L'Europa tardoantica e medievale. Il cristianesimo nelle regioni occidentali. Il gruppo episcopale

Il Mondo dell'Archeologia (2004)

L'Europa tardoantica e medievale. Il cristianesimo nelle regioni occidentali. Il gruppo episcopale

Gisella Cantino Wataghin
Chiara Lambert

La cattedrale

di Gisella Cantino Wataghin

Ecclesia cathedrae e più tardi cathedralis (diffuso a partire dal X sec.) indicano nelle fonti medievali la chiesa principale della diocesi, nella quale la comunità riconosce se stessa in funzione delle prerogative del vescovo che la guida e dove trovano spazio e celebrazione i momenti più significativi del calendario liturgico.

Già in età tardoantica la cattedra è assunta a segno della dignità e della funzione episcopale (cathedra S. Petri, id est episcopatus: Martirologio Geronimiano, 15 Kl. Febr.), ma può designare anche i luoghi della pastorale nel territorio diocesano (cathedrae: s. Agostino), nel momento in cui questa è ancora condotta principalmente dal vescovo, e non soltanto la ecclesia della sede vescovile; i dati archeologici confermano anche al di fuori dell’Africa la presenza di cattedre in posizione centrale nel presbiterio di chiese rurali o di centri mai assunti al rango episcopale; l’esigenza di distinguere i rispettivi ruoli è peraltro palese nella denominazione di cathedrae matrices adottata già nel concilio di Cartagine del 418. L’evoluzione semantica accompagna gli sviluppi dell’organizzazione diocesana e il progressivo affermarsi del ruolo del vescovo quale vertice di una ben definita struttura gerarchica e quale referente, al tempo stesso, della comunità civile, di cui è l’esponente più autorevole. È dunque impropriamente che il termine “cattedrale” viene applicato alla chiesa principale di un centro episcopale in età paleocristiana; la consuetudine tuttavia, fatta propria anche dagli studiosi più critici, può considerarsi legittimata dalla continuità di funzione religiosa e di valori ideali fra questa e la cattedrale medievale, che della prima conserva per lo più l’ubicazione, se non le strutture.

Testimonianze monumentali e fonti scritte forniscono una documentazione consistente, anche se non omogenea e spesso ancora da elaborare, a partire dall’età carolingia, mentre essa è molto più lacunosa per i secoli precedenti. Schedature critiche sono state realizzate per le chiese anteriori all’XI secolo di una vasta area comprendente Belgio, Germania, Olanda, Austria, Polonia, Svizzera, Slovacchia, Repubblica Ceca e settori di confine di Francia, Italia e Danimarca, alle quali purtroppo non si affiancano studi analoghi per le altre regioni. Su questi pesano il silenzio pressoché generale dei testi contemporanei e i limiti delle indagini archeologiche, che solo in ridotta percentuale hanno interessato il contesto di chiese cattedrali, di rado inoltre con scavi di ampio respiro e con risultati esaurienti: eccezionale, e con valore ormai “da manuale”, il caso di Ginevra, cui si contrappongono per la loro problematicità ancora irrisolta gli scavi pur estesi di Treviri e Colonia. Più spesso i dati recuperati sono troppo frammentari per consentire di definire anche solo i punti essenziali: impianto, sequenza strutturale, cronologia. Tra i problemi di fondo ancora aperti, primario è quello della identificazione di una cattedrale paleocristiana. Se appare ormai chiara l’impossibilità di accettare senza una preliminare revisione critica le indicazioni della storiografia medievale, è altrettanto evidente che allo stato attuale delle conoscenze mancano criteri certi che consentano di riconoscere la funzione episcopale di un edificio di culto. Non sembrano infatti essere indici di valore assoluto le caratteristiche strutturali o le dimensioni – significative solo in termini relativi – né la presenza della cattedra o l’associazione con il battistero, non esclusive, né la continuità con la cattedrale medievale, che ammette delle eccezioni e non è dunque, da sola, criterio discriminante.

L’ubicazione infine può orientare a favore di una chiesa urbana, piuttosto che cimiteriale, stante quella che appare essere la prassi generale là dove è netta la distinzione di funzioni, ma è di scarso aiuto a individuare la ecclesia mater nel caso di più edifici di culto urbani. Valore maggiore rispetto ai caratteri dell’edificio di culto vero e proprio potrebbe avere il riconoscimento delle strutture annesse, destinate alle varie esigenze della funzione episcopale, ma le condizioni delle indagini archeologiche ne fanno un caso estremamente raro (ad es., Aix-en-Provence, dove la presenza della cattedrale è segnalata dal battistero e dai resti dell’episcopio). Di fatto, quando manchino fonti esplicite, l’identificazione di una chiesa episcopale paleocristiana può risultare solo da un concorso di argomenti, da valutare di volta in volta in relazione agli specifici contesti dei singoli centri. È su questa base del resto che vengono plausibilmente interpretate come tali anche chiese per le quali manca una contestuale attestazione vescovile (ad es., Aosta).

L’assenza di singoli caratteri distintivi è propria anche delle cattedrali pertinenti agli episcopati non cattolici, difficilmente individuabili dunque su base archeologica anche là dove la loro esistenza sia sicura: così quelle monofisite in Cirenaica, quelle donatiste in Africa o quelle ariane nella stessa Africa, in Gallia, Spagna, Italia. A questo proposito va però osservato che la presenza di vescovi ariani, a seguito delle occupazioni vandala, gota, longobarda, sembra tradursi anche nell’occupazione di edifici già esistenti, occasionalmente nella stessa Africa e forse con maggior frequenza in Italia (si pensi alla rivendicazione di una basilica da parte della comunità ariana al tempo di Ambrogio), dove rimane peraltro il dubbio sul numero effettivo di vescovi ariani. Costruzioni apposite sono attestate a Pavia (S. Eusebio) e Ravenna (S. Spirito); per la Gallia vi è la menzione da parte di Gregorio di Tours di due cattedrali distinte a Angoulème, Vienne, Narbonne; in altri casi le ipotesi d’identificazione formulate su criteri, più o meno solidamente argomentati, di verosimiglianza storica lasciano comunque aperta l’alternativa fra costruzione o destinazione ariana (Benevento, Parma, Salona, Torino).

La vicenda delle cattedrali ha inizio con le prime fondazioni in età costantiniana e prosegue poi nei secoli successivi, con il progressivo articolarsi della rete diocesana. Nonostante i testi parlino già nel III secolo di edifici di culto a carattere monumentale, occasionalmente indicati anche come “basiliche” e paragonati per la loro grandiosità ai templi pagani, le fonti archeologiche indicano che è solo al riconoscimento della libertà religiosa, in centri dove la ecclesia ha raggiunto una consistenza e/o un ruolo di rilievo, che si accompagna la costruzione di un edificio di culto con caratteristiche architettoniche specificamente cristiane, destinato a essere la sede primaria della pastorale nonché fulcro dei servizi della diocesi, presso il quale il vescovo fissa la propria residenza (resti archeologici a Roma, Aquileia, Treviri, Napoli; è considerata verosimile, tra le altre, la fondazione della Basilica Vetus di Milano), condizione necessaria, ma all’apparenza non sufficiente, perché la “chiesa episcopale” si sostituisca alla domus ecclesiae, semplice luogo di preghiera della comunità; in effetti, in non pochi centri i primi resti monumentali si collocano a qualche distanza dalla prima attestazione della diocesi.

Anche se va fatta giusta parte ai limiti della documentazione, che può non aver evidenziato eventuali fasi più antiche (così, ad es., a Brescia e a Lione), o alla possibilità di un trasferimento di sede – ipotizzato per una serie di cattedrali provenzali –, è evidente che nella fondazione della chiesa episcopale intervengono fattori diversi, attinenti alla struttura socioeconomica della comunità, ai modi del suo inserimento e alla sua funzione nella compagine cittadina, non ultimo allo spirito d’iniziativa dei singoli vescovi. È probabile che questi abbiano avuto parte non secondaria anche nel caso delle fondazioni attribuite all’iniziativa di Costantino (Roma, Napoli, Gerusalemme, Costantinopoli): il loro ruolo è sicuramente determinante nella costruzione delle altre cattedrali contemporanee e acquista tanto maggior rilievo in seguito. Se nel secondo decennio del IV secolo l’epigrafe dedicatoria della cattedrale di Aquileia ricorda insieme al vescovo Teodoro il contributo della comunità, più tardi è il vescovo ad assumersi intera la responsabilità delle iniziative edilizie; alle celebrazioni del vescovo promotore, fatte nei sermoni in dedicatione o in reparatione basilicae e nei testi letterari (Zenone di Verona; Cromazio di Aquileia; Massimo di Torino; Sidonio Apollinare; Venanzio Fortunato), si accompagnano quelle enunciate in iscrizioni collocate in punti chiave, architettonici o liturgici, dell’edificio stesso (Narbonne, metà V sec., eccezionale per la ricchezza di informazioni sulla costruzione; Grado; Parenzo; Trieste; Luni; Bari, VI sec.; Salisburgo, VIII sec.).

L’accesso all’episcopato di membri di importanti famiglie e il costituirsi di un patrimonio della Chiesa, spesso considerevole, facilitano certo l’azione autonoma del vescovo, che non esclude tuttavia la persistenza anche nel contesto della cattedrale dell’evergetismo privato (si pensi ai donatori di mosaici pavimentali o alla costruzione di un battistero da parte di un privato a Rodez alla fine del V sec.), o il riprendere in età carolingia dell’evergetismo imperiale; ma l’accento posto sul ruolo del vescovo soprattutto dal V-VI secolo (si pensi anche alle raffigurazioni di Ecclesio e Massimiano sui mosaici di S. Vitale o al ricorrere del topos del “vescovo costruttore” nell’agiografia altomedievale) risponde al rafforzarsi della sua funzione guida della compagine cittadina e all’assimilazione più o meno esplicita dei suoi compiti a quelli delle antiche magistrature. Nella cattedrale si riassume una volontà di immagine, che raggiunge il suo culmine in epoca comunale, quando essa è segno esplicito della dignitas civitatis, in una elaborata affermazione del significato politico-religioso della matricità.

Le chiese episcopali paleocristiane sorgono in genere in contesto urbano, entro la cinta muraria là dove questa esiste, secondo una prassi non codificata, ma coerente con la loro funzione, distinta da quella martiriale e/o cimiteriale delle chiese suburbane. L’identificazione di queste ultime quali sedi originarie dell’ecclesia appare ormai chiaramente frutto di una tradizione storiografica di remota formazione (accenni in questo senso si colgono già in Gregorio di Tours, Hist. Franc., I, 33), ma superata da un’attenta critica delle fonti medievali. I casi sicuri di cattedrali sorte al di fuori dell’area urbana, in ambito cimiteriale, sono pochissimi, limitati per ora a una serie di diocesi sarde (Cornus, dove è stata riconosciuta l’insula episcopalis, fulcro di un’area funeraria impiantata nel IV sec. su strutture termali romane, e in analogia Cagliari, Porto Torres, Olbia, Sant’Antioco, Fordongianus); queste paiono formare un contesto coerente, legato verosimilmente a particolari condizioni insediative, che rimangono tuttavia da precisare; va comunque sottolineato che, al di là del rapporto con le sepolture, che è problema in parte diverso, l’ubicazione extramuranea è desunta dal rapporto con la città romana, in mancanza di possibilità di confronto con la realtà insediativa tardoantica e altomedievale.

In altri casi il nesso con aree funerarie tardoantiche e/o l’ubicazione extramuranea sono espliciti per la cattedrale altomedievale (in Italia Concordia, Modena, Imola, Trento, Ancona, Arezzo); la funzione episcopale in età paleocristiana è asserita solo da tradizioni, che l’eventuale attestazione della precoce esistenza di un edificio di culto (Concordia, Modena) non è sufficiente a confermare. Pur senza escludere la possibilità di soluzioni particolari, paragonabili a quelle sarde, il riferimento alla situazione più diffusa e in questo senso “normale” autorizza l’ipotesi di un trasferimento precoce dell’episcopio da una originaria sede urbana, effettivamente attestato in alcuni casi da fonti contemporanee (Velletri, a. 592), di cui può facilmente essere andata perduta la memoria là dove queste manchino. Il trasferimento della cattedrale rimane comunque un fenomeno raro nei primi secoli e circoscritto anche in seguito, legato a motivazioni particolari (ad es., Arles, metà V sec.; Efeso, scorcio del VI sec.; Canosa, Alto Medioevo; Lucca, inizi VIII sec.; Vercelli, X-XI sec.); esso può essere talvolta indotto dalla traslazione della sede episcopale a seguito di riassetti territoriali: il ritardo con cui ciò può avvenire rispetto all’effettivo mutamento del quadro insediativo è un’ulteriore conferma della forte valenza del sito della cattedrale come locus sacer della comunità. La cattedrale non occupa una posizione fissa nel contesto urbano: se è frequente la sua ubicazione periferica, a ridosso delle mura (ad es., Roma, Brescia, Torino, Luni, Pesaro, Metz, Grenoble, Tours, Salona), ricorrono ugualmente quella nel centro cittadino (ad es., Costantinopoli, Albenga, Como, Napoli, Agrigento, Benevento, Fréjus) e molte possibili soluzioni intermedie (ad es., Aquileia, Milano, Verona). Queste diverse scelte non sono riconducibili a costanti di tipo cronologico o regionale o di altra natura, anche a causa di datazioni forzatamente approssimate dei resti archeologici e della base statistica molto limitata; devono comunque aver agito di volta in volta fattori diversi, quali la realtà insediativa, gli spazi disponibili, i finanziamenti, i modi della persistenza delle strutture organizzative e materiali della città antica, tutti dati che nella maggior parte dei casi sono ignoti. La valenza stessa di queste scelte può non essere univoca: se la posizione periferica della basilica costantiniana di Roma la colloca chiaramente ai margini della città, non può dirsi lo stesso delle cattedrali di agglomerati di modeste dimensioni, quali sono la maggioranza dei centri episcopali tardoantichi e altomedievali; la marginalità potrebbe al caso emergere non da un’astratta valutazione planimetrica, ma dal confronto con la destinazione funzionale dei diversi quartieri, di fatto non proponibile per mancanza di dati.

Merita comunque rilevare che nel VI secolo la centralità della cattedrale nei confronti dell’impianto urbano appare un fatto indiscusso, se si considerano da un lato il trasferimento di quella di Arles, dalla periferia sud-orientale all’area forense, dall’altro la collocazione nell’acropoli di quella di Caričin Grad, città “nuova”, il cui progetto urbanistico si suppone quindi libero da condizionamenti di preesistenze. È una centralità funzionale e ideale, che giustifica il peso che la cattedrale esercita sugli sviluppi urbani, quale elemento chiave della nuova gerarchia di poli e di percorrenze da cui si forma la città medievale; presenza dominante per l’estensione dei suoi annessi e per l’emergenza delle sue strutture sulla modesta edilizia abitativa dell’Alto Medioevo, può diventare il fulcro di nuove organizzazioni spaziali, tanto più facilmente quando l’identità del complesso episcopale venga accentuata da una fortificazione, come spesso avviene in età carolingia, oppure, se suburbana, fattore genetico di nuovi nuclei abitativi. In ragione delle molteplici funzioni che si raccolgono intorno alla cattedrale, l’edificio di culto vero e proprio risulta coordinato con un insieme di strutture, destinate ad accogliere le attività pastorali e amministrative della diocesi: il battistero, ovviamente, ma anche la residenza del vescovo (domus episcopalis o episcopium, comprensiva spesso di una cappella o oratorio), gli ambienti di rappresentanza e gli uffici, destinati a banchetti, a riunioni ufficiali di vario livello, compresi i concili, agli archivi, alle opere caritative (triclinium, salutatorium, secretariummatricula), le strutture di servizio; possono aggiungersi ancora biblioteche, locali per la vita comune del clero, praticata da alcuni vescovi già nella Tarda Antichità (xenodochium, per l’accoglienza ai pellegrini, monasterium, per la formazione dei religiosi seminaristi) e ulteriori edifici di culto destinati a specifiche devozioni. Insieme costituiscono la domus ecclesiae cui fanno riferimento i testi, che viene oggi abitualmente indicata con la locuzione “gruppo episcopale”.

Composizione effettiva e organizzazione interna dei singoli complessi non sono soggette ad alcuna norma, come appare dai casi in cui sono direttamente verificabili, non molti peraltro, in quanto legati all’esistenza di scavi sufficientemente estesi e attenti al contesto dell’edificio di culto e non a questo soltanto; fra i più significativi Ginevra, Aosta, Salona, Stobi, Filippi. Anche in questi casi tuttavia risulta difficile qualificare l’uso dei diversi “annessi”; solo alcuni schemi planimetrici (tricore o ambienti polilobati) o apparati decorativi particolari consentono ipotesi di identificazione di triclini o aulae di ricevimento (Roma, Ginevra, Fréjus). È altrettanto arduo per lo più definire le fasi e l’articolazione cronologica delle singole parti di complessi che gli scavi più recenti hanno dimostrato essersi sviluppati per successive addizioni o essere stati soggetti a rimaneggiamenti estremamente frequenti (Ginevra, Aosta, Aquileia). Le ricerche recenti hanno anche confermato la notevole diffusione nei gruppi episcopali paleocristiani dello schema a “basilica doppia”, individuato ad Aquileia, riscontrato o più spesso ipotizzato in seguito su una vasta area geografica, estesa dalla Gallia alle regioni orientali; esso è caratterizzato dall’associazione di due edifici di culto ugualmente importanti e per lo più simili sul piano strutturale ed è adottato già in età costantiniana per la cattedrale di Aquileia e per quella di Treviri. In entrambi i casi le due aule di culto sono affiancate e vi è interposto il battistero. Questa disposizione è piuttosto frequente (Ginevra, Rouen, Parenzo, Salona, Napoli), ma si riscontra anche una disposizione assiale (probabilmente a Milano); in alcuni casi, apparentemente una minoranza (Aquileia, Treviri, Parenzo), le due basiliche sono frutto di un progetto unitario; più spesso risultano realizzate in tempi successivi, anche se talvolta molto ravvicinati (Ginevra, Rouen). Premesso che si può parlare di basilica doppia solo nel caso in cui le due chiese siano state in uso contemporaneamente (fatto discusso, ad es., per le due basiliche post-teodoriane di Aquileia; anche la basilica nord di Treviri sembra sia stata in abbandono fra V e VI sec.), la sua funzione è tuttora discussa, pur se è concordemente ammessa la complementarità delle due chiese sul piano liturgico; è probabile che il problema non ammetta una risposta univoca e che l’uso sia stato diverso nel tempo. Per il gruppo teodoriano di Aquileia è persuasiva l’interpretazione che vuole l’aula nord destinata alla celebrazione eucaristica e quella sud all’istruzione dei catecumeni, con un raccordo reso coerente dal percorso della liturgia battesimale. Per Treviri invece è legittima, anche se da dimostrare, l’ipotesi di una destinazione martiriale della basilica settentrionale; questa funzione è sicura per la chiesa cruciforme del gruppo episcopale di Salona e troverebbe confronto nell’associazione della cattedrale di Gerusalemme all’Anastasis. Questa interpretazione della “basilica doppia” era già stata avanzata da J. Hubert (1952) in base alle titolature delle cattedrali attestate a partire dall’Alto Medioevo, di cui tuttavia non è precisabile l’effettiva antichità, che associano spesso la dedica a un santo a quella alla Vergine.

All’introduzione del culto martiriale nelle chiese urbane si deve verosimilmente lo schema a doppia abside contrapposta, proprio delle cattedrali e più in generale delle chiese africane. Da ultimo, si è proposto che le due chiese fossero destinate rispettivamente alla liturgia festiva e a quella feriale (Piva 1990). Sembra invece da escludere come paleocristiano l’uso alternato delle due chiese secondo le stagioni dell’anno liturgico, attestato in età carolingia. Nonostante esso ponga l’ecclesia aestivalis sul medesimo piano, a una delle due, spesso quella dedicata alla Vergine, si inizia a riconoscere in questo periodo una maggiore importanza; su di essa si concentrano segni di devozione, sepolture episcopali e interventi edilizi, che modificano gli equilibri fra le componenti del gruppo episcopale: si delinea una tendenza all’unificazione, da cui emerge dopo il Mille l’unica chiesa con la quale si identifica pressoché ovunque la cattedrale. In periodo carolingio l’assetto dei gruppi episcopali è modificato anche dalla costruzione di claustra, dove trovano spazio le comunità di canonici istituite secondo le norme riformatrici di Crodegango di Metz, con tutte le loro dipendenze, e dalla erezione di sistemi difensivi, che definiscono lo spazio infra domum, da cui possono peraltro rimanere esclusi edifici, anche di culto, pur pertinenti al complesso episcopale.

Sotto il profilo architettonico le cattedrali paleocristiane non sono legate a una tipologia specifica – al riguardo non esiste d’altronde una normativa della gerarchia ecclesiastica – anche se appaiono legate fin dalle origini alla formulazione stessa dello schema basilicale. La chiesa fondata da Costantino a Roma per papa Silvestro è infatti una monumentale basilica a cinque navate, così come quelle di Napoli e, più tardi, quelle di Milano e Ravenna; sono invece a tre navate le due basiliche di Treviri (dove non è scartata l’ipotesi di cinque navate per la basilica nord) e un numero rilevante di chiese episcopali dell’orbis Christianus; non mancano però edifici da un lato a navata unica (ad es., Aosta; Ginevra, basilica nord; Alba; Viviers; Cimiez), dall’altro i casi in cui lo schema dell’edificio è determinato, in misura maggiore o minore, dal reimpiego di strutture preesistenti (Aosta, Cimiez, Riez). Entrano in gioco di volta in volta impegno finanziario e progettuale, tradizioni costruttive, condizionamenti del contesto materiale e culturale, eventuali modelli. La terza chiesa del gruppo episcopale di Ginevra, costruita nel VII secolo, introduce un’articolazione a tre absidi del settore presbiteriale, che nel secolo precedente è proposta in forme diverse dalla cattedrale di Teurnia (presbiterio trilobato) e ritorna in altre fondazioni di VII-VIII secolo (ad es., Paderborn e Metz), legata verosimilmente agli sviluppi della liturgia e all’importanza assunta dal clero, anche se l’uso preciso degli spazi rimane da chiarire. Questi fattori determinano, nella piena età carolingia, la complessa struttura delle cattedrali monumentali (absidi contrapposte, Westwerk: ad es., Paderborn, Colonia, Hildesheim, Halberstadt, Treviri) e interventi generalizzati sugli edifici esistenti, che interessano soprattutto la zona presbiteriale; essi hanno come elemento qualificante l’introduzione di una cripta, legata all’importanza assunta dal culto delle reliquie, e la conseguente sopraelevazione del presbiterio, che d’altro canto tende ad ampliarsi per fare spazio ai collegi dei canonici.

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Il battistero

di Gisella Cantino Wataghin

Il battistero, inteso come insieme di strutture adibite ai riti di battesimo, ha un ruolo di grande rilievo nell’architettura paleocristiana e più in generale tardoantica, che è testimoniato da una documentazione archeologica importante ed è funzione diretta della centralità del battesimo nel percorso religioso del cristiano e della solennità dell’azione liturgica che lo accompagna.

Le indagini più recenti hanno messo in luce la notevole complessità di una realtà architettonica e liturgica difficilmente riconducibile a schemi di classificazione troppo rigidi, che non sarebbero comunque proponibili, dati i limiti della documentazione; per quanto abbondante, questa non va spesso oltre il dato planimetrico, lasciando aperti problemi costruttivi, strutturali, di cronologia e di organizzazione nel quadro di un preciso contesto funzionale: non di rado manca qualunque dato sull’edificio di culto cui il battistero fa capo e/o sui modi del loro collegamento. A questo riguardo, le numerose fonti attinenti ai riti battesimali non sono uno strumento di interpretazione sufficiente, sebbene la documentazione archeologica attesti esplicitamente l’attenzione che è prestata allo spazio nel quale viene amministrato il battesimo nel quadro del programma architettonico della Chiesa e del valore che esso può assumere anche sul piano dell’immagine della comunità e del suo prestigio. È legittimo ritenere che il battistero acquisti una specifica identità nel III secolo, nel momento in cui si procede a una sistematizzazione della catechesi e della liturgia battesimale e si individuano al tempo stesso i primi luoghi di culto permanenti. Come per questi ultimi, ne rimane tuttavia problematica l’identificazione, con la sola eccezione di quello della domus ecclesiae di Dura-Europos. Dopo il 313, nel contesto dello sviluppo monumentale degli edifici di culto cristiani, il battistero appare attributo irrinunciabile della chiesa episcopale: è d’altronde nel quadro della vita liturgica ordinaria della comunità che si svolge l’istruzione dei catecumeni. Ciò non esclude tuttavia la presenza del battistero anche in contesti diversi, in relazione tanto al decentramento della cura pastorale, che accompagna il progresso della cristianizzazione, quanto dell’inserimento del battesimo nell’ambito del culto martiriale. A Roma nel V secolo le chiese titolari – o molte fra esse – risultano dotate di un battistero, presente anche a S. Maria Maggiore e identificato con sicurezza almeno a S. Marcello al Corso e a S. Cecilia.

I battisteri si moltiplicano anche in altri grandi centri, talvolta forse per la compresenza di comunità di diversa osservanza. Nei centri minori e nelle zone rurali il battistero caratterizza le chiese con funzione di cura animarum; scavi recenti hanno arricchito la documentazione sulle chiese battesimali in Occidente, la cui rete sembra costituirsi fra il V e il VI secolo. Per contro, già in età costantiniana le fonti segnalano la costruzione a Roma di un battistero in connessione con il santuario martiriale, quello di S. Agnese sulla via Nomentana, dove secondo il Liber Pontificalis (I, p. 180) sarebbero state battezzate la sorella e la figlia di Costantino; qualche decennio più tardi fa seguito la realizzazione del battistero di S. Pietro in Vaticano e quindi di quelli di S. Paolo e S. Lorenzo f.l.m. Fuori Roma numerose testimonianze archeologiche, ugualmente distribuite in regioni e contesti diversi, si affiancano alle indicazioni delle fonti (Corinto, basilica di Kraneion; Efeso, S. Giovanni; Costantinopoli, Chalcoprateia; Cagliari, S. Saturno; Nola; Tours; Clermont-Ferrand). Si inserisce verosimilmente in questo orizzonte anche il battistero del cimitero di Ponziano a Roma, mentre quello della catacomba di S. Gennaro a Napoli rientra nell’allestimento dell’episcopio al tempo di Paolo II (762-766).

A questa prassi fa riscontro quella di collocare reliquie nei battisteri urbani o rurali, in genere d’immediata evidenza perché al caso incide sugli arredi (altare e/o reliquiario; eccezionale l’iscrizione celebrativa a mosaico del battistero di Albenga) e solo indirettamente sulle strutture, ma probabilmente altrettanto diffusa, considerato il risalto del culto martiriale nella religiosità del tempo. È probabilmente la presenza di reliquie a comportare un’estensione delle funzioni del battistero a oratorio, come indicano alcune fonti, e soprattutto a luogo di sepoltura. La documentazione al riguardo è occasionale e particolarmente lacunosa in relazione sia al tipo delle tombe sia alla loro cronologia, genericamente riferita all’orizzonte altomedievale; il fenomeno sembra comunque interessare tanto i battisteri urbani che quelli rurali e si traduce in inumazioni – evidentemente ad sanctos – all’interno del vano battesimale, più spesso nelle sue immediate adiacenze (Milano, S. Giovanni; Albenga; Die; Riva Ligure; Valle Ponti; Dokovaca; Casa Herrera). Almeno in certi contesti (Italia, Francia) i battisteri paleocristiani non cessano di essere usati anche quando viene abbandonata la pratica del battesimo per immersione, sia che conservino la loro funzione originaria, sia che, trasformati in cappelle, ne conservino solo memoria con il titolo di S. Giovanni. È di fatto frequente in età medievale il restauro o rifacimento di battisteri paleocristiani, quando non la costruzione di nuovi organismi battesimali, che dei più antichi riprendono l’icnografia; in assenza di puntuali indagini archeologiche estese agli elevati rimane spesso problematico l’inquadramento delle singole emergenze (ad es., Pisa e Firenze; in ambito più modesto S. Ponso Canavese, Torino, e Cureggio, Novara).

Le forme architettoniche adottate per i battisteri sono diverse, così come le soluzioni per il loro raccordo con l’edificio di culto; al riguardo non sembrano essere esistiti criteri normativi, nemmeno a carattere locale; il silenzio delle fonti in proposito, già ricordato, è d’altronde significativo. Alcune linee di tendenza, che emergono in certe aree, dove la documentazione è più consistente, non escludono molteplici variabili e sono verosimilmente determinate da fattori diversi – tradizioni architettoniche e pratiche costruttive, non meno che nessi di ordine religioso e socioculturale fra le singole comunità – il cui rispettivo contributo non è quantificabile a priori ed è comunque di rado oggetto di approfondimento critico. Denominatore comune, stante la pratica generale del rito per immersione, almeno in condizioni normali (solo in ambiente britannico sembra essere stato praticamente un rito misto, per “affusione”), è l’evidenza della vasca battesimale, intorno alla quale si organizza la struttura del vano, che privilegia di conseguenza schemi centralizzati; la vasca stessa – le cui forme presentano una varietà anche maggiore di quella degli edifici, con un rapporto che al di là delle rispondenze più ovvie rimane in ampia misura da chiarire – è spesso, specie nel IV-V secolo, di dimensioni notevoli e monumentalizzata da un ciborio, con ovvie implicazioni sull’ampiezza del vano che la contiene.

A partire dal battistero costantiniano della Basilica Lateranense, tale vano presenta spesso una pianta ottagonale, senza che le implicazioni simboliche dell’ogdoade, acutamente colte da Ambrogio sullo scorcio del IV secolo, debbano ritenersi determinanti della scelta iniziale; si tratta infatti di un tipo che l’architettura tardoromana matura dall’esperienza dei secoli precedenti ed elabora con destinazioni funzionali diverse (termale, funeraria, residenziale) e che in contesto cristiano si qualifica per la sua rispondenza a monumentalizzare un vano che ha il suo fulcro nella vasca battesimale. Pur senza esserne esclusivo (ad es., quello di S. Sofia di Costantinopoli) l’ottagono ha indici di presenza elevati specie in Italia centro-settentrionale, nella forma semplice, oppure a nicchie libere o entro perimetro esterno ottagonale o quadrangolare (Pisa, Aquileia, Grado, Castelseprio, Milano, Albenga, Novara, Lomello). I battisteri provenzali (Aix-en-Provence, Riez, Marsiglia, Fréjus) costituiscono un gruppo particolarmente coerente, che traduce in termini di maggiore o minore monumentalità il ruolo delle rispettive chiese episcopali.

Per contro, alcune aree non sembrano aver privilegiato forme particolari (è il caso del Dodecaneso). L’ottagono può rimanere, come a Roma, un edificio autonomo dalla chiesa, rispetto alla quale si colloca in posizioni diverse, in ragione verosimilmente di peculiarità liturgiche, ma anche di concrete disponibilità di spazi edificabili e di rapporto con il contesto urbano; non sono molti i casi in cui il nesso funzionale fra le due strutture si traduce in una disposizione assiale, con il battistero affrontato alla chiesa e, eventualmente, un atrio di raccordo (ad es., Aquileia, Parenzo, Novara). L’adozione di altre forme architettoniche complesse a simmetria centrale, anch’esse ben inserite nel quadro delle esperienze tardoromane, sembra avere carattere più episodico (edifici tetraconchi a Grenoble, Gravedona, Caričin Grad; circolari a Efeso, S. Maria; a Cos, S. Giovanni). Molto più frequente è invece la scelta di semplici schemi quadrangolari, usati anche nei casi in cui il battistero conserva una precisa individuabilità strutturale (Lione, Ginevra, Mergozzo), ma soprattutto quando è destinato a funzione battesimale un vano adiacente alla chiesa. La soluzione non è necessariamente riduttiva rispetto al ruolo che il battistero ha nel complesso cultuale; può infatti tradurre non meno dell’edificio autonomo un preciso programma liturgico e architettonico: non a caso è proposta in età costantiniana nel gruppo episcopale di Treviri, di fondazione imperiale. Anche quando risulti dall’adattamento a specifici condizionamenti, non esclude una monumentalizzazione sia pur relativa dell’ambiente, affidata eventualmente ai complementi decorativi e/o agli arredi (ad es., Cimiez e Aosta). La generalità degli schemi quadrangolari ne rende pressoché impossibile una classificazione, anche semplicemente su base geometrica. Si può tuttavia rilevare come la prevalenza della pianta quadrata, d’altronde ovvia, non escluda esempi di vani rettangolari.

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L’episcopio

di Chiara Lambert

Il termine episcopio (dal lat. tardo episcopium, der. di episcopus) indica la residenza del vescovo e gli ambienti funzionali all’espletamento delle attività pastorali. Nelle fonti letterarie tardoantiche e altomedievali, che riservano la qualifica di palatium alle dimore dei detentori del potere civile, questo complesso di edifici viene generalmente citato come domus ecclesiae, trasferendo alle strutture abitative e di rappresentanza dei vescovi una denominazione inizialmente utilizzata per le sale dove si riunivano le comunità dei cristiani nei secoli che precedono la costruzione di basiliche concepite espressamente per lo svolgimento della liturgia eucaristica.

Le strutture dell’episcopio, destinate a favorire la presenza stabile del presule nel centro diocesano da lui diretto, sorgono sin dalle origini in stretta connessione architettonica con i principali elementi costitutivi del gruppo episcopale, la chiesa cattedrale e il battistero. Significativo, al riguardo, l’esempio della residenza papale presso la basilica Salvatoris voluta da Costantino. Le fonti, del resto, sono esplicite circa questo rapporto – episcopus non longe ab ecclesia hospitiolum habeat (Statuta Ecclesiae Antiquae, Concilia Galliae, a. 475 ca., can. 1, XIV, 314-506); aedes episcopi sit prope locum qui vocatur atrium. (...) aedes presbyterorum et diaconorum sit post baptisterium (Testamentum Domini Nostri Jesu Christi, V sec., Malaspina 1975) – confermato in molti centri anche dall’evidenza archeologica. Ad Aquileia l’episcopio riferibile alla seconda metà del V secolo, ma che ricalca verosimilmente una disposizione già precedente, è stato individuato a nord-ovest della basilica settentrionale ed è adiacente al lato nord dell’atrio di collegamento tra quest’ultima e il battistero. Uno schema analogo e sostanzialmente contemporaneo compare nel complesso cosiddetto “eufrasiano” di Parenzo, in Histria. A Firenze alcuni resti murari segnalati tra il palazzo vescovile di età romanica e il battistero di origine paleocristiana permettono di ricostruire per la fine del V - inizi del VI secolo un allineamento basilica-battistero-episcopio lungo un asse estovest. Il rapporto tra gli ultimi due elementi della sequenza architettonica era assicurato da un passaggio pensile, che immetteva nel deambulatorio superiore dell’aula ottagonale: una delle finestre attuali reca infatti tracce evidenti di un precedente varco verso l’esterno. Per Napoli i dati emersi da indagini archeologiche, invero non adeguate all’importanza del sito, permettono di ipotizzare la posizione dell’episcopio a est del complesso costituito da due chiese parallele con interposto battistero. Il triclinio – l’accubitum citato dalle fonti – attribuito al vescovo Vincenzo (seconda metà VI sec.) sarebbe sorto nello spazio occupato dall’attuale sacrestia. La disposizione parallela di cattedrale, battistero ed episcopio sembra essere stata adottata anche a Cornus, dove scavi nel gruppo episcopale hanno provato un rapporto diretto, garantito da uno spazio aperto e lastricato, tra la verosimile residenza vescovile e il battistero.

Solo raramente, tuttavia, le indagini archeologiche hanno consentito di restituire a ciascun ambiente la funzione originaria all’interno di complessi talora molto articolati planimetricamente, ma privi di connotazioni che permettano di identificarne le singole componenti altrimenti che come stanze di abitazione o locali di servizio. Gli annessi delle basiliche condividono infatti con i coevi edifici privati tanto gli schemi planimetrici quanto le soluzioni in elevato e, salvo i casi di sedi vescovili di particolare prestigio, in cui anche i vani di servizio abbiano assunto, per dimensioni e/o ricchezza dell’apparato decorativo, un evidente carattere di monumentalità, fino a tempi recenti l’interesse degli studiosi si è concentrato quasi esclusivamente sulle strutture propriamente religiose, riservando ai resti murari a esse connessi, per lo più privi di un’identità riconoscibile, un’attenzione inadeguata. Va inoltre considerata la notevole disomogeneità della documentazione archeologica relativa alle due distinte aree del mondo antico: il numero e la qualità degli interventi variano sensibilmente tra la pars Orientis e la pars Occidentis, anche in relazione ai diversi destini storici che le hanno interessate rispettivamente e che risultano determinanti per i frequenti casi di abbandono dei siti in Oriente, o di sistematica continuità insediativa, e di conseguente riuso delle strutture architettoniche, che caratterizza i centri occidentali. A titolo di esempio si può ricordare che elementi dell’episcopio sono stati individuati a Stobi in Macedonia. A Costantinopoli, dei molti ambienti citati dalle fonti sussistono ancora, al di sopra della scala sud-est di S. Sofia, il piccolo e il grande secreton, fatti realizzare nel terzo quarto del VI secolo dal patriarca Giovanni III Scolastico. Per Salona, nell’antica Dalmatia, l’importanza degli edifici religiosi ha attratto l’attenzione degli studiosi più del quartiere residenziale vescovile, per il quale lo stato di conservazione dei resti non consente di andare oltre la localizzazione e una generica attribuzione di funzioni; a Zara si ipotizza soltanto una continuità insediativo-funzionale tra l’episcopio paleocristiano e quello attuale. Si possiedono scarsissimi dati sulle fasi più antiche delle chiese urbane della Penisola Iberica: solo per Barcellona è stata ipotizzata un’identificazione del quartiere episcopale, che risulta non meno problematica per il sito portoghese di Egitania. Per la Francia le risultanze archeologiche sono estremamente limitate e una situazione analoga si riscontra in Italia, dove la casistica di strutture relative all’episcopio assomma a meno di dieci unità.

Il quadro delle conoscenze sugli antichi episcopia risulta tuttavia meno incompleto correlando le emergenze dei diversi siti con le citazioni indirette contenute in un discreto numero di fonti letterarie. Gli ambienti più propriamente residenziali della domus ecclesiae vengono citati con maggiore frequenza dalle fonti di VI secolo, in particolare Venanzio Fortunato e Gregorio di Tours: nei loro scritti si fa riferimento in diverse occasioni al vestibulum (Autun), al cubiculum o stanza da letto del vescovo (Clermont), alla mensa canonica (Bourges), dove i membri del clero prendevano in comune i loro pasti. La presenza di letti triclinari in queste sale da pranzo, di cui si ha testimonianza per alcune città della Gallia (Clermont, Lisieux) e per Ravenna, dove il triclinium era ad quinque accubita, con cinque letti semicircolari posti in altrettante absidi (Agnellus, Vita Neonis, ed. Testi Rasponi 1924), è provata archeologicamente per le residenze episcopali di Costantinopoli e del Laterano in Roma, nota nella sua struttura altomedievale, dove il triclinio era triabsidato. Un altro elemento che risponde alle esigenze di rappresentanza delle dimore vescovili è il salutatorium. Citata con relativa frequenza nelle fonti, questa sala di ricevimento è stata individuata in via di ipotesi a Fréjus in un vano pavimentato a mosaico a est della chiesa principale e con relativa sicurezza a Grado, dove tale funzione viene comunemente attribuita a un ambiente rettangolare di 7,3 x 3,5 m circa, tangente al lato meridionale della basilica di S. Eufemia. Il carattere ufficiale di questo annesso, edificato dal vescovo Elia nell’ultimo quarto del VI secolo, è provato dalla pavimentazione musiva, nel cui settore orientale domina un tondo con il monogramma del patriarca e un’iscrizione celebrativa. Viene riconosciuta come salutatorium anche una sala rettangolare di 9,4 x 5,5 m rimessa in luce lungo il muro perimetrale sud della cattedrale meridionale di Ginevra: si tratta di un’aula edificata entro la metà del V secolo, dotata di un sistema di riscaldamento di costruzione alquanto accurata e pavimentata con un tappeto musivo suddiviso in quarantacinque riquadri. La decorazione pavimentale, quasi esclusivamente geometrica, doveva essere integrata da pitture murali, di cui è stata individuata un’ampia fascia di colore rosso alla base delle pareti parzialmente conservatesi in elevato. Tracce di usura riscontrate nei settori orientale e meridionale del mosaico hanno fatto ipotizzare la presenza di piccole panche di legno o di seggi individuali accanto al trono vescovile, che verosimilmente era collocato a est. Un ampio passaggio aperto sulla parete nord permetteva di accedere al presbiterio della cattedrale, mentre una seconda porta doveva aprirsi sul lato breve occidentale, che si affacciava su una viuzza laterale rispetto alla chiesa.

Il complesso episcopale ginevrino ha restituito anche altre strutture riferibili alla residenza vescovile e alla vita comunitaria del clero urbano in età paleocristiana: a ovest del supposto salutatorium, due sale trapezoidali che misurano insieme 10,85 x 6,5-8 m, dotate anch’esse di un sistema di riscaldamento, pavimentate in cocciopesto; una di queste doveva avere la parete nord decorata da un mosaico, di cui sono state rinvenute numerose tessere di pasta vitrea, colorate e dorate. Questa abitazione di V secolo, dotata di terme private, era senza dubbio in relazione con il gruppo episcopale, così come un’altra grande sala riscaldata, di 8-10 x 5,75 m, pavimentata in cocciopesto, rimessa in luce a est, dietro l’abside del battistero. Per quest’ultimo locale, di IV-V secolo – sul cui prolungamento meridionale vi erano altre due stanze, successivamente unificate –, è stata proposta l’identificazione con la sala per i pasti comunitari del clero; l’ipotesi troverebbe conferma, oltre che nelle sue dimensioni, anche nella vicinanza con una più modesta costruzione in legno adibita a macelleria, come provato dal gran numero e dalla varietà di ossa di animali recanti evidenti tracce di macellazione. Le cucine dovevano sorgere verosimilmente accanto a questa struttura di servizio. La coeva residenza del vescovo, con relativo impianto di riscaldamento, è stata individuata nel settore più orientale del quartiere episcopale, dove verrà mantenuta fino alla fine del Medioevo. A sud degli ambienti propriamente abitativi, affiancati a loro volta da magazzini per la conservazione delle derrate alimentari, venne eretta una cappella privata. In origine, stando alle fonti, non tutti gli episcopi dovevano esserne dotati, ma a partire dall’età medievale gli oratori separati dalla cattedrale diverranno una costante per tutti i palazzi vescovili.

Come attestano ancora le fonti, i complessi qui esaminati potevano essere forniti di terme private: se ne possiedono importanti prove archeologiche per il citato caso di Ginevra e per Ravenna. In questa città gli scavi condotti nel 1980 nell’isolato adiacente all’attuale piazza Arcivescovado hanno permesso di individuare le terme e i balnea ricordati da Agnello come un’opera rinnovata al tempo di Vittore, nella prima metà del VI secolo; tale vescovo, oltre a farli decorare con marmi e mosaici, avrebbe anche fatto realizzare un’iscrizione musiva con la quale concedeva al clero ravennate l’autorizzazione a servirsi delle terme due volte la settimana (Agnellus, Vita S. Victori, ed. Testi Rasponi 1924). L’indagine archeologica ha rimesso in luce cinque vasche, rettangolari e semicircolari, di dimensioni diverse, dotate di un impianto di riscaldamento e rivestite di intonaci e lastre marmoree. Il rinvenimento è un’ulteriore conferma dell’importanza dell’episcopio di Ravenna, le cui strutture sono ricordate in varie occasioni da Agnello, ma di cui si conserva solo il monasterium Sancti Andreae apostoli, un piccolo oratorio con pianta a croce greca preceduto da un vestibolo rettangolare, fatto erigere da Pietro II tra la fine del V e gli inizi del VI secolo e oggi cappella arcivescovile. Con le età medievale e moderna, in Occidente si accentua la connotazione palaziale delle dimore episcopali, in concomitanza con l’accresciuto potere pubblico del vescovo e con il carattere di concorrenzialità che esso assume spesso nei confronti delle autorità civili. Si spiega in tal modo la ricerca di siti fortificati o fortificabili per il trasferimento della cattedrale e degli edifici amministrativi e residenziali che le afferiscono – come a Genova, a Imola o a Grasse –, o il potenziamento difensivo delle antiche strutture, che vengono arricchite contestualmente di ambienti più idonei alla vita comunitaria dei canonici, come frequentemente verificato in siti provenzali quali Aix-en-Provence, Avignone, Fréjus, Viviers.

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