L'UNESCO, l'Europa e la definizione delle identità regionali

L'Italia e le sue Regioni (2015)

L'UNESCO, l'Europa e la definizione delle identità regionali

Melania Nucifora

Identità regionale versus Stato-nazione nel secondo Novecento

Nell’ottobre del 2012, nel pieno di una crisi profonda, l’Unione Europea è stata insignita del Nobel per la pace come istituzione che «da oltre sessant’anni contribuisce a promuovere pace, riconciliazione, democrazia e diritti umani in Europa». Questa fu, in effetti, la scommessa di Robert Schuman fondata sulla condivisione delle risorse strategiche contese per secoli. Quattro anni prima della Comunità europea del carbone e dell’acciaio (CECA) un’altra istituzione era nata sulle macerie della Seconda guerra mondiale con l’obiettivo di perseguire la pace fra i popoli: l’UNESCO (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organization), agenzia specializzata delle Nazioni Unite. Profondamente diversa era la natura di questi progetti, comune però l’ispirazione che li animava, nel quadro della crescente cooperazione internazionale, a costruire un dialogo fra i popoli su terreni nevralgici come lo sviluppo economico e la cultura.

Alla scala mondiale o a quella circoscritta dell’Europa occidentale tali organismi, profondamente diversi fra loro, si fondavano sulla medesima cellula-base: lo Stato-nazione, protagonista dei processi in nuce. Intorno al modello dello Stato-nazione l’ONU (Organizzazione delle Nazioni Unite) avrebbe costruito i percorsi di decolonizzazione e di transizione all’indipendenza e alla democrazia. Sul riconoscimento delle espressioni culturali nazionali, come manifestazioni diverse di un genio creativo universale, l’UNESCO avrebbe elaborato il proprio modello operativo, articolandolo su commissioni nazionali emanazione dei governi. Dal conflitto mondiale gli Stati-nazione dell’Europa occidentale uscirono in definitiva rafforzati. Nel volgere di un decennio, nel contesto del disegno comunitario, persino la Germania sconfitta, seppure mutilata, avrebbe ristabilito una sovranità pressoché piena, sancita dall’ingresso nel 1955 nella NATO (North Atlantic Treaty Organization). Gli USA, preso atto nel corso dell’esperienza dell’ERP (European Recovery Program) dell’impossibilità di una ricostruzione europea d’impronta federalista, orientarono il loro impegno verso la costruzione di un quadro di cooperazione economica e politica in grado di agevolare il rafforzamento economico e democratico dei Paesi dell’Europa occidentale e di contenere la ripresa della Germania e il suo riarmo. Bipolarismo e guerra fredda funsero da ulteriore fattore stabilizzante, garantendo uno schema entro il quale gli Stati europei trovarono presto una duratura collocazione.

Eppure nel corso dei decenni successivi – sotto profili diversi che definivano campi d’azione per molti versi complementari – le istituzioni comunitarie e l’UNESCO avrebbero contribuito all’emergere di identità regionali, in relazione dialettica con l’identità degli Stati-nazione. Alla fine del 20° sec. ‘fatto regionale’ e ‘identità locale’, concetti massicciamente presenti nel linguaggio ufficiale degli organismi internazionali, erano divenuti temi chiave del dibattito politico e culturale nazionale.

La riflessione intorno all’influenza di tali organismi sulla costruzione delle identità regionali italiane implica un discorso preliminare sul tema dell’identità insidioso perché necessariamente sintetico a fronte di una letteratura pressoché sterminata. Sul piano dei profili identitari regionali, però, è senz’altro possibile ritrovare una natura prevalente delle sollecitazioni, peculiare e diversa a seconda che il punto d’osservazione sia quello dell’Europa comunitaria o quello dell’UNESCO e dei suoi corpi associati. Nel primo caso, infatti, il ragionamento sull’identità regionale passa in modo determinante dalla lettura del processo di formulazione dei profili giuridici della cittadinanza e dell’autonomia e ha contenuto prevalentemente politico-istituzionale, nel secondo, piuttosto, deve confrontarsi con un sempre più denso e problematico dibattito intorno alle nozioni di appartenenza, cultura e diversità culturale che coinvolge discipline diverse e riflette acquisizioni progressive.

Si potrebbe riassumere, con un eccesso di sintesi, affermando che il progetto comunitario ha inciso e incide prevalentemente sollecitando processi di regionalizzazione interna da parte degli Stati membri, volti alla definizione e al rafforzamento di ‘comunità politiche’ autonome e alla ristrutturazione del rapporto centro-periferia. Al contrario, l’azione d’indirizzo dell’UNESCO attraverso l’elaborazione di contenuti culturali da parte dei suoi corpi tecnici consultivi (International council of museums, ICOM; International council on monuments and sites, ICOMOS; International centre for the study of the preservation and restoration of cultural property, ICCROM; International union for conservation of nature, IUCN), ha stimolato dibattiti disciplinari culminati nell’avvento di una vigorosa ‘riscossa identitaria’ all’inizio degli anni Novanta. Le implicazioni di quest’ondata identitaria hanno investito le politiche istituzionali, culturali e territoriali, presupponendo il riconoscimento di ‘comunità culturali’, insediate in altrettante regioni culturali i cui caratteri, frutto di un peculiare rapporto uomo-ambiente, divenivano perno di nuove retoriche dello sviluppo.

A supportare questa distinzione fra ‘regione istituzionale’ e ‘regione culturale’, studi giuridici recenti che indagano la presenza di elementi identitari negli atti normativi regionali, con particolare attenzione agli statuti, fanno riferimento a due precise definizioni di ‘comunità politica’ e di ‘comunità culturale’. Mentre le comunità politiche definiscono la propria identità attraverso la condivisione di valori costituzionali e di norme dell’ordinamento giuridico statale, operando in uno spazio territoriale ritagliato sulla base del diritto statale a prescindere da autonome decisioni degli individui che vi appartengono, le comunità culturali (anche quelle costituzionalmente garantite) sono costituite da individui accomunati da storia, lingua, costumi, e caratterizzate dalla presenza di fattori culturali comuni, liberamente condivisi in un certo momento storico (Cordini 1998, p. 207 e segg.; Imparato 2010, p. 21).

Sebbene le sollecitazioni dell’Europa comunitaria e dell’UNESCO si manifestino dunque lungo traiettorie distinte, i processi sopra descritti appaiono scanditi da snodi temporali significativamente analoghi. Una prima cesura si colloca tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio dei Settanta, in corrispondenza con l’emergere della domanda di partecipazione ai processi decisionali e di democratizzazione della cultura espressa dai movimenti collettivi: tali istanze iniziano a produrre da una lato rilevanti effetti sull’architettura istituzionale e sulle strategie comunitarie, dall’altro un profondo rinnovamento dei paradigmi culturali, destinati, in ambo i casi, a incidere sulla formulazione di profili identitari regionali. Un secondo snodo temporale, tra la fine degli anni Ottanta e la fine degli anni Novanta, si caratterizza per una maturazione del problema identitario aperto negli anni Settanta e delle sue implicazioni in materia di sviluppo, maturazione che traspare dall’incorporazione del concetto di identità locale nel linguaggio ufficiale degli organismi internazionali negli anni Novanta.

Queste corrispondenze temporali sono segnale di una relazione tra i due processi. Infatti, è senz’altro vero che il discorso comunitario ufficiale si tenne a lungo significativamente distante da un’esplorazione profonda dei contenuti culturali del problema identitario, la cui conflittualità latente, ricca di implicazioni politiche, avrebbe avuto impatto destabilizzante sul processo d’integrazione. D’altro canto, però, questi contenuti, elaborati nel grande incubatore dell’UNESCO e veicolati dai saperi esperti, riecheggiarono nel linguaggio delle classi dirigenti regionali impegnate sulla scena europea e furono centrali nella battaglia per il riconoscimento istituzionale comunitario e nella conquista di nuovi spazi di autonomia per le regioni.

Regione economica versus regione istituzionale

I due decenni che separarono il Congresso dell’Aia del 1948 – che aveva decretato insieme la nascita del Consiglio d’Europa e la prima sconfitta dell’opzione di un’integrazione politica – dalla Conferenza dell’Aia del 1969 – che segnò la fine dell’era gollista e il rilancio della costruzione europea su basi più ampie – furono cruciali per il consolidamento del progetto comunitario. Questo periodo fu segnato da fughe in avanti e tensioni paralizzanti ma anche dal consolidamento di uno spazio tecnico-disciplinare comune nel quale confluì, ibridandosi, il meglio delle culture tecniche degli Stati membri. La dimensione della regione fu al centro del dibattito comunitario di quegli anni e l’Italia vi giocò un ruolo di primo piano essendo, tra i sei, il Paese con il più significativo divario di sviluppo, nella forma duale della contrapposizione fra il Nord industrializzato e il Mezzogiorno. Si trattò originariamente di una riflessione sulla regione in quanto ‘spazio’ economico la cui analisi era finalizzata alla promozione dello sviluppo e alla correzione degli squilibri. Tuttavia dal dispiegarsi di strategie di riequilibrio regionali e territoriali sarebbe scaturito l’impulso che spinse l’Italia a riprendere la via della regionalizzazione culminata nell’istituzione delle regioni ordinarie nel 1970.

Si danno due fasi nel processo nazionale di avvio delle regioni: quella costituente, in cui a prevalere fu il ruolo di «garanzia politica delle Regioni» come soggetti istituzionali finalizzati a contenere l’accentramento di poteri (Zagrebelsky 1967, p. 35), e quella della seconda metà degli anni Sessanta in cui il tema regionale, accantonato per lustri, tornò in auge come parte della riforma amministrativa dello Stato propedeutica all’attuazione della programmazione economica (Monechi 2012, pp. 97-117). In questa seconda fase le regioni furono ripensate come quadri territoriali dello sviluppo. Nel contesto delle crescenti fibrillazioni sociali, con il maturare di nuove condizioni politiche, l’utilità amministrativa delle regioni istituzionali nel governo degli squilibri fu un tema forte del dibattito che contribuì a sopravanzare i timori legati all’incognita delle future identità politiche regionali. In ambo le fasi non si manifestarono retoriche regionaliste significativamente collegate a identità territoriali o culturali, tuttavia forme identitarie di natura politica si possono cogliere nell’emergere, tra il nuovo ceto dirigente regionale, specie se di formazione municipale, di un regionalismo autonomistico che spesso si associò a un impegno federalista sulla scena europea. In questo senso, il progetto comunitario offrì spunti, temi e uno scenario al discorso regionalista italiano, collocando le tensioni fra centro e regioni nel più ampio quadro di riferimento del percorso di democratizzazione e legittimazione delle istituzioni comunitarie.

Guardando all’intero processo in una visione di lungo periodo si può constatare come già dai primi anni Cinquanta il dibattito sul ‘fatto regionale’ a livello comunitario prenda forma secondo due canali diversi: da una parte vi è la rete del federalismo europeo attiva sin dalle origini del progetto comunitario che trova nella nascita del CCE (Consiglio dei Comuni d’Europa, Ginevra 1951) lo spazio della propria battaglia politica, dall’altra vi è la declinazione del fatto regionale propria delle élites tecnocratiche europee, protagoniste dell’integrazione comunitaria all’insegna del funzionalismo. Questi ambienti esprimono idee diverse di regione incentrate su fattori distinti: politico-istituzionale nel primo caso, economico-funzionale nel secondo.

Il momento di sintesi tra questi due filoni, il cui sviluppo non mancò d’intersezioni, è tardivo e si colloca nel decennio che va dalla metà degli anni Ottanta alla metà degli anni Novanta, quando il riconoscimento di regioni istituzionali relativamente autonome diviene ufficialmente perno della politica strutturale comunitaria.

L’Europa comunitaria degli anni Cinquanta e Sessanta era un’Europa degli Stati in cui il peso dei governi nazionali nel Consiglio era forte e la distribuzione dei poteri tra Assemblea, Commissione e Consiglio della CEE largamente sbilanciata verso quest’ultimo. La tecnocrazia comunitaria, per quanto indipendente e autorevole, traeva la propria forza dalla sintonia con gli equilibri politici in seno al Consiglio, non disponeva ancora di una burocrazia consolidata e attingeva ampiamente alle culture tecniche nazionali attraverso il sistema degli studi esterni. Tuttavia i contenuti politici e culturali esclusi dal dibattito comunitario furono spesso raccolti e rilanciati dal Consiglio d’Europa che, seppur istituzione non comunitaria, svolse in parte un ruolo di indirizzo culturale del processo d’integrazione. Al suo interno il pensiero federalista trasse linfa dallo strutturarsi di reti informali di attori locali e gruppi orientati a precise strategie di pressione per il riconoscimento dei poteri locali a interlocutori delle istituzioni comunitarie, in particolare di quella la cui natura era più schiettamente sopranazionale e alternativa all’egemonia degli Stati-nazione: la Commissione. A sua volta la Commissione si mostrò disponibile all’ascolto dei poteri locali, da cui riceveva così la legittimazione politica che le mancava.

L’Italia fra problemi amministrativi e riconoscimento istituzionale

La scelta regionalista dell’Assemblea costituente non fu solo reazione al centralismo fascista. Vi incisero le rivendicazioni delle regioni ‘speciali’, ma essa discese anche dall’articolazione territoriale che i partiti e il Comitato di liberazione nazionale (CLN) avevano avuto nei giorni della Liberazione. Il CLN toscano, per es., premette da subito per l’istituzione di un livello regionale tra Stato e comune con competenze in materia di agricoltura, sanità, scuola e trasporti esprimendo così un regionalismo d’ispirazione politica che sarebbe stato autorevolmente rappresentato nelle sedi europee (P.L. Ballini, La regione: idee e progetti nella Toscana liberata, 1944-45, 2° vol., p. 803). In seno alla Costituente furono i comunisti a contestare la regionalizzazione con l’argomento della coesione nazionale e della solidarietà Nord-Sud, ma dopo le elezioni del 1948, in un clima di escalation della guerra fredda, fu il presidente Alcide De Gasperi (1881-1954) ad adottare una strategia di gradualità.

Nella discussione in seconda Sottocommissione, superato il problema del ‘se’, era prevalsa una visione politica del ‘come’ che, di fatto, escluse riflessioni più approfondite sulla dimensione territoriale e culturale degli spazi regionali (S. Mabellini, Identità culturale e dimensione territoriale delle regioni in Europa, 2008, pp. 25-49). In sede di Costituente particolarmente indicativa era stata la discussione in merito alla tutela del patrimonio e del paesaggio per la quale la versione finale dell’art. 9 della Costituzione, con la sostituzione dell’indicazione ‘Repubblica’ a quella di ‘Stato’, era stata introdotta proprio a garanzia di una possibile competenza legislativa futura delle regioni. La discussione aveva toccato anche temi propriamente identitari. Era emerso da un lato il carattere nazionale del portato identitario del patrimonio, dall’altro la debolezza e la scarsa legittimazione di istituti regionali nati come ‘finzioni statistiche’, dunque non rappresentativi dei valori culturali del Paese (in partic., F.S. Nitti, Atti dell’Assemblea costituente, seduta del 6 giugno 1947, p. 4501). L’idea di regione che ne sortì fu quella di un’entità politica (per molti versi funzionale al sistema dei partiti) priva di corrispondenza con realtà culturali specifiche.

Intorno a questo modello di regione, malgrado l’inerzia della Democrazia cristiana (DC) e in forte polemica con la strategia dilatoria in atto, alcune aree politico-culturali s’impegnarono nella battaglia autonomista con un’attiva partecipazione alle reti europee. Fra queste spiccava il Movimento di Comunità fondato da Adriano Olivetti (1901-1960) nel 1949 di cui era espressione Umberto Serafini (1916-2005). Fu Serafini che rappresentò l’Italia all’incontro dei rappresentanti dei poteri locali europei convocato nell’ottobre 1950 a Seelisberg, città-simbolo del processo che dalle rivendicazioni del 1921 aveva condotto alla nascita della Confederazione elvetica. L’incontro si svolse alla presenza di autorevoli teorici dell’autonomismo locale, proprio in concomitanza con la negoziazione del piano Schuman che al modello federalista poneva l’alternativa dell’integrazione settoriale. Esito ne fu la nascita del Consiglio dei Comuni d’Europa che, tra 1951 e 1953, si strutturò per sezioni nazionali.

Nel corso del successivo incontro a Ginevra nel 1951 un Comitato d’azione fissò i concreti obiettivi di un programma di natura politica e sociale (Palayret, in Le fait régional et la construction européenne, 2003, pp. 85-90). Il rapporto stretto fra battaglia per le autonomie locali e federalismo europeo fu infine sancito dal principio del ‘blocco storico’ fra autonomisti locali e costituzionalisti europeisti, adottato formalmente a Palermo nel 1953 durante la riunione dell’esecutivo del CCE dopo duri scontri interni (Devani, in Altiero Spinelli e i movimenti per l’unità europea, 2010, pp. 234-35). Fu su impulso del CCE che in seno al Consiglio d’Europa venne istituita nel 1957 la Conferenza europea dei poteri locali (CEPL).

L’anno successivo, la Dichiarazione solenne di Liegi, approvata al termine della IV assemblea degli Stati generali, avrebbe chiarito in forma ufficiale la natura delle istanze di cui il CCE si faceva portatore in relazione alla nascita del Mercato comune europeo (MEC) ma anche all’avvio di una politica atomica comune. Serafini ne riassunse gli obiettivi in tre punti fondamentali: la necessità di impostare una politica comunitaria di pianificazione del territorio; la necessità che questa politica di aménagement si dispiegasse su basi democratiche e non tecnocratiche; l’urgenza di una nuova ripartizione di funzioni «fra centro statuale ed enti autarchici periferici […] che debbono essere in grado di agire da protagonisti nel previsto decentramento» (Serafini 2012, p. 31). In merito alla dimensione territoriale delle nuove istituzioni locali, emerse chiaramente il riferimento al modello tedesco che di fatto sarebbe rimasto nel tempo l’idealtipo prevalente della regione comunitaria: un ente come il Länd con funzioni di coordinamento sovraordinato ai Ländkreis «circondari o arrondissements democratici» (p. 31), pensati come estensioni delle realtà urbana al territorio, nei quali avrebbero dovuto risolversi le tradizionali province (départements) franco-italiane.

La Dichiarazione di Liegi declinava in chiave federalista i contenuti del dibattito che nell’Europa comunitaria si sollevò negli anni della negoziazione dei trattati di Roma sui possibili effetti territoriali dello sviluppo: il fenomeno della concentrazione urbana, conseguenza della crescita industriale e dell’avanzata della società del benessere e dei consumi, sembrava assumere proporzioni preoccupanti. Negli ambienti tecnici e politici serpeggiavano timori sulle conseguenze territoriali del mercato comune in termini di approfondimento degli squilibri regionali già in atto. Proprio per questo, malgrado il territorio rappresentasse la quintessenza della sovranità e delle tradizioni giuridiche degli Stati-nazione (gli stessi che uscivano rinvigoriti dal recente fallimento della Comunità europea di difesa, CED, e del progetto di costruzione di un’Europa politica), negli atti costitutivi della CEE fu inserito il riferimento a ‘regioni’ europee e a specifiche problematiche territoriali dello spazio comunitario disegnato dal progetto del mercato comune. In particolare, la comunità economica dei trattati di Roma partiva segnata dal divario dello sviluppo su base regionale.

L’articolazione regionale condizionava la politica agricola comune, centralissima nei negoziati comunitari. Non a caso, dunque, uno dei primi impegni della neoinsediata Commissione Hallstein fu quello di sviluppare un’expertise comunitaria in materia di sviluppo e squilibri, attraverso analisi e incontri di natura tecnico-politica che si svolsero tra la fine degli anni Cinquanta e l’inizio degli anni Sessanta, ai quali l’Italia contribuì riversandovi i frutti dell’esperienza acquisita nell’ambito dell’intervento straordinario (Grazi 2006, pp. 23-78).

Malgrado l’impegno comunitario nell’elaborazione di una politica regionale e la partecipazione attiva dell’Italia, quello dell’attuazione dell’articolo 132 della Costituzione rimase un nodo interno di difficile soluzione fino alla fine del decennio. Diversamente da quanto chiedevano i rappresentanti dei poteri locali riuniti nel CCE, infatti, le analisi e gli studi promossi dalla Commissione si mantennero su un registro tecnico-disciplinare piuttosto ‘neutro’ che definiva indirizzi di intervento ma non indicava precisi soggetti attuatori. La vicina Francia, modello europeo per l’aménagement, nel 1956 aveva istituito 22 regioni di programmazione economica, strettamente dipendenti da una struttura tecnocratica centrale, e nel 1964, al momento della trasformazione delle regioni di programmazione in regioni amministrative con la creazione dei Comitati per lo sviluppo economico regionale (CODER), il governo francese si guardò bene dall’insediare consigli elettivi. Il vero soggetto plenipotenziario delle politiche territoriali era invece la Délegation interministérielle à l’aménagement du territoire et à l’action régional (DATAR) con sede a Parigi, creata nel 1963 proprio per gestire i nuovi istituti (Y. Meny, Centralisation et décentralisation dans le debat politique français, 1945-1964, 1974).

In Italia nettamente contro l’attuazione delle regioni si era schierata Confindustria, mentre all’interno della DC – spaccata sull’apertura ai socialisti – permanevano molte preoccupazioni. Nella fase di transizione al centro-sinistra prese avvio, però, la vicenda chiave del Piano per la rinascita della Sardegna. Nel Paese che si apriva alle riforme questa prima pionieristica esperienza di decentramento fu banco di prova delle tensioni politiche legate alla definizione dei criteri di gestione delle ingenti risorse (400 miliardi su un arco temporale di 15 anni) ma anche terreno di sperimentazione di una programmazione decentrata.

Il quarto governo Fanfani, lo stesso che segnò la transizione al centro-sinistra e la formalizzazione dell’obiettivo politico della correzione degli squilibri, varò la l. 11 giugno 1962 nr. 588 sul piano di rinascita della Sardegna che introduceva norme innovative, ispirate al principio della programmazione economica. La Regione sarda avrebbe predisposto i piani di sviluppo concordandoli con la Cassa per il Mezzogiorno e avrebbe coordinato l’attuazione del piano stesso su stanziamento del Ministero del Tesoro. Si trattò di un passaggio importante e conflittuale: la cogestione Cassa/Regione fu frutto di una difficile mediazione politica che vide impegnato in prima linea il Partito repubblicano italiano (PRI) nella gestione del rapporto tra il segretario regionale Lello Puddu e Ugo La Malfa (1903-1979), ministro del Bilancio. Sulla natura e il senso di questa partnership, Giovanni Marongiu (già membro delle segreteria tecnica del presidente del comitato dei ministri per il Mezzogiorno) ha osservato come la Regione apparisse delegittimata da un punto di vista tecnico e la Cassa, a sua volta, da un punto di vista politico (D. Sanna, Costruire una regione. Problemi amministrativi e finanziari nella Sardegna dell’autonomia (1949-1965), 2011, p. 162).

La legittimazione democratica della politica regionale era un nodo chiave anche a livello comunitario: per i suoi contenuti tecnico-disciplinari la politica regionale esplorava in profondità la dimensione del territorio. Il Piano per la rinascita della Sardegna, mostrava come politiche regionali costruite alla scala dei territori e basate su zonizzazioni subregionali (le ‘zone territoriali omogenee’) sollecitassero istanze partecipative dal basso, che furono particolarmente vive nella Sardegna dell’autonomia. In questo senso l’esperienza sarda anticipò alcune delle contraddizioni che si sarebbero prodotte nel rapporto fra i nuovi centri regionali e i territori con l’istituzione delle regioni. Attraverso l’Assessorato alla rinascita, la regione mostrò, infatti, di volere raccogliere la domanda di partecipazione, istituendo appositi ‘centri zonali’, ma la stagione della programmazione accentuò anche la tendenza alla formazione di un nuovo centralismo regionale già emersa nella fase di strutturazione degli apparati amministrativi. I centri zonali istituiti dalla regione non implicarono un effettivo decentramento ma riuscirono ugualmente ad aprire «un dialogo con le istituzioni locali che non aveva precedenti» (Sanna, Costruire una regione, cit., p. 165). Alla fine del decennio, l’esperienza sarda – le cui luci e ombre non è possibile qui esplorare – avrebbe costituito un precedente positivo nel dibattito parlamentare intorno alla proposta di legge Taviani.

Con l’avvento del centro-sinistra le strategie di sviluppo regionale e di correzione degli squilibri si caricarono di senso politico e acquisirono fisionomia più precisa. Alcuni ambienti tecnico-culturali riformisti italiani d’ispirazione repubblicana o socialista furono protagonisti delle prime sperimentazioni concrete di una politica regionale comunitaria. La redazione del primo progetto comunitario per la correzione degli squilibri regionali interni fu, infatti, affidata dalla Commissione Hallstein all’Italconsult di Aurelio Peccei (1908-1984) e Raimondo Craveri (1912-1992). La strategia dei poli di sviluppo di François Perroux (1903-1987) era il quadro teorico entro cui si collocava lo studio per un insediamento industriale specializzato nel Sud Italia, finanziato dalla Commissione e consegnato da Robert Marjolin (1911-1986) e Lionello Levi Sandri (1910-1991), entrambi espressioni del socialismo riformista, al ministro per l’intervento straordinario Giulio Pastore (1902-1969) nel 1965.

Interprete dei nuovi orientamenti fu l’area tecnico-discliplinare raccoltasi intorno a Riccardo Lombardi (1901-1984), Antonio Giolitti (1915-2010), Giorgio Ruffolo, che trovò il proprio braccio operativo nel Centro studi e piani di Franco Archibugi. Il nutrito gruppo di esperti (essenzialmente economisti e urbanisti) che vi contribuì, rielaborò i frutti di due grandi filoni nazionali, quello dell’intervento straordinario per il Mezzogiorno e quello dell’urbanistica riformista che aveva esplorato il problema degli squilibri alla scala metropolitana e teorizzato già dal 1960 – con il Codice dell’Urbanistica adottato dall’Istituto nazionale di urbanistica (INU) – la necessità di un più fermo governo pubblico dei suoli e la centralità dell’indirizzo pubblico nell’orientamento dello sviluppo territoriale. Il frutto più maturo di questa riflessione fu il Progetto ’80 (C. Renzoni, Il progetto ’80, 2012). Forte di tale esperienza, alla fine del decennio il Centro studi e piani di Archibugi ricevette dalla Commissione Rey l’incarico di uno studio sul fenomeno della concentrazione urbana nell’area comunitaria (Grazi 2006, pp 80-88).

Nel Progetto ’80, unico esempio di riflessione organica sull’assetto dell’intero territorio nazionale, lo sforzo di razionalizzazione dei processi economici e territoriali, si fondava sul riconoscimento della centralità del fatto urbano e costruiva l’orizzonte futuro intorno allo schema della città-regione. Le proiezioni territoriali del Progetto ’80 disegnavano un territorio nazionale articolato per ‘sistemi urbani’ a vocazioni economiche diverse. Il progetto delineava un quadro di nuove identità produttive proiettate su spazi regionali a esse funzionali.

La regione, al centro del pensiero riformista, vide il chiaro prevalere della dimensione progettuale su quella culturale. A partire da una concezione di regione come spazio di azione del pubblico, da attrezzare e infrastrutturare in funzione di uno sviluppo equilibrato dello spazio nazionale e comunitario, l’area politica riformista rappresentò i nuovi istituti regionali come necessari ambiti di coordinamento e gestione delle politiche di sviluppo, come avveniva nell’esperienza pilota del piano di rinascita della Sardegna, funzionali e necessari alla concreta attuazione della programmazione in chiave democratica. Questa necessità concreta e pressante sopravanzò le obiezioni a proposito della legittimità del ritaglio regionale.

L’identità regionale, dunque, che la programmazione sollecitò, fu un’identità istituzionale legata a precise esigenze di governo del territorio ed è in questa chiave che il tema fu posto nei dibattiti parlamentari che precedettero l’istituzione delle regioni italiane dalla maggioranza riformista. Nel corso della seduta fiume la destra liberale, criticando il modello di regione proposto, sollevò un problema di identità culturale, sottolineando la necessità di ricondurre i nuovi istituti alle «tradizioni locali» per conferire ai nuovi enti «un contenuto morale, oltre che una funzione effettiva» in nome di un regionalismo più autentico (Monechi 2012, p. 72). Questa e simili obiezioni caratterizzarono alcuni degli interventi che articolarono il disegno ostruzionistico delle opposizioni.

La natura tecnocratica delle politiche regionali maturate in Europa occidentale negli anni Sessanta era oggetto di forte polemica anche da parte del mondo del regionalismo federalista che vi coglieva un’impronta dirigista in contrasto con i fermenti sociali che già attraversavano il continente. Il problema emerse con vigore alle soglie della transizione, aperta all’Aia nel 1969 e chiusa con l’elezione diretta del Parlamento Europeo (1979), da cui sarebbe scaturita un’Europa comunitaria più vicina ai cittadini e più aperta ai temi sociali. Nel 1966 il CCE, davanti alla Commissione per gli Affari economici e finanziari del Parlamento Europeo, aveva criticato la scelta della Commissione esecutiva in favore della politica dei poli di sviluppo e aveva nuovamente posto la questione delle competenze sugli interventi per il riequilibrio regionale. Alla svolta dell’Aia preludeva la Dichiarazione sulla politica regionale della Comunità pronunciata dal vicepresidente della Commissione nel maggio del 1969 di fronte all’assemblea parlamentare («GUCE», 1969, 114, pp. 21-29), con il suo riferimento esplicito alla necessità di un rinnovamento che superasse il limite degli obiettivi economici e ponesse l’uomo e i suoi desideri al centro dall’azione comunitaria.

L’istituzione delle regioni ordinarie italiane si collocò in uno snodo della storia europea e comunitaria straordinariamente denso. La Francia era stata investita da cambiamenti radicali. L’onda del maggio francese era dilagata per il continente superando la cortina di ferro e aprendo la stagione dei movimenti collettivi. La fortuna politica del generale Charles De Gaulle (1890-1970) si era dissolta proprio sulla proposta di riforma del senato a camera dei rappresentanti delle organizzazioni professionali e sindacali regionali, come estremo tentativo di rispondere alla domanda di democratizzazione in atto.

Con l’uscita di scena del generale si chiuse un momento d’impasse del processo d’integrazione e maturarono le condizioni per una revisione dei trattati, la riforma delle istituzioni comunitarie e l’allargamento ai Paesi candidati. La crisi economica e monetaria e il declino industriale posero al centro dell’agenda dell’Europa dei nove i temi sociali. L’emergere della questione ecologica produsse un ampio mutamento di prospettiva nella lettura del territorio, da ‘sostrato delle politiche di sviluppo’ ad ‘ambiente di vita’ delle comunità umane. Le classi dirigenti delle neoistituite regioni si sentirono più che mai investite del ruolo di interlocutori della domanda di partecipazione dal basso.

Nella fase nevralgica del trasferimento delle funzioni (1970-77) le regioni italiane cercarono legittimazione attraverso l’instaurazione di canali diretti di dialogo con le istituzioni di Bruxelles, a loro volta impegnate nel rinnovamento dell’approccio comunitario in due ambiti che toccavano da presso gli interessi dei nuovi istituti: lo sviluppo regionale (settore che avrebbe visto nel 1975 la nascita del Fondo europeo di sviluppo regionale, FESR), la formazione e la politica agricola comune. Il tentativo di aggirare la mediazione governativa (che negli ambienti federalisti scaturiva non solo da interessi concreti ma dall’obiettivo di costruire una nuova Europa all’insegna del pluralismo politico e istituzionale) costituì un’ulteriore linea di tensione nel conflitto Stato-regioni che si dispiegò lungo tutto l’arco degli anni Settanta. Uno dei grandi interpreti di questa strategia regionale fu Lelio Lagorio, primo presidente della Toscana (1970-78) e figura emblematica sotto molti profili. Sindaco socialista di Firenze nel biennio 1964-65 e attivo nella sezione fiorentina dell’AICCE (Associazione Italiana per il Consiglio dei Comuni d’Europa), egli aveva vissuto in prima linea l’esperienza della programmazione, presiedendo il comitato regionale per la programmazione economica della Toscana. Lagorio teorizzò la necessità di collocare il tema regionale nell’ottica tridimensionale CEE-Stato-regioni e intorno a quest’idea, dalle pagine di «Comuni d’Europa» e di «Città e regione», rivista da lui diretta, delineò, nel costante dialogo con figure di primo piano – il citato Serafini, Gianfranco Martini (1925-2012), Giuseppe Petrilli (1913-1999) – i tratti di una precisa strategia volta a sfruttare ogni possibilità offerta dal percorso funzionalista dell’integrazione per correggerne la traiettoria verso un federalismo delle autonomie. Uno dei punti chiave di questa battaglia fu l’ammissione delle regioni al Consiglio della CEE, dal quale le nuove istituzioni erano interdette perché prive del ‘potere estero’ (cioè di intrattenere relazioni internazionali) di titolarità esclusiva dello Stato. Le regioni avrebbero dovuto inserirsi in un preciso momento della dialettica CEE-Stato-regioni, articolata in due fasi: ‘ascendente’, cioè di formazione delle politiche comunitarie, e ‘discendente’, cioè di attuazione.

Nell’ambito del movimento ascendente occorreva che le regioni rivendicassero un ruolo consultivo assimilabile a quello previsto dal Trattato di Roma per il comitato economico e sociale (art. 193) ove erano legittimamente rappresentate le categorie sociali interessate all’azione comunitaria. Rispetto a quest’ipotesi però l’atteggiamento ostile del governo centrale era stato chiarito da una circolare emanata dalla Presidenza del Consiglio dei ministri il 27 gennaio 1972, dai contenuti inequivocabili: «Talune Regioni, in più occasioni e specialmente in sede di studio ed elaborazione di provvedimenti legislativi [...] assumono diretti contatti - anche in via ufficiosa - con i Servizi della Commissione della Comunità Europea [...] il Ministero degli Esteri segnala che l’instaurazione di una prassi del genere potrebbe dare origine ad inconvenienti di varia natura e costituire serio giudizio [...]. Non si possono che condividere le preoccupazioni manifestate, concordando nella necessità che venga in avvenire evitato il ripetersi di tale irregolare ed anormale procedimento».

Con un’altra circolare del 1973 la Presidenza del Consiglio aveva nuovamente affermato che il governo era l’unica istituzione dell’ordinamento abilitata a parlare all’estero, ad avere rapporti, a prendere iniziative.

Ancor più problematico andava configurandosi il rapporto CEE-Stato-regioni nella cosiddetta fase discendente, come mostrarono i conflitti che si scatenarono intorno alla legge con cui il Ministero dell’Agricoltura recepiva le direttive Mansholt. In questo caso il principio di esclusività del ‘potere estero’ rischiava di diventare addirittura il fulcro giuridico di una strategia centralista volta a ridurre le competenze riconosciute costituzionalmente alle regioni in materia di agricoltura.

Durante il Consiglio nazionale dell’AICCE del dicembre 1974, il giurista Sergio Carbone fu chiamato a esprimersi in merito alla legittimità di una partecipazione delle regioni alla formazione delle politiche comunitarie e alle possibili forme di tale coinvolgimento. Furono messe a confronto due alternative: una, assimilabile al modello dello statuto della Sardegna (art. 52), presupponeva l’obbligo per lo Stato di acquisire un parere non vincolante della regione sulle materie di sua pertinenza oggetto di accordi internazionali; l’altra, di gran lunga preferibile, prevedeva l’istituzione di un organo consultivo e deliberativo permanente, come una Commissione interregionale (sul modello tedesco) costituita presso la Presidenza del Consiglio dei ministri. Questa soluzione avrebbe garantito «una più capillare raccolta delle istanze locali interessate a molte materie di competenza comunitaria», ma anche «un certo recupero di credibilità democratica alle decisioni concordate nell’ambito del Consiglio dei ministri CEE» («Comuni d’Europa», 1974, 2, p. 9).

La proposta rifletteva la posizione che andava assumendo in quegli anni la Commissione parlamentare per le questioni regionali in merito al parere delle regioni sulla materia comunitaria, posizioni che anticiparono gli esiti dell’indagine conoscitiva svolta dalla stessa Commissione e conclusasi nel 1980. La Commissione parlamentare vi avrebbe infatti sottolineato l’esigenza di un organo permanente di confronto fra strutture centrali dello Stato e regioni per l’elaborazione delle linee di politica generale di tutto lo Stato-ordinamento. Dall’indagine sarebbe scaturito il progetto della Conferenza permanente Stato-regioni.

Alla fine degli anni Settanta la battaglia per il riconoscimento del ruolo internazionale delle regioni trovò ancora una volta voce nel Consiglio d’Europa, che nel 1975 estese alle autorità regionali la Conferenza permanente delle autorità locali istituita dal 1951, e tre anni dopo emanò una sorta di prima carta della regionalizzazione nota come la Dichiarazione di Bordeaux.

Un peso non irrilevante verso il riconoscimento istituzionale delle regioni a livello comunitario ebbe l’uscita della Spagna dal franchismo nel 1977 e la sua ristrutturazione come Stato delle Comunidades autonomas. La Spagna democratica entrò subito nel Consiglio d’Europa e avanzò domanda di adesione alla CEE. Nei negoziati (febbraio 1979-marzo 1985) il problema regionale ebbe un ruolo di primo piano (G.P. Papa, Lorenzo Natali autore dell’adesione spagnola alla Comunità Europea, in Lorenzo Natali in Europa, a cura di G. Gramaglia 2010, pp. 155-64).

Le regioni italiane trovarono nel quadro comunitario in evoluzione un orizzonte su cui proiettare l’identità politica d’istituzioni intermedie, da un lato interpreti degli interessi locali e dall’altro garanti della democraticità dell’azione comunitaria. La prospettiva europea contribuì in tal modo a colmare il deficit identitario derivante dalla natura artificiale del ritaglio amministrativo e dalla sostanziale assenza di caratteri paesistico-territoriali e storici omogenei su cui potessero fondarsi credibili retoriche identitarie d’impronta culturale. Tali retoriche iniziavano a fiorire piuttosto a livello subregionale, alla scala di quelli che presto sarebbero stati definiti i sistemi locali. Concetto chiave di un nuovo paradigma dello sviluppo e del governo del territorio, i sistemi locali rappresentavano spazi subregionali caratterizzati da specificità produttive, paesaggistiche e culturali, istituzionalmente configurati come aggregazioni fluide di comuni, compagini orizzontali a carattere tematico che avrebbero trovato nella formula della programmazione negoziata uno spazio di progettualità e d’azione. Se la prospettiva dei sistemi locali che si affermò nei decenni successivi (anche sulla spinta dalla nuova strategia strutturale europea perseguita da Jacques Delors) avrebbe rafforzato i municipi come promotori dello sviluppo locale, essa avrebbe altresì evidenziato antichi vizi campanilistici e confermato la necessità di un coordinamento superiore a scala regionale.

Regioni versus municipi

Alla fine degli anni Settanta in concomitanza con la ‘scoperta’ della Terza Italia (A. Bagnasco, Tre Italie, 1977) e l’avvio del dibattito che ne conseguì, la cultura italiana registrò l’avvio del progetto editoriale di Storia delle regioni Einaudi che, com’è noto, fu l’occasione per una riflessione sull’identità culturale delle regioni italiane. I volumi previsti assumevano il ritaglio delle regioni istituzionali come il ‘dato’ intorno a cui costruire i percorsi di ricerca. Lucio Gambi (1920-2006) fu il principale critico di questa impostazione a partire da una distinzione, ormai classica, fra regionalismo e regionalizzazione (Le “Regioni” italiane come problema storico, «Quaderni storici», 1977, 34, pp. 275-98). Dalle pagine di «Quaderni storici» nel 1979 assunsero posizione critica sul progetto Giovanni Levi (Regioni e cultura delle classi popolari, «Quaderni storici», 1979, 41, pp. 720-31) e Raffaele Romanelli (Il sonno delle regioni, «Quaderni storici», 1979, 41, pp. 778-81). Fu osservato come «in un paese di innumerevoli localismi, la questione regionale non sembra[sse] avere avuto un gran peso» (p. 720) e come l’Italia di fatto fosse priva di «un rilevante movimento regionalista» e di «un regionalismo popolare diffuso», fatte salve la Sicilia, la Sardegna e alcune zone periferiche (p. 723). La dimensione regionale non poteva costituire la base di una riflessione sulla cultura popolare. Questa poteva semmai trovare un sostrato nella dimensione municipale della quale le classi dirigenti si erano storicamente fatte mediatrici verso il centro. Furono segnalate «forme di patriottismo politico-culturale» sottese al progetto, che però apparivano convincenti solo se circoscritte alle regioni «più ‘avanzate’ del buongoverno democratico» (p. 780). Si ricordò come, nel convegno romano di avvio del progetto editoriale, Alberto Caracciolo avesse sottolineato l’irrilevanza della dimensione regionale sul piano economico. Una storia delle regioni italiane avrebbe dunque messo l’accento su un fenomeno «che non esiste[va] più o che non esiste[va] ancora» (p. 723).

Eppure in quell’‘ancora’ vi era una chiave importante dei processi in atto: la regionalizzazione produceva identità territoriali in senso lato a partire da un sostrato politico-amministrativo che disegnava nuove appartenenze.

Rispetto al quadro delineato in quel dibattito, il consolidarsi del progetto comunitario, simbolicamente culminato con l’elezione diretta del Parlamento europeo nel giugno del 1979, configurava l’emergere a Bruxelles, in modo ancora non pienamente percepibile, di un nuovo centro – erogatore di risorse e propagatore di indirizzi strategici in settori vitali dell’economia e della società italiana, come quello dell’agricoltura. Questo processo ampliava il raggio della mediazione e introduceva fibrillazioni volte a ristrutturarne i livelli. Dai municipi, di cui era per larga parte espressione, la nuova classe dirigente regionale cercò di trarre legittimazione per la regione come livello di coordinamento a essi più prossimo, in una logica sussidiaria. Sul piano identitario la stella delle regioni brillava di luce riflessa.

Negli anni di incubazione di una politica regionale comunitaria spesso le due scale (urbana e regionale) e le due dimensioni (municipalista e regionalista) si erano sovrapposte sia nell’ambito delle analisi tecnico-disciplinari sia in quello delle rivendicazioni politiche. Sul piano tecnico-disciplinare, infatti, la politica regionale della CEE fu la matrice disciplinare da cui si sviluppò l’embrione di una politica urbana comunitaria. Sul piano politico, dai municipi provennero, nella fase iniziale del processo d’integrazione, le pressioni che miravano a costruire canali di relazione diretta tra territori e istituzioni di Bruxelles. Le città grandi e piccole, i comuni, costituivano del resto la cellula-base dell’organismo comunitario delle origini, il minimo comune denominatore che, pur nelle differenze dimensionali, storiche e funzionali, parlava il linguaggio di un municipalismo consolidato che si era già misurato con le battaglie per l’autonomia e gli sforzi di riforma per la modernizzazione e il governo del territorio.

L’identità politica comune di poteri locali espressione dei popoli europei, che in origine unì municipi e regioni nella battaglia per il riconoscimento comunitario, sarebbe però entrata in crisi con il progressivo dispiegarsi, dalla metà degli anni Ottanta, di una politica strutturale comunitaria imperniata su un ruolo crescente del livello regionale nella programmazione e gestione dei fondi strutturali. Questo passaggio chiave, solo apparentemente di natura tecnica, avrebbe mutato profondamente lo statuto delle regioni nell’arena comunitaria, trasformandole da spazi ad attori. Le riforme avrebbero innescato meccanismi di cooperazione/competizione fra le regioni europee, favorendo l’emergere di nuove forme di regionalismo identitario a matrice marcatamente economica.

Identità locali e progetto universalista dell’UNESCO

L’8 novembre 1947, nel corso della seconda sessione della Conferenza generale di Città di Messico, l’assemblea plenaria votò all’unanimità l’ammissione dell’Italia in qualità di Stato membro dell’UNESCO, e nel maggio del 1950 la neoistituita Commissione nazionale italiana (CNI) ospitò a Firenze la V Conferenza generale dell’organizzazione mondiale. Tuttavia i primi anni di vita dell’UNESCO non furono facili in generale, e per la Commissione nazionale italiana in particolare. Il progetto culturale sotteso all’organizzazione fu immediatamente bersaglio di critiche radicali che andavano dall’accusa di elitarismo alla denuncia della natura velleitaria degli obiettivi, al rigetto dell’universalismo culturale che ne ispirava l’azione.

In Italia a isolare sul nascere la Commissione nazionale UNESCO era stata determinante la netta presa di posizione di Benedetto Croce (1866-1952), che aveva definito l’UNESCO «un’istituzione sbagliata» a partire dalla stessa Dichiarazione dei diritti dell’uomo, anacronisticamente e antistoricamente fondata sulla teoria del diritto naturale (Una istituzione sbagliata, «Quaderni della ‘Critica’ diretti da B. Croce», 1950, 17-18, pp. 182-86). Inaccettabile appariva la pretesa di stabilire un terreno di confronto internazionale il cui obiettivo fosse la determinazione di principi universali, pretesa al tempo stesso ‘candida’ e perversa: «Il vero errore dell’UNESCO sta […] nell’avere smarrito la coscienza che essa è una istituzione del mondo occidentale, il quale ha la sua legge nella libertà e [...] ripugna a ogni soluzione [sic], sia pure con le migliori intenzioni e in modo velato, gli si presenti da accettare bell’e fatta» (p. 185).

Sotto accusa era l’approccio burocratico e impropriamente oggettivante sotteso al «tentativo di risolvere delicatissime questioni di vita mentale per mezzo del metodo delle votazioni e delle maggioranze» (p. 186) alle quali, in effetti, l’Assemblea generale dovette spesso ricorrere per superare le aspre e ricorrenti turbolenze che sin dalla nascita ne avevano caratterizzato i consessi.

Le conclusioni non lasciarono scampo: «l’UNESCO non si può riformare [...]. Bisogna dunque farsi animo e volere che si sciolga. Se si scioglierà con remissione di mandato, per omaggio spontaneo al mondo della libertà i cui bisogni doveva interpretare, [...] darà la prova che il nostro mondo occidentale di libertà sa correggere i suoi errori, ancorché di ciò debba soffrire, come è umanamente inevitabile, la correlativa mortificazione» (p. 186).

L’anatema di Croce, peraltro in sintonia con le perplessità chiaramente espresse da vari esponenti del mondo europeo della cultura, costituì per la CNI la base scivolosa sulla quale tentare di costruire un difficile percorso di accreditamento presso l’opinione pubblica nazionale (cfr. M.L. Paronetto Valier, Conferenze internazionali: l’Unesco a Firenze, «Studium», 1950, 10, p. 573).

Uno dei punti di forza dell’UNESCO, nella fase d’avvio, fu invece il convinto sostegno che larga parte del mondo scientifico europeo e italiano le aveva tributato. Alla collaborazione con l’UNESCO si mostrò disponibile anche quell’area culturale nazionale che guardava alle potenzialità tecnico-operative del nuovo organismo e, tra i vasti e problematici temi della cultura tout court e dell’educazione, focalizzava il proprio lavoro sull’ambito più circoscritto dei beni culturali, nel confronto drammatico con il censimento dei danni bellici e le questioni aperte dalla ricostruzione. Non a caso l’ingresso dell’Italia nell’organizzazione nel corso dell’assemblea di Città del Messico era stato ottenuto grazie all’impegno di due importanti personalità italiane, espressione di questi due mondi: il fisico nucleare Edoardo Amaldi (1908-1989) e l’archeologo Ranuccio Bianchi Bandinelli (1900-1975), membri della commissione nazionale provvisoria di cui il toscano Bianchi Bandinelli era vicepresidente. Questi, però, avrebbe presto pagato il prezzo della sua militanza comunista con l’esclusione dalla commissione definitiva dopo le elezioni del 1948 (L. Medici, Dalla propaganda alla cooperazione. La diplomazia culturale italiana nel secondo dopoguerra (1944-1950), 2009, p. 195).

Tra la fine del decennio e la metà degli anni Sessanta prese corpo e fisionomia chiara il sistema nevralgico degli Advisory bodies, organismi consultivi a carattere spiccatamente tecnico e non governativo, nei quali confluirono i saperi esperti nazionali, talvolta organizzati alla scala di regioni sopranazionali (Valderrama 1995). I corpi consultivi dell’UNESCO seppero conquistarsi l’attenzione non solo del mondo professionale e delle pubbliche amministrazioni, ma anche dell’opinione pubblica, che poté guardare a essi come a organismi più liberi dalle profonde tensioni politiche che periodicamente innervavano l’UNESCO. Furono questi corpi i veri protagonisti di una decisa opera di orientamento culturale e disciplinare crescentemente attrattiva nei confronti delle culture tecniche nazionali, alle quali l’UNESCO attinse e che a sua volta orientò in un rapporto di tipo circolare. Dal confronto in seno ai gruppi di esperti dei corpi consultivi, nei lavori preparatori dei documenti d’indirizzo, i contenuti disciplinari emergevano sistematizzati e oggettivati in forma di principi e, così elaborati, contribuivano a una costruzione normativa fatta di richiami e di rimandi.

Gli Advisory bodies ebbero un ruolo centrale nell’elaborazione della Convenzione sulla conservazione del patrimonio mondiale culturale e naturale, la WHC (World Heritage Convention) del 1972 – e nella definizione dei criteri della relativa ‘lista’ (WHL, World Heritage List) –, lo strumento attraverso il quale l’UNESCO avrebbe più radicalmente inciso sull’affermarsi di una decisa declinazione dell’idea di patrimonio in chiave identitaria.

La prima organizzazione non governativa con ruolo consultivo fu l’ICOM (International Council of Museums) nata a Parigi nel 1946. Due anni più tardi si costituì l’IUCN (International Union for Conservation of Nature) che rapidamente divenne la più vasta organizzazione per la tutela della natura a scala mondiale.

Tra il 1958 e il 1961 la Direzione generale dell’UNESCO fu in mano a Vittorino Veronese (1910-1986), espressione della CNI entro la quale aveva operato in seno al Comitato di scienze umane e sociali. Veronese seppe interpretare le istanze di quell’area della cultura italiana che più aveva sostenuto il progetto dell’UNESCO. Alla fine del decennio s’insediarono così a Roma due importanti istituti: il Centro internazionale di calcolo e il Centro internazionale di restauro (ICCROM), organismo tecnico consultivo costituito nel corso degli Stati generali di Nuova Delhi del 1956 (M.L. Azzario Chiesa, L’Italia per l’Unesco. 50 anni della Commissione italiana, 1999).

Si trattò di un riconoscimento formale del ruolo guida dell’Italia nell’ambito delle politiche internazionali di tutela del patrimonio. La leadership culturale italiana si manifestò con evidenza nel corso della Conferenza internazionale di Venezia del 1964, animata dai grandi protagonisti della cultura italiana della tutela: Pietro Gazzola e Roberto Pane, Piero Sanpaolesi, Marco Dezzi Bardeschi, Guglielmo De Angelis d’Ossat, Cesare Brandi che l’anno precedente aveva pubblicato la sua Teoria del restauro (MiBAC, ICOMOS, Dal restauro alla conservazione. Catalogo della terza mostra internazionale del restauro, a cura di M. Dezzi Bardeschi, 2007, in partic. Omaggio ai protagonisti di Venezia 1964, pp. 3-6).

L’assemblea di esperti internazionali riunita a Venezia adottò tredici risoluzioni, la seconda delle quali riguardava la creazione, su proposta UNESCO, dell’ICOMOS (International Council on Monuments and Sites), grande motore della riflessione internazionale di fine secolo sul patrimonio e sulle sue valenze identitarie. La prima risoluzione adottata dalla Conferenza riguardò invece l’approvazione della Carta di Venezia, largamente ispirata alla Teoria di Brandi: il documento divenne presto su scala mondiale il faro della ‘svolta ambientale’ delle politiche di tutela che avrebbe messo in crisi l’estetica dei rariora che ancora improntava l’approccio normativo e amministrativo nazionale. La nuova cifra ambientale, che in Italia era stata anticipata dalla Carta di Gubbio sui centri storici del 1958, spostando l’attenzione dai monumenti agli ‘ambienti’, evidenziava la valenza del patrimonio minore come testimonianza della cultura di una comunità. Così se il preambolo della Carta di Venezia poneva l’accento sulle opere monumentali, gli articoli successivi precisarono il carattere ambientale della tutela.

Questa traslazione concettuale era ricca d’implicazioni politiche e istituzionali per gli effetti che produceva sotto due profili. Un primo profilo, che riguardava la scala della declinazione identitaria, metteva in luce un’intrinseca contraddizione, implicita nell’universalismo dell’UNESCO: pur nella natura di organizzazione intergovernativa a struttura fortemente centralizzata, la sua politica culturale avrebbe, nel lungo periodo, indebolito l’idea di un’articolazione della cultura ‘per matrici nazionali’, polarizzando a un tempo le retoriche identitarie verso il piano universale dell’umanità e verso quello locale della comunità. In questo senso la Carta di Venezia fu emblematica: da una parte si evidenziava il ruolo dei monumenti come patrimonio comune dell’umanità, dall’altra si riconduceva il monumento a un peculiare ambiente urbano o paesistico la cui dimensione era, fuor di dubbio, locale. Il secondo profilo riguardava le implicazioni giuridico-amministrative del sostanziale ampliamento dell’oggetto della tutela che imponeva una revisione degli strumenti normativi nazionali, fin lì centrati sul dettato delle due leggi sulla tutela del 1939. Queste due leggi nei fatti configuravano un approccio alla tutela ‘per oggetti’, con competenza esclusiva dello Stato. La nuova prospettiva ambientale invece – estendendo la tutela dagli oggetti al contesto – richiedeva un adattamento strutturale degli apparati amministrativi e burocratici preposti alla tutela, tema che in quegli anni di grandi trasformazioni degli assetti urbani e territoriali era oggetto di intenso dibattito.

La conferenza internazionale di Venezia si era svolta ad appena un mese dal formale insediamento della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico e artistico e del paesaggio, nota come Commissione Franceschini, che operò tra il 1964 e il 1968. I risultati dell’indagine misero in luce una drammatica inadeguatezza del sistema nazionale di tutela (Per la salvezza dei Beni culturali in Italia. Atti e documenti della Commissione d’indagine per la tutela e la valorizzazione del patrimonio storico, archeologico, artistico e del paesaggio, 1967). Vi si evidenziò un nodo centrale che discendeva concettualmente dal riconoscimento della necessità di un approccio ambientale alla tutela: il nodo del rapporto fra azione di tutela (degli oggetti) e disciplina urbanistica (sui contesti). Il progetto di riforma della Commissione Franceschini non indulgeva a prospettive di decentramento limitandosi a prevedere consulte regionali miste di funzionari delle soprintendenze e membri nominati dagli enti locali, tuttavia le implicazioni di un maggiore coordinamento fra tutela e pianificazione erano potenzialmente dirompenti in merito al ruolo delle regioni.

Negli anni in cui il discorso regionalista verteva in modo sostanziale sui temi urbanistico-territoriali, infatti, il riconoscimento di una dimensione urbanistica della tutela profilava conflitti fra Stato e regioni che non mancarono di dispiegarsi nel decennio successivo. Non appena s’insediarono i nuovi consigli regionali, la questione del patrimonio culturale divenne fulcro di una battaglia che vide in prima linea proprio la Toscana di Lagorio. Il tema spaccava il mondo scientifico-culturale italiano. Una parte di esso difendeva ‘senza se e senza ma’ la natura storica del patrimonio come sintesi dell’identità nazionale: questa era stata l’ispirazione delle leggi di tutela di matrice giolittiana, questa la linea delle leggi Bottai (l. 1º giugno 1939 nr. 1089, l. 29 giugno 1939 nr. 1497) ancora vigenti. Un’altra area culturale, politicamente vicina al PCI, rivendicava per le neonate regioni un ruolo in materia di tutela del patrimonio in nome di una più ampia idea di patrimonio e di cultura che rispondesse alla domanda di partecipazione e democratizzazione in atto: alla luce del riconoscimento di una produzione culturale ‘dal basso’, contraddistinta da caratteri locali, le regioni si candidavano a gestire la materia culturale e paesaggistica.

Di fatto, se la tutela dei beni culturali non compariva tra gli ambiti sui quali le regioni avevano facoltà legislativa elencati all’art. 117 della Carta costituzionale, pure dopo l’istituzione delle regioni ordinarie, in materia fu a esse accordato un certo spazio d’azione. Il d. legisl. 14 genn. 1972 nr. 8 prevedeva, infatti, un passaggio di funzioni amministrative relativamente ai piani territoriali paesaggistici come contemplati dalla l. 29 giugno 1939 nr. 1497, e il decreto nr. 3 sanciva il trasferimento, per il comparto della Pubblica Istruzione, dell’ordinamento e del funzionamento di musei e biblioteche di enti locali o di interesse locale, un interesse che si poteva interpretare come collegato alla specificità della regione, a una sua identità peculiare.

Proprio in materia di musei un anno prima, nel 1971, gli Stati generali dell’ICOM avevano registrato la compiuta formulazione di quella che si preannunciava come una sorta di rivoluzione museologica. Protagonisti ne erano stati George-Henri Rivière (1897-1985), padre della museologia etnografica francese, e Hugues de Varine (che diresse l’ICOM per quasi un decennio, tra 1965 e 1974), entrambi esponenti di quella che sarebbe stata la ‘nuova museologia‘ (I. Chiva, George-Henri Rivière: un demi-siècle d’ethnologie de la France, «Terrain», 1985, 5, nr. monografico: Identité culturelle et appartenance régionale, pp. 76-83).

Nel corso dell’incontro di Grénoble (dall’emblematico titolo Il museo a servizio dell’uomo) l’ICOM diede un forte segnale di come la comunità scientifica internazionale intendesse interpretare la domanda di democratizzazione che giungeva dal basso, opponendo all’idea tradizionale di museo quella di un museo diffuso, strettamente legato al territorio, e formulando un concetto gravido di implicazioni, tutto imperniato sul tema identitario e sul legame profondo fra comunità locali, ambiente e patrimonio culturale: l’‘ecomuseo’. L’ecomuseo «è uno specchio in cui questa popolazione si guarda per riconoscersi, in cui essa cerca la spiegazione del territorio a cui è ancorata, unita a quella delle popolazioni che l’hanno preceduta, nella discontinuità o nella continuità delle generazioni. Uno specchio che questa popolazione porge ai suoi ospiti, per farsene meglio comprendere, nel rispetto del suo lavoro, dei suoi comportamenti, della sua intimità. È un museo dell’uomo e della natura. L’uomo vi è interpretato nel suo ambiente naturale. La natura lo è nella sua dimensione selvatica, ma anche per come la società tradizionale e la società industriale l’hanno adattata ai propri usi» (G.-H. Rivière, Définition évolutive de l’écomusée, «Museum», 1985, 148, p. 183). Questa definizione, ricca di fascino, incorporava l’ampio dibattito in atto sui temi ambientali, configurando l’ecomuseo come patto tra comunità e ambiente.

Il patrimonio culturale vi articolava una narrazione identitaria coerente, frutto di una produzione incessante, proposta non a turisti ma a ‘ospiti’ rispettosi dell’intimità delle popolazioni insediate. Si trattò di una formulazione che avrebbe influenzato enormemente le successive carte UNESCO, non solo rivoluzionando l’idea tradizionale di patrimonio e di museo, ma anche orientando quelle future di ‘turismo culturale’ e ‘sviluppo sostenibile’. Anche se la teorizzazione dell’ICOM non si spingeva a configurare precisi diritti delle popolazioni locali produttrici di cultura originale, essa riecheggiò nelle rivendicazioni di quanti chiedevano a gran voce la democratizzazione dei processi culturali (A. Emiliani, Dal museo al territorio, 1974). Tra questi soggetti apparvero anche i neonati istituti regionali, come naturali interpreti della democratizzazione culturale e garanti del diritto alla partecipazione dei produttori di cultura e di paesaggio.

Nel documento preparatorio di una proposta di legge sul patrimonio (maggio 1972), la Commissione Beni culturali di cui si era dotata la Regione Toscana – membri, fra gli altri, Bianchi Bandinelli, Italo Insolera (1929-2012), Eugenio Garin (1909-2004) – imperniava su questi nuovi concetti la rivendicazione di spazi legislativi più ampi: «Come la logica di una burocrazia accentratrice è stata, per un paese pluricentrico come l’Italia, tra i fattori più notevoli di una crisi, è giusto attendersi da un processo di decentramento democratico, che vuole restituire alle popolazioni la responsabilità del proprio patrimonio culturale, l’avvio a una ristrutturazione organica di istituti che, in una sempre più larga partecipazione, […] contribuisca a ristabilire quel circolo vitale tra testimonianze del passato e produzione originale di civiltà, e prima ancora fra cultura e natura, che è stata caratteristica delle epoche felici della storia del nostro paese» (I. Bruno, La nascita del Ministero dei Beni culturali e ambientali, 2011, p. 100).

Alla metà degli anni Settanta l’affermarsi del processo di democratizzazione culturale che assegnava un ruolo nuovo alle comunità territoriali e agli spazi regionali è chiaramente leggibile anche attraverso la produzione ufficiale del Consiglio d’Europa. Negli anni Cinquanta (in particolare nell’ambito della Convenzione culturale europea del 1954) regioni ed enti locali erano stati rappresentati come veicolo di conoscenza delle culture nazionali, secondo una visione della cultura europea sostanzialmente elitaria e paternalistica. Ora invece la democratizzazione culturale, riconoscendo in ogni individuo e collettività un produttore di cultura, istituiva nuovi rapporti fra culture minoritarie e maggioritarie, rilevando una centralità culturale delle pratiche sociali che assegnava un ruolo di primo piano alle collettività locali nei confronti delle culture nazionali ‘alte’ e spostava l’asse delle politiche dal centro verso i poteri locali. In questo il punto di vista dei governi e quello delle autorità locali erano però molto diversi e sulla scena europea le nuove acquisizioni disciplinari non si tradussero certo in un pacifico rinnovamento degli orientamenti politici.

La Conferenza di Oslo del 1975 fu il primo incontro dei ministri responsabili delle politiche culturali nei Paesi aderenti alla convenzione culturale del 1954. Il tema della democratizzazione culturale fu al centro del dibattito, e nei rapporti conclusivi le regioni e i comuni europei furono indicati quali luoghi privilegiati di questa ‘democrazia culturale’ obiettivo del Consiglio d’Europa. Ma mentre il riconoscimento di tale ruolo fu condiviso dalla maggioranza dei ministri europei, non altrettanto netta fu l’approvazione del suo corollario: che le regioni e le collettività locali disponessero di strumenti all’altezza del compito e in definitiva godessero di un certo decentramento di funzioni. Questo punto fu dibattuto animatamente. Si segnalò per veemenza l’intervento del ministro irlandese. Questi polemizzò con tale orientamento a partire da una critica radicale della nozione socioantropologica di cultura che in quegli anni era promossa dall’UNESCO: in questa nuova nozione di cultura il ministro rintracciava un tradimento del patrimonio culturale, delle tradizioni e dell’eccellenza, un livellamento verso il basso che avrebbe inflitto un colpo mortale alla cultura europea (Huser, in Le fait régional et la construction européenne, 2003, pp. 141-47). Al di là di questa posizione estrema, le perplessità più diffuse riguardarono la ristrutturazione dell’equilibrio nazione-regione in termini di rischi che potevano derivare dal conferimento di più ampi poteri al livello regionale: una minore apertura all’innovazione e l’approfondirsi di squilibri culturali tra le regioni europee.

L’inconciliabilità delle posizioni che emersero negli anni successivi alla conferenza di Oslo in seno al Consiglio d’Europa ritardò il processo e impedì la redazione di una nuova Carta culturale che riflettesse pienamente il ricco dibattito interno.

Le preoccupazioni emerse a Oslo circa l’opportunità di conferire ai livelli substatali maggiori poteri nelle politiche culturali, erano del tutto assimilabili a quelle che in Italia avanzavano i fautori di una gestione centralizzata del patrimonio nazionale: la perdita di un’impronta omogenea, l’abbassamento della qualità, l’emergere di disparità fra regione e regione, le pressioni di interessi particolari.

Nella nascita di un Ministero dei Beni culturali (guidato da Giovanni Spadolini, 1925-1994) nel 1975, molti osservatori videro un nuovo tentativo di accentramento di fronte all’attivismo con cui alcune regioni si andavano attrezzando per la gestione della materia culturale. Oltre alla citata Toscana – che nello stesso anno aveva istituito una Consulta regionale per i Beni culturali – spiccava l’Emilia-Romagna, che l’anno precedente aveva costituito l’Istituto per i Beni artistici, culturali e naturali (IBC) della Regione Emilia-Romagna, fondato da Andrea Emiliani.

Tra gli argomenti a favore di un decentramento di competenze verso le regioni, non vi era solo il leitmotiv della democratizzazione, ma anche la difficoltà evidente da parte della burocrazia statale della tutela nel dar risposta alle innumerevoli emergenze, che non di rado divenivano pietre dello scandalo agli occhi dell’opinione pubblica nazionale e internazionale (R. Bianchi Bandinelli, AA., BB. AA. e B.C. L’Italia storica e artistica allo sbaraglio, 1976).

Una risoluzione del Parlamento europeo di quegli anni aveva stabilito che di fronte all’incapacità di uno Stato a custodire il patrimonio culturale, in nome del suo valore universale, l’ente sopranazionale sarebbe stato legittimato a intervenire. Di fronte alle provocazioni della stampa circa l’ipotesi che l’Italia fosse interdetta dalla tutela di alcuni siti, affidati a una sorta di «caschi blu della cultura», il neoinsediato ministro Spadolini rivendicò con forza il ruolo dello Stato nel riconoscere e proteggere nel patrimonio «la sua identità di nazione» (Bruno 2011, p. 180).

Lo statuto del patrimonio tra gli anni Settanta e gli anni Novanta

Nei fatti, sempre più, gli organismi internazionali – e l’UNESCO in particolare – avrebbero rivendicato il ruolo di custodi/garanti della tutela del patrimonio culturale in nome della protezione dei suoi valori universali, a fianco ma anche al di sopra dei governi nazionali.

L’UNESCO, che nella fase d’avvio della sua attività era stata duramente criticata per i costi elevati che comportavano i suoi elefantiaci apparati, si era guadagnata grande credibilità con lo spettacolare (e spettacolarizzato) salvataggio delle statue della Nubia minacciate dai lavori per la diga di Assuan. L’organizzazione aveva risposto con efficacia all’appello dell’Egitto e del Sudan coordinando il finanziamento e l’attuazione di un progetto affidato a un consorzio italo-egiziano che si era concluso nel 1967 (Salvare i monumenti della Nubia, «Commissione nazionale italiana, Bollettino di informazioni», 1960, 1-2, p. 20) . Era stato il punto d’avvio di un meccanismo che aveva portato alla formalizzazione dell’idea di patrimonio mondiale (intrinsecamente competitiva con quella di patrimonio nazionale) nella Convenzione del 1972, il cui approccio operativo si fondava sul meccanismo della ‘lista’. Il grande successo ottenuto nel tempo dall’UNESCO attraverso la World heritage list (WHL, che oggi conta 962 siti diffusi in 157 dei 190 Paesi membri dell’UNESCO, e ben 1576 siti inseriti all’interno di una tentative list in attesa di candidatura formale da parte degli Stati membri) risiedette e tuttora risiede nel suo forte contenuto simbolico piuttosto che nel suo campo d’applicazione che, benché ampliatosi ininterrottamente, rimaneva pur sempre limitato e vincolato a criteri di eccellenza (outstanding heritage).

Vale la pena di soffermarsi sulla natura di questo meccanismo. La convenzione stabiliva un dovere/diritto della comunità internazionale alla conservazione del patrimonio mondiale in nome del suo carattere universale. Se gli Stati erano i principali protagonisti dell’individuazione e delimitazione del patrimonio mondiale avente questi caratteri di universalità, la ‘comunità internazionale’ oggettivata nell’UNESCO poteva contribuire a tale individuazione e, soprattutto, era chiamata a garantirne la protezione.

Come presto sarebbe apparso evidente il meccanismo di garanzia costruito dall’UNESCO, però, non restava circoscritto all’applicazione di efficaci misure protettive ma tendeva a estendersi anche, e forse soprattutto, al campo della definizione dei contenuti e dei valori del patrimonio stesso, grazie all’azione congiunta di due procedimenti: quello d’indirizzo, attraverso le carte tecniche degli Advisory bodies, veicolo di precisi orientamenti disciplinari, e quello di riconoscimento, con l’iscrizione nella lista. Attraverso tale riconoscimento l’UNESCO poneva il suo sigillo sui valori universali dei siti proposti e ne mutava sostanzialmente lo statuto collocandoli su un piano identitario universale, diverso da quello nazionale. Tra l’inizio degli anni Settanta e l’inizio dei Novanta questo processo di definizione dei valori del patrimonio culturale da parte degli organismi internazionali avrebbe registrato un crescente accento sulla dimensione regionale della produzione della cultura, frutto in gran parte della svolta ambientale che caratterizzò il passaggio dagli anni Sessanta ai Settanta. Ciò sarebbe dipeso dal progressivo affermarsi di una concezione del patrimonio culturale che si è vista già formalizzata compiutamente all’inizio del decennio nella nozione di ecomuseo. Una concezione secondo cui i caratteri della cultura sono esito di peculiari interazioni uomo-ambiente che assumono di volta in volta tratti specifici come manifestazioni diverse di un genio universale che nella natura trova materia e ispirazione.

Alla stesura della convenzione sul patrimonio mondiale ICCROM (International Centre for the Study of the Preservation and Restoration of Cultural Property), ICOMOS (International Council on Monuments and Sites) e IUCN (International Union for Conservation of Nature) fornirono gli apporti culturali e disciplinari più significativi, nell’alveo di un vasto dibattito sul conflitto fra sviluppo e ambiente. Questo vide il suo primo snodo internazionale, proprio in concomitanza con la WHC, nel 1972 con la Conferenza di Stoccolma da cui nacque l’UNEP (United Nations Environmental Program), il programma ambientale delle Nazioni Unite.

La convenzione aveva ampliato al mondo naturale il concetto di patrimonio e assunto l’idea moderna della conservazione per le future generazioni, ma sin dalle origini fu criticata per il dualismo che manteneva fra patrimonio culturale e patrimonio naturale, dualismo che si concretizzava nell’individuazione di criteri di valore nettamente distinti. Sulla scia del dibattito su ambiente e sviluppo che metteva al centro il problema dell’interazione fra uomo e natura emerse ben presto il limite culturale dell’approccio per ‘siti misti’ (la cui iscrizione si fondasse cioè su un mix di criteri ‘culturali’ e ‘naturali’), categoria artificiosa e per questo poco attraente.

Nel 1984, in continuità con le decisioni assunte dall’assemblea generale dell’ONU del 1983 che aveva decretato la costituzione della Commissione mondiale per l’ambiente e lo sviluppo nota come Commissione Brundtland, anche in seno al Comitato del patrimonio mondiale si aprì finalmente un dibattito che rimise in discussione le categorie che ispiravano l’iscrizione dei siti nella lista. Emerse in particolar modo la difficoltà di rappresentazione dei valori culturali dei paesaggi rurali. ICOMOS e IUCN furono formalmente incaricati di affrontare il problema e di elaborare nuove linee guida operative della convenzione. Nei documenti preparatori sono riscontrabili molti dei concetti che sarebbero stati formalizzati nel decennio successivo e avrebbero inciso profondamente, per es., sullo statuto delle aree naturali protette. La fine del decennio fu un periodo di intensa elaborazione concettuale: dai lavori della Commissione Brundtland, sintetizzati nel 1987 dal Rapporto Brundtland emerse un concetto chiave almeno altrettanto fortunato quanto quello di Patrimonio dell’Umanità: il concetto di ‘sviluppo sostenibile’.

Queste importanti acquisizioni, scandite da una ricca produzione anche a carattere regionale o specialistico (cioè elaborata dalle articolazioni regionali degli Advisory bodies – come la Carta di Burra dell’ICOMOS Australia – oppure centrata su specifiche categorie tecnico-disciplinari) coincisero con un periodo turbolento della vita politica dell’UNESCO, contrassegnato dalla presenza, alla guida dell’organizzazione del senegalese Amadou-Mahtar M’Bow per il lungo periodo che andò dal 1974 al 1987, che culminò con l’abbandono di USA e Regno Unito. Quando nel novembre 1987, dopo un tormentato conclave parigino, s’insediò ufficialmente il nuovo direttore generale spagnolo Federico Mayor Zaragoza, il suo compito fu non solo quello di sanare profonde ferite diplomatiche ma anche di risollevare la reputazione dell’UNESCO logorata dagli scandali e dagli scontri politici.

n effetti, il superamento delle aspre contrapposizioni ideologiche che avevano caratterizzato il decennio precedente favorì il rilancio dell’attività dell’UNESCO. Vinte le resistenze del bureau, che negli anni precedenti si era opposto a una revisione delle linee guida della Convenzione giudicandola non necessaria, nel corso della undicesima sessione della WHC che si tenne nel dicembre 1987 fu costituito un gruppo di lavoro che svolgesse questo compito con particolare riguardo per il tema dei paesaggi i cui caratteri derivassero da una speciale relazione fra natura e tradizioni culturali delle comunità insediate, in particolare i borghi e i paesaggi rurali. Fra il 1987 e il 1991 si svolsero numerosi incontri istituzionali e scientifici, nell’ambito dei quali la nozione di paesaggio culturale fu codificata.

All’inizio degli anni Novanta maturarono le premesse per un’importante modifica della Convenzione del patrimonio mondiale con l’introduzione formale della categoria dei ‘paesaggi culturali’. Alla successiva sessione della WHC del 1992 le proposte formulate dagli esperti negli incontri preparatori furono accettate quasi senza critiche e si definirono i contenuti delle nuove linee guida operative. Segnale della volontà di un energico impegno di promozione della Lista fu la creazione nel 1992 del World heritage centre.

Nel 1993 il Parco naturale di Tongariro, in Nuova Zelanda, fu il primo sito mondiale iscritto nella lista sulla base dei nuovi criteri definiti alla luce del concetto di paesaggio culturale. La nozione diede fortissimo impulso al riconoscimento di paesaggi complessi il cui assetto fosse considerato frutto della peculiare interazione fra uomo e natura: un radicale superamento dei limiti legati all’idea di ‘siti misti’ precedente, che presupponeva la giustapposizione di criteri ‘culturali’ e criteri ‘naturali’.

Le regioni italiane e la ‘svolta identitaria’

In Italia l’approvazione, nel 1991, di un’organica legge quadro sulle aree protette (l. 6 dic. 1991 nr. 394) sancì un nuovo statuto dei parchi naturali, specie di quelli regionali, che integrava in modo sostanziale la prospettiva dei paesaggi culturali. Nel riconoscimento dei valori delle aree protette la nuova norma ridimensionava il principio cardine della naturalità ed esplicitava il riferimento ai caratteri di una identità culturale locale: «I parchi naturali regionali sono costituiti da aree […] di valore naturalistico e ambientale, che costituiscono, nell’ambito di una o più regioni limitrofe, un sistema omogeneo individuato dagli assetti naturali dei luoghi, dai valori paesaggistici ed artistici e dalle tradizioni culturali delle popolazioni locali» (art. 2, 2° co.).

La legge prefigurava inoltre un ruolo attivo del parco nella promozione dello sviluppo, coerente con un mutamento profondo di alcuni paradigmi disciplinari che aveva preso l’avvio dalla crisi degli anni Settanta. Ne erano stati investite in particolare le scienze geografiche ed economiche che avevano posto al centro della lettura del territorio la dimensione locale dello sviluppo, valorizzando il concetto di milieu come sintesi del rapporto coevolutivo uomo-ambiente. Tale prospettiva che non mancò di riflettersi sulla pianificazione territoriale che conobbe, agli inizi degli anni Novanta, una vera e propria svolta identitaria.

Le regioni che più si spinsero nella declinazione normativa dell’ispirazione identitaria furono la Toscana e la Liguria, che aprirono così la stagione delle nuove leggi urbanistiche regionali: la prima con la l. reg. 16 genn. 1995 nr. 5 fissò il concetto di statuto dei luoghi; la seconda con la l. reg. 4 sett. 1997 nr. 36 introdusse lo strumento della descrizione fondativa. Ambo i concetti rappresentavano il piano come ‘patto identitario’ fra comunità e ambiente.

Un portato del nuovo statuto identitario del patrimonio fu l’affermarsi di un modello di turismo, culturale, che differiva dal turismo della cultura per la sua natura di esperienza globale basata sullo scambio con le popolazioni locali, protagoniste della narrazione identitaria (comunità anfitrioni). L’idea del turismo culturale, complementare a quella del turismo sostenibile, fu veicolata negli anni Novanta da numerose carte internazionali. Essa contribuì ad alimentare fibrillazioni identitarie nei territori che si tradussero nell’aumento delle domande di istituzione di nuovi parchi e di iscrizioni nella lista UNESCO. Se nel primo ventennio di vita della WHL, tra il 1972 e il 1992 l’Italia aveva registrato otto iscrizioni, nel ventennio successivo ne registrava ben 39 di nuove, divenendo così il Paese con il più alto numero di siti UNESCO al mondo. Il riconoscimento UNESCO tendeva a configurarsi come una vera e propria forma di certificazione di qualità del patrimonio, estremamente popolare, innescando forme di competizione non solo fra i Paesi membri, ma anche fra le regioni italiane e persino fra le cosiddette euroregioni. Il tema dell’identità locale entrò a far parte del linguaggio politico delle classi dirigenti regionali e locali protagoniste del vasto movimento di decentramento e rafforzamento delle autonomie locali e regionali che investì l’Europa fra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni Novanta.

Malgrado la convergenza disciplinare sulla centralità della dimensione locale nei processi di produzione della cultura e del paesaggio – o forse proprio a causa di essa – la questione delle competenze su patrimonio, paesaggio e ambiente ha continuato a produrre tensioni fra Stato e regioni italiane. Proprio a partire dal riconoscimento del legame tra comunità, ambiente e patrimonio, che coerentemente discendeva dall’impostazione della legge quadro sulle aree protette del 1991 e dal successo straordinario della nozione di paesaggio culturale veicolata dalla revisione della WHC del 1992, molte polemiche suscitò da parte delle regioni la revisione costituzionale del 2001 che, in merito alla ripartizione delle materie nei settori materiali di competenza, lasciava a esse margini molto ristretti. In particolare criticabile appariva l’individuazione della «tutela dell’ambiente, dell’ecosistema e dei beni culturali» (art. 117, 2° co., lettera s) come materia di legislazione esclusiva dello Stato secondo quella che è stata definita una visione «eco-Stato-centrica» (C. Desideri, Interessi ambientali, Costituzione e regioni, «Diritto e gestione dell’ambiente», 2002, 2, p. 379 e segg.).

Un anno dopo la riforma, la Corte costituzionale rigettava questa impostazione. La tutela dell’ambiente, nella lettura della Corte, «s’intreccia[va] inestricabilmente con altri interessi e competenze». L’ambiente era, dunque, per la Corte «materia trasversale» rispetto alla quale non si potevano escludere competenze legislative regionali, pur nel quadro di una preminente competenza legislativa centrale (sentenza Corte cost. 26 luglio 2002 nr. 407).

Ancora più problematico è, da decenni, il nodo del beni culturali e del paesaggio. Il riconoscimento di una dimensione locale delle identità culturali, percepibile nei caratteri del patrimonio culturale e del paesaggio, non ha risolto il problema della collocazione su piani diversi della tutela del patrimonio culturale (materia di pertinenza legislativa dello Stato) e della sua valorizzazione (legislazione concorrente Stato/regioni). Tale dualismo continua a produrre tensioni, perpetuando una dinamica conflittuale di lungo periodo fra sviluppo e conservazione. Alla metà degli anni Ottanta un punto di svolta decisivo era apparsa la l. 8 ag. 1985 nr. 431, nota come legge Galasso. La legge estendeva sensibilmente l’ambito paesaggistico soggetto a tutela e, in conseguenza di tale estensione, abbandonava la prospettiva di una tutela passiva, fondata esclusivamente sul ‘vincolo’, a favore di una tutela attiva fondata sul ‘piano’. Le regioni ne divenivano protagoniste come responsabili dei piani paesistici regionali, da redigere in una logica di copianificazione con le soprintendenze. Nel successivo ventennio il processo attuativo della pianificazione paesistica ha confermato la diseguale geografia del buongoverno regionale. Se l’Emilia-Romagna è stata la prima regione italiana a raccogliere la sfida della legge Galasso dotandosi nel 1989 di un Piano territoriale paesistico regionale, per molte regioni italiane – da Nord a Sud, a scanso di equivoci – la stagione dei piani paesistici non è ancora cominciata.

Come gran parte dei Paesi europei l’Italia ha aderito alla Convenzione europea sul paesaggio (ELC, European Landscape Convention) emanata dal Consiglio d’Europa a seguito della Conferenza internazionale (Firenze, 20 ottobre 2000) ed entrata in vigore nel nostro Paese nel 2006. La ELC si è caratterizzata per la sua complementarità rispetto alla WHC in merito al campo di applicazione: il documento di Strasburgo, infatti, sottolinea il valore identitario di tutti i paesaggi a prescindere dalla loro eccellenza (outstanding e non outstanding landscapes) e da questo valore fa discendere la loro importanza come manifestazione di diversità. Esso ha ribadito il legame identitario fra comunità locali e paesaggio, «componente essenziale del contesto di vita delle popolazioni, espressione della diversità del loro comune patrimonio culturale e naturale e fondamento della loro identità» (Consiglio d’Europa, Convenzione europea sul paesaggio, http://www. paysmed.net/upl_sensib/13-allegato.pdf, 3 dic. 2013), introducendovi il tema della soggettività delle esperienze percettive e affermando in modo esplicito un diritto dei produttori di paesaggio al coinvolgimento nei processi decisionali relativi alle sue trasformazioni.

Malgrado l’adesione italiana alla Convenzione europea del paesaggio, il Codice dei Beni culturali e del paesaggio approvato nel 2004, facendo riferimento esclusivo alla ‘memoria della comunità nazionale’ e al suo territorio, ha seguito un orientamento diverso, che è stato definito deviante da una parte della cultura giuridica proprio perché non in sintonia con la tendenza verso il decentramento amministrativo e la riforma costituzionale del titolo V. Quest’ultima, nella definizione del ruolo delle riformate regioni, ha peraltro confermato la linea storica di un regionalismo giuridico privo di fondamenti identitari di matrice culturale, ma concepito piuttosto come forma di condizionamento dei poteri dello Stato. Nel dibattito sul Codice Urbani che ha visto un’alzata di scudi da parte di molte regioni, il linguaggio identitario delle convenzioni internazionali, in particolare della ELC, è stato argomento portante delle rivendicazioni regionaliste contro il centralismo statale in materia di tutela del patrimonio e del paesaggio.

L’Europa delle regioni

La svolta identitaria prodotta tra gli anni Settanta e Novanta dall’elaborazione disciplinare della domanda di democratizzazione e veicolata dai documenti UNESCO, ha orientato la costruzione delle strategie comunitarie e delle retoriche dello sviluppo regionale, più di quanto l’anodino linguaggio dei trattati lasci, in effetti, trasparire.

La fine del 20° sec. ha registrato nell’Europa comunitaria un poderoso processo di regionalizzazione e ha visto le istituzioni di Bruxelles divenire punto di riferimento delle istanze regionali. Negli ultimi decenni del Novecento il processo d’integrazione europea è stato caratterizzato dall’attuazione di riforme amministrative radicali, che hanno valorizzato il ruolo degli istituti substatali come protagonisti della vita comunitaria e della nuova programmazione delle risorse strutturali in particolare.

L’avvio di tali riforme si colloca nel quadro del ‘rilancio europeo’ che segnò l’intensificarsi dell’impegno francese nel progetto di integrazione europea all’inizio degli anni Ottanta. Ancora una volta, se lo stimolo a un rinnovato impegno comunitario giunse dal variegato mondo federalista supportato dal nuovo Parlamento elettivo, nei fatti le riforme comunitarie furono frutto di un ricostituito asse franco-tedesco che marginalizzò le posizioni polemiche della Gran Bretagna, aprì all’ingresso della Spagna e perseguì con determinazione il progetto di completamento del mercato unico. Alla presidenza della Commissione, François Mitterrand pose un uomo-chiave, Jacques Delors, che aveva retto nel suo governo il dicastero dell’Economia. La firma dell’Atto unico europeo (AUE) nel 1986 segnò per le regioni europee un passaggio dirompente: la politica regionale ne usciva radicalmente riformata all’insegna del principio della coesione economica e sociale la cui vis retorica era tesa a compensare la delusione per il fallimento di ipotesi più avanzate di integrazione politica. La prospettiva funzionalista sembrò nuovamente prevalere, tuttavia la Commissione Delors, motore della rivoluzione in atto, si sforzò di accompagnare il nuovo corso con un impegno comunicativo senza precedenti, articolando una vera e propria narrazione intorno all’identità europea che univa aspetti simbolici (dall’istituzione della bandiera europea a quella delle Festa dell’Europa, una sorta di ‘compleanno comunitario’ il 9 maggio, giorno della dichiarazione Schuman) a più concreti riconoscimenti dei diritti (titoli di studio, esercizio delle professioni, mobilità di giovani e studenti).

Il vero fulcro dell’avvicinamento delle istituzioni comunitarie ai territori fu però la strategia di territorializzazione delle risorse strutturali che improntava i nuovi programmi di sviluppo e il cui presupposto era la costituzione di una Europa delle regioni. Questo passaggio era ritenuto fondamentale perché la politica regionale perdesse la natura contrattualistica che aveva fin lì avuto, di negoziazione Comunità-Stato, e acquisisse carattere di ordinarietà e uniformità. Così la Commissione Delors dava risposta alla battaglia per il riconoscimento del ruolo delle regioni nell’architettura istituzionale comunitaria, portata avanti in seno al Parlamento dall’Intergruppo degli eletti locali e regionali, e si preparava a gestire il nuovo allargamento a sud. Proprio in previsione dell’allargamento a sud la Commissione varò un programma che costituì un terreno di sperimentazione della politica regionale riformata: i Progetti integrati mediterranei (PIM) di cui fu responsabile Lorenzo Natali, stretto collaboratore di Delors e protagonista dei negoziati preallargamento. La strategia operativa dei PIM mirava a vincere le resistenze di Francia, Italia e Grecia nel fronteggiare con risorse comunitarie le difficoltà strutturali dei nuovi arrivati Spagna e Portogallo. I PIM intendevano dimostrare l’utilità di un approccio interregionale al problema del ritardo di sviluppo, declinato nella chiave di una solidarietà mediterranea. Fu un significativo passo verso il rafforzamento delle relazioni orizzontali e prefigurò, nei fatti, la strategia comunitaria del networking che nel decennio successivo avrebbe pienamente coinvolto i livelli regionale e urbano.

Oltre e più che i rappresentanti delle regioni spagnole, i soggetti che premevano per un rafforzamento delle regioni nel contesto europeo erano i governatori dei Länder tedeschi che nel rapporto con le burocrazie tecniche comunitarie sollecitavano il riconoscimento delle regioni europee come attori autonomi della progettualità dello sviluppo.

In concomitanza con una risoluzione del Parlamento europeo che approvava la Carta comunitaria della regionalizzazione (1988) Delors promosse l’istituzione del Consiglio consultivo degli enti regionali e locali, rispondendo a un’esigenza che, come abbiamo visto, le regioni esprimevano da oltre un decennio e che era divenuta obiettivo prioritario dell’ARE (Associazione delle Regioni d’Europa). Nata nel 1985 l’associazione mirava esplicitamente al riconoscimento del fait régional e si distinse dal Consiglio dei comuni d’Europa (CCE) per la rottura della storica alleanza fra regioni e municipi. Il perno concettuale del progetto regionalista dell’ARE era il principio di sussidiarietà (De Rose, in Le fait régional et la construction européenne, 2003, pp. 115-18).

In funzione della revisione del funzionamento dei fondi strutturali, che nel 1988 registrò una prima riforma dei criteri di distribuzione delle risorse, nello stesso anno entrò in vigore la nomenclatura NUTS (Nomenclature des Unités Territoriales Statistiques) che organizzava lo spazio comunitario classificando le unità territoriali secondo categorie comuni che avrebbero costituito il riferimento per l’erogazione dei fondi. Sebbene redatto a fini puramente statistici, il quadro delle unità territoriali statistiche fornì una prima immagine del territorio europeo come variegato mosaico di realtà regionali. Una prima riforma dei fondi strutturali fissò nello stesso anno alcuni principi importanti e obiettivi correlati a precisi livelli NUTS. Così attrezzata l’Unione Europea si apprestava alla negoziazione dei nuovi trattati (per una riflessione sul decentramento delle politiche regionali comunitarie si veda fra l’altro: G. Viesti, F. Prota, Le nuove politiche regionali dell’Unione Europea, 2004, in partic. pp. 87-109).

La svolta di Maastricht fu preceduta e accompagnata in tutta l’Europa comunitaria da un vasto movimento di decentramento aperto in Italia dalla l. 8 giugno 1990 nr. 142 sulla riforma delle autonomie locali. Quello dei primi anni Novanta si preannunciava uno snodo temporale cruciale sotto i profili identitari locali: alle elezioni del Parlamento europeo la Lega Lombarda-Alleanza Nord si era presentata con il suo armamentario folkloristico di simboli, riti, personaggi, guadagnando due seggi e confluendo nel ‘gruppo Arcobaleno’ (alle politiche del 1992 avrebbe ottenuto 80 parlamentari); con l’elezione diretta del sindaco si era aperta la stagione delle ‘cento città’, che aveva costruito un progetto politico nazionale sull’immagine di un’Italia dei municipi, e nel 1993 un referendum aveva decretato l’abolizione di alcuni ministeri e la devoluzione della relativa materia alle regioni.

Il Trattato di Maastricht, firmato nel 1992 ed entrato in vigore l’anno successivo, non menzionava un’identità europea bensì un’identità dell’Unione, da «affermare sulla scena internazionale», e una cittadinanza dell’Unione, da istituire al fine di «rafforzare la tutela dei diritti e degli interessi dei cittadini dei suoi Stati membri» nel rispetto della «identità nazionale dei suoi Stati membri». L’identità dell’Unione così come emerse dal trattato era priva di riferimenti territoriali, mentre l’identità nazionale degli Stati, in esso citata, si legava al rispetto dei principi democratici e nel tempo andò definendosi come un’identità politico-istituzionale «insita nella loro [degli Stati] struttura fondamentale, politica e costituzionale, compreso il sistema delle autonomie locali e regionali», come recita il Trattato di Lisbona (2009). L’Europa unita, dunque, rispetto ai suoi cittadini si definiva come uno spazio giuridico assai denso sul piano dei diritti, ma del tutto neutro rispetto ai valori culturali e ai caratteri territoriali.

Il Trattato di Maastricht non rispose pienamente alle istanze che le regioni europee avevano formulato nei decenni precedenti e rispetto alle quali vi erano grandi attese. Il principio di sussidiarietà enunciato già dal preambolo fu infatti circoscritto al rapporto tra l’Unione e gli Stati e non vi apparve alcun riconoscimento di entità substatali nel quadro comunitario. Tuttavia il trattato istituzionalizzò una serie di nuovi principi che avrebbero ispirato le politiche settoriali definendo nuovi importanti spazi d’azione e di relazione per le regioni: partnership, cofinanziamento, programmazione.

Si delineò così una strana discrasia: mentre sul piano giuridico il riconoscimento comunitario delle regioni era ancora un obiettivo lontano, sul piano amministrativo l’Unione Europea riservava loro un ruolo senza precedenti. Dal 1993, con il varo del secondo ‘pacchetto Delors’, la riforma dei fondi strutturali registrò un passaggio fondamentale: le regioni erano incaricate della redazione di un documento unico di programmazione che diveniva la base della negoziazione dei fondi. Il rafforzamento della cooperazione interregionale pose finalmente in primo piano la storica questione delle relazioni internazionali. L’insediamento di rappresentanze regionali a Bruxelles costituì una novità importante nella relazione fra Europa e regioni.

Il nuovo sistema di gestione dei fondi strutturali sollecitava le regioni a una presenza attiva nell’arena comunitaria, in virtù dei meccanismi che vincolavano l’accesso alle risorse: il principio della partnership trasformava la cooperazione interregionale da strategia informale a preciso canale di accesso ai fondi strutturali, rendendo indispensabile la partecipazione delle regioni a reti internazionali di natura settoriale o territoriale; la costante emanazione di nuovi bandi comunitari rendeva l’accesso rapido alle informazioni un fattore discriminante; il rinnovamento del linguaggio comunitario che accompagnò la riforma dei fondi strutturali richiedeva una formazione ad hoc. Si trattò, com’è stato osservato, di precise pressioni all’adattamento che produssero un fenomeno di europeizzazione delle regioni sul duplice piano del ceto politico regionale e delle burocrazie tecniche (Bolgherini 2006). Tali sollecitazioni furono raccolte dagli enti in modo diseguale: l’investimento comunitario fu uno degli ambiti su cui si misurò la capacità di governo delle riformate regioni.

Una delle nuove arene in cui il ceto politico regionale poté giocare la partita comunitaria del dopo Maastricht fu il Comitato delle regioni, istituito dal trattato del 1992 come organo consultivo di pari rango del Comitato economico e sociale, e potenziato in modo significativo dal Trattato di Lisbona nel 2007. Nel solco della tradizione europeista che era divenuta tratto identificativo di una cultura regionale del buongoverno alcune regioni italiane si distinsero per la presenza attiva in seno al comitato (sul caso toscano si veda Bolgherini 2006, pp. 74-76). La struttura mista del Comitato delle regioni lasciava però delusi coloro che lo avevano immaginato come una voce del movimento regionalista: vi sedevano infatti rappresentati di regioni-Stato come i Länder tedeschi e sindaci di piccolissimi villaggi. L’Assemblea delle regioni europee s’intestò una battaglia per una riforma del comitato come Assemblea delle regioni, come organo di rappresentanza di regioni autonome integrate nel quadro comunitario alla luce di un principio di sussidiarietà non più limitato al rapporto Unione-Stati ma esteso al cosiddetto terzo livello comunitario.

Il modello di regione europea sotteso a questo progetto fu definito con la Dichiarazione dell’Assemblea delle regioni d’Europa approvata a Basilea nel dicembre 1996. L’ARE in rappresentanza di «circa 300 Regioni europee» vi tracciava le linee di un minimo comune denominatore dei variegati regionalismi europei anche in vista di quello che si prospettava un allargamento a est di proporzioni gigantesche. L’Assemblea prendeva atto «del fatto che le Regioni hanno delle origini e delle funzioni diverse, nel senso che alcune raggruppano da molto tempo delle comunità, delle etnie e delle nazioni ben distinte, mentre altre sono state create in qualità di distretti amministrativi che esercitano dei poteri assegnati loro dallo Stato», tuttavia constatava che «attraverso i legami storici, linguistici, culturali, sociali, economici e geografici i diversi popoli si identificano sempre più alla loro Regione, la cui molteplicità costituisce una ricchezza inestinguibile».

Il modello di regione da cui l’ARE faceva discendere la sua definizione era un ente dotato di autogoverno politico, riconosciuto dalla Costituzione dello Stato, dotato a sua volta di una Costituzione o di uno statuto d’autonomia, in grado di esprimere identità non solo sul piano politico ma anche su quello culturale. In allegato l’Assemblea proponeva alcuni esempi di materie di competenza delle regioni, tra cui figuravano, oltre all’assetto territoriale e all’ambiente, anche istruzione, università e cultura.

Su costante stimolo dell’ARE il Comitato delle regioni si sarebbe impegnato in una riflessione profonda sul tema della cittadinanza europea culminata nella rappresentazione di questa come estensione di una cittadinanza dei comuni e delle regioni. Tale cittadinanza si articolava secondo tre dimensioni fondamentali: una dimensione politica, basata «sul diritto civile all’autonomia amministrativa, conquistato nella maggior parte dei casi dopo una lunga battaglia contro le rivendicazioni monopolistiche dell’amministrazione centrale dello Stato»; una dimensione dello sviluppo relativa «all’organizzazione comune delle strutture di base della vita dei cittadini» e una dimensione sociospaziale che riguardava la capacità di tali enti di interpretare e produrre identità: «Le regioni e i comuni sono delle unità spaziali che integrano i cittadini attraverso la realtà del vicinato e nella varietà della vita di tutti i giorni. Attraverso la tradizione, la cultura regionale e locale e i progetti comuni di modernizzazione essi sviluppano un’identità che agisce verso l’interno e l’esterno» (Parere del Comitato delle regioni sul tema ‘Cittadinanza europea’ (2000/C 156/03), «Gazzetta ufficiale delle Comunità europee», 6 giugno 2000, pp. 12-17).

La presenza di una dimensione sociospaziale della cittadinanza europea rifletteva l’acquisizione e la declinazione identitaria di un’importante novità: il riconoscimento formale del territorio come nuova dimensione della politica europea.

Questo passaggio fu sancito dall’approvazione di un corposo documento ufficiale, a suo modo rivoluzionario, che sistematizzava e rilanciava il portato di novità delle riforme strutturali: lo Schema di sviluppo dello spazio europeo (SSSE), approvato dal Consiglio informale dei ministri responsabili della gestione del territorio a Potsdam nel maggio 1999. Attraverso di esso il territorio europeo, reso neutro dai trattati e dalla futura ‘Costituzione’, acquistava finalmente una vivida fisionomia geografica e sociale che si spingeva ben oltre la dimensione giuridica, caratterizzandosi per «una diversità culturale concentrata in uno spazio ristretto». «Tale pluralismo […] va tutelato nel processo di integrazione europea. Pertanto, l’adozione di misure politiche, che incidono sulla struttura del territorio e degli insediamenti dell’UE, non devono compromettere le diverse identità locali e regionali che contribuiscono ad arricchire la qualità di vita dei cittadini europei» (Schema di sviluppo dello spazio europeo (SSSE).Verso uno sviluppo territoriale equilibrato e durevole del territorio dell’Unione Europea, 1999, pp. 7 e segg.).

Nello SSSE il principio di sussidiarietà era interpretato in modo più libero e ampio in riferimento al ruolo dei poteri locali e alla loro funzione strategica nell’attuazione dei principi di sostenibilità. L’idea di sviluppo sostenibile era declinata in forma estesa con un riferimento non solo alla salvaguardia delle risorse naturali ma anche a quella del patrimonio culturale. Attraverso lo SSSE l’Unione Europea prendeva atto dell’impatto delle politiche comunitarie sui paesaggi urbani e rurali dell’Europa e affermava con forza la necessità di ‘calibrare’ tali politiche sulla realtà dei territori alle diverse scale, con l’obiettivo di perseguire «uno sviluppo territoriale policentrico e un nuovo rapporto città-campagna». Questo obiettivo definiva una serie di ‘opzioni politiche’ che riguardavano prioritariamente le regioni dell’‘obiettivo 1’ e che si sarebbero ben dispiegate nella stagione di programmazione dei fondi strutturali 2000-06, nota come Agenda 2000. Lo ‘sviluppo endogeno’ e la diversificazione diventavano il nuovo orizzonte delle politiche agricole, alla luce del riconoscimento di diversità territoriali e culturali profonde a scala locale e regionale.

Un’altra importante novità era il rilievo del tema del patrimonio culturale e del suo contenuto identitario. La nozione stessa di patrimonio culturale ne emergeva rinnovata alla luce dell’estensione e della democratizzazione di questo concetto, come frutto di una produzione continua. I contenuti delle carte ICOMOS/UNESCO vi riecheggiavano apertamente: «Il patrimonio culturale europeo, dai paesaggi rurali ai centri storici delle città, è espressione della sua identità ed appartiene al patrimonio mondiale. Esso fa parte anche dell’ambiente quotidiano degli europei, arricchendo la qualità della loro vita. Le misure di protezione rigorose, quali previste da programmi di tutela di siti e monumenti classificati, riusciranno a coprire solo una parte limitata di questo patrimonio. Per il resto, è necessaria una gestione più creativa, in grado di invertire la tendenza all’abbandono, al degrado e alla distruzione, constatabile in numerose regioni e di lasciare in eredità alle generazioni future un patrimonio culturale arricchito di realizzazioni contemporanee» (Schema di sviluppo dello spazio europeo..., cit., p. 32). Particolare rilievo si assegnava infine ai paesaggi culturali europei come «immagine dell’identità locale e regionale», «testimonianza della storia» ed «espressione dell’interazione tra l’uomo e la natura», dotati di una «funzione catalizzatrice nel campo turistico». La gestione di questi paesaggi imponeva «una politica del paesaggio [...] adeguata alla singola regione e basata su una strategia integrata» (p. 35).

Dalla complessità dell’articolazione territoriale dello spazio europeo il documento faceva discendere un complesso meccanismo di cooperazione orizzontale e verticale che definiva per i diversi livelli di governo. Lo SSSE forniva ai soggetti coinvolti nella gestione dei fondi strutturali un quadro di riferimento delle politiche strutturali ricco delle sollecitazioni identitarie che derivavano da una più articolata territorializzazione delle risorse.

Il riconoscimento comunitario delle regioni maturato negli anni delle due Commissioni Delors ha avuto grande effetto attrattivo nei confronti di regionalismi ‘deboli’ (li definiamo così per distinguerli dai regionalismi/nazionalismi a forte carattere etnolinguistico o religioso) come quelli emersi in Italia alla fine degli anni Ottanta, espressione di un più vasto regionalismo del benessere. Questo potere attrattivo si è manifestato nella forma di un’europeizzazione degli obiettivi regionalisti. In questo senso il caso italiano è emblematico. Il movimento Lega Lombarda-Lega Nord, che si era contraddistinto per la netta posizione antieuropeista del suo leader e fondatore Umberto Bossi, trasformatosi presto in partito, ha visto la successione di Roberto Maroni. Quest’ultimo ha costruito il suo progetto di rinnovamento della Lega su una visione di segno opposto. Il tema europeo è stato costruttivamente declinato nella prospettiva della ‘macroregione’ del Nord (talvolta definita impropriamente euroregione del Nord) come entità costituzionalmente autodeterminata, tassello della costruzione di una Europa dei Popoli, nel quadro di una nuova riforma del titolo V della Costituzione che vedrebbe l’Italia ripartita in tre macroregioni dotate di ampi poteri.

Le regioni oggi, dall’identità ‘sussidiaria’ all’identità ‘competitiva’

Il 1° agosto del 2000 con la Decisione nr. C (2000) 2050 la Commissione europea ha approvato il Quadro comunitario di sostegno (QCS) frutto «di un processo molto lungo e impegnativo [...] e di un partenariato molto attivo tra le autorità regionali, locali e le parti socioeconomiche, nonché tra il governo italiano e la Commissione». Su di esso le sei regioni obiettivo 1 del Mezzogiorno erano chiamate a costruire i loro programmi operativi, forti della legittimazione conferita alla presidenza dall’elezione diretta del governatore.

La stagione di Agenda 2000 è stata un formidabile terreno di prova degli impatti delle sollecitazioni identitarie maturate nei decenni precedenti. Tra i sei assi che componevano il QCS e su cui si sarebbero articolati i programmi operativi regionali, quello dedicato al patrimonio culturale, già dalla denominazione ‘risorse culturali’, denunciava il valore strategico del patrimonio nelle politiche dello sviluppo e la volontà di superare la dicotomia tutela/valorizzazione. Una importante novità del periodo di programmazione è stato lo strumento dei Progetti integrati territoriali (PIT) che declinava il principio di integrazione introdotto dal regolamento nr. 1260/1999 del Consiglio europeo. Pur nella diversità delle strategie attuative lo strumento del PIT valorizzava il ruolo dei comuni come promotori dello sviluppo sulla base di partenariati costruiti intorno a una idea-forza e assegnava alle regioni un ruolo di coordinamento e valutazione.

Proprio nella costruzione dell’idea-forza la stagione di Agenda 2000 ha visto dispiegarsi compiutamente le retoriche identitarie fondate sui caratteri del paesaggio e sulla natura del patrimonio culturale inteso come insieme di beni, siti, saperi e tradizioni. I PIT raccoglievano i frutti della stagione della programmazione negoziata che aveva visto i municipi costruire ‘patti’ per la valorizzazione delle risorse locali. Dall’esperienza della progettazione integrata sono emerse fisionomie identitarie regionali piuttosto caratterizzate e la centralità delle aree naturali protette nella costruzione delle nuove narrazioni. A questa costruzione contribuivano significativamente i Gruppi di azione locale (GAL) beneficiari dei progetti d’iniziativa comunitaria LEADER (Liaison Entre Actions de Dévelopement de l’Économie Rurale) costituiti su base territoriale intercomunale. Uno dei punti di forza delle nuove compagini territoriali era il coinvolgimento del settore privato e delle associazioni.

Non è questa la sede per un raffronto fra la vis retorica delle narrazioni identitarie, la coerenza degli interventi e delle misure previste dai PIT, e la reale capacità dei municipi di superare i campanilismi: occorre piuttosto segnalare che sul diritto alla partecipazione ai processi decisionali e alle politiche di trasformazione del paesaggio e del patrimonio si è giocata la nuova partita fra tutela e sviluppo. L’irruzione delle narrazioni identitarie nel linguaggio del marketing territoriale, segno di questa nuova stagione, non ha riguardato solo il livello dei sistemi locali. Al contrario essa ha prodotto anche a livello regionale tentativi di rappresentazioni identitarie omogenee che si sono dispiegati in particolare nel linguaggio delle politiche di valorizzazione del patrimonio e di promozione del turismo, dando spazio a rappresentazioni del ‘prodotto regione’ fortemente stereotipate. Altrettanto ambigue – quando non culturalmente maldestre – sono risultate le strategie dei nuovi ‘assessorati all’identità regionale’ che hanno rimpiazzato i tradizionali ‘assessorati ai beni culturali e paesaggistici’.

Negli ultimi anni le regioni italiane hanno mostrato di volersi appropriare del linguaggio identitario veicolato dai documenti internazionali in controtendenza con l’orientamento della legislazione nazionale che nulla ha concesso alla prospettiva emergente della ‘diversità culturale’ come possibile orizzonte di sintesi di una cultura nazionale ‘plurale’.

Malgrado queste rivendicazioni identitarie, recenti analisi dei nuovi statuti regionali hanno sottolineato da parte degli istituti regionali da un lato un’attitudine a riprodurre retoricamente il modello statuale, dall’altro un’incapacità a declinare in chiave sussidiaria il ruolo di naturali interpreti della democratizzazione dei processi decisionali attraverso l’uso degli strumenti legislativi già ampiamente esistenti (A. D’Atena, I nuovi statuti regionali e i loro contenuti programmatici, «Le Regioni», 2007, 3-4, pp. 399-420).

Il panorama attuale, in rapida evoluzione e ricco di contraddizioni, non consente bilanci netti degli effetti dell’ondata identitaria veicolata e promossa dagli organismi internazionali sulle regioni italiane. L’impressione che se ne ricava, però, anche alla luce della recente stagione di Agenda 2000, è quella che gli istituti regionali, nella concreta attuazione della crescente autonomia, abbiano via via sostituito a un’identità sussidiaria un’identità doppiamente competitiva, da un lato verso lo Stato, cavalcando la crescente legittimazione comunitaria, dall’altro verso gli enti locali subregionali, imitandone le retoriche identitarie, riproducendole e riformulandole a una scala più ampia sulla quale esse risultano, però, semplificate e indebolite. Ne deriva così il paradosso di una duplice erosione istituzionale. Da una parte le regioni italiane risultano spesso inadempienti nelle funzioni ordinarie previste dall’ordinamento giuridico nazionale (per es. rispetto alla logica ‘a cascata’ della pianificazione territoriale e paesaggistica che vorrebbe i piani regionali come quadri di riferimento della pianificazione locale a essi subordinata). Dall’altra gli input sovranazionali stimolano un attivismo regionale che vede le regioni aspirare a sostituirsi allo Stato e a un tempo competere con i comuni nella progettualità dello sviluppo locale, alimentando tensioni che si manifestano con particolare evidenza nella gestione delle risorse comunitarie. I rischi connessi a tali dinamiche sono molteplici e vanno dalla radicalizzazione del conflitto tutela/sviluppo, all’uso disinvoltamente manipolatorio del patrimonio culturale e delle sue rappresentazioni identitarie, alla rottura della solidarietà nazionale in nome di un rampante regionalismo del benessere che ‘usa’ un’Europa ancora troppo (e colpevolmente) debole sul piano della legittimazione democratica, in funzione antistatale.

In questo senso non si può sottovalutare il rischio che lo scenario dell’Europa delle regioni, costruito come risposta a un’esigenza di democratizzazione, possa in concreto configurarsi come «utopia regressiva» (Caciagli 2003, p. 226).

È probabile che la rinuncia a un’estensione giuridica del principio di sussidiarietà al ‘terzo livello’ comunitario, unita alla valorizzazione de facto degli istituti regionali nella vita comunitaria alla luce di retoriche identitarie di grande presa, lungi dal garantire gli Stati-nazione possa finire con l’indebolirne il ruolo coesivo, favorendo l’esplosione di conflitti istituzionali laceranti.

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