L'ETA MODERNA

Enciclopedia dei Papi (2000)

L'ETA MODERNA

Mario Caravale

I fermenti quattrocenteschi

La fine del concilio di Basilea può essere assunta come momento conclusivo di una lunga stagione della storia della Chiesa occidentale segnata sia dal confronto tra le pretese teocratiche della Santa Sede e l'autorità dei principi nei territori che a loro facevano capo, sia dalla lunga controversia tra il pontefice e il concilio per la titolarità del superiore potere di giustizia. Con la conclusione dell'assise il papato riusciva a definirsi come massima autorità della Chiesa e ad affermare l'inappellabilità delle sue decisioni al concilio ecumenico; le istanze conciliariste uscivano dall'assemblea fortemente ridimensionate, ma non del tutto eliminate e negli anni successivi l'appello al concilio continuerà a essere visto in alcuni ambienti ecclesiastici come il mezzo più adatto a risolvere i problemi della Chiesa. Allo stesso tempo il papato aveva finito per rinunciare alle proprie aspirazioni teocratiche e per riconoscere ai principi territoriali ampia libertà di decisione in materia temporale, nonché il diritto d'intervenire nell'ordinamento ecclesiastico e nella gestione dei benefici dei loro paesi. La nuova stagione che si apriva alla Chiesa prendeva, dunque, le mosse dalla riconferma del primato pontificio (senza che però il conciliarismo si sopisse del tutto), dalla fine delle pretese teocratiche, dalla dialettica con i principi territoriali per le competenze giurisdizionali. Questo periodo si protrasse fino ai primi decenni del sec. XVI - quando la diffusione delle idee di Lutero ruppe l'unità del cristianesimo occidentale e impose una profonda revisione teologica - e presenta numerosi aspetti, i più rilevanti dei quali appaiono la fioritura di nuove espressioni e correnti religiose che caratterizza soprattutto le comunità urbane, i complessi rapporti tra la religione e la gerarchia ecclesiastica da un canto e il mondo rurale dall'altro, l'assenza di una univoca politica ecclesiastica tendente a controllare e disciplinare le manifestazioni spontanee di una religiosità rinnovata o a diffondere in maniera omogenea l'istruzione religiosa nelle campagne, i movimenti riformatori all'interno di numerosi Ordini religiosi diretti a restaurare la rigida osservanza della regola originaria - e perciò detti dell'"osservanza" -, le sensibili carenze che caratterizzano la gerarchia del clero secolare, le conseguenti aspirazioni a una riforma della Chiesa, l'incontro con la cultura umanistica che fornì, tra l'altro, ulteriori argomenti alle correnti riformatrici. Una notevole varietà di espressioni caratterizza innanzi tutto la Chiesa nel periodo ora indicato. Si diffusero, in particolare, correnti di accentuato misticismo che esaltavano il rapporto diretto tra il fedele e Cristo, l'interiorizzazione del messaggio evangelico anche a prescindere dalle pratiche devozionali fissate dalla gerarchia. A queste correnti appartiene l'esperienza di comunità religiose, come quella dei Fratelli della vita comune, sorta nel 1381 a Deventer, nell'attuale Olanda, e la congregazione dei Canonici agostiniani di Wildesheim. Dette congregazioni riducevano all'essenziale le cerimonie liturgiche e rituali, svalutavano il significato della penitenza e praticavano una vita comunitaria assai semplice, imperniata sulla piena dedizione al lavoro e alla preghiera. Su questo tronco fiorì la devotio moderna che si diffuse nel corso del sec. XV, soprattutto nell'Europa centrosettentrionale, e che predicava una vita modellata sull'assoluta fedeltà all'esempio di Cristo (testo fondamentale di questa corrente fu il De imitatione Christi composto intorno al 1442 probabilmente da Tommaso da Kempis), una meditazione individuale libera dalle regole della tradizione ecclesiastica, e monastica in particolare, l'indifferenza verso le sottigliezze della riflessione teologica, giudicata di poco momento rispetto all'effettiva osservanza quotidiana dei precetti evangelici, l'interiorizzazione della spiritualità, lo studio della Rivelazione e dei testi della tradizione spirituale per arricchire l'esperienza intima della meditazione. Rispetto ai precedenti movimenti mistici, essa proponeva l'ascesi non già come elevazione alla divinità per perdersi in essa, ma come apertura del fedele a Dio per farlo vivere in sé ed essere da Lui guidati nella condotta quotidiana. In una società fortemente segnata dalla religione iniziative e proposte numerose venivano dal mondo laico. La diffusione della devotio moderna costituisce un'espressione significativa del coinvolgimento dei laici nei movimenti religiosi: una diffusione anche italiana, come rivela l'iniziativa di alcuni nobili veneziani riunitisi nel convento di S. Giorgio in Alga per vivere insieme in povertà e in preghiera. Altra espressione parimenti importante è il ruolo sempre più rilevante delle confraternite. Queste, nel corso del sec. XV, accentuarono il radicamento nel territorio urbano, dove soprattutto operavano, e finirono con l'accrescere il proprio ruolo sociale, acquistando una funzione centrale nelle manifestazioni religiose e incrementando le forme del loro intervento assistenziale e caritativo. Nuove confraternite si affiancarono, poi, alle esistenti. Tra queste, l'Oratorio del Divino Amore, fondato nel 1497 a Genova, che si diffuse anche in altre città italiane, tra cui Roma. Gli Oratori, cui si deve la fondazione di orfanotrofi, ospedali per incurabili, case per convertite, istituzioni per condannati a morte, erano composti in prevalenza da laici e privilegiavano i contenuti sacramentali e caritativi, rispetto a quelli penitenziali. Il coinvolgimento religioso del mondo laico soprattutto nelle città risulta confermato dalla diffusa presenza delle fabbricerie, o fabbriche: organizzazioni di fedeli che si prendevano cura dell'edificio della loro parrocchia e ne curavano manutenzione e funzionamento. E trova un'ulteriore, significativa manifestazione nell'enorme diffusione del culto dei santi. Accanto a quello del patrono della città, tradizionalmente venerato come espressione insostituibile dello stretto legame che vincolava a Dio la comunità urbana nel suo insieme, in molte regioni occidentali - dalle tedesche alle italiane - si diffuse il culto di altri santi, culto che nasceva da motivazioni devozionali private, ma anche dal desiderio di assegnare un patrono a gruppi professionali o a particolari categorie di cittadini, di individuare un protettore che difendesse da calamità e da malattie. Il nuovo afflato spirituale, comunque, non era monopolio dei laici: anche il clero ordinario fu partecipe del generale movimento per una religiosità più intima e profonda. Significativo, sotto questo aspetto, fu il movimento dell'osservanza che a partire dalla fine del sec. XIV riguardò Ordini religiosi antichi (Benedettini, Agostiniani, Cistercensi) o recenti (Domenicani, Carmelitani, Francescani). Il successo del movimento dipese dalle relazioni tra l'Ordine da una parte e l'autorità vescovile e del principe territoriale dall'altra. In Italia l'intervento del vescovo fu in genere di scarso peso e non costituì un elemento rilevante in questo processo di riforma, mentre più importante fu il rapporto con l'autorità temporale. Così la Repubblica di Venezia sostenne il movimento, ma cercò di inserirlo nel progetto della fondazione di una Chiesa regionale; il duca milanese si mosse soprattutto per acquisire il controllo del movimento dell'osservanza anche al di fuori dei confini del Ducato; a Firenze il governo si limitò ad accogliere i movimenti di rinnovamento religioso nei monasteri presenti nel territorio. Dalle regioni dell'Italia centrosettentrionale il movimento dell'osservanza si espanse nell'Europa centrosettentrionale; l'Italia meridionale rimase invece sostanzialmente estranea al fenomeno. In Germania il movimento coinvolse più che in Italia l'autorità episcopale, al punto che in alcune diocesi esso si innestò sulla politica di riforma dei costumi del clero promossa dal vescovo, e trovò l'appoggio dei principi che in genere ne favorirono sensibilmente la realizzazione. Inoltre, alcuni principi ricevettero direttamente dal pontefice la concessione dello ius reformandi nei confronti degli Ordini dei loro territori: l'esercizio di tale diritto, però, sembra esser stato ispirato non tanto al rinnovamento della vita monastica, quanto al rafforzamento del ruolo del principe nel conferimento dei benefici ecclesiastici. Di fronte alla ricca fioritura di correnti spirituali la gerarchia ecclesiastica appare, nel sec. XV, sostanzialmente immobile: incapace di inquadrare entro propri schemi i movimenti e le iniziative nate spontaneamente tra i credenti e desiderosa di evitare qualsiasi coinvolgimento nei movimenti stessi. L'ordinamento del clero secolare continuava ad avere al suo fondamento la parrocchia. Questa costituiva il centro della vita religiosa sia in città sia in campagna dove, peraltro, si affiancava ad altre istituzioni: così, nelle regioni centrosettentrionali della penisola italiana numerose erano le pievi - circoscrizioni ecclesiastiche nelle quali più sacerdoti vivevano collegialmente -, mentre in quelle meridionali erano diffuse le cosiddette "chiese ricettizie", basate su un patrimonio usato in comune da un gruppo di sacerdoti cui mancava la responsabilità individuale della cura d'anime. La parrocchia era affidata a un sacerdote per lo più proveniente dallo stesso ambiente sociale, se non dalla medesima comunità di fedeli, e quindi a essi legato da profondi vincoli di identità culturale e cetuale. Di tale comunità, il parroco condivideva tutti gli aspetti della vita. Nessuna istituzione ecclesiastica provvedeva alla sua istruzione e alla sua preparazione per il servizio pastorale cui era chiamato: per lo più addestrato da un sacerdote più anziano, ne rispecchiava il grado di cultura; né era sollecitato a perfezionarsi, dato che la sua missione era vista soprattutto all'interno della comunità dei parrocchiani e a questa doveva adeguarsi. La generalizzata scarsa preparazione religiosa e culturale dei parroci costituiva un serio ostacolo alla diffusione di un insegnamento che riflettesse l'ansia per una più ricca spiritualità vagheggiata dai movimenti di cui si è detto. Sotto questo profilo qualche contributo fu portato dagli Ordini, soprattutto quelli toccati dal movimento dell'osservanza, che in alcune regioni svolsero un ruolo di supplenza del ministero parrocchiale; in particolare, i Benedettini arrivarono ad assumere il carico parrocchiale in alcune campagne italiane, mentre tra i Francescani e i Domenicani diveniva sempre più comune l'amministrazione dei sacramenti compreso quello della confessione. Ma questa supplenza non riusciva a ovviare all'inadeguatezza del servizio parrocchiale: all'impreparazione dei sacerdoti si aggiungeva spesso la mancata residenza nelle loro chiese derivante in genere dalla contemporanea titolarità di più benefici, imposta dalla povertà di ciascuno di loro. Scarsa preparazione religiosa e mancata residenza nelle loro sedi si ritrovano, poi, frequentemente anche tra i vescovi. Anche se non mancarono - come la storiografia più recente sottolinea - vescovi profondamente consapevoli della loro missione e tenaci promotori di una riforma dei costumi e della spiritualità nelle loro diocesi, l'alto clero sembra conservare nel Quattrocento quella prevalenza di mondanità che lo aveva caratterizzato nei secoli precedenti. Appartenenti in genere a grandi famiglie signorili, i vescovi non sempre avevano un'adeguata preparazione culturale, né si dedicavano con sufficiente impegno al loro compito pastorale: rare risultano per lo più le visite alle comunità della loro diocesi, mentre la pluralità dei benefici di cui spesso erano titolari rendeva occasionale la loro presenza in ciascuna sede e imponeva il ricorso a vicari. E un'eccessiva mondanità segnava anche i vertici sommi della gerarchia, i cardinali, spesso titolari di diocesi dalle quali erano perennemente assenti, e lo stesso pontefice, coinvolto nei tanti problemi politici del dominio temporale e dei rapporti con i principi e le autorità territoriali e circondato da una Curia spesso più impegnata in affari secolari che attenta a questioni spirituali. Una tale condizione della gerarchia ecclesiastica non poteva non essere oggetto di attenzione critica da parte di laici e di chierici sensibili alle nuove istanze di spiritualità. Tale attenzione si espresse per lo più in una richiesta di maggior partecipazione al funzionamento delle istituzioni. Così, ad esempio, in Inghilterra si diffuse l'interesse laico per la carica di guardiano della chiesa, che consentiva di seguire da vicino lo svolgimento del ministero pastorale dei parroci, mentre nell'Europa centrale si chiese di partecipare alla scelta dei sacerdoti con cura d'anime. È, questo, un aspetto rilevante del fenomeno che gli storici definiscono di "volgarizzazione" della Chiesa e che si espresse anche nella crescente domanda da parte dei ceti medio-bassi di un insegnamento religioso proposto in termini per loro accessibili. Ne è un esempio la diffusione delle indulgenze che la Chiesa presentava ora non più, come nei secoli passati, quale ricompensa per atti considerati eroici ed eccezionali, bensì come concessione disposta in relazione a comportamenti ordinari, che tutti i fedeli potevano tenere. L'attenzione dei fedeli alla realtà della Chiesa quattrocentesca si manifestò anche nella richiesta di una profonda riforma. Fino a pochi decenni fa, anzi, la storiografia tendeva a leggere tutte le espressioni spirituali del sec. XV come altrettanti aspetti di un movimento volto alla rigenerazione della Chiesa, alla radicale trasformazione dei costumi e della vita degli ecclesiastici, un movimento che avrebbe trovato piena attuazione nel secolo successivo quando costituì il ricco filone della riforma cattolica che affiancò il momento repressivo diretto alla tutela della confessione cattolica contro le altre religioni e costituì parte integrante della Chiesa post-tridentina. Studi recenti hanno ridimensionato tale interpretazione, sottolineando l'impossibilità di ridurre la complessità delle correnti spirituali quattrocentesche al solo indirizzo di riforma dell'ordinamento ecclesiastico. In proposito sembra si possa ritenere innegabile l'intreccio tra le istanze riformatrici e la fioritura spirituale del Quattrocento, dato che le prime si sostanziarono della seconda e da essa trassero linfa e motivazioni; sembra però anche evidente che la seconda non si esaurì nella richiesta di cambiamenti nella gerarchia e di rigenerazione nei costumi ed espresse una religiosità per più versi originale e profondamente acuta. Il tema della riforma risulta ricorrente nella Chiesa del sec. XV, ma non presenta un significato univoco. Di riforma parlavano i movimenti dell'osservanza, di cui si è detto prima, che stigmatizzavano il lassismo spirituale e morale diffuso nella vita cenobitica e sollecitavano il ritorno al rigoroso rispetto della regola originaria. Di riforma parlavano anche alcuni pontefici, ma riducevano il tema a una questione eminentemente amministrativa dato che i loro programmi riguardavano soprattutto la riorganizzazione degli uffici curiali e il miglioramento dell'efficienza del governo papale. Particolarmente impegnati nella riforma curiale furono Pio II - che formulò il primo ampio programma di riordino della Curia, ispirato a un rafforzamento dell'autorità pontificia, nella bolla Pastor aeternus, stesa nell'estate del 1464, ma mai promulgata -, Sisto IV - che, dopo aver denunciato nella bolla Quoniam regnantium cura gli abusi correnti nel governo curiale, elaborò un vasto progetto di trasformazione della familia pontificia, mai tradotto, però, in un testo definitivo -, e Alessandro VI il quale nel 1497 nominò una commissione per la riforma degli uffici curiali, che riprese il progetto sistino senza, comunque, ottenere la promulgazione di una bolla. Di riforma in senso sostanzialmente uguale parlavano anche alcuni alti prelati, i quali sollecitavano il pontefice a mettere mano con urgenza al riordino degli uffici curiali, evidenziando l'inadeguatezza dell'ordinamento ecclesiastico a svolgere la propria missione spirituale. Significativi in proposito sono gli Advisamenta super reformatione Papae et Romanae Curiae del cardinale Domenico Capranica e il Tractatus de Reformationibus Romanae Ecclesiae del vescovo di Torcello e protonotaro apostolico Domenico de' Dominichi. Un'ulteriore corrente riformista affiancava alla richiesta di riorganizzazione curiale quella di una profonda rigenerazione dei costumi degli ecclesiastici: del clero ordinario, di quello regolare e, soprattutto, dei vertici della Chiesa cui spettava il dovere di guidare la comunità dei fedeli. Tale corrente continuava la tradizione di rigorismo morale che nel Medioevo si era espressa in tanti movimenti spirituali e allo stesso tempo si legava alle tendenze mistiche che, abbiamo visto, avevano trovato ampia espressione nel sec. XV. Essa condannava il malcostume diffuso nella gerarchia e auspicava il ritorno alla purezza evangelica della Chiesa primitiva. Strumento insostituibile della riforma era considerato il concilio ecumenico, la cui convocazione veniva ora invocata non già per affermarne la superiorità nei riguardi del papa, bensì come unica autorità in grado di rigenerare la moralità della Chiesa. L'appello al concilio risulta diffuso nel clero regolare e in particolare nell'Ordine certosino. Il concilio continuava, peraltro, a esser visto nel mondo laico come momento massimo di quella partecipazione alla vita della Chiesa cui molti aspiravano sia per vivere in via diretta le istituzioni religiose, sia per correggere le deviazioni tanto diffuse nella gerarchia. Una tale idea risultava correntemente condivisa nelle università italiane, francesi e tedesche, ma non riuscì a trovare il sostegno dei principi territoriali. In queste correnti rigoriste la condanna della gerarchia e della Curia non assunse mai toni di estremo pessimismo, nel senso che continuò a legarsi non già all'idea di un radicale cambiamento dell'ordinamento ecclesiastico, bensì a quella di una rigenerazione morale del clero. Ben più estremistiche erano, invece, altre correnti spirituali le quali innestavano gli attacchi alla Curia in una prospettiva di trasformazione palingenetica della comunità dei fedeli in Cristo. Esempio notissimo è quello di Girolamo Savonarola, la cui predicazione, colorata da toni millenaristici e apocalittici, non si limitava a condannare la corruzione della Curia e la vita scandalosa dello stesso pontefice, ma profetizzava una Chiesa profondamente rigenerata dopo un avvenimento drammatico e traumatizzante, una comunità composta da penitenti che espiavano le colpe commesse e che si impegnavano al più rigoroso rispetto della parola divina. Il tema della riforma della Chiesa fu ripreso, infine, dagli umanisti e dai chierici che furono partecipi della temperie culturale del sec. XV. L'incontro tra l'umanesimo e la tradizione religiosa fu all'inizio difficile: l'entusiasmo per la letteratura, il pensiero, la produzione artistica dei Greci e dei Romani comportò una profonda revisione critica della cultura medievale e della visione religiosa che ne era a fondamento, al punto che non pochi umanisti del primo Quattrocento mostrarono aperto fastidio per la complessa speculazione teologica tanto distante dalla linearità del pensiero morale classico. La lettura diretta e lo studio dei testi dei filosofi dell'antichità, della patristica greca e di pensatori neoplatonici modificarono negli anni successivi questo primo atteggiamento. Restando sostanzialmente indifferenti verso le questioni teologiche, essi finirono per leggere il cristianesimo soprattutto come una filosofia morale, alla quale riconoscevano, in particolare, un importante significato educativo e civilizzatore. Il cristianesimo fu, allora, presentato da molti in termini neoplatonici, oppure attraverso il filtro della filosofia platonica. Non ovunque, tuttavia, l'umanesimo cristiano restò estraneo alla riflessione teologica. In Spagna il cardinale Jiménez de Cisneros promosse un nuovo indirizzo teologico di sintesi tra la tradizione medievale e il rinnovato studio biblico; di tale indirizzo fu massimo interprete il domenicano Francisco da Victoria impegnato a definire, all'interno della complessa tradizione teologica, i soli principi morali. Jiménez de Cisneros, all'inizio del sec. XVI, promosse l'edizione critica del Nuovo Testamento: l'opera fu pubblicata solo nel 1520, quando ottenne l'approvazione pontificia, e fu seguita qualche anno dopo dall'edizione dell'Antico Testamento. Nello stesso tempo la conoscenza diretta del vangelo diffuse l'ammirazione e l'amore per la Chiesa delle origini e arricchì la riflessione di quelle correnti riformatrici che proponevano, contro il malcostume diffuso nella gerarchia, il ritorno alla purezza, alla semplicità e all'entusiasmo dei primi tempi del cristianesimo. Caratteri particolari presenta l'umanesimo della Curia pontificia. A partire da Niccolò V i pontefici si fecero sempre più consapevoli delle potenzialità politiche offerte dall'umanesimo che da un lato offriva uomini capaci di rivestire della forma più adeguata le scelte e le decisioni temporali del papato e di rappresentare la Santa Sede presso le corti italiane ed europee più importanti, dall'altro apriva alla Curia l'opportunità di seguire l'esempio delle corti italiane, diventate i centri principali della nuova temperie culturale. Dal canto loro, letterati e umanisti si rivolsero con insistenza alla Santa Sede per ottenere la titolarità di benefici minori, privi di cura d'anime, da cui trarre una rendita necessaria al proprio sostentamento. La Cancelleria pontificia e al suo interno l'ufficio del Segretariato apostolico furono i settori in cui di preferenza gli umanisti trovarono impiego, mentre i pontefici della seconda metà del Quattrocento - in particolare Niccolò V e Sisto IV - assicurarono loro un aperto sostegno, portarono avanti una decisa politica di abbellimento della città di Roma, con il restauro delle antichità e la costruzione di chiese ed edifici, e promossero la fondazione di una nuova biblioteca, avendo come obiettivo la trasformazione della Curia in principale centro di promozione culturale in Europa. L'incontro tra l'umanesimo e la tradizione cristiana, comunque, non fu solo di integrazione e accordo, ma anche - e soprattutto - di scontro. Il recupero della cultura classica si esprimeva innanzi tutto in una esaltazione dei valori temporali e in una svalutazione della visione ultraterrena del cristianesimo. L'agnosticismo potenziale del nuovo indirizzo culturale sollecitò alcune prese di posizioni antiumanistiche della gerarchia e della stessa Curia. Ne costituisce un esempio significativo la lotta di Paolo II contro l'Accademia romana e la chiusura della stessa nel 1468. Il quadro della Chiesa nel Quattrocento risulta dunque alquanto ricco e sfaccettato. Si deve, comunque, sottolineare che le tendenze, i movimenti, le correnti fin qui descritte sembrano limitarsi soprattutto alla realtà urbana e ai ceti più elevati della cristianità. Le campagne e le comunità che vi risiedevano rimasero sostanzialmente estranee al fervore religioso, riformatore, intellettuale che abbiamo visto segnare il sec. XV. E addirittura è da rilevare che in larga misura tali popolazioni non erano state ancora raggiunte dallo stesso insegnamento cristiano. In campagna anche i legami tra il parroco e i fedeli assumevano contenuti particolari. Il primo per lo più faceva parte integrante della comunità e ne esprimeva in maniera immediata la cultura e la mentalità: la sua condotta stentava così a distinguersi da quella dei fedeli, con i quali condivideva non solo la vita lavorativa, ma anche le forme di divertimento. Le stesse cerimonie religiose, di cui il parroco era il protagonista principale, divenivano spettacolo rustico spesso colorito di paganesimo. Il parroco si poneva, dunque, come tramite tra la cultura popolare e la vita religiosa. Inoltre la superficialità e marginalità che ancora nel Quattrocento caratterizzava la penetrazione del cristianesimo nelle campagne lasciava ampio spazio a una cultura naturalistica e pagana poco o punto toccata dalla spiritualità cristiana. Di tale cultura la Chiesa cominciò proprio nel Quattrocento a prendere consapevolezza, come è attestato da numerose fonti che per la prima volta parlano di riti e credenze diffuse nelle campagne. Ma nel momento stesso in cui si rendeva conto di dette tradizioni, la Chiesa le lesse in maniera distorta, intendendole non già come manifestazioni di una cultura antica, naturalistica e pagana, perciò diversa nella sostanza da quella cristiana, bensì inserendole nel quadro cristiano della lotta tra il divino e il diabolico e presentandole come espressione del secondo. Il mondo magico della cultura naturalistica e pagana cominciò a essere presentato come il mondo del male, dominato dal demonio, mentre i partecipanti alle cerimonie e ai riti rurali erano accusati di stregoneria e le credenze tradizionali erano condannate come diaboliche.

La politica dei benefici. Roma e le potenze europee La Chiesa del Quattrocento era la maggior titolare di domini fondiari del mondo occidentale. Ogni dignità ecclesiastica era, infatti, accompagnata da beni fondiari la cui rendita era destinata a sostenere i costi del servizio religioso da quella fornito: tali beni costituivano il suo beneficio, così detto perché il suo dominio spettava all'autorità ecclesiastica e non faceva parte del patrimonio personale del beneficiario, che ne aveva il governo e il godimento. Oltre ai benefici ecclesiastici diffusi nell'intera Europa occidentale, la Chiesa vantava un dominio temporale nel quale fungeva da autorità unitaria territoriale. Tale dominio riguardava una fascia che tagliava trasversalmente la penisola e comprendeva una zona emiliana con Ferrara e Bologna, la Romagna, le Marche, l'Umbria e il Lazio. A esso si aggiungevano la città di Avignone e il Contado Venassino. Si deve ricordare in proposito che il dominium fondiario era allora un diritto ben più complesso e articolato della odierna proprietà privata. La titolarità di una terra comportava la potestà di amministrare e di guidare le comunità che sulla stessa risiedevano e lavoravano, una jurisdictio, cioè, contenente compiti e poteri che negli ordinamenti giuridici odierni spettano alla sfera del diritto pubblico. Il signore, infatti, governava le comunità delle sue terre, tutelava i loro diritti esercitando la funzione di giudice, arricchiva il diritto nato dalla consuetudine con norme generali cogenti per tutti gli abitanti del dominio. Tale potestà era riconosciuta al signore come corrispettivo dei suoi doveri di protezione e di difesa dei suoi uomini da nemici esterni, di tutela della pace e dell'armonia tra loro, di guida di una produzione capace di soddisfare il loro fabbisogno. Tale complesso diritto-dovere, peraltro, non sempre era riconosciuto a una sola persona: anzi per lo più era attribuito non soltanto a chi esercitava il governo ordinario e quotidiano della terra, ma anche a coloro che integravano con la loro protezione e il loro intervento tale esercizio. Di modo che sulla medesima terra più persone vantavano forme e gradi diversi di dominio. In particolare, per quanto riguarda i benefici ecclesiastici, forme di dominium, con le connesse facoltà di utilizzazione, godimento e jurisdictio, erano non solo riconosciute ai titolari della dignità ecclesiastica e alla Santa Sede, ma erano anche vantate da signori laici come corrispettivo della protezione da loro garantita ai benefici medesimi. La definizione degli equilibri tra detti dominia dava luogo sin dal Medioevo a frequenti contrasti riguardanti, in particolare, la scelta e la nomina dei titolari delle più elevate cariche ecclesiastiche - cariche cui erano collegati i benefici più ampi -, il contenuto della giurisdizione, la partecipazione alla rendita dei benefici. Il concilio di Costanza, che aveva posto fine al Grande Scisma d'Occidente riunendo la Chiesa sotto l'autorità unitaria del pontefice romano, aveva accresciuto le competenze giurisdizionali ed esattive dei principi europei nei benefici dei territori che a loro facevano capo, ma non aveva eliminato la regola per cui l'esazione da parte di un principe di un sussidio straordinario sulle terre ecclesiastiche era subordinata alla preventiva autorizzazione della Santa Sede. Nel Quattrocento la Chiesa curò soprattutto i rapporti con i principi territoriali. Conclusasi l'assise di Costanza il papato sembrò seguire una generalizzata politica di compromesso: accettò infatti che principi particolarmente potenti controllassero e decidessero la composizione dell'alto clero dei loro territori, intervenendo in modo decisivo nella scelta dei titolari dei grandi benefici, e si accontentò di continuare a riscuotere i servizi e altri pagamenti da questi dovuti al papa. Non cambiarono di molto i termini delle relazioni con la monarchia inglese, la quale sin dalla conquista normanna aveva affermato il proprio controllo sulle scelte di vescovi e di abati e, soprattutto nel sec. XIV, era riuscita con Edoardo III e Riccardo II a definire in modo più preciso il contenuto della propria giurisdizione in materia ecclesiastica, ottenendo il diritto di vietare ai chierici del Regno di ricevere benefici direttamente da Roma e di appellarsi al papa, nonché il placet per la recezione delle decisioni pontificie. Nel sec. XV i vescovati e le abbazie continuarono a essere assegnati dal papa a candidati designati dal re, mentre la Santa Sede limitava la sua scelta libera ai soli benefici che ne avevano avuto formale autorizzazione da parte del sovrano. Il papato, comunque, appare accontentarsi degli equilibri raggiunti, tanto che non cercò mai di approfittare delle gravi difficoltà della monarchia inglese. Alcune importanti novità segnano i rapporti con i principi tedeschi e con la dinastia francese. Nei riguardi dei primi il papato riuscì a restaurare l'antica disciplina canonica dell'assegnazione dei benefici, ottenendo nel cosiddetto concordato di Costanza del 1418, ribadito dal concordato di Vienne del 1448, che fosse riconosciuta ai capitoli delle cattedrali la potestà esclusiva di eleggere i vescovi e alla Santa Sede quella di confermare l'elezione, insieme con i diritti di disporre della metà dei benefici in caso di vacanza e di riscuotere le annate in occasione della presa di possesso delle cattedrali e dei conventi maschili. Notevoli concessioni, invece, la Santa Sede aveva dovuto fare alla monarchia francese. Nel 1406, tornata all'obbedienza avignonese e anzi rimasta una delle poche potenze sostenitrici di quel papato, la dinastia francese aveva ottenuto la rinuncia pontificia alle annate, all'amministrazione dei benefici durante la vacanza dei titolari, alle decime e ad altri diritti e, pur professando piena obbedienza all'autorità pontificia, aveva affermato la superiorità del concilio. Dopo il concilio di Costanza i re francesi non avevano rivendicato l'attuazione dei decreti del 1406, perché impegnati nel difficile conflitto con la dinastia regnante inglese. Ma nel 1438 l'assemblea del clero francese, riunita a Bourges, elaborò un articolato testo che elencava i diritti della Chiesa nazionale e della monarchia e limitava notevolmente l'intervento della Sede apostolica. Il re Carlo VII si affrettò a ratificare la decisione assembleare con la Pragmatica Sanctio che ribadiva la superiorità del concilio sul papa, riconosceva al re in materia temporale la piena libertà da ogni autorità ecclesiastica, confermava le tradizionali norme canoniche sulle elezioni vescovili, aboliva le annate e gli altri diritti pontifici - limitandosi a concedere una provvisione per le necessità del pontefice regnante Eugenio IV -, restaurava la disciplina dell'appello al papa vigente al tempo di Bonifacio VIII - disciplina per la quale l'appello doveva essere deciso sul posto se questo distava dalla Curia più di quattro giorni di viaggio -, imponeva l'obbligo di residenza ai vescovi. La vittoria contro il concilio di Basilea e le idee della supremazia conciliare ivi sostenute aprirono alla Santa Sede nuovo spazio per modificare la situazione venutasi a creare in Francia. Nel 1461 Luigi XI abolì la Pragmatica Sanctio, ma di fatto l'autorità monarchica non rinunciò a intervenire nell'ordinamento ecclesiastico del Regno, mentre le non abbandonate tesi conciliariste finivano per intrecciarsi con le diffuse aspirazioni a una Chiesa rigenerata. Per quanto, poi, riguarda la Spagna, la lunga lotta contro gli Arabi per la riconquista cattolica della penisola iberica aveva avuto l'effetto di rendere molto saldi i vincoli tra le Corone castigliana e aragonese da un canto, la Santa Sede dall'altro. Ai re Cattolici, Isabella regina di Castiglia e Ferdinando re d'Aragona, uniti in matrimonio nel 1469, Sisto IV concesse nel 1478 il privilegio di istituire un tribunale per la difesa della fede, l'Inquisizione spagnola, riconoscendo così ai monarchi la giurisdizione esclusiva in una materia che altrove era gelosamente riservata alle autorità ecclesiastiche. Sempre da Sisto IV i re Cattolici ottennero il placet per le bolle pontificie - diritto in virtù del quale la recezione nei Regni iberici dei decreti della Santa Sede era subordinata all'approvazione dei sovrani -, nonché l'autorità di giudice di appello per i tribunali ecclesiastici dei Regni; inoltre, dopo la conquista di Granada nel 1492 fu attribuito ai due monarchi il diritto di patronato sulle cariche ecclesiastiche di questo territorio. Il rapporto tra il papato da un canto, le signorie e i principi italiani dall'altro, infine, appare generalmente caratterizzato dall'assenza di grandi contrasti: la scelta dei titolari dei grandi benefici ecclesiastici era spesso di fatto influenzata dal principe, ma i diritti della Chiesa erano per lo più rispettati. Le relazioni dei principi italiani con il papato, peraltro, erano rese più complesse dalla necessità di quelli di tutelare in maniera adeguata gli interessi della propria famiglia: alla guida di territori limitati, i principi si rivolgevano alla Santa Sede soprattutto per ottenere ai propri familiari un episcopato, un'abbazia, un beneficio significativo, aspirando, come obiettivo massimo, a un cardinalato il cui straordinario prestigio sociale si accompagnava talvolta a un forte potere signorile. In questo quadro si comprende perché manchi nei principi italiani una politica univoca e coerente in materia ecclesiastica paragonabile a quella di alcune monarchie europee e diretta a promuovere la formazione di un distinto ordinamento ecclesiastico del territorio sotto la propria protezione. Cercavano soprattutto vantaggi familiari e in cambio rispettavano il dominio ecclesiastico sui benefici e la giurisdizione della Chiesa in materia spirituale. Contenuti maggiori, poi, aveva la giurisdizione della Santa Sede sui benefici del Regno di Napoli ove le erano riconosciuti il diritto di esigere decime sulle proprie rendite - diritto che verrà esercitato con larghezza soprattutto nella prima metà del sec. XVI -, il diritto di spoglio - grazie al quale incamerava i beni posseduti da vescovi privi della facultas testandi, da loro acquistati con rendite ecclesiastiche e non destinati al culto -, le commende abbaziali - il diritto riconosciuto a grandi ecclesiastici di Curia di riscuotere quote delle rendite di conventi - e, infine, le pensioni sui benefici, i prelievi, cioè, imposti sul patrimonio ecclesiastico a favore di cardinali ed ecclesiastici di Curia. Il sovrano non godeva del placet, ma nel primo Cinquecento gli venne riconosciuta la metà delle decime papali come corrispettivo della difesa del mondo cristiano dagli attacchi dei Turchi. Nel Regno di Sicilia, infine, il sovrano vantava l'antico diritto della Legazia apostolica che si faceva risalire a una concessione disposta nel 1098 da Urbano II in favore del conte normanno Ruggero I e che poneva l'autorità monarchica al vertice della gerarchia ecclesiastica dell'isola. La Chiesa era, poi, a sua volta dotata di un proprio dominio temporale che, come si è detto, riguardava un'ampia zona dell'Italia centrale e un'area della Provenza. L'ordinamento di tale territorio era basato sulla distinzione tra terre di dominio diretto (terrae immediate subiectae) e terre di dominio indiretto (terrae mediate subiectae). Nelle prime la Chiesa aveva il dominio superiore, che esercitava mediante agenti provinciali, ma non necessariamente esclusivo: una forma di dominio era riconosciuta anche a singoli e a comunità residenti nelle medesime terre. È questo il caso dei grandi Comuni - Roma, Bologna, Perugia, Ancona, Macerata, Ascoli - che godevano di ampia giurisdizione e che sin dalla loro fondazione avevano vissuto il libero gioco delle forze politiche al di fuori di significativi interventi dell'autorità ecclesiastica. Nelle seconde, invece, il dominio superiore della Chiesa finiva per essere emarginato da quello del signore territoriale e del vicario, che escludeva nella sostanza l'intervento della Santa Sede e dei suoi magistrati. L'ordinamento provinciale aveva a fondamento le cosiddette Costituzioni egidiane (Constitutiones Sanctae Matris Ecclesiae, promulgate nel 1357 dal cardinale legato Egidio Albornoz) le quali dividevano le terre della Chiesa in sei circoscrizioni, la Marca d'Ancona, il Ducato di Spoleto, la Romandiola, il Patrimonio di S. Pietro in Tuscia, la Campagna e Marittima, e Benevento. Questa sistemazione conobbe nel corso del sec. XV poche, marginali, modifiche, la più importante delle quali fu l'allargamento del distretto spoletino, trasformato in legazia con capitale Perugia, disposto da Martino V nel 1424. Alla guida di tali distretti erano i rettori, o legati, mentre l'amministrazione finanziaria spettava ai tesorieri (la cui giurisdizione territoriale, comunque, non corrispondeva necessariamente a quella dei rettori). Titolari della giurisdizione legata al dominio della Chiesa su queste terre, rettori e tesorieri conciliavano la loro autorità con quella dei Comuni del distretto cui erano preposti. Le grandi città, allora, conobbero forme di governo diarchico, costituito da un canto dai funzionari ecclesiastici che esercitavano la giurisdizione della Chiesa, dall'altro dai magistrati municipali esponenti della giurisdizione comunale. I contenuti delle due giurisdizioni variavano in ogni città e in ogni Comune dipesero non tanto dagli accordi formali da questo conclusi con la Santa Sede, quanto piuttosto dalle necessità concrete della comunità cittadina e, conseguentemente, si spostarono a favore dei magistrati municipali quando il ceto dirigente locale fu in grado di assumere la guida effettiva del governo, e viceversa concretizzarono una più significativa autorità dei rettori quando il ceto dirigente ebbe bisogno di una maggiore presenza della Chiesa. Così, ad esempio, Bologna e Perugia maturarono nel sec. XV una sensibile espansione della giurisdizione municipale sotto la guida di un gruppo elitario di famiglie le quali al rafforzamento della potestà comunale affidavano la tutela dei propri particolari interessi e diritti. Roma, al contrario, visse una progressiva riduzione dell'antica giurisdizione municipale, dato che il ritorno della Santa Sede favorì l'affermazione in città di un nuovo ceto, composto da famiglie e da mercanti legati alla Curia, che era distinto da quello municipale e con lui concorrente e di conseguenza affidava la propria crescita non già alla conferma della competenza comunale - nella quale trovavano espressione gli interessi dell'antica e tradizionale élite cittadina - ma alla tutela diretta della Santa Sede. Secondo un'interpretazione ampiamente diffusa tra gli studiosi, la riduzione delle entrate spirituali decisa dal concilio di Costanza avrebbe sollecitato il papato ad accentuare il suo interesse per la gestione delle terre del suo dominio dalle quali provenivano le entrate temporali, divenute ora più necessarie. Certamente con Martino V prese le mosse un nuovo indirizzo di governo temporale, fondato sul recupero della potestà temporale, in più zone sottratta indebitamente alla Chiesa, e sul più continuo esercizio dei diritti giurisdizionali ed esattivi della Santa Sede: lo testimoniano, tra l'altro, la riorganizzazione delle tesorerie provinciali avviata da Martino V e la cura nella tenuta dei libri contabili dei tesorieri e dei minori agenti demaniali. Una tale politica, comunque, fu portata avanti con cautela: la Santa Sede cercò un accordo con le realtà locali e ricorse alla forza solo nei casi in cui queste ultime mettevano in dubbio il suo dominio superiore. La medesima cautela la Santa Sede perseguì anche nei riguardi dei suoi vicari e dei signori territoriali. Il papato rispettò l'autorità e la giurisdizione di questi, accontentandosi del riconoscimento del suo dominio superiore e indiretto sulle loro terre, e intervenendo contro di essi soltanto quando tale riconoscimento veniva meno o quando operavano in maniera apertamente ostile alla Santa Sede. Così, ad esempio, Pio II tra il 1459 e il 1463 combatté i Malatesta, vicari apostolici di Cesena e Rimini, per il sostegno che davano al condottiero Iacopo Piccinino che aveva indebitamente occupato terre della Chiesa. L'esito del conflitto appare, poi, emblematico della ricerca pontificia di accordo con le oligarchie locali. Il trattato che pose fine alla lotta prevedeva che alla morte di Malatesta Novello la città di Cesena passasse al dominio diretto della Chiesa e lo stesso avvenisse per Rimini alla morte di Sigismondo Malatesta. Quando Malatesta Novello morì, l'oligarchia cesenate decise di rispettare il trattato e concluse con la Santa Sede un accordo che ampliava di molto la sfera giurisdizionale municipale rispetto a quella definita sotto la Signoria malatestiana. Alla morte di Sigismondo, invece, i gruppi dirigenti riminesi non vollero mantenere gli accordi e la Chiesa, dopo un breve tentativo di imporne l'attuazione, accettò la prosecuzione del governo signorile in cambio del riconoscimento formale della propria potestà superiore. La politica temporale della Chiesa si arricchì, poi, nel sec. XV di un altro interessante elemento, l'istituzione di nuove signorie territoriali affidate dai pontefici a persone di loro fiducia. Così, nel 1463, dopo la vittoria contro i Malatesta, Pio II creò nella Marca, con le terre a quelli recuperate, una Signoria che assegnò al nipote Antonio Piccolomini con il titolo di vicario apostolico. Sisto IV, poi, nel momento di più acuto contrasto con Lorenzo il Magnifico, creò in Romagna una nuova Signoria, comprendente Faenza e Forlì, e ne nominò vicario il nipote Girolamo Riario. Nel primo caso obiettivo del papa era la conservazione della pace nella regione marchigiana, che era stata turbata dalla lunga lotta contro Piccinino e i Malatesta; nel secondo era la più coordinata ed efficace difesa dell'area romagnola verso la quale si indirizzava l'espansionismo fiorentino. È interessante sottolineare come in entrambi i casi gli obiettivi di difesa del territorio e di tutela della pace interna fossero perseguiti non attraverso il passaggio delle terre al dominio diretto della Chiesa, bensì mediante la creazione di una nuova Signoria legata da vincoli di sicura fedeltà al papa regnante. Una scelta che rivela i limiti riconosciuti dalla stessa Santa Sede alla propria gestione diretta e la flessibilità con cui essa perseguiva l'obiettivo primario della conservazione del dominio temporale. Una scelta che costituirà il modello per i papi del sec. XVI.

Il primo Cinquecento

La ricchezza di movimenti religiosi e gli appelli per una riforma della Chiesa, sia come rigenerazione dei costumi e ritorno alla purezza evangelica sia come trasformazione degli uffici curiali, caratterizzarono anche i primi anni del sec. XVI. La diffusione della Confraternita del Divino Amore e la divisione dei Francescani nei due Ordini dei Conventuali e degli Osservanti formalizzata da Leone X nel 1517 sono due significativi esempi di continuità del rigoglio spirituale e religioso del Quattrocento all'inizio del nuovo secolo. L'aspirazione al ritorno alla Chiesa primitiva continuò a essere alimentata dallo studio umanistico dei testi sacri e dallo sforzo di una loro rigorosa ricostruzione filologica. Nel 1512 Jacques Lefèvre d'Étaples dette alle stampe il testo completo delle lettere di s. Paolo e nel 1516 Erasmo da Rotterdam pubblicò una nuova edizione del vangelo. Anche l'idea conciliare rimase viva, nel mondo religioso come in quello laico, sempre più diffusamente legata alla prospettiva della rigenerazione dei costumi nella gerarchia. L'idea conciliare conobbe nei primi anni del nuovo secolo quel sostegno da parte di principi che le era venuto a mancare dopo Basilea. Questo, peraltro, derivò da motivazioni meramente politiche e non riuscì a imporre una svolta decisiva al movimento riformatore-conciliarista. Nel 1511 il re di Francia Luigi XII, in guerra contro Giulio II, fece convocare da vescovi a lui fedeli un concilio ecumenico con l'obiettivo di procedere a una profonda revisione dei costumi della Chiesa, alla condanna del clero corrotto, a cominciare dai vertici della gerarchia, all'affermazione della superiorità del concilio. La scarsissima adesione e il carattere evidentemente politico dell'assemblea minarono sin dall'inizio l'autorevolezza del concilio che, apertosi a Pisa il 1° novembre, si trasferì successivamente a Milano. Scomunicato dal papa, il concilio si spostò ad Asti e quindi a Lione, dove si concluse: il suo scarso valore ha finito per farlo passare alla storia con il nomignolo dispregiativo di "conciliabolo". Il fallimento dell'assise, comunque, non coinvolse l'idea conciliare. Al contrario, Giulio II nel 1512 convocò il V concilio Lateranense. L'assemblea, che proseguì i suoi lavori fino al 1517, discusse da un canto della riorganizzazione della Curia, dall'altro della rigenerazione dei costumi. Sotto questo secondo profilo particolarmente importanti furono gli interventi dell'agostiniano Egidio da Viterbo. Egli non contestava in alcun punto la costruzione teologica tradizionalmente formulata dalla Chiesa, né sollecitava un aggiornamento della stessa: criticava esclusivamente la corruzione dilagante nella gerarchia le cui radici andavano cercate nella ricchezza e nella mondanizzazione della Chiesa. Invocava, pertanto, una radicale riforma dei costumi e un rinnovato rigorismo nella disciplina del clero, in sostanza il ritorno alla povertà, alla castità e all'obbedienza della Chiesa evangelica, senza allontanarsi molto dal modello del Libellus ad Leonem X inviato al pontefice nel 1513 dai camaldolesi Paolo Giustiniani e Pietro Querini. Questi, infatti, sollecitavano il papa a promuovere una radicale riforma degli uffici di Curia e dei costumi della gerarchia, auspicando il ritorno alla purezza evangelica e l'abbandono della mondanità. Il dibattito sviluppatosi nel concilio Lateranense, dunque, non aggiunse nulla di originale al tema della riforma della Chiesa e non si aprì ad alcuna novità teologica. Ma anche entro questi limiti conseguì un risultato mediocre. Il programma riformatore discusso nelle sue sessioni non si espresse in alcun decreto conciliare ed ebbe la sola funzione di sollecitare Leone X, succeduto nel 1513 a Giulio II, a promulgare due bolle, la Pastoralis officii divina providentia del 13 dicembre 1513 e la Supernae dispositionis arbitrio del 5 maggio 1514: la prima si proponeva di ridurre le spese curiali, la seconda condannava la corruzione dell'alto clero, in particolare dei cardinali, la diffusa simonia, il frequente concubinaggio, l'indegnità e l'impreparazione culturale di molti sacerdoti. La continuazione nei primi anni del sec. XVI dei temi dibattuti nel Quattrocento si può cogliere anche sotto il profilo dei rapporti tra la Santa Sede e alcuni sovrani europei. Particolarmente importante al riguardo è il cosiddetto concordato di Bologna concluso nel 1516 tra Leone X e il re di Francia Francesco I. L'accordo lasciava al papa la scelta dei titolari dei soli benefici minori e attribuiva al sovrano la nomina di quelli dei vescovati e dei monasteri compresi nei confini raggiunti dal Regno nel 1438 (un successivo trattato estese tale potestà alla Provenza e alla Bretagna). Il pontefice conservava, poi, il diritto alle annate sui benefici maggiori: il re, infatti, si impegnava a versare alla Santa Sede una somma corrispondente a un anno di rendita in occasione dei cambiamenti di titolarità dei benefici in questione. Il concordato, pur registrando una prassi da tempo in atto e riproducendo regole che erano state definite nella Prammatica Sanzione, incontrò una forte opposizione da parte del Parlamento di Parigi e fu da questo registrato solo dopo un deciso intervento del re, desideroso di porre fine alla vertenza con il papato e soddisfatto del risultato ottenuto. I primi anni del sec. XVI conobbero, dunque, una prosecuzione dei principali temi dibattuti nel Quattrocento, senza innovazioni significative. Le novità vennero dalle scoperte geografiche. L'individuazione nel 1484 della foce del fiume Congo e la scoperta dell'America nel 1492 aprirono alle maggiori monarchie iberiche inaspettate prospettive di conquista e alla Chiesa la possibilità di allargare in maniera straordinaria la comunità dei fedeli. La conquista delle nuove terre fu, infatti, strettamente legata a un'intensa attività missionaria. Nel 1493 Alessandro VI fu chiamato a mediare nella vertenza che opponeva i sovrani spagnoli a quello portoghese in merito alle aree geografiche nelle quali doveva indirizzarsi il loro espansionismo. Le bolle emanate dal pontefice tracciavano una linea di demarcazione che tagliava il globo da un polo all'altro passando per le Azzorre: le Indie poste a oriente di tale linea sarebbero spettate al Portogallo, quelle a occidente sarebbero entrate nell'orbita spagnola. In Africa i Portoghesi organizzarono le prime missioni in Congo subito dopo il loro arrivo e già nel 1491 erano riusciti a battezzare il re, la regina e il loro figlio maggiore, il quale regnò alla morte del padre con il nome di don Alfonso e promosse la conversione del suo popolo; inoltre suo figlio Henrique divenne sacerdote e fu nominato primo vescovo dell'Africa nera. Ben presto l'espansionismo portoghese si indirizzò anche verso l'Asia. Sulle coste indiane i Portoghesi, dopo i primi insediamenti sulla costa del Malabar e dopo aver occupato Goa nel 1510, promossero un'intensa opera missionaria, facilitati anche dal ritrovamento dei cosiddetti "cristiani di s. Tommaso", comunità diffuse nei villaggi della regione sudoccidentale che facevano risalire la loro conversione ai tempi della prima Chiesa e che erano conosciute attraverso i racconti di viaggiatori dei secoli precedenti. Le missioni seguirono da presso anche le conquiste spagnole delle regioni americane. La prima messa fu celebrata nel Nuovo Mondo a Española (odierna Haiti) il giorno dell'Epifania del 1494. Negli anni successivi furono organizzate missioni evangelizzatrici nel territorio occupato dalla Corona spagnola - comprendente le attuali Haiti, Portorico, Cuba, Giamaica e l'istmo di Panama - e affidate a Ordini Mendicanti, in particolare a Francescani e Domenicani: i primi arrivarono a Haiti nel 1502, i secondi nel 1509. Nel 1511 venne istituita una prima rete gerarchica e due anni dopo fu creato il primo vescovo del territorio, con sede a Darien sul continente, seguito da altri negli anni immediatamente successivi: nel 1522 le diocesi delle Antille erano diventate otto. Le missioni ebbero un successo sorprendente, e convertirono in pochi anni milioni di persone: a partire dall'inizio degli anni Venti si indirizzarono all'evangelizzazione degli Africani trasportati in schiavitù nelle Antille. La conquista del Messico da parte di Cortés iniziata nel 1519 aprì, poi, un nuovo, vastissimo territorio all'espansione missionaria, affidata ancora una volta agli Ordini. Raggiunsero per primi le nuove terre i Francescani nel 1523, poi i Domenicani nel 1526 e, infine, gli Agostiniani nel 1533. Negli stessi anni l'organizzazione ecclesiastica andò strutturandosi e nel 1526 fu istituita la diocesi di Città del Messico, affidata a un francescano. Nelle nuove terre la Chiesa dipendeva dalle potenze conquistatrici: a queste, di conseguenza, i pontefici riconobbero vaste prerogative in campo ecclesiastico. I re portoghesi si avvalevano del privilegio attribuito a Enrico il Navigatore (1384-1460), che Callisto III aveva investito della carica di gran maestro dell'Ordine di Cristo assegnandogli in via esclusiva la giurisdizione spirituale sui territori che la Corona avesse conquistato oltre mare. I sovrani portoghesi esercitarono così costantemente il diritto di patronato nelle loro colonie, fondando diocesi, chiese, parrocchie, collazionando benefici e organizzando le attività missionarie. Analogamente agirono i sovrani spagnoli, i quali nel 1508 ottennero da Giulio II il diritto di patronato, la potestà di fondare monasteri e assegnare benefici, l'autorità di definire i confini delle diocesi. A questi diritti Adriano VI aggiunse, poi, quello di qualificare come canoniche le missioni inviate dai sovrani spagnoli nei nuovi territori.

Le riforme

La vivacità religiosa e spirituale che caratterizza il sec. XV e i primi anni del successivo, le istanze di riforma curiale e morale che la pervadevano, la tradizionale organizzazione ecclesiastica che lasciava ampio spazio alla libera espressione dei movimenti spontanei sorti nella comunità dei fedeli erano altrettanti aspetti di una Chiesa incentrata intorno all'autorità del pontefice e sostanzialmente soddisfatta dell'elaborazione teologica cui era pervenuta nei secoli precedenti. Tale realtà fu posta bruscamente di fronte alla necessità di una profonda revisione dalle tesi formulate da Lutero nel 1517 e dalla loro grande diffusione nel continente europeo. Le tesi di Lutero, infatti, non si limitavano a evidenziare la corruzione diffusa nella Chiesa, ma proponevano anche una sistemazione teologica del tutto diversa da quella fino ad allora accolta e sollecitavano una risposta adeguata. Monaco agostiniano, Lutero riapriva la questione che a lungo aveva tormentato la cristianità occidentale dei primi secoli, quella della giustificazione della salvezza. S. Agostino aveva condannato le idee del monaco britanno Pelagio secondo le quali Dio aveva dotato l'uomo di un assoluto libero arbitrio e aveva lasciato che la sua salvezza dipendesse esclusivamente dalle opere, dalla scelta del bene contro il male. Le opere, secondo s. Agostino, non sono sufficienti: decisive sono la fede nella misericordia divina e la grazia concessa da Dio. Detta soluzione si trovava a fondamento della Chiesa medievale, interprete, da un canto, della parola divina e quindi guida e maestra dei fedeli, fonte, dall'altro, di grazia che dispensava per il tramite dei sacramenti. Lutero spezzò alle radici questo quadro teologico-istituzionale. Estremizzando la dottrina agostiniana, sostenne l'inutilità delle opere ai fini della salvezza. Le opere buone sono espressione di una vita condotta con umiltà, spirito di penitenza, fede, ma non possono imporre a Dio la salvezza che Egli distribuisce come libero dono ai suoi fedeli. Grazia e fede sono le uniche fonti della giustificazione. Per Lutero esse non hanno alcun bisogno dell'intermediazione della Chiesa, in quanto doni concessi direttamente da Dio agli uomini; né l'esistenza della Chiesa può essere giustificata dalla sua interpretazione dei testi sacri e dal suo insegnamento, dato che tutta la Rivelazione si trova nel Vecchio e Nuovo Testamento cui i fedeli possono attingere senza intermediari. Erano conseguentemente negati sia il ruolo del clero, sia l'esistenza del Purgatorio come luogo di espiazione dei peccati commessi in vita, sia il ruolo di intercessione attribuito dalla Chiesa alla Vergine e ai santi. E, infine, veniva del tutto innovata la materia sacramentale, sia perché Lutero ne indicava la natura di mero rito esteriore, sia perché i sacramenti venivano ridotti a tre: battesimo, penitenza, eucarestia. Quanto a questa, Lutero parlava di consustanziazione, sostenendo che nell'eucarestia il corpo di Cristo coesisteva con il pane. La prima reazione della Chiesa si espresse nel tentativo di aprire con Lutero un dialogo per convincerlo a rivedere le tesi più estreme. Il rifiuto di Lutero e la diffusione dei suoi scritti, favorita dalla stampa, spinsero la Chiesa ad adottare provvedimenti repressivi. Fu istruito un processo e gli si impose di ritrattare. La condanna, formalmente definita con la bolla di Leone X Exsurge Domine del 15 giugno 1520, non ebbe effetti decisivi: in particolare in Germania maturò una decisa opposizione antipapale. Nuove condanne furono pronunciate l'anno successivo: in Francia la Sorbona e il Parlamento di Parigi si espressero contro le tesi di Lutero, mentre già il 3 gennaio Leone X, con la bolla Decet Romanum Pontificem decretava la scomunica del monaco e il 26 maggio l'imperatore Carlo V firmava l'Editto di Worms che disponeva il bando di quello dai territori dell'Impero, la messa al rogo dei suoi scritti, il divieto della loro pubblicazione e diffusione. La condanna non conobbe una rigida applicazione. Nelle regioni della Germania e in quelle svizzere le tesi del monaco agostiniano continuarono a diffondersi e cominciarono a ottenere il sostegno di principi territoriali. In Italia fecero proseliti nelle città centrosettentrionali grazie alla circolazione degli scritti luterani, alla predicazione dei seguaci di Lutero e alla diffusione della prima edizione in volgare del Nuovo e del Vecchio Testamento, apparse a Venezia rispettivamente nel 1530 e 1532. In Francia le idee luterane si inserirono nel più ampio movimento spirituale che vagheggiava il ritorno alla purezza evangelica e che aveva nel cosiddetto "gruppo di Meaux", il circolo legato al vescovo di Meaux Guillaume Briçonnet e sostenuto dalla sorella del re Margherita d'Alençon, il suo principale esponente. Francesco I rimase neutrale fino al 1534 quando, attaccato dai luterani, reagì mettendone a morte molti dei principali esponenti, costringendo altri a salvarsi con la fuga. Negli anni successivi si andarono affermando nuove dottrine che rifiutavano la tradizione della Chiesa romana e allo stesso tempo si differenziavano dalle idee luterane. A Zurigo Ulrich Zwingli propose una lettura teologica diversa e per più aspetti alternativa a quella di Lutero; in Germania si diffuse il gruppo degli anabattisti, sostenitori non solo di un ritorno totale alla purezza delle origini, ma anche di una visione elitaria della comunità dei fedeli. La repressione armata sia del movimento zurighese, sia degli anabattisti - sostenuta non solo dai cattolici, ma anche dai luterani - disperse questi movimenti e ne frenò di molto la forza espansiva. Una notevole presenza nel mondo europeo conquistò, invece, la dottrina elaborata dal francese Giovanni Calvino. Questi, al pari di Lutero, sosteneva la giustificazione per fede, l'autorità della sola Sacra Scrittura, negava, di conseguenza, l'autorità della Chiesa romana - ritenendo tutti i fedeli, in quanto tali, sacerdoti - e il ruolo di intercessione dei santi. A differenza di Lutero affermava che la giustificazione per fede implica di necessità la predestinazione: a suo parere Dio ha liberamente scelto sin dall'inizio dei tempi i suoi eletti e nulla l'uomo può fare per modificare la scelta; tale consapevolezza, però, non deve indurre alla disperazione il fedele, il quale deve osservare con rigore i precetti divini non già per essere certo di stare tra gli eletti, ma per compiere il suo dovere più alto, quello di onorare Dio. I sacramenti, cui veniva attribuita natura di strumento per giungere alla comunione con Dio e con la comunità dei fedeli, diventavano soltanto due, il battesimo e la comunione: per quest'ultima Calvino negava anche la consustanziazione, ammettendo una mera presenza spirituale. Le idee calviniste si diffusero in Olanda, Inghilterra, Scozia e in Francia ove nel 1559 si riunì il primo sinodo nazionale calvinista. Nello stesso torno d'anni era andata maturando un'ulteriore lacerazione nella comunità cristiana. La Chiesa d'Inghilterra, che conosceva per antica tradizione una consistente libertà dalla Santa Sede sotto l'autorità del sovrano, si separò da Roma. I motivi furono soprattutto politici. In risposta al rifiuto papale di sciogliere il suo matrimonio con Caterina d'Aragona, il re inglese Enrico VIII nel 1531 accusò la Santa Sede di violazione dell'antico Statuto Praemunire - con il quale nel 1351 il Parlamento aveva limitato l'intervento pontificio sui benefici del Regno - e impose al clero di riconoscerlo come capo della Chiesa inglese; nel 1533 vietò ogni appello alla Curia pontificia; nel 1534 decretò l'obbligo dell'assenso regio per ogni canone approvato dai sinodi inglesi; e nel 1535 promulgò un decreto con cui dichiarava se stesso - e i propri eredi - capo della Chiesa d'Inghilterra. Nel 1533 Clemente VII aveva scomunicato Enrico VIII. Lo Scisma anglicano non si fondò, dunque, su un'elaborazione teologica diversa da quella romana: i contenuti e i riti della fede rimasero di fatto immutati, con le sole novità della soppressione dei monasteri, disposta tra il 1536 e il 1539, e l'introduzione del testo in volgare del Vecchio e del Nuovo Testamento. La grande diffusione delle nuove correnti religiose trovò Roma impreparata e quasi inconsapevole della portata del fenomeno. Il recupero pieno del concetto paolino di eresia come errore teologico da stroncare e la condanna decisa dei seguaci delle dottrine dichiarate eretiche si mostrarono ben presto inadeguati a fermare la diffusione delle idee riformate, lasciando spazi per una più attenta riflessione. Maturarono allora tre principali linee di condotta: la prima insisteva sulla necessità di predisporre più efficaci strumenti di repressione, la seconda sosteneva una radicale rigenerazione dei costumi del clero e la riforma delle istituzioni ecclesiastiche, la terza proponeva la convocazione di un concilio ecumenico, allargato agli esponenti delle nuove dottrine, per giungere a un approfondimento comune delle questioni teologiche e approdare a conclusioni da tutti condivisibili. La prima corrente costituiva una netta novità nel panorama dei provvedimenti ecclesiastici; le altre due si riallacciavano ad aspetti dei movimenti spirituali che avevano caratterizzato la Chiesa nel sec. XV e nei primi decenni del successivo. Espressione della prima linea di condotta è l'istituzione nel 1542 del Santo Uffizio dell'Inquisizione, con la quale veniva riorganizzato l'antico tribunale dell'Inquisizione. Il Santo Uffizio fu dotato di un'articolata rete di tribunali e di uffici diffusa nelle regioni rimaste fedeli alla Chiesa di Roma, a eccezione di alcuni territori della Corona spagnola, dove operava l'Inquisizione spagnola, e di Lucca che si oppose alla sua introduzione. L'istituzione del Santo Uffizio costituisce un avvenimento centrale per la storia della Chiesa: la nuova Inquisizione risultò strumento di grande efficacia non soltanto per la lotta contro le dottrine riformate, ma anche per il controllo dei fedeli. Allo stesso tempo si impose come soggetto decisivo dei vertici della Chiesa e promosse l'attuazione della riforma della gerarchia elaborata nel concilio di Trento, affermandosi come centro di potere e come autorità suprema di controllo sul clero. Sotto questo aspetto la nuova Inquisizione si lega alle istanze di riforma che costituiscono uno degli aspetti principali della spiritualità precedente e quindi presenta non pochi punti di contatto con le altre due linee di condotta di cui si diceva. Queste, infatti, rientrano nel quadro dei movimenti religiosi maturati nel Quattrocento e devono essere lette alla luce dell'evoluzione conosciuta dagli stessi nella prima metà del sec. XVI. La vitalità delle correnti religiose diffuse nel mondo laico e in alcuni ambienti ecclesiastici si espresse nella prima metà del Cinquecento soprattutto nella fondazione di nuovi Ordini religiosi. Essi si caratterizzano per tre aspetti principali: la loro nascita si legava a bisogni spirituali avvertiti da comunità di fedeli e derivò da iniziative di laici, a volte di chierici, raramente della gerarchia, mai della Curia romana; una tale origine indica che essi si inserirono nel quadro della spiritualità già maturata nel Quattrocento e non costituirono una risposta cattolica alle tesi riformate; essi portarono a livelli di elevatissima intensità il loro ministero attivo, raggiungendo, in particolare, risultati significativi nei settori dell'istruzione religiosa e nell'opera missionaria. Nella prima metà del sec. XVI nacquero i Canonici Regolari Teatini - fondati nel 1524 da Gaetano da Thiene e Gian Pietro Carafa (il futuro Paolo IV) - che con la rigida osservanza dei voti di povertà, castità e obbedienza al pontefice contribuirono sensibilmente alla formazione di un modello di sacerdote molto diverso da quello diffuso in età umanistica e rinascimentale; i Cappuccini riconosciuti nel 1528 come ramo autonomo dell'Ordine francescano, sotto la protezione dei Conventuali (diventeranno completamente indipendenti solo nel 1619) e sempre impegnati in un rispetto rigoroso della povertà francescana; i Chierici Regolari di S. Paolo, meglio noti come Barnabiti, fondati a Milano nel 1530, le cui matrici sono la religiosità mistica rafforzatasi nelle regioni settentrionali della penisola dopo le guerre dei primi anni del secolo, e le correnti devote legate all'Imitazione di Cristo; i Chierici Regolari di Somasca, o Somaschi, fondati nel 1534 da Girolamo Emiliani e approvati nel 1540 da Paolo III; e, infine, la Compagnia di Gesù, promossa da Ignazio da Loyola e approvata da Paolo III nel 1540. Ai nuovi Ordini maschili si affiancarono, poi, nuovi Ordini femminili: quello che si aggiunse ai Somaschi e la Compagnia di S. Orsola istituita a Brescia nel 1535 per opera di s. Angela Merici e che assunse in seguito fisionomia diversa in rami distinti di consacrate viventi in famiglia, di congregazione religiosa e di ordine di monache. La prima metà del secolo, dunque, vedeva proseguire con immutata intensità le correnti spirituali che avevano segnato la Chiesa nel secolo precedente. Continuava, peraltro, e si faceva ancora più grave, la spregiudicatezza di costumi della gerarchia, in particolare di quella più elevata. La condotta degli stessi pontefici da Alessandro VI a Paolo III, con la sola eccezione di Adriano VI, era motivo di scandalo per gli spiriti religiosi più sensibili. Il discorso della rigenerazione morale della Chiesa, della condanna della corruzione, del ritorno alla purezza evangelica proseguì, pertanto, anche dopo il concilio Lateranense e assunse toni di stringente urgenza. Esponenti di tale corrente furono, ad esempio, il vescovo di Verona Gian Matteo Giberti, i cardinali Reginald Pole, Gaspare Contarini e Giovanni Morone, il francescano Pietro Colonna Galatino, autore del De republica christiana, apparso intorno al 1521, che auspicava la riforma della Chiesa intesa come corpo mistico di Cristo, ogni parte del quale doveva recuperare sanità e vigore morale. E proseguì anche l'indirizzo riformatore dei pontefici, indirizzo che - come sappiamo - si limitava a proporre un riordinamento degli uffici curiali e delle strutture gerarchiche. La più approfondita e articolata proposta di modifica curiale fu il Consilium de emendanda Ecclesia del 1537 che, pur non presentando elementi originali, criticò con inusitato vigore la sostanziale accondiscendenza della Santa Sede verso gli abusi e la corruzione diffusi nella gerarchia e sottolineò l'urgenza di una rigenerazione spirituale. Mentre né Leone X, né Clemente VII furono sensibili alle istanze di riforma curiale, interventi significativi furono promossi da Adriano VI, che cercò invano d'imporre un preciso programma di modifica degli uffici di Curia e di drastica riduzione delle spese di corte. Anche Paolo III, pur accettando e addirittura favorendo in Curia la continuazione del nepotismo, procedette alla riforma di alcuni uffici, in particolare della Dataria e della Penitenzieria pontificia. La terza linea di condotta, infine, consistette nell'invocazione di un concilio ecumenico cui affidare la soluzione delle questioni teologiche che dividevano la cristianità. Come sappiamo, il fallimento del concilio di Basilea non aveva eliminato l'idea dell'appello al concilio sia nei casi di maggiori contrasti in tema di fede, sia in vista di una profonda riforma della Chiesa. Certo i pontefici avevano continuato a ribadire la loro superiorità sul concilio, tanto che Pio II aveva esplicitamente vietato nel 1460 l'appello contro le decisioni papali all'assemblea. Ma Giulio II aveva accettato di convocare il concilio Laterano e Leone X lo aveva proseguito e portato a termine: pur ribadendo l'esclusiva, piena, autorità del pontefice nella convocazione, nel rinvio e nello scioglimento dell'assemblea, aveva legittimato questa come sede privilegiata di dibattito sulla riforma e aveva accolto in alcuni suoi decreti le conclusioni cui quella era pervenuta. Tanto più al concilio guardavano quanti contestavano la gerarchia e il papato: nel 1518 l'Università di Parigi ne aveva chiesto la convocazione contro il concordato di Bologna e il concilio era stato invocato da Lutero per opporsi alla citazione pontificia che gli intimava di recarsi a Roma. L'idea di affidare a un concilio il riavvicinamento tra l'ortodossia tradizionale e le nuove dottrine maturò in Paolo III di fronte al successo che queste ultime continuavano a incontrare. In un primo momento chiese all'imperatore Carlo V di organizzare una riunione di teologi cattolici e protestanti alla presenza di un legato pontificio. La riunione si tenne nella primavera del 1541 in occasione della Dieta di Ratisbona ma, nonostante l'impegno del legato Gaspare Contarini, fallì il suo obiettivo. Ciò non portò comunque il papa a giudicare impercorribile quella soluzione: dopo aver dotato la Chiesa di un più efficiente strumento di repressione e controllo, con la fondazione nel 1542 della nuova Inquisizione, Paolo III riprese il progetto di un'assemblea dell'intera cristianità e convocò un concilio ecumenico a Trento, invitandovi anche esponenti del mondo protestante.

Il concilio di Trento

Il concilio che si aprì a Trento il 13 dicembre 1545 nella cattedrale di S. Vigilio ebbe vicende travagliate. Disertato sin dall'inizio dai protestanti, venne trasferito a Bologna da Paolo III il 10 marzo 1547; Giulio III nell'ottobre del 1551 lo riportò a Trento, dove tenne due sole sessioni e si chiuse nell'aprile del 1552; riaperto da Pio IV l'8 gennaio 1562, si concluse definitivamente il 4 dicembre 1563. Il concilio tridentino fallì uno dei suoi obiettivi primari, quello di giungere a una riconciliazione, ma raggiunse gli altri - quello della riforma, quello della rigenerazione dei costumi, quello della definizione di questioni teologiche -, imponendo un radicale cambiamento nella Chiesa e nella teologia cattolica. Si deve innanzi tutto rilevare che il rapporto concilio-papa venne conservato a Trento nei termini ribaditi nel concilio Laterano: l'autorità del pontefice fu confermata superiore a quella dell'assemblea, di modo che le delibere di questa potessero valere solo se approvate dal pontefice. Espressamente lo stabilì Giulio III condizionando l'entrata in vigore delle decisioni conciliari alla recezione in decreti papali; e lo ribadì Pio IV, il quale non soltanto ripeté che le delibere conciliari potevano entrare in vigore solo attraverso decreti pontifici, ma ne vietò anche l'interpretazione senza la preventiva approvazione papale e istituì una commissione di cardinali - che nel 1564 si trasformerà nella Congregazione sul concilio - cui riservò l'autorità di interpretare le decisioni conciliari. Una volta terminati i lavori del concilio, il pontefice promulgò i decreti che ne recepivano le conclusioni: il 26 gennaio 1564 - a distanza di poco più di un mese dalla chiusura dell'assemblea - un decreto pontificio confermava le sue decisioni e fu seguito dalla bolla del luglio dello stesso anno che imponeva l'osservanza delle delibere conciliari in tutto il mondo cattolico; nel 1566, poi, un altro decreto imponeva il catechismo tridentino (Cathechismus ex decreto Concilii tridentini ad parrochos) e ulteriori provvedimenti papali introdussero nel 1568 il Breviario romano e nel 1570 il Messale romano (che uniformò la liturgia). L'assemblea, dunque, si confermava sede primaria per la discussione e la soluzione di problemi spirituali, teologici, organizzativi della Chiesa: e il papa lo riconosceva, rinunziando ad assumere la responsabilità di decidere da sé, con il solo consiglio della Curia. Ma il suo ruolo rimaneva decisivo: non solo la convocazione, la sospensione, lo spostamento, l'esistenza stessa dell'assemblea conciliare dipesero da lui, ma la superiorità e l'esclusiva autorità normativa del pontefice vennero fortemente ribadite. In secondo luogo appare opportuno esaminare le definizioni teologiche raggiunte dall'assemblea tridentina. Di fronte alle formulazioni protestanti, la Chiesa non si limitò più a parlare di rinnovamento dei costumi e ad auspicare un ritorno alla purezza evangelica, ma elaborò una nuova teologia che si proponeva di rispondere non solo alle conclusioni dei protestanti, ma anche, e soprattutto, alle attese dei fedeli. I punti principali della teologia tridentina riguardano le fonti della fede, il peccato originale, la dottrina della giustificazione, i sacramenti, la natura della messa, il ruolo dei santi. Per quanto riguarda le fonti, il concilio contrappose alla tesi protestante dell'esclusività dei testi della Rivelazione l'importanza decisiva della tradizione e dell'insegnamento della Chiesa. L'assemblea, pur non proibendo l'uso della Bibbia in volgare, richiese il riferimento alla Vulgata nelle pubbliche letture, nelle discussioni e nelle opere teologiche; allo stesso tempo ribadì il latino come lingua della Chiesa, per evidenziare il carattere universale della comunità dei fedeli. Nel 1593 Clemente VIII approvò il testo dell'Antico e del Nuovo Testamento rivisto secondo l'autorità della Chiesa romana, testo che è noto come Vulgata Clementina. Nel peccato originale, poi, luterani e calvinisti vedevano la causa per cui l'uomo aveva perso per sempre il libero arbitrio e poteva essere salvato solo dalla grazia divina. Trento affermò, invece, che Cristo era venuto a riconciliare l'uomo con Dio e che il battesimo restaura quel legame che il peccato originale aveva infranto e che rende l'uomo coerede di Dio. Tema centrale fu, allora, quello della giustificazione, sulla quale luterani e calvinisti fondavano le loro dottrine. L'assemblea riformulò con nuove, più approfondite argomentazioni la soluzione cui la Chiesa occidentale era pervenuta sin dai primi tempi: l'uomo riceve il dono del libero arbitrio nella misura da Dio stabilita ed entro questi limiti è libero di scegliere; di conseguenza manca la predestinazione e le opere buone sono essenziali, al pari della grazia, per la salvezza. La grazia, secondo il concilio, si trasmette all'uomo attraverso i sacramenti che non sono, perciò, mero rito di conferma della fede o dell'appartenenza agli eletti. L'assemblea confermò i sette sacramenti, li dichiarò tutti istituiti da Cristo, sottolineò l'istituzione divina del sacerdozio, dettò nuove regole per il matrimonio, fissando una cerimonia ben definita e condannando le altre forme di celebrazione - in particolare quelle dei cosiddetti matrimoni segreti -, ribadì per la comunione la dottrina della transustanziazione. La liturgia della messa, poi, venne precisata insieme con il suo significato di rinnovamento del sacrificio della Croce. La Vergine e i santi, infine, furono dichiarati non meri modelli da seguire, ma indispensabili intercessori presso Dio, mentre fu riaffermata l'esistenza del Purgatorio e la sua natura di espiazione delle colpe terrene per il conseguimento della purezza indispensabile per accedere al Paradiso. Veniva così precisata una teologia definita da Jean Delumeau¹ "solida e ben articolata", che eliminava le incertezze e la superficialità del passato. Per diffondere tale dottrina erano necessari sacerdoti preparati, capaci, moralmente integerrimi. Perciò il concilio si occupò della cura pastorale e procedette alla riforma del clero. Dopo aver imposto come regola vincolante il celibato dei sacerdoti e averne esaltato la superiorità sui laici in quanto partecipi del carattere sacramentale dell'ordine, dispose norme precise per tutta la gerarchia a cominciare dai gradi più elevati. Estendendo ai vescovi una norma già introdotta nel 1547 da Paolo III per i cardinali, l'assemblea vietò loro la titolarità di più benefici, impose l'obbligo della residenza, quello della consacrazione entro tre mesi dall'elezione e quello della visita pastorale alle parrocchie della diocesi da effettuarsi almeno ogni due anni. L'obbligo della residenza costituiva il presupposto indispensabile per l'adempimento dei doveri che il concilio affidò al nuovo modello di vescovo elaborato: costui doveva essere presente nella sua diocesi perché la Chiesa gli affidava la piena responsabilità della difesa della fede cattolica nella comunità dei fedeli della diocesi. A questo fine il vescovo doveva, innanzi tutto, essere di esempio al suo gregge, osservando un comportamento morale rigoroso e dimostrando la propria superiorità spirituale e religiosa; doveva curare che altrettanto rigoroso fosse il comportamento del clero della diocesi e che il ministero da questo svolto seguisse fedelmente le norme dei decreti conciliari; perciò gli veniva assegnato un potere di controllo che egli doveva esercitare sia mediante le visite pastorali, sia convocando periodicamente concili e sinodi provinciali. La figura del vescovo tridentino trovò in s. Carlo Borromeo, arcivescovo di Milano, il suo modello più completo. Nuove regole furono stabilite anche per i parroci. All'interno di una Chiesa impegnata a difendere la fede romana dalla diffusione delle dottrine riformate, il parroco assumeva il ruolo decisivo di contatto quotidiano e costante con i fedeli. Anch'egli aveva l'obbligo della residenza, anch'egli aveva il compito di indottrinare i fedeli e di controllare la loro osservanza delle norme di fede, anch'egli doveva rinunciare ad altri benefici, condurre una vita di forte rigore morale e imporsi come superiore guida spirituale della sua comunità. Al posto del parroco partecipe della vita quotidiana dei suoi fedeli, "cinghia di trasmissione" - come dice Piero Camporesi² - della cultura popolare, veniva delineato un parroco del tutto nuovo, distaccato dalla sua comunità e a essa superiore moralmente e culturalmente, un parroco che tra i compiti del suo ministero aveva quello di insegnare ai fedeli i precetti della Chiesa rigenerata dal concilio, in particolare il catechismo tridentino, e di controllarne l'osservanza. La separazione del parroco dalla sua comunità era accentuata dall'uso del latino sia nella lettura dei libri sacri, sia nella liturgia, nei riti, nelle preghiere. Certamente la trasformazione radicale della figura e del ministero parrocchiale non poteva avvenire di colpo e senza strumenti adatti. La formazione del clero, che in passato era lasciata a iniziative individuali e di solito finiva per svolgersi sotto la guida di sacerdoti più anziani, fu disciplinata e affidata alla nuova istituzione dei seminari. Presso ogni diocesi doveva nascere una scuola - il seminario, appunto - diretta esclusivamente alla formazione del clero nello spirito e nella cultura tridentini. Norme rigorose vennero approvate anche per gli Ordini religiosi. Il concilio dispose la severa osservanza della regola, il divieto ai monaci di possedere alcunché di proprio e di fondare nuove case senza la preventiva autorizzazione del vescovo, l'obbligo di non allontanarsi dal monastero, salvo consenso dei superiori, l'elezione a voto segreto di abati e altre cariche, il controllo dei conventi da parte dei visitatori dell'Ordine o, in mancanza, dei vescovi, da svolgersi con regolarità; per gli Ordini femminili, poi, stabilì che la professione religiosa dovesse compiersi non prima dei sedici anni e dopo almeno un anno di noviziato, che le monache si confessassero e comunicassero almeno una volta al mese, che le badesse avessero almeno quarant'anni di età³.

Il post-concilio

Il concilio tridentino e i decreti pontifici che ne recepirono le decisioni presentano, dunque, un duplice aspetto: da un canto furono la risposta alle istanze di riforma ecclesiastica che si erano già manifestate nel sec. XV all'interno delle correnti spirituali ed erano state recepite dai vertici della gerarchia, anche se nell'accezione più limitata di riordinamento curiale; dall'altro costituirono una rielaborazione e un approfondimento della teologia tradizionale diretti a contrastare le dottrine riformate. Pertanto riforma cattolica e controriforma costituiscono due momenti inscindibilmente legati tra loro della Chiesa nata dal concilio tridentino. L'attuazione dei decreti conciliari si propose allo stesso tempo di contrastare l'espansione delle dottrine protestanti, di realizzare il nuovo ordinamento della Chiesa e di imporre l'insegnamento della dottrina tridentina nella comunità dei fedeli. Obiettivi, questi, tra loro così collegati, che non possono essere trattati separatamente. Possiamo, invece, esaminare partitamente i diversi elementi che compongono il nuovo indirizzo impresso alla Chiesa dal concilio. Innanzi tutto si deve rilevare che dopo Trento fu il pontefice ad assumere la guida del cambiamento, mentre in precedenza le sollecitazioni alla riforma erano venute dal mondo laico, dal clero e, in misura ridotta, da vescovi e da rari cardinali, e i pontefici erano intervenuti per progettare soltanto riforme di istituzioni e di uffici. Primo esponente del nuovo indirizzo sembra essere stato Pio IV che dette un impulso deciso all'attuazione delle regole tridentine. Il nuovo indirizzo si caratterizzava non soltanto per le conclusioni teologiche, ma anche per la definizione dei compiti del clero, delle forme della nuova liturgia, dei modelli di comportamento proposti ai fedeli; e la Chiesa non si limitava alla loro definizione, ma li rendeva obbligatori e vegliava sulla loro osservanza. Un'azione, questa, che la storiografia più recente definisce con il termine di "disciplinamento" e di cui furono strumenti, insieme con la Curia e la gerarchia, alcuni Ordini, in particolare i Gesuiti, e l'Inquisizione. Quest'ultima sin dai primi decenni successivi alla sua riorganizzazione si impose come centro di potere che ambiva, innanzi tutto, ad acquisire il controllo della gerarchia ecclesiastica. Sin dal conclave apertosi alla morte di Paolo III nel 1549, l'Inquisizione si propose di assumere il controllo del collegio elettorale e di imporgli la scelta di un papa che seguisse le sue scelte e realizzasse le sue linee di riforma, impedendo che candidati sgraditi salissero sul trono di s. Pietro. Tali obiettivi vennero raggiunti: lo dimostrano la sorte dei cardinali Pole e Morone e il successo di chierici legati all'Inquisizione, come Gian Pietro Carafa (Paolo IV), Michele Ghislieri (Pio V) e Felice Peretti (Sisto V). L'Inquisizione non si limitò a reprimere e condannare ogni persona sospetta di eresia, ma insieme con la Curia e la gerarchia sorvegliò il rispetto dei doveri tridentini da parte del clero e del comportamento che la nuova morale esigeva da parte dei fedeli. Il modello tridentino ingiungeva a vescovi e parroci di promuovere l'insegnamento della nuova dottrina ai fedeli e di imporre loro la nuova condotta "disciplinata". Tale condotta prevedeva, accanto all'osservanza dei comandamenti, la frequente partecipazione ai sacramenti, un severo comportamento delle donne che dovevano apparire modeste, composte nei gesti e negli abiti, un ruolo di guida virtuosa per il padre di famiglia che a moglie e figli doveva assicurare l'insegnamento della fede e dell'ossequio verso la Chiesa, la partecipazione dei bambini al catechismo impartito in parrocchia, la presenza nelle numerose cerimonie devozionali e liturgiche, la lettura dei soli libri ammessi e il rifiuto dei libri proibiti. Sugli ultimi due punti appaiono necessarie alcune considerazioni. La Chiesa tridentina elaborò una complessa liturgia che si caratterizza per l'esaltazione della presenza reale di Cristo nell'eucarestia, per la devozione ai santi, per il riconoscimento della propria missione di insegnamento e di salvezza e che pone al centro della cerimonia l'altare, collocato in maniera visibile a tutti i fedeli, sul quale è posto il Ss. Sacramento. Come è stato rilevato⁴, nella realtà concreta e tangibile dell'altare e nella presenza reale di Cristo nell'eucarestia i fedeli trovavano certezze sensibili alle loro domande di fede e potevano esaudire il loro bisogno di spiritualità attraverso una partecipazione "incosciente" a una cerimonia che si svolgeva in lingua latina e a voce bassa. La centralità dell'eucarestia non fu limitata alla sola liturgia della messa, ma caratterizzò l'intera pietà post-tridentina. Così si diffuse l'uso di esporre nelle chiese il Ss. Sacramento; venne definita la prima comunione dei bambini come solenne cerimonia collettiva, intesa come occasione di incontro di tutti i fedeli con Dio e di ammissione dei bambini alla mensa divina; Clemente VIII introdusse nelle chiese romane in occasione delle cerimonie pasquali una preghiera di quarantotto ore per ricordare il riposo di Cristo nel sepolcro. Inoltre, si diffusero nuove forme devozionali che da un canto recuperavano il senso dello spettacolo tanto vivo nella cultura popolare, ricucendo in parte quel rapporto con quest'ultima che la nuova figura del parroco tendeva a spezzare, dall'altro offrivano ai fedeli l'occasione di vivere con la concretezza di una scenografia drammatica e teatrale un momento della dottrina loro insegnata e della storia di Cristo e dei santi. Furono allora riprese le processioni della tradizione medievale, che conobbero un'ampia diffusione, mentre una particolare attenzione venne riservata al culto della Vergine, soprattutto in relazione alla passione di Cristo. L'insegnamento controriformistico si accompagnò sin dall'inizio con una decisa censura dei libri che circolavano nelle regioni cattoliche. Indici di libri proibiti furono composti per iniziativa di autorità ecclesiastiche locali sin dalla metà del secolo: nel 1559 Paolo IV, per colmare le loro imperfezioni, fece redigere il primo Indice pontificio che si propose di imporre direttive uniformi e, di conseguenza, non tenendo conto delle diversità delle situazioni locali, finì con il risultare inutilizzabile. Perciò Pio V ne fece compilare un altro nel 1564 che arricchì e migliorò il precedente. Nel 1571, poi, lo stesso pontefice istituì la Congregazione dell'Indice che venne perfezionata nel settembre dell'anno successivo da Gregorio XIII, con una precisazione delle competenze e della giurisdizione: la sua attività negli anni successivi fu rilevante e dette vita in molte regioni a una oppressiva prassi censoria quotidiana. Nel 1596, infine, Clemente VIII dispose la compilazione di un ulteriore Indice pontificio. Alla censura sui libri si accompagnò quella delle immagini, affidata dal concilio ai vescovi: le direttive più diffuse sollecitavano a una pittura realistica che offrisse ai fedeli un'immagine concreta e facilmente comprensibile, perché legata alla propria esperienza, di aspetti della vita dei santi e di Cristo. I vescovi - come si diceva - dovevano vigilare sull'osservanza da parte dei parroci dei doveri di insegnamento e di ministero. Come ha sottolineato Adriano Prosperi⁵, l'Inquisizione si affiancò ai vescovi in tale controllo, intervenendo nella pratica quotidiana del ministero parrocchiale e individuando nella confessione lo strumento più idoneo cui i parroci potevano ricorrere per verificare che i fedeli della loro comunità osservassero i precetti impartiti. Repressione e controllo costante guidarono allora la presenza del clero nella società. L'insegnamento e l'esercizio del ministero da parte dei parroci riguardava, peraltro, non solo le comunità urbane ma anche le zone rurali ove la realtà culturale e spirituale era profondamente diversa. Intorno alla metà del sec. XVI le autorità ecclesiastiche sembrano aver raggiunto piena consapevolezza non soltanto delle disumane condizioni di vita, ma anche della povertà spirituale e culturale in cui si trovava la maggior parte delle popolazioni contadine delle zone più interne, che nei secoli precedenti era stata appena sfiorata dall'evangelizzazione. Il pericolo che le dottrine riformate trovassero presso di loro accoglienza e diffusione sollecitò un programma di intervento diretto all'insegnamento della dottrina tridentina, un intervento che, essendo indirizzato a popolazioni sostanzialmente digiune della parola divina al pari degli indigeni delle terre d'oltreoceano di recente scoperta, fu indicato con il termine di "missione" usato per l'evangelizzazione di terre lontane. Di tale azione si assunsero l'onere soprattutto i Gesuiti, che giustificavano la scelta di un impegno deciso nelle zone rurali più arretrate e nel Mezzogiorno d'Italia, affermando che esso configurava una missione nelle "Indie di quaggiù". La natura delle missioni nel mondo contadino appare diversa da regione a regione: mentre, infatti, in Francia e in Germania le missioni si proposero soprattutto di contenere la diffusione delle dottrine protestanti, in Italia tale obiettivo cedette ben presto all'altro di promuovere l'insegnamento della dottrina e il disciplinamento della popolazione. Lo svolgimento delle missioni innovò radicalmente le forme di predicazione itinerante e seguì regole e procedure ben definite. Fino alla metà del Cinquecento la predicazione itinerante era svolta da monaci, o da predicatori irregolari, che nelle piazze cittadine incolpavano i fedeli dei peccati commessi e li minacciavano di vendette divine. Un tipo di predicazione che i Francescani avevano portato in America e che lì aveva mostrato i suoi gravi limiti, sollecitando la definizione di una forma di predicazione svolta da chierici specializzati con precise modalità e con impegno costante e reiterato. La nuova missione che si propagò nelle campagne europee si fondò su due elementi, l'insegnamento della dottrina e la confessione dei fedeli. I missionari si impegnarono a estirpare credenze radicate nella tradizione delle comunità, a piegare comportamenti da sempre ritenuti legittimi, insegnando nozioni semplici, preghiere facilmente ripetibili, pratiche nuove da seguire e da fare proprie. E per raggiungere tali obiettivi facevano ricorso anche al senso dello spettacolo tanto diffuso nelle popolazioni più povere, sussumendolo all'interno delle forme cerimoniali e rituali della Chiesa: di qui il grande sviluppo delle processioni nelle quali usi della tradizione popolare potevano essere sublimati, di feste e spettacoli per la commemorazione di santi locali e di momenti importanti del ciclo produttivo annuo. I missionari, inoltre, amministravano i sacramenti e seguivano nel loro ministero procedure uniformi. Così, ad esempio, è stato rilevato⁶ che nell'Italia meridionale i padri gesuiti si recavano in genere in coppia nelle singole località rurali e qui svolgevano la missione per alcuni giorni, promuovendo al mattino esercizi spirituali per il clero e i nobili del luogo, pronunciando prediche per il popolo nel pomeriggio, organizzando processioni alla sera. E al termine della missione amministravano confessioni e comunioni per tutta la comunità. La confessione era, come si diceva, l'altro cardine della missione: attraverso di essa i missionari potevano, infatti, controllare il grado di rispetto che la comunità aveva riservato all'insegnamento impartito nelle visite precedenti. La rete missionaria diffusasi nelle campagne europee mise in crisi la cultura popolare della tradizione. Si è visto prima come già nel sec. XV la Chiesa avesse cominciato a prendere coscienza di una cultura diversa, dai forti contenuti naturalistici e pagani, dominante nelle campagne, specialmente in quelle più lontane dalle città, e come, leggendo tale cultura attraverso le lenti della propria, avesse cominciato a combatterla e a condannarla come superstizione diabolica e stregoneria. Tale atteggiamento si aggravò dopo la metà del Cinquecento: là dove non riuscivano a essere assimilate nei riti e nelle cerimonie religiose, le forme della tradizione popolare vennero duramente combattute e fioccarono le accuse di stregoneria. L'opera dell'Inquisizione in tal campo fu accompagnata da interventi della gerarchia e di autorità temporali.

Le "controriforme"

L'immagine, tradizionalmente accolta, della Chiesa post-tridentina è quella di una Chiesa rigenerata nella dottrina, nel costume, nell'organizzazione e allo stesso tempo oppressiva e autoritaria, capace di imporre con la forza le proprie idee, regole, modelli di vita. Una Chiesa molto centralizzata sotto il governo del pontefice, dalla cui superiore autorità dipendevano la gerarchia, il clero secolare e regolare, le organizzazioni dei laici, a cominciare dalle confraternite sottomesse dopo Trento alla guida vescovile. Tale immagine è attualmente oggetto di revisione da parte di alcuni settori della storiografia che hanno disegnato un quadro più articolato e composito della Chiesa post-tridentina. È stato rilevato, innanzi tutto, che la difesa a oltranza della propria dottrina non fu effettuata dalla sola Chiesa tridentina, ma da tutte le religioni cristiane. È, questa, l'epoca delle "confessioni", intendendo per "confessione", come sottolinea Heinz Schilling⁷, "un'esplicita definizione di dottrina" costituita da un documento ufficiale contenente tutti gli articoli di fede, documento che doveva essere integralmente accettato dai fedeli. La confessionalizzazione delle diverse Chiese si espresse in forme tra loro molto simili: difesa decisa della fede, repressione di ogni dissenso e condanna degli eretici, costante e capillare controllo dei fedeli, impegno nell'insegnamento della dottrina in primo luogo attraverso catechismi che ne spiegavano in termini semplici i contenuti, evangelizzazione delle popolazioni rurali - settore in cui i cattolici e i luterani conseguirono i maggiori successi - e conseguente lotta contro ogni manifestazione di religiosità naturale e pagana, condannata come stregoneria, particolare cura nel reclutamento e nella formazione del clero, stretto legame con le autorità temporali conquistate alla confessione. Collocando in questo quadro europeo l'azione repressiva della Chiesa post-tridentina, la storiografia più recente ha finito per contestare un'antica interpretazione che giudicava le religioni riformate come espressione di libertà di pensiero e a esse opponeva la Chiesa controriformistica come incarnazione della repressione e dell'autoritarismo. In realtà, nell'intero mondo cristiano l'appartenenza a una confessione religiosa era atto imposto e soggetto a costante, repressivo controllo. E dal confronto tra le severità dell'imposizione e della repressione quella della Chiesa cattolica non risulta la peggiore: un esempio tra tutti, la cosiddetta "caccia alle streghe" nei paesi protestanti fu più dura che nei paesi ove operò l'Inquisizione romana. In secondo luogo è stato messo in evidenza che i decreti tridentini non trovarono ovunque completa e immediata attuazione. Se distinguiamo all'interno dei decreti tridentini tre parti, una riguardante la definizione dogmatica, la seconda le regole di morale e quelle sul culto, la terza i rapporti tra la Santa Sede e i cleri locali, possiamo notare che le resistenze riguardarono soprattutto la terza parte e vennero dai sovrani cattolici i quali volevano conservare le loro prerogative in materia ecclesiastica e si opponevano al rafforzamento della potestà universale del papa. Così, mentre in generale gli Stati italiani e il Portogallo accettarono senza forti resistenze i decreti tridentini, in Spagna Filippo II ammise la pubblicazione degli stessi nel 1564 con la riserva della conferma dei diritti tradizionali della Corona spagnola. In Germania i più decisi sostenitori dei decreti furono i principi laici, mentre qualche resistenza venne dai principi ecclesiastici: nel 1566, comunque, i decreti furono recepiti, anche se solo in relazione alle prime due parti. Ancora più complesso è, poi, il caso della Francia. Qui la difesa della tradizione gallicana sollecitò i sovrani a rinviare l'accettazione dei decreti: Enrico III con l'Editto di Melun del 1579 e con l'Ordinanza di Blois del 1580 li recepì parzialmente, suscitando la disapprovazione di Gregorio XIII. Mentre di fatto la maggior parte dei vescovi francesi attuava nelle varie diocesi le decisioni conciliari, solo nel 1615 un atto formale dell'assemblea del clero francese deliberò la validità dei decreti per tutti i fedeli. Ma nessun atto formale, né degli Stati generali, né del sovrano, trasformò in norma vincolante tale decisione. Non fu comunque la sola resistenza dei principi territoriali a ostacolare l'attuazione dei decreti tridentini: la riforma del clero, dai gradi più elevati della gerarchia a quelli più bassi, che essi comportavano non era cosa da poco e non poteva realizzarsi di colpo. E se a partire dal regno di Pio IV - se non addirittura da quello di Paolo IV - il modello fortemente mondanizzato del papato rinascimentale era tramontato e se più o meno dallo stesso torno di anni si andò affermando la nuova figura di vescovo controriformista tutto impegnato nello svolgimento del nuovo ministero che il concilio gli aveva affidato, grandi difficoltà continuò a incontrare la trasformazione della figura del parroco. L'istituzione dei seminari procedette a rilento (in Francia solo dopo la metà del sec. XVII si avrà una diffusa rete di seminari), così che la formazione di un nuovo clero, più colto e preparato, in grado di insegnare la nuova dottrina, avvenne in maniera saltuaria e disorganica; per lungo tempo, di conseguenza, la gestione delle parrocchie nell'intera Europa cattolica continuò a essere per gran parte nelle mani di un clero incolto, se non addirittura analfabeta. Ancora, si è rilevato che l'organizzazione ecclesiastica preposta al controllo dei fedeli e alla repressione di ogni forma di eterodossia era poco funzionale, pletorica e per più aspetti contraddittoria. L'autorità dei vescovi si trovò spesso a confliggere con quella dei rappresentanti locali dell'Inquisizione - che si era ben presto dotata di un'estesa rete di vicariati territoriali -, i tribunali e gli uffici locali dell'Inquisizione erano costituiti in larga parte da chierici regolari che dipendevano anche dal loro Ordine e operavano in rapporto alle direttive dei loro provinciali, mentre in campagna l'attività di missionari si sovrapponeva spesso all'esercizio del ministero parrocchiale. Infine, appare necessario sottolineare che l'attenta opera di predicazione, di insegnamento e di assistenza promossa dalla Chiesa tridentina fu fattore di elevazione spirituale e religiosa di larghi strati della popolazione per secoli rimasti ai margini del consorzio civile. La religione costituiva il fondamento primario della cultura del periodo, con le feste liturgiche che scandivano lo scorrere del tempo e il senso del sacro che segnava il comportamento e la tradizione delle comunità. La religione, dunque, era elemento costitutivo della società, sua parte essenziale: l'autentica spiritualità testimoniata nel periodo in esame da tanti fedeli che accettarono con disciplina le regole stabilite dal concilio conferma la profondità del sentimento religioso diffuso nel mondo cattolico. La realtà della Chiesa tridentina è, allora, complessa e sfaccettata, una realtà in cui il discrimine tra luci e ombre è incerto e sfuggente. Così, la stessa storiografia che sottolinea i suoi aspetti positivi non dubita, poi, che con essa si affermò anche una religiosità cupa e repressiva, che privilegiava la partecipazione alle cerimonie e ai riti collettivi rispetto alla preghiera individuale e al contatto diretto con Dio, una partecipazione che contribuiva al controllo sociale sul singolo fedele, ma al contempo favoriva l'ipocrisia, il conformismo, l'assenza di un'adesione profonda. E si diffuse altresì una cultura del sospetto, del controllo, della condanna di ogni comportamento o pensiero diversi dai modelli imposti e comunemente condivisi. Certamente l'accoglimento di questa religiosità e di questa cultura dipese dal grado di recettività di ciascuna comunità e di ogni gruppo sociale e fu, di conseguenza, meno consistente là dove poté essere filtrato da una sensibilità e da una educazione più raffinate. Ma è altrettanto certo che quei modelli della nuova spiritualità e della nuova cultura furono ovunque presenti nel mondo della cattolicità controriformista. Si deve aggiungere, comunque, che la riforma e la controriforma tridentina non esaurirono la religiosità della seconda metà del sec. XVI. Anche se più inquadrate sotto la guida della gerarchia rispetto al periodo precedente, numerose continuarono a essere le manifestazioni spontanee di una religiosità sensibile ai bisogni spirituali e materiali dei fedeli. Proseguì, ad esempio, l'istituzione di nuovi Ordini religiosi impegnati nell'insegnamento o nell'assistenza ospedaliera. Nel 1562 ad Avila, in Spagna, per iniziativa di s. Teresa, fu fondato il primo convento dell'Ordine delle Carmelitane Scalze, seguito nel 1568, sempre ad Avila, dal primo monastero maschile dell'Ordine. Nel 1572 Pio V approvò l'Ordine degli Ospedalieri di S. Giovanni di Dio. Nel 1575 Gregorio XIII riconobbe col nome di oratorio il gruppo di sacerdoti che si erano riuniti a Roma intorno a s. Filippo Neri in una vita comune senza voti. Nel 1588 s. Francesco Caracciolo e Giovanni Agostino Adorno fondarono a Napoli i Chierici Regolari Minori, detti anche Caracciolini. Nel 1591 fu approvato dal pontefice l'Ordine di S. Camillo (i Camilliani) che s. Camillo de' Lellis aveva organizzato sin dal 1582. Ad Avignone nel 1592 furono organizzati i Padri della Dottrina Cristiana, approvati dal pontefice nel 1597, e nel 1595 furono creati i Chierici Regolari della Madre di Dio. Infine, nel 1597 furono fondati a Roma da s. José de Calasanz i Chierici Regolari Poveri della Madre di Dio delle Scuole Pie, più noti come Scolopi, che diventeranno vero e proprio Ordine nel 1621. Oltre a queste fondazioni di nuovi Ordini, la ricca fioritura di iniziative religiose si manifestò in numerose attività assistenziali e caritative. E interventi caritativi e repressivi insieme furono quelli adottati da Pio IV a Bologna nel 1561 e da Gregorio XIII a Roma nel 1581 con la creazione di confraternite incaricate dell'assistenza ai poveri e, al contempo, del loro allontanamento dai luoghi pubblici.

La Chiesa nel mondo

Controriforma e riforma, repressione e censura, disciplinamento e controllo, ricchezza di pensiero teologico e fervore di spiritualità e di carità: tutto questo era allo stesso tempo la Chiesa tridentina. Ed era anche Chiesa missionaria, impegnata nell'evangelizzazione delle terre di nuova scoperta. Era infatti proseguita instancabile, ma con risultati diversi da regione a regione, l'attività missionaria. In Africa le difficoltà della colonizzazione portoghese avevano limitato i frutti dell'opera missionaria in Congo e, successivamente, in Angola. In India l'attività delle missioni si concentrò in particolare nell'area di Goa e nelle regioni meridionali: ne fu protagonista il gesuita Francesco Saverio (che si sarebbe poi spinto anche in Giappone e in Cina): i successi furono assai limitati, non solo per la pretesa dei missionari di imporre le regole liturgiche della Chiesa cattolica, ma anche per la forza della tradizione e per l'inscindibile legame tra la religione indigena e la divisione in caste della società. Difficoltà incontrò anche la cristianizzazione delle regioni conquistate in America dai Portoghesi. L'attività missionaria in Brasile riguardò soprattutto zone costiere e procedette lentamente: svolta dai Gesuiti, presenti in quella regione sin dal 1549, essa portò alla fondazione della diocesi di Bahia nel 1551 e di un centro di catechesi a San Paolo nel 1554. Più consistenti furono i risultati della conversione nelle terre dominate dalla Spagna. La conquista delle isole Filippine, iniziata sulla metà degli anni Sessanta, portò in pochi anni alla conversione della maggior parte degli abitanti e alla fondazione della diocesi di Manila. Rapidi furono anche i successi nelle Americhe. In Messico l'evangelizzazione, sostenuta sin dall'inizio dallo stesso Cortés e svolta da Francescani, Domenicani, Agostiniani e Gesuiti, riguardò l'intera popolazione e portò alla fondazione dell'arcidiocesi di Città del Messico, di nove diocesi e di numerosi conventi. Più graduale, ma ugualmente diffusa, fu la conversione dei popoli sudamericani iniziata dai Domenicani contestualmente alla conquista dell'Impero Incas e proseguita poi anche da Francescani, Agostiniani e Gesuiti. Alla fine del sec. XVI l'intero continente, a esclusione del Cile dove l'evangelizzazione ebbe inizio solo negli anni Quaranta del sec. XVII, era coperto da una fitta rete di organizzazioni diocesane. Il successo dell'opera missionaria non comportò però l'eliminazione delle religioni indigene: la conversione fu in molti casi solo formale, mentre riti e cerimonie tradizionali vennero in parte accolti e sublimati in quelli cattolici. Nelle terre che non furono oggetto di conquista da parte dei Portoghesi e degli Spagnoli l'evangelizzazione incontrò ostacoli più decisi. In Giappone i successi iniziali ottenuti da Francesco Saverio e dai Gesuiti, nonché quelli conseguiti dai Francescani, con il sostegno degli Spagnoli delle Filippine, negli anni Novanta, furono vanificati dalla violenta persecuzione dei cristiani promossa dai signori feudali nel 1597. In Cina, infine, qualche risultato conseguì tra la fine del sec. XVI e l'inizio del successivo l'italiano Matteo Ricci il quale cercò di adeguarsi alle regole locali e di diffondere la fede cristiana in termini accessibili alla cultura indigena.

Esigenze finanziarie. Riforme istituzionali

La difesa contro la diffusione delle dottrine riformate, il sostegno ai partiti cattolici che in Europa si battevano contro i protestanti, la riorganizzazione della gerarchia e la fondazione delle istituzioni preposte alla preparazione del clero, lo svolgimento delle missioni nelle campagne del vecchio continente, l'evangelizzazione delle terre di nuova scoperta: tutte queste iniziative comportarono nella seconda metà del sec. XVI un sensibile incremento delle spese della Chiesa. Di qui l'urgenza per la Santa Sede di assicurarsi entrate adeguate. Problema di non sempre facile soluzione, dato che l'esercizio dei diritti sui benefici ecclesiastici si veniva a scontrare con le pretese dei maggiori signori, in primo luogo dei principi territoriali, di vantare forme di dominium sugli stessi e di esercitarvi potestà giurisdizionali ed esattive. E dell'amicizia di tali signori la Chiesa aveva particolare bisogno, per il sostegno militare e repressivo che costoro le potevano fornire nel conflitto religioso. La stretta alleanza tra principi e Chiesa era, d'altra parte, la più marcata novità degli Stati protestanti: non solo in Inghilterra, ma anche negli Stati luterani e negli stessi territori calvinisti il principe aveva assunto - come dice H. Schilling⁸ - lo status di "supremo capo della Chiesa", di "summus episcopus", mentre il clero veniva organizzato come parte della burocrazia da quello dipendente. Un'analoga fusione non si ritrova nelle regioni cattoliche, nelle quali la Chiesa seppe conservare intatta la sua individualità; ma nemmeno qui mancava quell'esigenza di sostegno materiale, politico e militare che era a fondamento dello stretto rapporto principe-clero dei paesi protestanti e che appare come un elemento caratterizzante il processo di confessionalizzazione dell'intero mondo cristiano. La difesa dei diritti giurisdizionali sui benefici ecclesiastici, pertanto, doveva necessariamente armonizzarsi con le necessità politiche. La decisione adottata dal concilio tridentino di recuperare alla Chiesa terre indebitamente sottrattele da signori temporali conobbe alcuni risultati positivi, anche se fu attuata con cautela e soprattutto nei confronti di signori minori: per l'Italia, ad esempio, è stato rilevato l'avvio di un generale consolidamento della proprietà ecclesiastica che comportò il raddoppio delle rendite tra gli ultimi decenni del Cinquecento e la fine del secolo successivo. Non sempre vittoriosi furono, invece, i conflitti giurisdizionali che si aprirono con i principi territoriali e ai quali la Chiesa non volle sottrarsi nemmeno quando la controparte era un sovrano tra i più decisi baluardi della cattolicità: è il caso del re di Spagna Filippo II, con il quale Gregorio XIII aprì un lungo contenzioso giurisdizionalistico sui benefici del Regno di Napoli. Le ragioni politiche consigliavano però alla Chiesa di ricercare soluzioni di compromesso, difendendo sì i propri diritti tradizionali quando essi venivano attaccati, ma al contempo garantendo ai sovrani il riconoscimento di non poche competenze in materia ecclesiastica. Così la Santa Sede non sollecitò alcuna modifica del concordato di Bologna che dal 1516 disciplinava la materia ecclesiastica nel Regno di Francia, né promosse una revisione della giurisdizione regia in Spagna e nei Regni italiani da questa dominati, mentre nei principati tedeschi accettò che i sovrani maturassero ampie potestà sul clero e sui benefici. Peraltro non erano solo i signori minori e i grandi principi e sovrani territoriali gli avversari che Roma si trovò ad affrontare nella difesa dei suoi beni: lo erano anche antiche tradizioni locali che dirottavano le entrate dei benefici dalla Camera apostolica alle casse private di singoli ecclesiastici. È il caso, ad esempio, delle commende abbaziali la cui rendita andava a singoli dignitari della Curia o ad ecclesiastici italiani di alto rango. Il riordino del complesso coacervo delle competenze tradizionali fu avviato con non poche difficoltà e non pochi insuccessi conobbe nella sua attuazione. Alle entrate della Chiesa contribuiva in maniera non secondaria il dominio temporale che la stessa vantava in Italia. Tale dominio, come si è detto, era condiviso dalla Santa Sede con signori, vicari apostolici, Comuni cittadini e conobbe nel corso del Cinquecento una significativa evoluzione. La fine degli equilibri tra potenze italiane provocata dalle imprese militari della Corona francese e le successive guerre tra questa e la monarchia ispano-imperiale sollecitarono la Santa Sede a una attenta politica temporale per conservare intatto il proprio dominio e favorirono modifiche istituzionali in alcune regioni della Chiesa. Per garantirsi la continuità del controllo di territori verso cui si indirizzava l'espansionismo di potenze confinanti, il papato fece ricorso a vari strumenti. Innanzi tutto la formazione di signorie territoriali concesse a familiari del papa: uno strumento che era stato già utilizzato nel sec. XV da Pio II e da Sisto IV e che nella prima metà del Cinquecento venne usato da Alessandro VI - il quale, minacciato dai Veneziani in Romagna promosse l'impresa militare del figlio Cesare Borgia e gli concesse poi il territorio conquistato elevandolo a Ducato - e da Paolo III, che fondò prima il Ducato di Castro (sulla via tra Roma e la Toscana), poi quello di Parma e Piacenza, in un'area particolarmente a rischio per la presenza ispano-imperiale in Lombardia, e li affidò al figlio Pier Luigi. Inoltre la Santa Sede perseguì un'attenta politica di accordo con le oligarchie locali, accettando nei municipi di dominio diretto il risultato delle lotte tra fazioni cittadine e nelle terre di dominio mediato gli equilibri liberamente raggiunti tra i signori, con la sola condizione che i governanti riconoscessero la superiore autorità della Chiesa. Così Giulio II accettò che, dopo il crollo del Ducato romagnolo del Borgia, le maggiori città della regione rifiutassero la restaurazione delle antiche signorie e preferissero il passaggio al dominio diretto della Santa Sede e riconobbe alle stesse una sfera di libertà e di giurisdizione ben superiore a quella di cui avevano prima goduto. Infine, il papato combatté con decisione partiti municipali e signori territoriali che contestavano la sua superiore giurisdizione temporale: gli interventi di Giulio II contro Perugia e Bologna, dove vennero allontanate dal potere rispettivamente le fazioni dei Baglioni e dei Bentivoglio, di Paolo III contro Perugia e contro i Colonna e di Paolo IV ancora contro i Colonna sono gli esempi più noti. Le terre della Chiesa, già nel corso della prima metà del Cinquecento cominciarono ad avvertire i segni della crisi produttiva ed economica provocata in Italia dalle guerre tra le grandi potenze europee e dalla progressiva emarginazione dell'area mediterranea. In molti Comuni la vivacità mercantile e manifatturiera cominciò ad appannarsi e il centro della vita economica a spostarsi verso la campagna: i signori, che componevano le oligarchie municipali, e che in passato avevano difeso la giurisdizione comunale per tutelare in maniera efficace i loro interessi particolari, iniziarono a occuparsi della conservazione e dell'espansione dei poteri signorili di cui godevano nei loro domini fondiari, riducendo il tradizionale impegno per le libertà cittadine. Il fenomeno, in significativo sviluppo nella seconda metà del secolo, favorì la crescita della giurisdizione pontificia in molte città, una crescita che, comunque, rispettò sempre le competenze del municipio. La crisi economica, peraltro, non riguardò solo i ceti dirigenti dei grandi municipi: coinvolse anche le compagnie commerciali e bancarie che operavano a Roma al seguito della Curia pontificia e che sin dalla fine del Quattrocento erano riuscite a controllare il traffico mercantile nella regione intorno alla città. Alcune di queste famiglie cominciarono a destinare parte dei loro investimenti alla terra, prendendo in locazione aziende fondiarie di cui erano titolari signori ecclesiastici o laici. Nella seconda metà del secolo, in una situazione di crisi crescente, tale fenomeno si consolidò, si diffuse ed evolse nell'acquisizione del dominium da parte di famiglie di origine mercantile. Nuove dinastie signorili - come i Chigi e successivamente i Barberini e i Borghese - si affiancarono allora a quelle dell'antica nobiltà romana, modificando i rapporti politici nella regione intorno alla città e, di conseguenza, all'interno della Curia. La fondazione di nuove signorie legate alla persona del pontefice, il rispetto delle oligarchie locali, la conferma dei diritti delle comunità anche quando il dominio della Chiesa accresceva le proprie competenze, stanno a indicare da un canto che la Santa Sede non formulò un programma temporale univoco, ma adottò di volta in volta i provvedimenti che la situazione sembrava richiedere, ponendosi come unico obiettivo il riconoscimento del dominio superiore della Chiesa, dall'altro che essa rispettò sempre la giurisdizione particolare di signori, Comuni, enti ecclesiastici. Lo confermano sia l'ordinamento esattivo vigente nelle terre ecclesiastiche, sia l'organizzazione giurisdizionale modellata dalla Santa Sede. Per quanto riguarda il primo si deve ricordare che fino al pontificato di Clemente VII le entrate temporali della Chiesa conservarono il sistema tradizionale. Nelle terre di dominio immediato l'esazione pontificia si sovrapponeva a quella dei municipi, nel senso che costoro mantenevano esclusiva autorità sugli abitanti, ma erano tenuti a versare una somma alla Camera apostolica: facevano eccezione alcuni grandi Comuni, come Perugia, in cui le entrate municipali passavano in parte direttamente alla Chiesa, mentre a Roma le entrate della Camera Urbis erano tutte trasferite alla Camera apostolica. Nelle terre mediate subiectae, invece, i signori e i vicari si limitavano a versare un censo alla Chiesa in riconoscimento del suo dominio superiore: il versamento, comunque, era saltuario e irregolare. A queste forme di prelievo altre se ne aggiungevano localmente: in alcune regioni la Camera apostolica esercitava il monopolio del sale, in altre il diritto demaniale di concedere licenze alle esportazioni di prodotti oltre i confini delle terre ecclesiastiche, in altre il diritto sulla transumanza dei greggi, in altre ancora antichi diritti di prelievo su singole comunità. Tutti diritti legittimati da tradizioni locali e non esercitabili in aree geografiche diverse. La crisi vissuta dopo il Sacco di Roma del 1527 sollecitò i pontefici ad ampliare le forme di prelievo. Paolo III istituì il sussidio triennale e lo impose alle comunità sia di dominio diretto sia di dominio mediato; inoltre estese ed incrementò la tassa del sale; dopo di lui altri pontefici introdussero imposte sui beni di consumo - come il quattrino della carne e il quattrino a foglietta - e sugli atti contrattuali - la tassa di cancelleria -, mettendole a carico delle singole comunità. Per quanto riguarda l'ordinamento giurisdizionale, la Santa Sede per gran parte del Cinquecento non riuscì a maturare la funzione di superiore garante del diritto nei propri territori, di giudice unitario, che altre monarchie avevano acquisito già nel Medioevo. Rispettosa delle giurisdizioni locali nella loro ampiezza tradizionale, non avanzò mai la pretesa di competenza esclusiva per i reati più gravi - pretesa che alcune monarchie, come quelle inglese e siciliana, avevano affermato sin dal sec. XII -, di modo che la competenza delle corti pontificie locali continuò a intrecciarsi con quella delle corti signorili, comunali, ecclesiastiche, ampliandosi quando queste mancavano ai loro compiti, restringendosi quando queste operavano secondo tradizione. Né la Santa Sede affermò con decisione l'altra importante competenza giurisdizionale che in Europa era riconosciuta come momento essenziale, ragione stessa dell'esistenza, della potestà unitaria di monarchi e principi: la tutela degli ordinamenti particolari vigenti nel territorio e quindi dei diritti tradizionali delle singole comunità. L'esame delle lamentele da queste avanzate contro indebite richieste esattive dei funzionari provinciali continuò a essere assegnato al Tribunale della Piena Camera, una delle articolazioni della Camera apostolica: a differenza di quanto accadeva altrove, mancava infatti una corte apposita. E, d'altro canto, dal vertice della Chiesa erano assenti istituzioni incaricate in maniera esclusiva del governo del dominio territoriale, di modo che gli organismi di Curia si occupavano allo stesso tempo di problemi spirituali e di questioni temporali. In questo campo un significativo progresso fu costituito dalla nascita di Congregazioni con autorità limitata a materie demaniali. Tale indirizzo fu inaugurato da Gregorio XIII che istituì, accanto alle altre incaricate di temi spirituali, la Congregazione per le strade e la vigilanza di Roma, quella sugli argini del Tevere e l'altra sugli interessi dei domini pontifici. Ma fu soprattutto Sisto V a riorganizzare il governo unitario dei domini ecclesiastici. Nel gennaio 1588 con la bolla Immensi aeterni Dei dette vita alla Congregazione per lo Studium Urbis, a quella per la Stamperia Vaticana, a quella competente per le vie, i ponti e le acque, a quella dell'Annona, a quella degli sgravi e infine della Sacra Consulta. Mentre le prime ebbero vita breve e difficile, le ultime due si affermarono come istituzioni di grande rilievo. La Sacra Consulta aveva il compito di fornire pareri su cause civili, criminali e miste a giudici pontifici che ne avessero fatto richiesta, decideva sui ricorsi presentati da singole comunità contro i loro signori, esercitava il sindacato sui governatori provinciali, giudicava le cause promosse dalle comunità di dominio diretto contro i funzionari pontifici per violazione dei loro diritti, si pronunciava sulle vertenze insorte tra i soggetti passivi di tributi pontifici e gli esattori degli stessi. Essa, dunque, costituiva per la Santa Sede uno strumento molto più efficiente del Tribunale della Piena Camera. La protezione degli ordinamenti locali si trova anche alla base della Congregazione degli sgravi: ad essa era affidato l'esame delle lagnanze presentate dalle comunità in materia fiscale al fine di proteggerle contro le indebite esazioni. Sulla medesima linea si collocò la Congregazione del Buon governo istituita da Clemente VIII con la bolla Pro commissa Nobis a Deo del 15 agosto 1592 e avviata di fatto con la bolla Cum per constitutionem nuper a Nobis del 30 ottobre successivo. Competente per tutte le comunità di dominio diretto e mediato, con le sole eccezioni della città di Roma, delle Legazioni, di Velletri e di Castel Gandolfo, essa doveva esaminare l'attività degli agenti camerali al fine di tutelare le comunità dai loro possibili abusi. La sua giurisdizione coincideva così in larga misura con quella della Congregazione sistina degli sgravi. Clemente VIII conservò separate le due Congregazioni, assegnando loro i medesimi ufficiali; Paolo V, con la bolla Cupientes del 4 giugno 1605, le fuse, mettendo fine alla Congregazione sistina.

Il Seicento

Impegno nell'attuazione della riforma ecclesiastica progettata a Trento, difesa tenace della confessione cattolica contro le altre confessioni cristiane, disciplinamento, controllo e repressione, spontanee manifestazioni di genuina e profonda religiosità continuarono a caratterizzare la Chiesa nel sec. XVII. Per quel che riguarda più propriamente il papato, impegnato in un difficile scenario internazionale caratterizzato in primo luogo dalla competizione tra la monarchia francese e quella spagnola, nella seconda metà del secolo la Santa Sede si trovò costretta gioco forza a moderare le proprie pretese, marginalizzata dagli esiti delle paci di Vestfalia (1648) che conclusero la guerra dei Trent'anni. In particolare, i papi dovettero subire l'aggressività di Luigi XIV, che sempre più tendeva a fare della Chiesa nazionale francese uno strumento del tutto dipendente dalla monarchia. Per quanto riguarda la riforma, nella prima metà del Seicento la sua realizzazione continuò a incontrare non poche difficoltà. La condanna decisa della mondanità aveva certo sollecitato una rigorosa austerità di costumi nelle più elevate dignità ecclesiastiche, mentre progressi si cominciavano a registrare nell'affermazione della nuova figura di parroco; ma i modelli di sacerdote disegnati a Trento stentavano ad affermarsi. Ostacoli all'attuazione della riforma venivano anche dalla persistente interferenza secolare nella scelta dei vescovi: monarchi, principi e i residui governi cittadini, ai quali la Santa Sede aveva riconosciuto potestà nell'elezione episcopale, continuavano a seguire logiche in prevalenza politiche, mentre la permanenza del giuspatronato in mano a signori fondiari, a famiglie potenti, a governi cittadini sottraeva alla gerarchia la nomina di buona parte del clero minore attivo nelle cattedrali, nei monasteri, nelle cappellanie, nelle parrocchie. Altro pesante ostacolo alla realizzazione dei modelli ecclesiastici disegnati a Trento era la politica nepotista seguita da molti pontefici. Se erano stati abbandonati i costumi mondani del periodo rinascimentale e un severo conformismo dominava in Curia, nessuna modifica era intervenuta nel tradizionale favore dei papi verso i loro familiari. Al contrario, tale favore aveva accentuato la sua funzionalità, poiché i pontefici - al pari di quanto facevano i coevi principi e sovrani europei - basavano il loro governo innanzi tutto sul sostegno e sulla collaborazione della propria casata. La mancanza della discendenza diretta privava la monarchia pontificia della continuità di una solida dinastia e sollecitava ciascun pontefice a crearsi un proprio potere familiare, affidando a parenti e fedeli cariche decisive nell'amministrazione spirituale e temporale della Chiesa e favorendo la formazione di un solido dominio fondiario familiare soprattutto nelle regioni intorno a Roma, il cui controllo era indispensabile per il pacifico dominio della città e per il suo vettovagliamento. Il nepotismo assunse una consistenza nuova e maggiore rispetto al passato dato che la guida della Chiesa richiedeva fedeli e sicuri interpreti della volontà pontificia, mentre nelle regioni intorno alla capitale la condizione della nobiltà era segnata dalla crisi economica delle famiglie di più antica tradizione, una crisi che favoriva una sensibile mobilità sociale e permetteva ai pontefici più determinati di fondare un dominio familiare. Colonna, Orsini, Frangipane, Savelli, Segni cedettero terre alle famiglie dei pontefici e la nobiltà romana si trasformò profondamente. Alla morte del pontefice, è scontato, i suoi familiari si trovavano a difendere - al pari delle antiche casate romane - il loro patrimonio dagli attacchi della casata del nuovo papa, con la conseguenza di ulteriori complicazioni. Simbolo di tale politica pontificia - che nella prima metà del sec. XVII ebbe in Paolo V Borghese e in Urbano VIII Barberini gli esponenti più noti - era il "cardinal nipote" che teneva saldamente in mano il governo spirituale e temporale e che spesso operava in modo deciso per fondare e accrescere il patrimonio familiare, coinvolgendo nelle sue scelte il papa. Le difficoltà incontrate dalla riforma non impedirono, comunque, alla Chiesa di portare avanti con decisione e costanza l'opera di disciplinamento della società, di controllo dei fedeli, di repressione di ogni pensiero non ortodosso. Anzi, in questo periodo tale opera conobbe sviluppi assai significativi. La lotta condotta dalla Chiesa tridentina contro le confessioni riformate nella seconda metà del Cinquecento aveva conseguito il risultato di arginarne la diffusione: tra la fine del secolo e i primi anni del successivo esse mostravano di aver di fatto perso l'originaria forza espansiva. La nuova situazione, però, non modificò affatto l'impegno repressivo e censorio della Chiesa: al contrario, essa proclamò il proprio diritto di estendere detto impegno al di là della materia religiosa, teologica e spirituale, investendo tutte le manifestazioni del pensiero. Si impose allora la pesante cultura della repressione e della censura, con interventi delle autorità di controllo istituite dalla Santa Sede diretti a conseguire e la difesa dell'ortodossia, e un'omologazione generalizzata della cultura. La Congregazione dell'Indice, il tribunale dell'Inquisizione e in generale tutta la gerarchia sottoposero a esame, accanto a scritti teologici, anche libri devozionali, opere di divulgazione religiosa, prediche e orazioni e, con loro, ogni opera letteraria, scientifica, filosofica, ogni forma di espressione di pensiero. Certamente l'ampiezza della recezione del disciplinamento dipese in buona misura anche dalla consistenza del filtro attraverso il quale la cultura e la sensibilità di ciascun fedele accoglieva l'insegnamento della Chiesa, di modo che mancò una grigia uniformità e la società continuò a presentare differenze e originalità. La grande fioritura culturale e intellettuale che caratterizzò nel Seicento i Regni di Francia e di Spagna attesta della ricchezza e della complessità che continuavano a segnare il mondo cattolico. E per la stessa Italia, dove l'intervento censorio della Congregazione dell'Indice fu costante e per più versi decisivo, non mancano testimonianze di circolazione di opere che, provenendo d'Oltralpe, consentirono alla penisola di conservare contatti con la più avanzata cultura europea, come testimoniano le grandi biblioteche private dell'epoca - quelle del cardinale Francesco Maria Brancaccio, del cardinale Pietro Ottoboni (poi Alessandro VIII), la Ducale di Modena, di Giuseppe Valletta a Napoli e di Antonio Magliabechi a Firenze, tanto per fare alcuni esempi. È certo anche che l'esercizio concreto della vigilanza non fu univoco: la rivalità tra istituzioni, i conflitti tra gli Ordini religiosi, il contemporaneo esercizio delle medesime funzioni da parte di più autorità inducono a ritenere che disciplinamento e repressione furono spesso attuati senza uniformità. Ma appare altrettanto certo che l'azione costante della gerarchia, portata avanti attraverso strumenti di persuasione - come l'indottrinamento, la predicazione, le missioni interne, l'insegnamento scolastico -, di controllo - come la confessione -, di repressione - come i procedimenti presso il tribunale dell'Inquisizione -, penetrò a fondo nella società, soprattutto nei ceti più deboli e meno colti e quindi più facilmente influenzabili dall'autorevolezza riconosciuta a tutti i gradi degli ecclesiastici. L'Italia della grande cultura barocca fu plasmata da un'impostazione dottrinale che condannava come eretica ogni espressione di pensiero non allineata con i modelli imposti dalla gerarchia ecclesiastica. Di fatto continuò con immutato impegno l'azione missionaria interna. Una nuova devozione si andò diffondendo, una devozione che gli storici chiamano "barocca" e che si caratterizza per l'incontro con la cultura popolare e per lo spazio assicurato alle tradizioni locali, anche quelle di origine naturalistica, con l'enfatizzazione della venerazione dei santi, l'accentuazione della teatralità liturgica, la ricchezza e la complessità esteriore delle cerimonie, la diffusione di nuove pratiche religiose dirette a coinvolgere l'intera comunità dei fedeli. È questo il caso del Rosario che, nato nel Medioevo come forma di preghiera privata e diffuso nel mondo cattolico all'indomani del concilio tridentino, a partire dal terzo decennio del sec. XVII divenne un rituale pubblico in cui le preghiere erano recitate ad alta voce. È questo il caso del crescente numero di processioni che sollecitavano la devozione collettiva e in alcuni casi recuperavano riti di origine pagana. Accanto alle forme censorie e repressive, accanto ai momenti della devozione barocca, la prima metà del Seicento conobbe importanti espressioni di spiritualità intima che rinverdirono una tradizione antica e di grande significato. Mentre continuava ad essere diffusa una profonda religiosità tra gli ecclesiastici e tra i laici, proseguì quel fervore religioso che aveva portato nel Cinquecento alla fondazione di nuovi Ordini religiosi. Nel 1610 s. Francesco di Sales e s. Giovanna Francesca Frémyot de Chantal istituirono in Francia l'Ordine femminile della Visitazione di S. Maria. Nel 1611 Pierre de Bérulle, sempre in Francia, fondò, sul modello dei Filippini, l'Oratorio di Gesù; nel 1625 s. Vincenzo de' Paoli istituì i Preti della Missione, o Lazzaristi, nel 1643 Jean Eudes gli Eudisti, nel 1681 Jean-Baptiste de La Salle i Fratelli delle Scuole Cristiane: tutti Ordini impegnati nella formazione del clero secolare, nell'istruzione dei giovani, nella predicazione, nelle missioni interne e nell'evangelizzazione delle nuove terre. Esempi di ricca spiritualità, accanto ai nuovi Ordini religiosi e ai movimenti di osservanza, furono le confraternite laicali, le quali conobbero nella prima metà del Seicento una nuova fioritura, incanalando esigenze devozionali profondamente avvertite dai fedeli e offrendo loro strumenti di espressione per molti aspetti liberi dal controllo continuo e ossessivo della gerarchia. E la loro autonomia si rafforzò grazie all'istituto dell'arciconfraternita, diffusosi a partire dagli ultimi decenni del sec. XVI: essa aggregava varie confraternite ed era dotata di privilegi che le consentivano sensibili libertà dall'autorità vescovile e stabilivano un rapporto diretto con la Curia romana. Domenico Sella, fondandosi sui recenti risultati dell'indagine storica - secondo i quali l'opera dell'Inquisizione e dell'Indice fu in Italia meno opprimente e severa di quella svolta nei paesi protestanti dalle istituzioni preposte alla difesa della confessione - ha sostenuto che nella nostra penisola la Chiesa tridentina conseguì nel sec. XVII i suoi successi più significativi e duraturi non già mediante la repressione, bensì attraverso l'educazione e la persuasione. A detta di Sella i risultati furono "il persistente fervore religioso delle masse popolari, la lealtà cattolica dell'élite culturale [...], la diffusione tra i laici di forme di pietà più personali e più intime e, infine, l'impressionante numero di istituzioni caritative formate per lo più da laici, uomini e donne. Nessun tipo di coercizione avrebbe potuto arrivare a tanto"⁹. Tali osservazioni potrebbero essere estese al resto del mondo cattolico, ma certamente non possono far disconoscere la severità con cui la Chiesa perseguitò pensatori di grande respiro, né far dimenticare la sua pretesa di egemonia. Né, tanto meno, si può nascondere che l'indottrinamento della Chiesa si manifestò anche sotto forme di imposizione culturale che finivano per mortificare la libertà intellettuale e la spontaneità spirituale dei fedeli. Spiritualità vera e repressione continuarono, dunque, a coesistere, anche se la severità della seconda non sembra esser sempre dipesa da una coerente e univoca politica operativa della gerarchia, ma appare spesso dovuta alle singole circostanze, alla tenacia punitiva di ciascun ecclesiastico, ai suoi rapporti personali con gli accusati e i perseguitati, ai più o meno gravi conflitti di competenza tra le numerose autorità che vantavano il potere di intervenire sulla medesima questione. Nella seconda metà del Seicento più decisa si fece l'attuazione della riforma tridentina. In Francia dopo il 1640 si avviò una consistente fondazione di seminari che si diffusero costantemente tanto da essere presenti in ciascuna diocesi alla fine del secolo. Inoltre, sempre in Francia, a partire dagli anni Sessanta fu avviato un regolare insegnamento religioso per i bambini, fondato su manuali diocesani destinati alla scuola, la cui diffusione appare via via crescente. Infine proseguì l'opera missionaria nelle campagne, assumendo contenuti analoghi a quelli che già alla fine del secolo precedente aveva in Italia. E al pari di quanto continuava ad accadere nella penisola italiana, anche in Francia le resistenze della cultura tradizionale, di matrice naturalistica e pagana, furono notevoli, tanto da imporre, da un canto la recezione di pratiche popolari da parte della religione ufficiale, dall'altro di mantenere in vita riti e credenze contro cui il clero continuò a scontrarsi per tutto il secolo. Anche nelle altre regioni cattoliche i seminari si diffusero e si consolidò la prassi episcopale delle visite pastorali. Ma non pochi problemi rimanevano. La rete seminariale continuò a essere debole in alcune regioni, come l'Italia meridionale, dove le numerose piccole diocesi non erano in grado di sostenere le proprie spese e dove il clero ordinario si trovò a colmare le lacune di quello secolare. Di qui i frequenti dissidi tra vescovi e Ordini, dissidi che sollecitarono Innocenzo X a promuovere un'inchiesta sullo stato dei regolari: l'inchiesta, svoltasi tra il 1649 e il 1654, sfociò nell'istituzione di un'apposita Congregazione la quale soppresse numerose piccole istituzioni conventuali, riducendo la presenza del clero ordinario nelle regioni meridionali, ma confermando l'apprezzamento per l'opera che vi andavano svolgendo gli Ordini principali, innanzi tutto i Benedettini. Restavano, comunque, non poche lacune nell'attuazione della riforma formulata a Trento. Le denunciò, ad esempio, l'oratoriano senese Mariano Sozzini in un memoriale scritto secondo alcuni storici durante il pontificato di Clemente X, per altri durante la sede vacante apertasi alla morte di questo papa. Frequentemente inosservato risultava l'obbligo di residenza dei vescovi e, di conseguenza, in molte diocesi il controllo sul clero restava debole e occasionale; né significativi progressi erano stati fatti nell'eliminazione delle pensioni che continuavano a gravare per oltre un terzo le entrate di molte diocesi a vantaggio di uomini di Curia, cardinali, parenti del pontefice in carica. In questa situazione il Sozzini auspicava l'attuazione dei decreti tridentini, una riforma della gerarchia che esaltasse la centralità del vescovo, una particolare cura nella scelta dei vescovi e dei curiali destinati alle Congregazioni competenti per la realizzazione delle norme tridentine, il risanamento della finanza pontificia. Di tale progetto cercò di farsi interprete nei primi anni di pontificato Innocenzo XI, successore diretto di Clemente X e sostenitore di una Chiesa austera e parsimoniosa, incentrata sull'autorità vescovile e risanata dalla piaga del nepotismo. I provvedimenti da lui adottati e la politica perseguita contro gli sprechi della Curia e contro i privilegi di cardinali e altri dignitari, contro la piaga del nepotismo e a sostegno della funzione episcopale, che egli intese sottolineare anche nei cardinali, si affiancarono a importanti aperture verso le correnti di più profonda spiritualità presenti nel mondo cattolico e costituiscono l'azione più seria e decisa per la realizzazione di quella riforma della Chiesa da tanto tempo vagheggiata. La forza dei privilegi e della tradizione curiale privò, tuttavia, l'azione di Innocenzo XI del successo auspicato dagli spiriti riformatori più seri: il suo successore, Alessandro VIII, restaurò la situazione precedente e dette nuovo vigore alla linea repressiva e censoria contro ogni concessione a correnti spirituali. L'azione di Innocenzo XI, comunque, non rimase isolata: tra la fine del sec. XVII e l'inizio del successivo Innocenzo XII prima, Benedetto XIII poi, adottarono importanti provvedimenti di condanna del nepotismo, di disciplina delle pensioni, di limitazione delle prerogative dei cardinali e si impegnarono ad accentuare la centralità del ruolo episcopale, ampliandone i compiti ed esercitando particolare cura nella scelta dei titolari della dignità. Oltre che per i momenti di maggior impegno nella realizzazione della riforma della Chiesa, il secondo Seicento si caratterizza per la complessità dei rapporti che si vennero a instaurare tra la Santa Sede e i grandi sovrani cattolici, in particolare con Luigi XIV, per il conflitto con il giansenismo, per la condanna del quietismo. I conflitti giurisdizionali segnavano, come sappiamo, i rapporti tra Santa Sede e principi e governi cattolici sin dai secoli precedenti ed esplosero nel Seicento in alcune circostanze particolari. Assai delicata fu la questione relativa alla bolla In coena Domini, il documento letto sin dal Medioevo nel giorno di Giovedì santo, nel quale la Chiesa elencava le violazioni delle proprie libertà ad opera di autorità temporali e pronunciava la condanna e la scomunica degli autori delle stesse. Nel 1568 Pio V aveva emanato una più ampia versione del testo che fu confermata dai successivi pontefici i quali curarono attentamente la regolare lettura della bolla: nel 1623 Urbano VIII istituì un comitato permanente di cardinali con l'incarico di controllare il rispetto dell'obbligo. Tale lettura diventava così uno strumento di grande rilievo per la salvaguardia dei diritti della Chiesa e per sollecitare i fedeli a contrastare la politica dei loro governi che fosse in contrasto con la tradizionale giurisdizione ecclesiastica. Di qui l'opposizione di molti principi, innanzi tutto dei sovrani spagnoli, e di governi, come quello della Repubblica veneziana. Momenti di grave contrasto segnarono, poi, i rapporti tra il papato e Luigi XIV di Francia. Il dissidio ebbe origine dal problema dell'estensione della cosiddetta régale, il diritto del re di nominare direttamente, durante la vacanza di una sede vescovile, i titolari dei benefici minori presenti nella diocesi. Tale diritto rientrava tra quelli riconosciuti alla Corona nei territori che a lei avevano fatto capo nella fase iniziale della monarchia e, di conseguenza, non era riconosciuto per le regioni meridionali che erano passate sotto il suo alto dominio in un periodo successivo. Sostenuto dal parere di giuristi di corte, secondo i quali la régale era diritto inalienabile della Corona, Luigi XIV nel 1673 estese a tutte le diocesi del Regno tale prerogativa, incontrando l'opposizione di due vescovi meridionali che si rivolsero alla Curia pontificia dopo aver chiesto invano la revoca del provvedimento. La questione fu esaminata da una commissione cardinalizia, sulla base del cui parere Innocenzo XI condannò l'editto regio e chiese al sovrano di revocarlo. La reazione di Luigi XIV fu decisa: convocata un'assemblea del clero di Francia, fece approvare da questa la Dichiarazione dei quattro articoli della Chiesa gallicana (19 marzo 1682) che enfatizzava le tradizionali prerogative regie in materia ecclesiastica e affermava la completa indipendenza del monarca dal papa e la sua superiorità sul clero nazionale. Il contrasto divenne, così, insanabile, tanto più che Innocenzo XI non esitò ad annullare le delibere dell'assemblea francese e a rifiutare l'investitura canonica ai vescovi da quel momento nominati dal re. Ma lo scisma fu evitato dai successivi avvenimenti: la morte del papa nel 1689 e la prospettiva di un nuovo conflitto contro Impero e Spagna suggerirono a Luigi XIV un atteggiamento più conciliante. Dopo un lungo periodo di trattative - nel corso delle quali svolsero un ruolo significativo sia i maggiori dignitari del clero francese, contrari all'aumento della loro dipendenza dal sovrano, sia il crescente bisogno del sostegno pontificio avvertito dal monarca per contrastare la diffusione di giansenismo e di quietismo nel Regno - si arrivò all'accordo del 1693: il nuovo pontefice Innocenzo XII riconobbe l'estensione della régale e concesse l'investitura canonica a tutti i vescovi nominati dal re dopo il 1682, mentre Luigi XIV ritirava, d'accordo con il clero francese, la Dichiarazione dei quattro articoli. Il lungo e difficile contrasto tra la Santa Sede e la Corona francese si intrecciò anche con la complessa vicenda del giansenismo. Questo nacque come proposta teologica sul tema della grazia, una proposta per più versi originale rispetto a quella definita a Trento. La riflessione sulla salvezza era proseguita anche dopo il concilio ed era approdata a conclusioni sensibilmente diverse tra loro. Nella polemica era intervenuta anche Roma: Clemente VIII e Paolo V si schierarono contro il molinismo (la dottrina del gesuita spagnolo Luis de Molina, autore del Concordia liberi arbitrii [...], edito a Lisbona nel 1588, che sosteneva la più completa libertà dell'uomo), ma non arrivarono a emanare una bolla di scomunica, anche per non indebolire l'autorità dei Gesuiti: Paolo V si limitò a imporre ai polemisti di por fine alla contesa e di non pronunciarsi se non dopo formale autorizzazione della Santa Sede. In questo clima culturale il teologo olandese Cornelius Jansen - Giansenio -, iniziò a comporre nel 1623 un'opera sul pensiero di s. Agostino. L'opera non era ancora stampata quando Giansenio morì nel 1638: i suoi amici la pubblicarono nel 1640 con il titolo di Augustinus. Il teologo accentuava i toni pessimistici di Agostino sulla natura umana, esaltava la potenza divina e l'intervento decisivo della grazia, dono concesso da Dio in assoluta libertà: solo i predestinati si salvano, ma l'uomo sceglie tra bene e male senza alcuna costrizione esterna. L'opera riaccese subito la polemica teologica. Approvata in Francia da Oratoriani, Domenicani e da parte dei docenti della Sorbona, venne attaccata violentemente sin dal 1641 dai Gesuiti - sostenuti dal potente cardinale Richelieu - i quali sollecitarono l'intervento del papa. Urbano VIII accolse la richiesta e condannò l'opera di Giansenio con la bolla In eminenti del marzo 1642 (ma pubblicata solo nel 1643). La condanna non pose fine alla polemica, tanto che nel 1650 l'assemblea del clero francese elaborò una sintesi delle idee esposte nell'Augustinus, articolandola in cinque proposizioni e chiedendo su di esse il giudizio della Santa Sede. Ancora una volta il papato si pronunciò contro le tesi gianseniste: nel 1653 Innocenzo X condannò le cinque proposizioni, nel 1656 Alessandro VII ribadì la condanna, nel 1657 l'assemblea del clero francese impose a tutti gli ecclesiastici di sottoscrivere un formulario di adesione al provvedimento pontificio. Ma ancora una volta la Santa Sede non riuscì a chiudere la disputa. I giansenisti più decisi rifiutarono di sottoscrivere il formulario, mentre alcuni vescovi si astennero dal promulgare le bolle di condanna. Sotto Clemente X fu trovato un compromesso: con la "pace della Chiesa" o "pace clementina" del 1669 giansenisti e ortodossi accettarono come sufficiente la sottoscrizione del formulario, evitando però di chiarire il significato dell'atto che per il papa e la gerarchia implicava la rinuncia alle dottrine condannate da Roma, per i vescovi giansenisti, invece, non toccava le tesi di Giansenio sulla grazia la cui condanna avrebbe coinvolto direttamente la dottrina agostiniana. Le difficoltà incontrate dalla gerarchia nella lotta contro il giansenismo derivarono anche dalla forza di diffusione che questo conobbe nel mondo ecclesiastico. Il giansenismo, infatti, era anche un insegnamento di rigore e di austerità che incontrava larghi favori nel clero e si legava a significative correnti riformiste presenti nella Chiesa della seconda metà del Seicento, soprattutto in Francia. Esso condannava le tante espressioni di morale accomodante diffuse nella Chiesa, le forme devozionali teatrali ed esteriori presenti nella devozione barocca, l'attrizione - il pentimento delle colpe, cioè, non per consapevolezza dell'errore, ma per timore della pena eterna -, il conformismo religioso che allontanava da un'adesione profonda alle verità di fede. Infine, proponeva un'idea ecclesiologica che si legava a quella formulata in ambienti della riforma cattolica, esaltava la centralità del vescovo e proponeva una limitazione degli Ordini religiosi. Anche per questo suo profilo, oltre che per le posizioni teologiche, il giansenismo aveva suscitato la decisa ostilità dei circoli più intransigenti della Curia romana e soprattutto dei vertici dell'Inquisizione, in particolare dei cardinali Giovanni Battista Pamphili - poi Innocenzo X -, Fabio Chigi - poi Alessandro VII - e Pietro Ottoboni - poi Alessandro VIII. La "pace clementina" riuscì ad attenuare, almeno sul piano formale, l'opposizione della gerarchia, ma non quella dei cardinali più conservatori. Essa, comunque, favorì la diffusione del giansenismo tra i fedeli e tra gli stessi ecclesiastici. In Francia, in particolare, il giansenismo si era anche avvicinato al movimento gallicano e una commistione dei due si trova nel Nouveau Testament en français avec des Réflexions morales sur chaque verset (pubblicato nel 1693 dall'oratoriano Pasquier Quesnel) in cui venivano estremizzate le posizioni gianseniste sulla grazia e ripetute le tesi gallicane contro il primato di Roma. La condanna della Chiesa non fu immediata, ma maturò in seguito alla crisi del cosiddetto "caso di coscienza": nel 1701 un parroco francese si era rivolto ai dottori della Sorbona per sapere se era lecito a un confessore assolvere un ecclesiastico il quale condanni le cinque proposizioni, ma sulla loro attribuzione a Giansenio si limiti a osservare un "rispettoso silenzio". Nel 1702 i teologi parigini avevano dato risposta affermativa al quesito, suscitando la reazione negativa non solo della Curia romana e dei Gesuiti, ma anche di molti vescovi francesi e dello stesso Luigi XIV, ora politicamente più vicino alla Santa Sede. La ritrattazione dei teologi della Sorbona si affiancò alla condanna di Quesnel e del "rispettoso silenzio", pronunciata da Clemente XI, d'accordo con il sovrano francese, con la bolla Vineam Domini del 1705. La resistenza di molti giansenisti - come le religiose di Port-Royal che rifiutarono di accettare la bolla e nel 1709 furono costrette a disperdersi in altri conventi, mentre il loro monastero veniva raso al suolo l'anno successivo per intervento dell'esercito regio - e il sostegno di alcuni vescovi, come l'arcivescovo di Parigi cardinale de Noailles, spinsero Luigi XIV - da tempo ostile al giansenismo che accusava di contestare ogni forma di autorità - a sollecitare un nuovo intervento pontificio. Con la bolla Unigenitus dell'8 settembre 1713 Clemente XI ribadì la condanna di Quesnel, delle idee di Giansenio sulla grazia e delle posizioni antiattrizionistiche assunte dai giansenisti, riaffermando l'esclusiva autorità del pontefice di pronunciarsi in ultima istanza sulla dottrina di s. Agostino. Nemmeno questa solenne condanna riuscì, comunque, ad aver ragione del giansenismo: il Parlamento di Parigi rifiutò di registrare la bolla giudicandola contraria alla tradizione gallicana e non pochi vescovi, tra cui il de Noailles, la respinsero. L'intervento di Luigi XIV piegò la resistenza del Parlamento, ma non evitò una ripresa del giansenismo che conobbe negli anni immediatamente successivi nuova fortuna tra i fedeli e nel clero più basso. L'evoluzione della cultura francese nel sec. XVIII, con il trionfo dell'Illuminismo, modificherà profondamente l'ambiente generale nel quale si erano dipanate le controversie religiose, attenuando i conflitti teologici e mettendo in primo piano il contributo giansenista alla riforma del costume ecclesiastico e all'affermazione di un austero rigorismo religioso. Il giansenismo non è, peraltro, l'unico movimento con cui la Chiesa entrò in dialettica nella seconda metà del sec. XVII. Correnti di profondo misticismo e di richiamo alla purezza evangelica maturarono nel corso del Seicento, legate alla tradizione della devotio moderna e arricchite dalle sollecitazioni al raccoglimento interiore che continuavano a essere presenti nella stessa devozione barocca. Così, ad esempio, il culto dell'eucarestia aveva favorito la nascita dell'idea della "riparazione", cioè della necessità di compensare il male commesso dagli uomini, e sollecitato la nascita della devozione al Sacro Cuore di Gesù, che conobbe una larga diffusione sin dagli anni Settanta, a partire dalla Francia. Negli stessi anni, poi, si ebbe una forte diffusione di scritti mistici e tra questi particolare accoglienza ebbero in Francia e in Italia quelli dello spagnolo Miguel de Molinos. Questi sosteneva l'ideale della quies, l'abbandono dell'uomo a Dio nel riposo e nell'assoluta inazione, nella contemplazione dell'amore divino, quies che comportava indifferenza per le opere e per le stesse aspirazioni personali e garantiva al fedele di fuggire in maniera assoluta le occasioni di peccare che ogni attività, anche la più meritevole, in sé racchiude. Il quietismo ebbe larga diffusione in Italia e in Francia e presenta alcuni punti in comune con il giansenismo - soprattutto per la propensione a una vita pienamente dedicata a Dio - dal quale, comunque, si distingue per l'accentuato misticismo e lo scarso interesse verso il problema della grazia e della salvezza individuale. Come il giansenismo, il quietismo incontrò l'ostilità dei circoli più conservatori della Curia e dell'Inquisizione. Le tesi di Molinos, inizialmente accettate da Innocenzo XI, furono dal medesimo condannate nel 1687 su pressione del partito retrivo. Riprese in Francia da François de Salignac de la Mothe-Fénelon, vennero definitivamente condannate nel 1699 da Innocenzo XII.

Trasformazione delle istituzioni temporali

Il sec. XVII è anche il secolo della grande arte barocca che nello Stato pontificio e soprattutto a Roma conobbe espressioni di straordinaria bellezza. La città doveva acquistare, nel programma della Santa Sede, un aspetto corrispondente al suo ruolo. Splendida per chiese, monumenti, palazzi, opere d'arte, Roma doveva anche esserlo per vita devozionale, spirituale, caritativa: numerose sono le iniziative assistenziali che si legano alla volontà di tutelare la bellezza dell'Urbe, allontanando dalla vista di quanti vi risiedevano e dei fedeli che vi giungevano dal di fuori, ogni forma di bruttura e perciò accentuando la funzione segregatrice di poveri, mendicanti e malati che le istituzioni caritatevoli avevano acquisito sin dal tardo Cinquecento. Interessanti evoluzioni conobbe anche il dominio temporale della Chiesa. A partire dagli ultimi anni del sec. XVI antiche signorie principesche scomparvero per estinzione della casata e il loro territorio fu devoluto alla Santa Sede: passarono al dominio diretto di questa il Ducato di Ferrara nel 1598, quello di Urbino nel 1625, mentre nel 1641 le armi pontificie occuparono il Ducato farnesiano di Castro. Famiglie signorili di lunga tradizione ridussero i loro domini, sostituite da nuove famiglie che grazie al nepotismo di papi e cardinali acquistavano larghi patrimoni: un fenomeno, questo, che nelle regioni intorno a Roma assunse aspetti consistenti, con la fondazione di domini delle casate dei Chigi, Borghese, Barberini, Pamphili in primo luogo. Infine, una perdurante crisi mercantile accentuò la stagnazione della vita produttiva dei grandi centri cittadini pontifici. L'appannamento delle attività mercantili favoriva nell'intera penisola lo spostamento in campagna del centro principale della produzione: anche nelle terre della Chiesa i ceti localmente dominanti si volsero soprattutto alla tutela e all'ampliamento dei privilegi dei loro domini e minor interesse mostrarono verso le antiche libertà municipali, che comunque vollero conservare quali garanti della loro tradizionale posizione in città. La continuità delle giurisdizioni comunali, la fondazione di nuove signorie territoriali, il riconoscimento delle loro giurisdizioni da parte della Santa Sede stanno a testimoniare della prosecuzione del tradizionale, articolato e composito pluralismo di ordinamenti nelle terre della Chiesa. Mancò un qualsiasi tentativo della Santa Sede di ampliare con la forza la propria autorità a scapito delle giurisdizioni locali: lo attestano, tra l'altro, le estesissime competenze giudiziarie delle signorie territoriali intorno a Roma, che risultano escludere ogni possibilità d'intervento della Santa Sede anche nei reati più gravi e pericolosi per l'ordine pubblico. E d'altro canto l'ordinamento istituzionale costruito dalla Chiesa per l'amministrazione delle terre di dominio diretto appare da una parte molto farraginoso e poco funzionale a un'efficiente gestione dei beni e dei diritti demaniali, dall'altra pienamente rispettoso delle libertà locali tradizionali. I distretti in cui si articolava l'ordinamento provinciale erano regolati - come ha evidenziato Christoph Weber¹⁰ - dal principio della dipendenza diretta dalla Santa Sede o da una città dominante e da quello del rango personale del funzionario cui il distretto era affidato. Quest'ultimo poteva essere nominato dal papa in Concistoro - il che accadeva per i cardinali legati -, o con breve pontificio - come avveniva per i cardinali legati, per i prelati governatori, per alcuni governatori dottori (perciò detti "governatori di breve") -, o, infine, con patente della Sacra Consulta, come avveniva per tutti gli altri governatori. La combinazione dei due princìpi portava alla complicata gerarchia delle circoscrizioni. Al vertice della scala gerarchica erano le Legazioni e le Presidenze: distretti estesi e importanti, esse riguardavano nel sec. XVI Avignone, Bologna, Campagna e Marittima, Ferrara, Marche, Patrimonio di S. Pietro, Perugia e Umbria, Urbino, senza escludere Spoleto, Camerino, Fermo e Ascoli che nello stesso secolo furono guidate per alcuni anni da un cardinale legato. Nel Seicento la Santa Sede volle ridurre il numero delle Legazioni e nella seconda metà del secolo esse rimasero nelle sole regioni settentrionali della Chiesa. Il gradino immediatamente inferiore era costituito dai "governi di prelati", affidati di regola a un prelato di Curia, ma fino alla metà del sec. XVII assegnati anche, in evidente contraddizione con le regole tridentine sulla funzione episcopale, al vescovo cittadino. Tale tipo di governo era assegnato ad alcune grandi città, come Roma, Ancona, Ascoli e Benevento, e a centri più piccoli, come Norcia, Orvieto e San Severino. I distretti affidati a cardinali legati o a governatori comprendevano, poi, circoscrizioni minori che, di regola, erano subordinate all'autorità di quelli e affidate a minori funzionari pontifici. Si tratta innanzi tutto dei governi dei "dottori" o "abati", affidati a ecclesiastici di rango inferiore, governi che si articolavano in due categorie: quelli affidati a prelati nominati con breve pontificio e quelli assegnati con patente della Sacra Consulta, i primi - detti "governi di breve" - erano gerarchicamente superiori ai secondi - chiamati "governi di Consulta" -, ma con loro si alternavano nello stesso distretto per cause del tutto occasionali. Si deve aggiungere che la mobilità di intitolazione non si limitava al passaggio da un "governo di breve" a un "governo di Consulta", ma assumeva aspetti ancora più rilevanti quando si esprimeva nell'alternanza della stessa circoscrizione tra "governo di prelati" e "governo di dottori", anche in questi casi con motivazioni contingenti non sempre chiaramente desumibili dalle fonti (ne sono esempi alcune città romagnole, come Cesena, Faenza, Forlì, Rimini e Imola, e alcuni centri dell'Umbria, quali Narni, Todi e Terni). L'assenza di una gerarchia distrettuale ben coordinata, peraltro, non si esprimeva soltanto nella mobilità interna all'ordinamento dei distretti, ma anche nella frequente confusione nelle relazioni tra le circoscrizioni medesime. Se, infatti, di regola all'autorità del legato o governatore erano subordinati i "governi di breve" e a questi ultimi rispondevano i "governi di Consulta", non pochi erano i casi in cui alcuni governi dipendevano direttamente dalla Santa Sede: e tale diretto collegamento poteva riguardare, come accadeva in Romagna, alcuni "governi di Consulta" e non quelli "di breve", di modo che i primi - formalmente inferiori ai secondi - si trovavano a godere di libertà ben superiori. Se volessimo leggere tale complessità istituzionale con le lenti del sistema statale affermatosi in Occidente dopo la Rivoluzione francese e la Restaurazione, finiremmo per giudicare incoerente, contraddittorio e inefficiente l'ordinamento provinciale della Chiesa. Si deve però ribadire che nel periodo in esame proseguiva - e sotto alcuni aspetti si aggravava - quel pluralismo di ordinamenti che caratterizzava il dominio temporale sin dal Medioevo. La Santa Sede non pretendeva di essere unica autorità superiore sulle sue terre, ma riconosceva di essere titolare di una delle tante sfere giurisdizionali ivi esistenti, le altre appartenendo ai vari titolari locali di dominium sulle terre medesime, le comunità cittadine, i signori territoriali, i signori fondiari, le singole chiese e i monasteri, in un complicato intreccio di competenze disciplinato dalla tradizione e dall'evoluzione concreta dei bisogni delle comunità e della forza dei gruppi dirigenti. Le carenze della gestione pontificia, allora, erano coperte dall'intervento delle altre autorità e finivano per limitare le loro conseguenze negative al solo esercizio dei poteri demaniali e camerali della Chiesa.

Nel Settecento

Tra la fine del sec. XVII e i primi anni del successivo l'ortodossia cattolica si caratterizza, soprattutto in Italia, per un nuovo afflato riformatore. Tale indirizzo - che trovò in Curia i suoi principali centri propulsori nella Congregazione del concilio e nella nuova Congregazione dei seminari, istituita nel 1725 - si espresse nel più pressante richiamo alla missione pastorale rivolto ai vescovi, nell'intensificarsi dei rapporti tra vescovi e parroci, nella ripresa dei sinodi diocesani. La cosiddetta "ripresa tridentina" dell'inizio del Settecento si collocava in un ambiente marcato dalla continuità della cultura religiosa precedente, con tutte le forme di controllo, disciplinamento, devozione, censura, repressione che abbiamo visto segnare il mondo cattolico dalla seconda metà del sec. XVI, ma anche delle iniziative caritatevoli e assistenziali, delle espressioni di religiosità autentica, di misticismo, di profonda spiritualità che costituivano parte integrante della medesima tradizione. La diffusione nei primi decenni del nuovo secolo della devozione del Sacro Cuore e delle confraternite alla stessa dedicate sta a dimostrare la persistenza di un tema significativo della devozione barocca, nel quale confluivano anche fermenti della tradizione mistica. Continuità confermata dall'impulso conosciuto in Italia nella prima metà del secolo dall'antico rito francescano della Via Crucis, soprattutto per iniziativa di s. Leonardo di Porto Maurizio. D'altro canto la Compagnia di Maria, istituita in Francia nel 1716 da Louis-Marie Grignion de Montfort e impegnata, in particolare, nell'attività missionaria, conferma la ricchezza di iniziative religiose spontaneamente maturate tra i fedeli. Alla continuità e al rinnovato vigore di temi precedenti si aggiunsero, poi, fermenti nuovi. Importanti suggestioni vennero dall'insegnamento di alta erudizione filologica del Mabillon e dei Maurini che, attraverso la ricostruzione ed edizione delle fonti documentarie dei primi secoli dell'era cristiana, conferiva nuovo fondamento alle attese di un ritorno alla Chiesa primitiva sempre presenti nel mondo cattolico. Significative aperture al pensiero filosofico-scientifico europeo troviamo in ambienti ecclesiastici particolarmente sensibili, con un interessante cambiamento di indirizzo rispetto al secolo precedente. Così a Napoli, dove già negli ultimi anni del sec. XVII si era acceso un originale dibattito sulla giurisdizione ecclesiastica, l'abate Celestino Galiani si appassionava allo studio delle dottrine di Newton e ne favoriva la diffusione, al di là di ogni conformità alla visione ortodossa del mondo. La maggior apertura verso le novità della cultura europea si espresse pure in una crescente attenzione al razionalismo che i primi illuministi cominciavano a propagare. Così, nella stessa Italia si formò una generazione di ecclesiastici contrari alle chiusure della Chiesa verso la letteratura d'Oltralpe e interessati ai temi di questa, quali la pubblica felicità, l'economia, lo studio scientifico del mondo naturale. Queste tendenze culturali trovarono punti di convergenza con aspetti del giansenismo, la cui influenza continuava a essere alta in molti ambienti ecclesiastici. Razionalismo e giansenismo concordavano nella critica alla devozione teatrale dell'età barocca, ai riti legati a tradizioni popolari, alla pratica conformista e superficiale. Contro quella tridentina, tacciata di superstizione e idolatria, cominciò a essere proposta una devozione diversa, ispirata a quello stesso principio della "moderazione" che si andava teorizzando per l'analisi dei problemi economici e sociali. Espressione primaria di tale indirizzo fu la "regolata devozione" formulata da Ludovico Antonio Muratori, che rifiutava gli eccessi del barocco e le sue pratiche di matrice popolare e proponeva un ritorno alla semplicità della Chiesa evangelica. Nei primi decenni del Settecento, cominciò a penetrare nel mondo cattolico una mentalità nuova che proponeva un'analisi critica dei problemi. Insieme con questa mentalità nuovi indirizzi cominciarono a maturare negli anni immediatamente precedenti la metà del secolo. In campo ecclesiastico si sollecitò un nuovo impegno nella formazione del clero per prepararlo ad affrontare i problemi che la nuova cultura mondana andava ponendo, si propose, quindi, una riorganizzazione dei seminari e una nuova attenzione alla centralità della funzione del parroco. La cultura religiosa, poi, arricchita dai risultati dell'erudizione storica, rinverdiva il mito del ritorno alla Chiesa primitiva e confrontava questa pretesa età dell'oro e le successive età medievale e tridentina. Entrati poi in contatto con le opere dei principali filosofi europei, alcuni ecclesiastici promossero un serio tentativo di aprire il pensiero religioso tradizionale al razionalismo e all'empirismo diffusi nella cultura laica. Fermenti di grande significato questi ora ricordati; ma il loro impatto sulla comunità dei fedeli rimaneva limitato alla ristretta cerchia delle persone di cultura. Il quadro del mondo cattolico dei primi decenni del Settecento risulta, infatti, ancora segnato dalla continuità della tradizione, nelle forme devozionali - con le tante processioni, riti, pellegrinaggi, cerimonie della pietà barocca -, nella costante azione di disciplinamento, nella continua moltiplicazione di luoghi di culto, nell'immutata partecipazione alle pratiche religiose. Una Chiesa ancora fortemente legata alla tradizione, complessa e per più aspetti contraddittoria del periodo precedente, che conobbe il suo momento più alto nel terzo decennio del secolo, in particolare durante il pontificato di Benedetto XIII. Il ceto colto europeo andava, peraltro, conoscendo in quel periodo una profonda trasformazione. Sin dall'inizio del secolo stava maturando un nuovo indirizzo tendente a tracciare una linea di confine tra la sfera religiosa e quella mondana, mettendo in discussione privilegi e libertà ecclesiastiche e soprattutto contestando l'autorità della Chiesa in materie diverse da quelle religiose. Tale indirizzo si diffuse in tutti i principali circoli intellettuali, dalla Francia alla Spagna, all'Impero asburgico, alla penisola italiana. Qui, in particolare, risulta rappresentato non soltanto da anticurialisti sostenitori dei diritti monarchici contro la Santa Sede come Pietro Giannone, ma anche da letterati e pensatori di ferma ortodossia e persino da ecclesiastici. In questo ambiente culturale si diffusero le idee illuministiche che predicavano il primato della ragione sulle religioni positive, considerate perniciose sopravvivenze del passato oscurantista e superstizioso. In questa prospettiva il solco apertosi sin dall'inizio del secolo tra cultura laica e cultura religiosa conobbe un ulteriore, deciso approfondimento. L'Illuminismo, allora, recuperò, accentuandolo, il carattere secolare e laico della cultura umanistica e rinascimentale: per la prima volta in maniera consistente dopo il concilio tridentino, i temi teologici, religiosi, spirituali persero il primato della riflessione e del dibattito nella cultura europea. Nello stesso torno di anni l'autorità politica della Santa Sede cominciò a conoscere una notevole flessione sia in campo internazionale, sia all'interno dei singoli Regni. Sin dalla guerra di successione spagnola apparve chiaro che le potenze europee conducevano una politica internazionale per più aspetti indifferente ai richiami della Santa Sede, mentre in molti Regni i sovrani vollero accrescere la propria giurisdizione unitaria a scapito degli ordinamenti di nobili, Comuni e Chiese. In questo clima i conflitti giurisdizionali acquistarono nuovo vigore. La vivacità dello scontro e la tenacia con cui i sovrani portarono avanti le loro richieste appare evidenziata dalla nuova stagione dello strumento del concordato, al quale era ricorsa la Santa Sede prima del concilio tridentino per regolare i suoi rapporti con sovrani particolarmente decisi a rivendicare la propria autorità in materia ecclesiastica e sui benefici della Chiesa e che era stato abbandonato dalla fine del sec. XVI. Concordati furono conclusi dalla Santa Sede nel 1727 con il Regno di Sardegna, nel 1738 con il Regno del Portogallo, nel 1741 con il Regno di Napoli, nel 1753 con quello di Spagna, nel 1757 con la monarchia asburgica per la Lombardia. I concordati, peraltro, non riuscivano a frenare il riformismo monarchico. In Austria l'azione graduale di Maria Teresa cominciava a colpire antichi privilegi della Chiesa e preparava l'opera più incisiva e decisa del figlio Giuseppe II. In Italia la politica anticurialista non era limitata alle corti borboniche di Napoli e Parma, ma riguardava altri Stati, come il Granducato toscano, dove una legge del 1751 eliminava l'antico istituto della manomorta, e la Repubblica di Venezia, dove un decreto del Senato del 1754 introduceva nuove regole per l'organizzazione ecclesiastica. Inoltre, all'interno di alcuni Stati andavano emergendo richieste del clero locale di maggior autonomia da Roma. Esempio per tutti era la Chiesa gallicana che i fermenti giansenisti avevano consolidato nella tenace tutela della tradizione di libertà dalla Santa Sede. E un altro esempio veniva dall'Olanda, dove la Chiesa di Utrecht combatteva vittoriosamente un lungo conflitto con Roma e affermava una consistente autonomia del suo episcopato dal centralismo curiale. Ridimensionata nel suo ruolo politico internazionale, nelle sue giurisdizioni temporali, nel suo centralismo e nella sua pretesa di egemonia culturale, la Chiesa continuava, comunque, a vantare la fedele ortodossia di cospicue masse di fedeli e alcuni successi nella riforma interna alla gerarchia. Anche se continuavano a trascinarsi antichi problemi - come il numero eccessivo di ecclesiastici secolari privi di cura d'anime, l'eccessiva differenza economica tra alto e basso clero, le rissose controversie tra Ordini religiosi, la dura polemica tra Gesuiti e giansenisti - era generalmente migliorato l'insegnamento nei seminari, più attenta si era fatta la scelta dei titolari delle diocesi (compito, questo, che Benedetto XIV aveva affidato a una speciale Congregazione), i vescovi avevano accentuato l'impegno pastorale in diretto rapporto con i parroci, nuovo impulso era stato impresso all'attività missionaria popolare, anche per iniziativa di Benedetto XIV che in occasione del giubileo del 1750 l'aveva ufficialmente rilanciata da Roma, si sollecitava una revisione del Breviario romano e delle forme liturgiche che apparivano più superate dai tempi. Ma l'equilibrio tra tradizione cattolica e novità culturali, che sembra intravvedersi nella prima fase del pontificato di Benedetto XIV, non si realizzò nei fatti: infatti attaccata dal sempre più aggressivo anticurialismo monarchico e contestata dalle più mature dottrine illuministiche, la Santa Sede decise di ricorrere agli strumenti repressivi della tradizione. Benedetto XIV, che nei primi anni di pontificato aveva mostrato non poche aperture verso le nuove correnti culturali, dopo la metà del secolo modificò indirizzo politico: nel 1751 con la bolla Providas Romanorum Pontificum rinnovò la condanna della massoneria già pronunciata da Clemente XII nel 1738; l'anno successivo condannò - non senza dubbi e incertezze - l'Esprit des lois di Montesquieu e dal 1753 al 1757 si pronunciò contro le opere di Voltaire. Il nuovo indirizzo fu proseguito e accentuato da Clemente XIII, il quale nel 1759 condannò l'opera di Helvétius De l'Esprit e l'intera Encyclopédie, nel 1763 l'Émile di Rousseau e nel 1766 ogni opera e dottrina non coerente con l'ortodossia cattolica. Sulla metà del secolo più determinata si fece, poi, la politica giurisdizionalistica di molti sovrani cattolici sollecitati a un'azione riformatrice dalle arretrate condizioni della società dei loro Regni e decisi sia a ridurre le potestà signorili della Chiesa e la sua influenza nella società, sia a intervenire nella sua organizzazione. Negli ultimi anni Cinquanta la polemica anticurialista si concentrò nella lotta contro la Compagnia di Gesù, istituzione emblematica della Chiesa tridentina, strumento primario dell'azione temporale della Santa Sede e titolare di grandi privilegi e di cospicue ricchezze. L'offensiva antigesuitica prese le mosse dal Portogallo dove il primo ministro marchese di Pombal, deciso interprete del riformismo illuminato, nel settembre 1758 fece arrestare e condannare a morte tre gesuiti accusati di aver attentato alla vita del re e, indifferente alla reazione del pontefice Clemente XIII, l'anno dopo dispose l'espulsione della Compagnia dal Regno. I tentativi di riconciliazione non approdarono a nulla. Anzi, l'esempio portoghese cominciò a essere seguito da altri Regni. La Francia, prima di tutti, dove il Parlamento di Parigi, sollecitato dai pensatori illuministi, sferrò un pesante attacco ai Gesuiti nel 1761 e convinse l'incerto re Luigi XV ad allontanare dal Regno la Compagnia nel 1764. La reazione del papa, che con la bolla Apostolicum pascendi del gennaio 1765 confermava la Compagnia in Francia, ebbe effetti opposti a quelli sperati dalla Santa Sede: la bolla fu condannata dai Parlamenti di Parigi e della Normandia e alimentò la solidarietà alla Francia degli altri troni in mano alla dinastia borbonica, Spagna, Napoli, Sicilia e Parma. Nel 1767 Carlo III espulse i Gesuiti dalla Spagna e successivamente ordinò al figlio Ferdinando di adottare uguale provvedimento per i Regni di Napoli e di Sicilia. Analoga richiesta fu avanzata nello stesso anno anche dal ministro Tillot, che guidava il Ducato parmense e che perseguiva con decisione una rigida politica anticurialista. La reazione di Clemente XIII, che richiamandosi all'autorità temporale vantata dalla Santa Sede sul Ducato di Parma cassò i decreti anticurialisti e scomunicò il Tillot, ebbe l'effetto di accentuare la coesione delle potenze borboniche, di fronte alle quali le altre autorità cattoliche - la monarchia asburgica, quella sabauda, Venezia - assunsero un atteggiamento prudente e non si schierarono dalla parte del papato. La fase acuta del conflitto terminò con la morte del papa: il suo successore, Clemente XIV, recuperò rapporti ufficiali e influenza in Europa e allo stesso tempo accolse le sollecitazioni borboniche per una soluzione del problema gesuitico. Con breve del 7 giugno 1773 il pontefice deliberò la soppressione della Compagnia, mentre veniva abbandonata la tradizionale lettura del Giovedì santo della bolla In coena Domini, contro la quale si erano da tempo appuntati gli attacchi dei governi riformatori. Nel periodo di più decisa rottura con la cultura illuminista e di più grave contrasto con il riformismo illuminato non tutta la Chiesa, comunque, si riconobbe nella chiusura aprioristica a difesa della più rigida ortodossia. Si delineò anche, soprattutto negli strati più colti degli ecclesiastici e dei pensatori cattolici, una corrente nuova che la storiografia ha definito con l'espressione "Aufklärung cattolica" o "cristianesimo illuminato" e che presenta aspetti particolarmente interessanti. Innanzi tutto venne teorizzato un nuovo impegno sociale: il rimedio per la soluzione dei mali era individuato nello sviluppo di forze economiche e sociali ispirate a un cristianesimo umanitario ed evangelico. Questi pensatori seppero cogliere i concetti nuovi di felicità e utilità sociale, ma allo stesso tempo, riallacciandosi alla grande tradizione assistenziale e caritativa della Chiesa, contrapposero all'utile individuale dell'etica illuministica la funzione sociale della religione, alla felicità egoistica della filosofia l'azione umanitaria guidata dall'autentica fede. Accanto a questo aspetto, altri ne presenta l'Aufklärung cattolica. Innanzi tutto l'impulso dato alla tensione per il ritorno alla purezza evangelica, che ora acquisì un carattere più deciso grazie al rinnovamento degli studi biblici e alla traduzione in italiano del Vecchio e del Nuovo Testamento, compiuta dall'abate, poi arcivescovo di Firenze, Antonio Martini e pubblicata tra il 1769 e il 1781. E soprattutto l'incontro con le correnti giansenistiche che continuavano a essere diffuse nella Chiesa avendo fatto proprie le antiche istanze riformatrici contro la gerarchia assenteista e impreparata, le credenze popolari, i riti teatrali ed eccessivi della devozione barocca. L'illuminismo cattolico raccolse molti temi del giansenismo, sostenne la necessità di combattere la secolarizzazione e il conformismo dei Gesuiti, propose di promuovere nuovi modi di istruzione del clero e dei fedeli, affidandosi all'attività pastorale quotidiana e continua dei vescovi e dei parroci, al modello delle loro opere concrete e della loro vita di austera semplicità e purezza. Alla pietà barocca venne contrapposta una devozione nella quale erano bandite esteriorità e teatralità e che esortava a una più profonda meditazione interiore. La nuova pietà si manifestò in maniera matura verso la fine degli anni Settanta come critica decisa non solo alle forme tradizionali della cultura religiosa, ma anche alle nuove pratiche collettive della persistente devozione popolare, e presenta due orientamenti diversi: quello che sollecitava la Chiesa a definire in termini più razionali i misteri della fede; quello che insisteva sull'importanza della religione e dell'autentica devozione in vista del benessere sociale. Espressione del nuovo indirizzo fu la dura critica mossa da taluno contro due significative forme devozionali della tradizione barocca e popolare, quella del Sacro Cuore e l'altra della Via Crucis. Ma la penetrazione dell'illuminismo cattolico nelle masse popolari rimase scarsa. I ceti meno acculturati continuarono a essere legati alla devozione tradizionale, rifiutandone le critiche e respingendo le proposte della nuova devozione razionale. Una difesa della tradizione che fu sostenuta anche dalla gran parte della gerarchia e dallo stesso papato, desideroso di consolidare la fedeltà dei fedeli in un periodo di forti trasformazioni. L'indifferenza per i nuovi indirizzi del secolo appare in particolare dominante nelle campagne, dove la penetrazione delle suggestioni illuministe, anche di quelle che si manifestavano nel pieno rispetto della fede cattolica, fu in pratica nulla. Ne derivò una nuova immagine del contadino, un'immagine del tutto capovolta rispetto a quella elaborata dalla Chiesa nel secolo precedente. Mentre, infatti, l'età post-tridentina presentava il contadino come persona ancora segnata dai tratti della brutalità naturale e perciò bisognosa dell'opera educatrice e salvifica della Chiesa, ora quello fu visto soprattutto come portatore di valori spirituali naturali che professava nella totale adesione all'ortodossia, in contrasto con i ceti acculturati i quali avevano perso la retta via e si vantavano di un'aristocrazia intellettuale che li allontanava dall'amore per il prossimo e li impoveriva spiritualmente.

Prima della crisi

Pressata dalle riforme dei principi illuminati, contestata nella sua pretesa di egemonia culturale dalla straordinaria fioritura di pensiero laico, la Chiesa viveva alla vigilia della rivoluzione una stagione difficile e complessa. Antichi mali continuavano ad affliggerla: l'inadeguatezza spirituale e pastorale di chierici e alti prelati, la mondanità di tanti ecclesiastici, l'eccessiva distanza tra i privilegi e la ricchezza dei vertici della gerarchia e il clero minore, il nepotismo, il mancato inquadramento di chierici privi di benefici la cui presenza continuava a essere significativa in molte regioni, tanto per indicarne alcuni. Mali antichi cui altri si erano aggiunti, come le dilanianti controversie tra ortodossi e giansenisti che, se avevano conosciuto nel corso del Settecento una progressiva attenuazione, avevano prodotto, comunque, una seria frattura tra i fedeli. Immutata nella sostanza era ancora la direttrice principale dell'azione della Chiesa che si proponeva disciplinamento e controllo dei fedeli in vista della difesa tenace dell'ortodossia. Ma la Chiesa non era solo repressione; continuava a essere spiritualità sinceramente vissuta, iniziative assistenziali e caritative e, soprattutto, centro della cultura e della vita di vasti strati della popolazione che l'indottrinamento tridentino aveva saputo plasmare profondamente. Era anche ricchezza di riflessione, con importanti aperture alla cultura contemporanea e spinte significative verso una religiosità individuale rigorosa e profonda. Alle difficoltà che andava incontrando nel vecchio mondo si aggiungevano, poi, quelle che la Chiesa viveva negli altri continenti. L'impegno missionario si era rinnovato con la fondazione nel 1622 della Congregazione di Propaganda Fide che, comunque, non riuscì a evitare gli attriti tra gli Ordini impegnati nelle missioni e, addirittura, costituì un ulteriore motivo di divisione all'interno della Chiesa dato che non pochi contrasti scoppiarono tra i vescovi missionari, nominati direttamente da Propaganda e perciò detti vicari apostolici, e i Gesuiti la cui presenza nell'attività di evangelizzazione era particolarmente rilevante. Non solo. I Gesuiti finirono con lo scontrarsi pure con Domenicani e Francescani anch'essi direttamente impegnati in diversi fronti di missione. Né i contrasti tra Ordini religiosi si risolsero nel Settecento: ne è un esempio la lunga vertenza sui riti cinesi nata dal tentativo dei Gesuiti di recepire in Cina nella liturgia cattolica forme di cerimonie locali, tentativo osteggiato da Domenicani e Francescani e definitivamente condannato da Benedetto XIV nel 1742. E nel sec. XVIII le monarchie iberiche stroncarono l'originale istituzione delle reductiones, comunità libere di Guaranì che i Gesuiti avevano creato in America latina, nella regione del Paraná, per offrire protezione e autonomia alle popolazioni indigene. Sulla metà del secolo le Corone spagnola e portoghese iniziarono ad attaccare le reductiones: l'espulsione dei Gesuiti dal territorio dei due Regni iberici - alla quale non fu estranea la questione americana - mise rapidamente fine all'esperienza della repubblica guaranì. Alla vigilia della Rivoluzione francese, dunque, la Chiesa presentava l'antica complessità di genuina pietà, purezza spirituale, censura repressiva, disciplinamento autoritario. Ma la società era cambiata, almeno nei ceti più elevati e più acculturati: il nuovo pensiero secolare non accettava più l'egemonia esercitata dalla Chiesa tridentina e rivendicava la propria, assoluta, libertà. Il cambiamento, all'inizio limitato a gruppi sociali ristretti, si affermerà in seguito con decisione, aprendo alla Chiesa dell'età contemporanea inediti problemi. NOTE: 1 J. Delumeau, Il cattolicesimo dal XVI al XVIII secolo, Milano 1976, p. 42. 2 P. Camporesi, Cultura popolare e cultura d'élite fra Medioevo ed età moderna, in Storia d'Italia, Annali, IV, Intellettuali e potere, Torino 1981, p. 132. 3 Negli ultimi decenni le indagini sul Concilio di Trento sono state numerose a cominciare dagli studi di Hubert Jedin, la cui opera più completa, Il Concilio di Trento, Brescia 1973, è indispensabile per ogni ricerca sull'assemblea. 4 J. Le Brun, Il cristianesimo e gli uomini alla fine del XVI secolo, in Nuova storia della Chiesa, diretta da L.J. Rogier-R. Aubert-M.D. Knowles, III, Torino 1996, pp. 252 s. 5 Di A. Prosperi v. in partic. Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Torino 1996. 6 O. Niccoli, La vita religiosa nell'Italia moderna. Secoli XV-XVIII, Roma 1998, pp. 167 s. 7 H. Schilling, Confessional Europe, in Handbook of European History 1400-1600, II, Leiden-New York 1995, p. 641. 8 Ibid., p. 647. 9 D. Sella, Italy in the Seventeenth Century, London-New York 1997, p. 160. 10 C. Weber, Legati e governatori dello Stato pontificio (1550-1809), Roma 1994.

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