiroide (imputabili all’assunzione di latte contaminato da iodio radioattivo). Oltre a qualche indicazione dell’aumento del tasso d’incidenza di leucemia tra i liquidatori più esposti, non ci sono evidenze di incremento di leucemie e tumori solidi nella popolazione delle zone colpite (UNSCEAR 2008). In Italia, malgrado i toni allarmistici proposti in genere dalla stampa e dallo schieramento antinucleare, intenti a promuovere le reazioni meno razionali di una popolazione peraltro già incline a tali atteggiamenti, il passaggio della nube radioattiva non comportò alcun effetto sanitario. L’esposizione media su ciascun abitante fu valutata in 1,6 mSv (3,6 mSv al Nord, 0,9 mSv al Centro e 0,3 mSv al Sud). Non considerando gli aspetti tecnologici e logistici peculiari dell’incidente di Černobyl´, che ne facevano un evento sostanzialmente non riproducibile sul suolo nazionale (e in Occidente), fu tuttavia promossa la campagna referendaria per bloccare definitivamente il già asfittico progetto nucleare.

L’incidente nucleare di Fukushima, del marzo 2011, ha drammaticamente riproposto la complessità della gestione del rischio nucleare anche negli aspetti della corretta e oggettiva comunicazione alla popolazione. Provocato da uno tsunami di anomala gravità, causato a sua volta da un sisma di eccezionale intensità (magnitudo momento simico Mw=9), i quali hanno inflitto al Giappone 15.703 morti, 4647 dispersi, 5314 feriti e centinaia di migliaia di sfollati, ha coinvolto l’impianto termonucleare a reattori BWR di Fukushima Daiichi. A causa dell’onda d’urto dello tsunami (più alta di 7 m), superiore alla massima di progetto prevista (6 m), i sistemi di raffreddamento primari e secondari non furono in grado di operare per scongiurare il surriscaldamento dei noccioli dei reattori 1, 2, 3, già disposti in configurazione di spegnimento (shutdown), in osservanza del protocollo di emergenza sismica, e della vasca di stoccaggio per il combustibile esausto del reattore 4. Le molteplici conseguenti esplosioni distruttive, innescate dall’idrogeno prodotto per reazioni di ossidazione ad alta temperatura tra acqua (e vapore) e la lega di zirconio del rivestimento delle barre di uranio, determinarono significativi rilasci di materia radioattiva, prima in atmosfera e successivamente anche in mare, malgrado la sostanziale tenuta dei vessels di contenimento ne abbia limitato la portata.

Essendo ancora in fase preliminare la valutazione degli effetti sanitari della popolazione esposta alle radiazioni, alcuni dati ne consentono una prima stima. Dei 20.155 operatori degli interventi di emergenza, 167 hanno segnalato un’esposizione superiore a 100 mSv, soglia critica per l’insorgenza di patologie tumorali. La popolazione della prefettura di Fukushima non sembra peraltro sia stata sottoposta a dosi di radiazione superiori a 10 mSv. Maggiori preoccupazioni destano i bambini del villaggio di Namie (poco a Nord della centrale), per potenziali esposizioni alla tiroide tra 100 e 200 mSv, anche se verifiche su un campione di 1000 bambini non hanno rivelato dosi superiori a 50 mSv (Brumfiel 2012).

L’incidente nucleare di Fukushima, classificato di livello 7, il massimo grado della scala di gravità degli incidenti IAEA, in cui ricade anche Černobyl´, ha rappresentato un caso senza precedenti, in quanto causato da un cataclisma di dimensioni non previste in un Paese a tecnologia avanzata, e ha contribuito a determinare su scala mondiale un radicale ripensamento delle strategie di sviluppo dell’energia nucleare. In Italia il dibattito che ne è scaturito si è tuttavia inserito negli argomenti della polemica sulla proposta di riattivazione di un programma nazionale per il nucleare civile, già viziata da posizionamenti pregiudiziali e pregressi in merito alle vicende trascorse del settore, e minata da un’azione politica di sostegno non trasparente del governo (Berlusconi IV). Anche la seconda tornata elettorale sul nucleare non ha favorito una valutazione razionale delle implicazioni (rischi, svantaggi e vantaggi) della fonte energetica nucleare.

Qualcosa rimane

Dopo i referendum del 1987 il nucleare nazionale per usi civili rimase di interesse dell’ENEA (dal 1991, Ente per le Nuove tecnologie, l’Energia e l’Ambiente, e dal 2009 con la nuova denominazione di Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile), per l’ambito della ricerca, e della Sogin, per il decommissioning degli impianti, la gestione della bonifica dei siti nucleari, dei rifiuti radioattivi e per la progettazione e realizzazione del parco tecnologico finalizzato a contenere il Deposito nazionale dei rifiuti radioattivi, politicamente assai difficoltosa per la crescente ostilità delle popolazioni locali eventualmente interessate (come dimostrato dal caso di Scansano Jonico nel 2003).

L’ENEL, privatizzata nel 1992, avendo mantenuto il ministero del Tesoro come azionista di riferimento, dopo aver partecipato al progetto industriale del Superphenix – il reattore veloce autofertilizzante (FBR, Fast Breeding Reactor) in grado di produrre più combustibile di quanto consumato attraverso la trasformazione di 238U in plutonio utilizzabile –, darà luogo a programmi di sviluppo della fonte energetica nucleare all’estero. Realizzato a Creys-Malville (Rodano, Francia) in consorzio al 33% con EDF (51%) e con la compagine anglo-tedesca-belga-olandese SBK (16%), Superphenix sarà produttivo in modo discontinuo dal 1985 al 1998, per essere poi definitivamente fermato a causa di problemi al circuito di raffreddamento primario al sodio liquido.

Oltre a gestire diversi impianti in Spagna e Slovacchia (rispettivamente attraverso le controllate Endesa e Slovenské Elektrárne), l’ENEL ha in corso partecipazioni per la costruzione di nuovi impianti, in particolare nell’EPR (European Pressurizzed Reactor) di Flamaville (Normandia, Francia), il reattore di terza generazione da 1600 MWe refrigerato e moderato ad acqua leggera, munito di ridondanti sistemi di sicurezza attivi e passivi (doppio vessel di contenimento e doppia struttura esterna in cemento armato) e ottimizzato per utilizzare in modo flessibile diverse tipologie di combustibile (uranio arricchito fino al 5%, uranio riprocessato, o MOX, Mixed OXide fuel, una miscela di ossidi di uranio depleto e plutonio).

L’ENEA, in continuità con i compiti che furono del CNEN, ha mantenuto e implementato linee di ricerca sia sulla fissione sia sulla fusione nucleari. Per la fissione, linee d’interesse riguardano sistemi nucleari di nuova generazione, per es., per quanto riguarda gli impianti di IV generazione, reattori refrigerati a metallo liquido (LFR, Lead cooled Fast Reactor, e SFR, Sodium cooled Fast Reactor) e a gas (VHTR, Very High Temperature Reactor); caratterizzazione dei materiali per reattori, per es. dei materiali strutturali, quali acciai austenitici, acciai ferritici-martensistici, acciai ODS (Oxide Dispersion Strengthened), a ossidi dispersi, acciai ricoperti; sviluppo di sistemi per il miglioramento della sicurezza nello smaltimento dei rifiuti nucleari. Per la fusione, settore ritenuto strategico anche per il coinvolgimento delle industrie nazionali nello sviluppo della componentistica (per es., Ansaldo ricerche, TRATOS Cavi), l’ENEA partecipa al progetto internazionale ITER (International Thermonuclear Experimental Reactor) per la costruzione di un reattore sperimentale a fusione nucleare a Cadarache (Francia), con contributi, tra gli altri, nell’ambito delle ricerche per l’industrializzazione di componenti – è stata, per es., attribuita all’industria italiana la costruzione di cavi e magneti superconduttori e della camera a vuoto –, e delle sperimentazioni per il confinamento magnetico attraverso il Frascati tokamak upgrade (FTU), macchina per lo studio dei plasmi che opera in condizioni di elevato campo magnetico (8 tesla).

Opere

E. Fermi, Le masse nella teoria della relatività, in A. Kopff, I fondamenti della relatività einsteiniana, Milano 1923, pp. 342-44.

E. Severini, Accenni sulla costituzione della materia e sul problema del combustibile atomico, «Elettrotecnica», 1941, 28, pp. 11-14, 94-97, 118-21, 144-45, 169-71.

E. Rossi, Il mezzo estremo delle nazionalizzazioni, in La lotta contro i monopoli, a cura di E. Scalfari, Bari 1955, pp. 227-60.

E. Rossi, Dialoghi plutonici: atomo ed elettricità, «Il Mondo», 1956, 52.

M. Silvestri, Il costo della menzogna. Italia nucleare 1945-1968, Torino 1968.

E. Amaldi, Da via Panisperna all’America, a cura di M. Battimelli, G. De Maria, Roma 1997.

Bibliografia

F. Ippolito, F. Simen, La questione energetica. Dieci anni perduti 1963-1973, Milano 1974.

O. Barrese, Un complotto nucleare. Il caso Ippolito, Roma 1981.

B. Curli, Il progetto nucleare italiano (1954-1962), Soveria Mannelli 2000.

A.R. Rigano, La Banca d’Italia e il progetto ENSI, «Quaderni dell’Ufficio ricerche storiche della Banca d’Italia», 2002, 4.

P. Cacace, L’atomica europea, Roma 2004.

L. Lagorio, L’ora di Austerlitz-1980. La svolta che mutò l’Italia, Firenze 2005.

L. Nuti, La sfida nucleare. La politica estera italiana e le armi atomiche 1945-1991, Bologna 2007.

U. Spezia, Italia nucleare. Dalla pila di Fermi al dissesto energetico, Milano 2009.

G. Brumfiel, Fukushima’s doses tallied, «Nature», 2012, 485, pp. 423-24.

I. Londero, Felice Ippolito intellettuale e gran commis, tesi di dottorato, Università degli studi di Trieste 2013, https://www.openstarts.units.it/dspace/bitstream/10077/8618/1/Londero%20phd%20-%20F.Ippolito%2c%20intellettuale%20e%20Grand%20Commis.pdf (12 ottobre 2013).

Si veda inoltre:

UNSCEAR (United Nations Scientific Committee on the Effects of Atomic Radiation), Health effects due to radiation from the Chernobyl accident, in Sources and effect of ionizing radiation, 2° vol., 2008, pp. 45-220, http://www.unscear.org/docs/reports/2008/11-80076_Report_2008_Annex_D.pdf (12 ottobre 2013).