L'Età dei Lumi: le scienze della vita. Nascita e sviluppo del vitalismo

Storia della Scienza (2002)

L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. Nascita e sviluppo del vitalismo

François Azouvi

Nascita e sviluppo del vitalismo

Indicare gli esordi e tracciare la storia delle dottrine meccaniciste sul vivente è tanto facile quanto difficile e incerto è fare la stessa operazione in rapporto al vitalismo. In questo caso c'è innanzitutto una ragione lessicale: i termini 'vitalismo', 'vitalista' compaiono tardivamente, e quando compaiono non sono rivendicati da coloro che la storia delle scienze mediche generalmente considera vitalisti. La circostanza è chiaramente attestata nel caso della Francia, come ha mostrato Roselyne Rey (2000). L'aggettivo sostantivato 'vitalista' ('i vitalisti') compare per la prima volta nel 1800, nei Principes de physiologie del medico Charles-Louis Dumas (1765-1813) che condivideva le idee dei suoi colleghi vitalisti Barthez e Bichat. Sono definiti 'vitalisti' quei fisiologi che non riconducono i fenomeni del vivente né alla materia ('materialisti') né all'anima ('spiritualisti'), ma a un principio intermedio che possiede alcune proprietà sia della materia sia dell'anima. I materialisti hanno generato i 'meccanici' e i 'chimici'; gli spiritualisti hanno invece dato origine agli 'animisti'. Il vitalismo ‒ la parola apparirà in francese un po' più tardi ‒ è introdotto sulla scena intellettuale in una posizione intermedia e dunque incerta: il principio vitale non dipende né dalla macchina né dall'anima, sebbene esso condivida parzialmente le proprietà di entrambi. Ciò è talmente vero che Paul-Joseph Barthez (1734-1806), che tutti gli storici della medicina concordano nel considerare il più insigne rappresentante del vitalismo in Francia nel XVIII sec., nella seconda edizione dei Nouveaux éléments de la science de l'homme (1806) rifiutò la definizione data fino ad allora di lui e del suo sistema da Dumas: non soltanto egli rifiutava di essere trasformato nel "capo di una setta", ma soprattutto contestava il modo in cui Dumas definiva il principio vitale, alla cui invenzione il nome di Barthez era effettivamente legato. Agli occhi del suo inventore, il principio vitale non era affatto una nozione intermedia fra l'anima e la materia; tale nozione era secondo lui un "essere di ragione", ovvero un'entità scolastica come quelle che giustamente l'epoca moderna ormai non accettava più. È necessario domandarsi che cosa fosse realmente il principio vitale di Barthez, ma occorre tenere presente ‒ come indizio della confusione in cui si trovava il concetto stesso di vitalismo, dunque come motivo della difficoltà per lo storico di ricostruire la storia della nozione ‒ il rifiuto da parte del suo fondatore di riconoscersi sotto l'etichetta coniata per designare il movimento al quale oggi lo riconduciamo.

Aporie e limiti del modello meccanicista

Il testo di Dumas dà un nome alla dottrina e nello stesso tempo definisce il quadro obbligato entro cui iscriverne la genesi: non si può caratterizzare il vitalismo senza dire ciò che esso non è, ovvero ciò da cui esso deriva, non fosse altro che per negazione. Non ci sono dubbi sul fatto che il vitalismo del XVIII sec. abbia le sue origini lontane nel meccanicismo cartesiano, del quale non cesserà mai di sfruttare le aporie. Non che Descartes avesse bandito dalla sua filosofia meccanicista ogni riferimento a un "principio di vita", come troppo spesso si crede. La conclusione de L'homme (pubblicato postumo nel 1662-1664), mentre da un lato esprime chiaramente cos'è il meccanicismo, dall'altro indica in modo evidente, a chi voglia leggervelo, dove risieda secondo Descartes il principio vitale:

Desidero che consideriate, dopo ciò, che tutte le funzioni che ho attribuite a questa macchina, come la digestione dei cibi, il battito del cuore e delle arterie, il nutrimento e la crescita delle membra, la respirazione, la veglia e il sonno; la ricezione della luce, dei suoni, degli odori, dei gusti, del calore e di tali altre qualità, negli organi dei sensi esterni; l'impressione delle loro idee nell'organo del senso comune e dell'immaginazione, la ritenzione o l'impronta di queste idee nella memoria; i movimenti interni degli appetiti e delle passioni; e infine i movimenti esterni di tutte le membra, che seguono così a proposito, tanto dalle azioni degli oggetti che si presentano ai sensi, che dalle passioni e dalle impressioni che si incontrano nella memoria, da imitare il più perfettamente possibile quelli di un vero uomo: desidero, dico, che consideriate che queste funzioni seguono tutte in modo naturale, in questa macchina, dalla sola disposizione dei suoi organi, né più né meno di quanto fanno i movimenti di un orologio o altro automa, in seguito a quella dei suoi contrappesi e delle sue ruote; per modo che non bisogna concepire in essa alcuna altra anima vegetativa, né sensitiva, né alcun altro principio di movimento e di vita che non sia il suo sangue e i suoi spiriti, agitati dal calore del fuoco che brucia continuamente nel suo cuore e che non è di natura altra da quella di tutti i fuochi che sono nei corpi inanimati. (Oeuvres, p. 202)

In quella che si può chiamare, in mancanza di un'altra parola, la 'biologia' cartesiana, il principio della vita è il calore e non l'anima, come nel caso di Aristotele, ma in un modo che ha perduto qualsiasi specificità in rapporto alla non-vita, poiché il fuoco cardiaco è della stessa natura di ogni altro fuoco. Il corpo degli animali, e quello dell'uomo con l'eccezione dell'anima puramente pensante che a esso è unita, è dunque strettamente equivalente a quello di una macchina, i cui movimenti procedono necessariamente l'uno dall'altro, per il gioco delle leggi del movimento che reggono tutti gli oggetti, che si tratti di astri, di palle da biliardo o di particelle elementari.

Nel contesto del XVII sec., ovvero di una scienza e di una filosofia la cui ambizione generale è quella di confutare l'aristotelismo e la scolastica che ne deriva, le clamorose dichiarazioni di Descartes in materia di fisiologia e di biologia danno ai contemporanei uno stimolo senza precedenti e nello stesso tempo pongono una serie di problemi insolubili. Confortati dalla scoperta della circolazione del sangue per opera di William Harvey (Exercitatio de motu cordis et sanguinis in animalibus, 1628), medici e fisiologi successori di Descartes si sforzano d'inquadrare i fenomeni del vivente in un meccanicismo rigido: leve, pulegge, molle ma anche storte e alambicchi sostituiscono nella vulgata fisiologica del XVII sec. le entelechie e altre anime vegetative o sensitive della tradizione. Questo iatromeccanicismo si sviluppa con una vivacità particolare nella scuola italiana: Giovanni Alfonso Borelli (1608-1679) si sforza di misurare la contrazione muscolare e specialmente la contrazione sistolica; il suo discepolo Marcello Malpighi (1628-1694), con l'aiuto del microscopio, si dedica a mettere in luce la costituzione fibrillare del corpo umano, trasponendo così le strutture meccaniche dal livello globale, in cui esse occorrevano secondo Descartes, al livello elementare: "le macchine del nostro corpo" sono composte, anche secondo lui, di fili, filamenti, canali e filtri. Tuttavia, è soprattutto Giorgio Baglivi (1668-1707) a elaborare, propriamente parlando, una teoria fibrillare sistematica, distinguendo due tipi di fibre, membranose e muscolari, nel quadro di una filosofia meccanicista coerente: Dio, dice ricordandosi probabilmente di Galilei, non ha usato che il compasso e il gesso del matematico per fabbricare la macchina animale.

I limiti del modello meccanicista strettamente inteso si rendono evidenti, tuttavia, nel momento stesso in cui esso trionfa. La teoria della fibra ‒ che nel Seicento è un dato di fatto per i fisiologi d'obbedienza meccanicista, poiché conduce a una rappresentazione decentrata del funzionamento del corpo, nella misura in cui è la parte elementare ad attivare la reazione ‒ sarà il vettore più chiaro dell'anticartesianesimo vitalista. Secondo lo stesso Baglivi, l'analogia tra la fibra e la machinula resta invocativa ed è significativo vedere il teorico italiano dotare la fibra motoria di una vis insita, di una forza innata: è precisamente con la reintroduzione della forza nella filosofia della Natura, in fisica come in fisiologia, che il modello cartesiano inizia ineluttabilmente a cedere. D'altra parte, prima di Baglivi, e prima ancora di Malpighi, Francis Glisson (1597-1677) aveva preparato la via a quella che sarà, nel Settecento, l'utilizzazione delle ricerche sulla fibra nel contesto vitalista, dotando la fibra non soltanto di una forza innata, ma di una proprietà d'irritabilità inseparabile da una sorta di percezione: naturale, sensitiva o animale. Sicuramente, nel pensiero di Glisson riviveva qualcosa dell'antica tripartizione aristotelica, ma non più sulla base di una teoria delle anime, bensì di una dottrina delle proprietà organiche intrinseche, cosa ben diversa e ben più ricca di sviluppi futuri. Soltanto nella seconda metà del XVIII sec. i teorici vitalisti riscopriranno tutta la portata anticipatrice di opere quali il Tractatus de natura substantiae energetica, seu de vita naturae (1672) e il Tractatus de ventriculo et intestinis (1677), nelle quali incontestabilmente è reintrodotto il valore operativo del concetto di vita.

Il vitalismo del Settecento si prepara dunque durante il secolo precedente. Ciò è chiaro se si guarda all'opera di tre fisiologi pressoché contemporanei, i quali in Francia, in Inghilterra e in Germania elaborano indipendentemente l'uno dall'altro una dottrina di tipo animistico: si tratta di Claude Perrault (1613-1688), Thomas Willis (1621-1675) e Georg Ernst Stahl (1660 ca.-1734). Essi hanno in comune, al di là delle differenze che in questa sede è inutile analizzare in dettaglio, la stessa certezza che il modello meccanicista in vigore sia inefficace o in ogni caso insufficiente per rendere conto dei comportamenti integrati dell'attività animale. Questo è particolarmente significativo in Perrault, del quale è chiara l'appartenenza alla 'nuova setta': il meccanicismo d'ispirazione neocartesiana non è mai smentito. Egli dà per scontato che gli organi del corpo siano veramente delle piccole macchine; la questione consiste nel sapere chi aziona queste macchine e come funzionano. Per via di un comando centralizzato? Tramite il solo gioco dei pesi e dei contrappesi? I suoi Essais de physique, pubblicati tra il 1680 e il 1688, sono ampiamente dedicati al compito di rispondere negativamente a queste domande; lo fanno dotando fin dall'inizio la fibra animale, muscolare e non, di una capacità 'peristaltica', che le assicura la spinta necessaria all'assolvimento delle funzioni vitali; in seguito, elaborando una dottrina generale dei rapporti fra meccanico e non-meccanico, che passa per la costituzione di una teoria dell'anima che non deve più nulla a Descartes. Il montaggio meccanico delle parti è considerato pressoché autosufficiente, ma con questo 'pressoché' s'introduce una dottrina risolutamente animista. Non è ragionevole ‒ sostiene Perrault ‒ pensare che l'anima si disinteressi del microfunzionamento di un corpo al quale essa tiene più che a tutto il resto, per occuparsi unicamente delle cose esteriori. In questo modo l'anima, ma un'anima estesa alle minime parti del corpo e che 'sente' là dove si trova, sorveglia l'intero funzionamento di una macchina che, a rigore, potrebbe fare a meno di essa ma, di fatto, non lo fa mai. Soltanto così Perrault può spiegarsi come le macchine che costituiscono il corpo degli animali possano assolvere quelle funzioni adattate e finalizzate che non corrispondono in nulla alla definizione di una macchina.

Ma è soprattutto dall'opera di Stahl che va emergendo, differenziandosene, il vitalismo del XVIII secolo. Molto chiaramente e fin dall'inizio, per l'enfasi posta dal fisiologo tedesco sulla definizione della vita tramite la sua capacità di resistere alla morte, esso si differenzia decisamente dal pensiero di Willis e di Perrault. La vita non è altro che questo potere di conservare una cosa eminentemente corruttibile. Nel pensiero di Stahl non c'è niente di più originario, di più fondamentale, di questa chiara comprensione del fatto che la vita è assente in una biologia meccanicista. Con un atteggiamento che sarà costantemente presente nei medici e nei fisiologi vitalisti del secolo, Stahl si riallaccia, al di là dei moderni, agli Antichi e soprattutto a Ippocrate. Tutto ciò che egli sa ‒ dice ‒ lo deve soltanto a loro; perciò il vitalismo, concepito nella sua versione animista, deve essere considerato come un tentativo di restaurare un sapere originario, poiché naturale, ma perduto.

Dalla convinzione che il corpo vivente, come composto di particelle eterogenee, sia votato alla disgregazione per il solo gioco delle disposizioni meccaniche e chimiche, Stahl giunge all'animismo passando per una serie di argomenti che sono gli stessi di Perrault e, più tardi, di Robert Whytt. Questi argomenti procedono in qualche modo per eliminazione: poiché si tratta d'invertire una tendenza che è nell''essenza' del corpo materiale, che cos'altro potrebbe esserne capace se non un principio incorporeo e immateriale? Quale altro principio incorporeo e immateriale conosciamo se non l'anima? Poiché vediamo l'anima produrre nel corpo e tramite il corpo certi movimenti, perché essa non potrebbe essere causa di tutti i movimenti vitali e ragione ultima della sua struttura?

Capovolgendo la convinzione cartesiana, in virtù della quale solamente per un "diritto particolare" ciascuno è autorizzato a chiamare suo il corpo al quale la sua anima è unita, Stahl ‒ e dopo di lui tutto il vitalismo del XVIII sec. ‒ ricolloca l'anima in un rapporto naturale di proprietà rispetto al corpo, designato come 'proprio'; quel rapporto naturale che era un dato di fatto nella tradizione aristotelica. Tuttavia l'anima di Stahl è nello stesso tempo un'anima postcartesiana, e in questo senso le facoltà di animazione che le sono proprie sono considerate inseparabili da una 'conoscenza' delle funzioni che essa dirige, rettifica, e soprattutto orienta secondo una finalità di cui i montaggi meccanici sono sempre privi. Per rispondere alle obiezioni dettate dal buon senso inevitabilmente suscitate dalla propria tesi, Stahl deve distinguere due modalità d'esercizio delle funzioni psichiche: una spontanea, immediata e priva di coscienza, chiamata logos, e una rappresentativa, cosciente e deliberata, definita logismos. Una distinzione inevitabile, già operata da Perrault per rispondere alle stesse obiezioni, e che deriva dall'adeguamento di una concezione dell'anima come potenza animatrice a un contesto postcartesiano.

Ai moderni Stahl riconosce dunque il merito di avere mostrato come sia ridicolo attribuire alle particelle elementari appetiti, desideri o avversioni. Se, nella formazione del feto, una certa particella di materia terrosa costituisce la testa e un'altra, d'identica natura, la tibia, non è per una tendenza locale della particella stessa, ma per l'esercizio globale, coordinato, dell'anima in quanto logismos. L'istanza del meccanico, di conseguenza, non è tanto negata quanto subordinata al potere finalizzato del non-meccanico. Semplificando un po', si dirà che il meccanismo è condizione necessaria del funzionamento organico, ma che, senza l'anima, questa condizione non è suscettibile di produrre alcunché.

Al livello più elementare, e dunque più universale, la vitalità si manifesta tramite una proprietà della fibra di cui Stahl riprende da Glisson, se non il nome, almeno la descrizione: il tono vitale. In virtù dei suoi principî, Stahl non fa della tonicità una proprietà locale, di cui sarebbe dotata la fibra in sé stessa o che si spiegherebbe tramite la sua struttura, ma l'espressione di una potenza generale e indivisa, quella dell'anima. Così come Perrault faceva del movimento detto peristaltico la molla ultima di tutte le funzioni organiche, Stahl fa della contrattilità della fibra il principio che regge le funzioni di secrezione e di escrezione, senza le quali né la nutrizione né la generazione sarebbero possibili. Senza questa concezione dinamica della fibra vivente, il vitalismo mancherebbe della prima delle sue condizioni di possibilità. Resta ancora da definirla con la necessaria precisione, liberarla dell'ipotesi animista e attribuirla come vis insita alla fibra stessa; ovvero, sarà necessaria ‒ per far questo ‒ l'opera di Albrecht von Haller (1708-1777). Non è esagerato dire che essa domina il suo secolo: per il numero delle esperienze sulle quali si fonda, per la chiarezza delle sue conclusioni e il carattere perentorio delle distinzioni che opera, costituisce in maniera indubitabile il 'monumento' rispetto al quale prenderanno posizione, in modo favorevole o contrario, tutti i fisiologi della seconda metà del Settecento.

La sintesi operata da Haller s'iscrive nella storia della teoria fibrillare. Per il fisiologo svizzero, la fibra è la componente ultima del corpo vivente, la parte elementare del corpo animale, che si tratti di muscoli, di vasi sanguigni, di ossa, di viscere o di cervello. La fibra animale è dotata innanzitutto di una capacità di contrazione, che Haller chiama 'elasticità' e che considera il primo grado della forza motrice dei viventi; essa resiste costantemente all'estensione e tende all'accorciamento. Questa elasticità è una 'forza morta', una tendenza che permane dopo la morte dell'animale; non ha dunque niente a che vedere con una proprietà vitale. A essa segue l'irritabilità, o 'forza innata' (vis insita), specifica delle fibre muscolari, che si traduce ugualmente nell'accorciamento della fibra quando questa viene toccata da un corpo estraneo, ma anche, e più frequentemente, in un alternarsi di contrazioni e rilasciamenti. Contrariamente all'elasticità, l'irritabilità è una proprietà della vita: se permane dopo la morte o in muscoli escissi, è soltanto per poco tempo, perché è una forza vivente, che produce il movimento cardiaco, ma anche le contrazioni dell'intestino, organo eminentemente irritabile, quelle dello stomaco, della vescica, e così via.

Per finire, la forza nervosa è il movimento prodotto nei muscoli volontari tramite la sola azione dei nervi. Come l'irritabilità, essa risiede nella fibra muscolare e si traduce nella contrazione o nel rilasciamento, ma non deve essere confusa con la prima, ed è proprio alla fondamentale distinzione fra di esse che Haller tiene massimamente. La forza nervosa, nello stesso tempo in cui produce la contrazione muscolare volontaria (e anche, in alcuni casi, la contrazione spasmodica di certi organi sottratti all'influenza della volontà), controlla interamente la sensibilità; soltanto una fibra innervata, infatti, è in grado di dar luogo a una sensazione tramite il trasferimento dell'impressione al sensorium commune, ovvero all'anima. Tutto sta in questa distinzione, rigidamente effettuata, fra l'irritabilità e la sensibilità, fra le parti irritabili e le parti sensibili. L'irritabilità non dipende né dal nervo né dalla volontà; la sensibilità non dipende dall'irritabilità, non ha alcun rapporto funzionale con essa. Se l'irritabilità è già una forza vivente, a fortiori lo è la sensibilità: la sensazione è limitata alla vita, all'integrità del nervo che la trasmette e alla presenza di un'anima che la percepisce.

Il dualismo di questa dottrina, che relega interamente l'irritabilità nell'insensibilità e la sensazione in un'anima situata nel centro di controllo, è ciò che ne rende facile l'esposizione. È meno facile, in compenso, caratterizzarla dal punto di vista dei suoi rapporti con il meccanicismo e con il vitalismo. La teoria dell'anima sulla quale essa è basata, e che la colloca agli antipodi dell'animismo, la avvicina in qualche modo a un cartesianesimo scevro della teoria dell'unione sostanziale. Poiché il mio corpo, sostiene Haller in De partibus corporis humani sensilibus et irritabilibus (1753), "non è affatto abitato dalla mia anima, né da alcuna delle parti di quest'anima, un dito tagliato dal mio corpo, un pezzo di carne tolta alla mia gamba, non hanno alcun legame con me" (ed. 1755, p. 47). L'anima non è amputata quando lo è la gamba. Descartes, così sovente e così a torto accusato di aspirare a un'estrema purezza, non lo avrebbe mai scritto, non ritenendo che l'anima fosse nel corpo come il comandante nella nave; per Haller, al contrario, sembra che l'anima sia esclusivamente confinata nel ruolo di pilota della macchina corporea.

Ma questa macchina corporea è veramente una macchina? Haller non esclude la possibilità, in prospettiva e come ideale, di pervenire a una conoscenza delle 'cause meccaniche' delle funzioni del corpo. La fisiologia non è forse già arrivata a conoscerle nel caso del funzionamento dell'occhio? Occorre inoltre intendersi su quelle che si definiscono 'cause meccaniche', poiché Haller, come tutti i suoi contemporanei, non si interessa in alcun modo alle 'cause prime'. Dirà un giorno a Bonnet: "io non spiego niente, non do altro che dei fenomeni" (The correspondence, p. 566). Non si illude neanche di trovare la causa meccanica per cui il nervo provoca movimento del muscolo, né quella tramite la quale agisce l'irritabilità. Al contrario, egli non dispera di poter calcolare l'effetto di questa forza, la sua proporzione con lo stimolo, la durata dell'impulso motorio, e così via, esattamente come Newton ha calcolato l'effetto della gravitazione senza fare ipotesi sulla natura della causa gravifica.

Da questo derivano i suoi giudizi sui predecessori, che consentono di delineare con certezza il modo in cui lo stesso Haller avrebbe risposto alla domanda: 'meccanicismo o vitalismo?', ammesso che per lui avesse un senso. A Descartes egli non rimprovera il meccanicismo in sé, ma un meccanicismo cieco, che tende al materialismo, e, soprattutto, una dottrina che produce romanzi piuttosto che scoprire consecuzioni reali. A Stahl, riconosciuto come un uomo dal genio penetrante ma privo dell'arte di esprimersi, rimprovera di aver attribuito all'anima il potere che egli dà invece alla sola fibra, pur ammettendo l'affinità del suo sistema con la dottrina dell'irritabilità. A Hoffmann e a Boerhaave, Haller rimprovera invece lo spirito di sistema, non il progetto stesso di rendere conto in modo meccanico delle funzioni vitali. "Il 'meccanismo' dei movimenti del corpo umano è senza dubbio l'oggetto dei desideri più ardenti del vero medico"; tuttavia, gli autori "audaci, ma pieni di talento", che hanno creduto di poter individuare le cause meccaniche di vari movimenti, hanno fallito. È chiaro, in ogni caso, che Haller non disprezza i loro sforzi: questi lavori, "nel momento in cui saranno fondati sulla conoscenza esatta dei fenomeni e della struttura, avvicineranno la medicina alla perfezione" (Méchanisme, p. 876). Comunque, stabilire se e in quale misura la dottrina di Haller debba essere considerata vitalista ha molto meno importanza del riconoscimento che proprio a partire da essa, e per opporvisi, sono state elaborate le grandi dottrine vitaliste del secolo, in modo pressoché simultaneo, in Francia nella Scuola di Montpellier con Barthez e Bichat, in Scozia con Whytt e soprattutto Hunter, e in Germania nella Scuola di Gottinga con Blumenbach.

L'affermarsi della filosofia vitalista

L'importanza del ruolo svolto dal "meccanicismo rinnovato" di Haller si manifesta immediatamente nella dottrina di Robert Whytt (1714-1766), il quale ingaggiò con il fisiologo svizzero una celebre polemica, fondamentale per lo sviluppo del vitalismo. Occorre d'altronde chiarire che l'opera di Whytt non è vitalista in senso rigoroso, ma animista, anche se il suo autore rifiuta di essere assimilato a Stahl. È come se, in reazione al neomeccanicismo halleriano, un fisiologo preoccupato della specificità dei fenomeni del vivente, e sperimentatore non meno rigoroso del rivale Haller, non potesse costruire un modello alternativo al suo, che integrasse i protocolli sperimentali moderni relativi all'irritabilità e alla sensibilità, se non andando prima 'troppo lontano' nella direzione del riconoscimento delle proprietà vitali irriducibili al meccanismo. Nel suo An essay on the vital and other involuntary motions of animals (1751), Whytt scrive senza la minima ambiguità: "il corpo umano non deve essere considerato, come per troppo tempo hanno fatto numerosi fisiologi, come una macchina, congegnata in modo così raffinato che solo per la forza della sua struttura può compiere e perseguire i diversi movimenti vitali; queste cose oltrepassano di molto i poteri del meccanismo!" (pp. 361-362). L'organismo, secondo Whytt, è al contrario un sistema, il cui potere di integrazione e adattamento dipende interamente da un principio attivo senziente che non è altro che l'anima. Whytt sostiene che nell'uomo si trova un principio senziente, intelligente, che è nello stesso tempo la fonte della vita, delle sensazioni, del movimento e della ragione, e che, in base alle leggi della sua unione con il corpo, esercita il suo potere e la sua influenza sugli organi che mette in azione. Lo sforzo di Robert Whytt consiste dunque nel mostrare che le diverse esperienze invocate da Haller a sostegno della sua distinzione fra irritabilità e sensibilità, che presumono una completa dissociazione tra le funzioni del nervo e quelle del muscolo, non provano né quella distinzione né questa dissociazione. Vi è reazione d'irritazione soltanto nella misura in cui è sentita da un organismo al quale essa conviene o nuoce e che non reagisce in funzione della quantità dello stimolo, ma del senso vitale che lo anima. In tutti i casi che secondo Haller sarebbero riconducibili alla categoria dell'irritabilità, Whytt fa intervenire da una parte i nervi, dall'altra l'anima, non in quanto ragionevole ma come principio senziente. Il fatto che questa sensazione non sia avvertita non crea alcun problema a Whytt, per il quale la mancanza di coscienza non implica l'assenza dell'anima. In questa convinzione c'è senza dubbio una cesura rispetto alla tradizione classica, in origine cartesiana e poi ripresa da Haller, secondo la quale una sensazione non sentita sarebbe un paradosso insostenibile; il vitalismo, nella sua versione animista e non, passa al contrario per l'accettazione di una sensibilità inconscia. Nella Scuola scozzese, al seguito di Whytt, James Johnstone la teorizzerà, nel quadro di una dottrina risolutamente vitalista, attribuendo ai gangli nervosi il ruolo di "piccoli cervelli" (An essay on the ganglions of the nerves, 1764 e 1771). Nel suo saggio intitolato Cui bono? or, physiological and pathological observations on the functions of the visceral nerves (1795) compaiono d'altronde i termini 'inconscio' e 'inconsapevolezza'.

Tuttavia è nell'opera di John Hunter (1728-1793) che, all'interno della Scuola scozzese, si trova la concezione più chiaramente articolata in favore di una fisiologia vitalista: le sue Lectures on the principles of surgery (1786-1787) costituiscono infatti un vero e proprio manifesto in favore del vitalismo. Come Stahl ai suoi tempi, Hunter è animato dalla convinzione che i fisiologi moderni, ossessionati dalla chimica e dalla meccanica, abbiano interamente perso di vista la vita. Egli ritiene che l'aspetto meccanico e quello chimico corrispondono ovviamente a qualcosa, ma non a qualcosa del vivente in quanto tale: la vita è potere di conservazione e di riproduzione; la natura chimica e le componenti meccaniche che si dice appartengano al vivente non risultano che da una decomposizione post mortem. Soltanto dopo, quando la vita ha abbandonato un organismo, appare la composizione chimica dei corpi. In altri termini, la vita è il potere d'impedire alla natura corporea di ritornare al livello puramente chimico che appartiene alla Natura inorganica. La filosofia chimica e meccanica abbracciata dai fisiologi perché è la più facile, è "una filosofia da cadavere"; i viventi godono al contrario del potere di produrre le loro forme e di arrivare a un grado elevato dell'esistenza. Non che l'aspetto chimico o quello meccanico non siano importanti: ciascun movimento effettuato è certamente un fenomeno meccanico e le operazioni vitali necessitano nella stessa maniera di componenti chimiche, ma né l'uno né l'altro possono essere la causa prima degli effetti prodotti in un corpo vivente.

Qui evidentemente l'appello a un principio vitale diventa necessario: la materia animale è dotata di un principio chiamato 'vita'. Hunter ha un sentimento molto vivo del divario esistente fra i nostri concetti e il principio vitale stesso: tanto la vita è difficile da comprendere a causa dell'estrema complessità degli effetti che produce, quanto è semplice, nell'uomo come nell'animale, la sua modalità di azione. La vita fa con semplicità ciò che noi comprendiamo a fatica: Bergson, molto più tardi, ripeterà cose simili. Essa è dunque qualcosa di aggiunto alla materia animale, che già di per sé ha un'organizzazione più complessa rispetto alla materia bruta. Quando essa è disposta nel modo giusto, riceve il principio vitale, che in seguito può essere distrutto; di conseguenza, la nuova sistemazione dalla quale risulta la vita non deve essere confusa con la disposizione che presiede alla formazione delle parti o degli organi, disposizione che probabilmente, dice Hunter, è una sistemazione meccanica. Il principio vitale "non è meccanico, non proviene da un principio meccanico e neppure è legato a esso" (Works, I, p. 219).

Poiché in questo caso i concetti difettano, Hunter, come tanti altri vitalisti di fronte alla stessa necessità, fa ricorso a un paragone per rendere il modo in cui appare ed è presente la vita nelle strutture fisico-chimiche originali. Si prenda l'esempio dell'elettricità: una barra di ferro elettrizzata ha rigorosamente lo stesso aspetto di una barra di ferro non elettrizzata. E come per la vita, la virtù magnetica non sembra dipendere dalla modalità di formazione di alcuna delle sue parti. Il paragone del principio vitale con una molla è invece inadeguato: la molla non è la causa immediata che del primo movimento, mentre il principio vitale è la causa immediata dell'azione in tutte le parti dell'animale, in tutte le sue funzioni. Ogni particella di materia animale è dotata di vita, la più piccola parte che si possa isolare è vivente tanto quanto l'insieme. Con parole diverse da quelle di Hunter: la vita è un'attività immanente che non si può frammentare.

La mancanza di concetti adeguati, che Hunter ha il merito di segnalare e che sembra considerare caratteristica di una fisiologia vitalista, si rende evidente nel momento in cui egli tenta di dire di quale tipo sia l'azione vitale, dotata, a differenza di qualsiasi meccanismo, di una teleologia indiscutibile. Non abbiamo espressioni che possano rendere integralmente tutte le idee relative all'economia animale; non ci sono parole per esprimere la causa di queste azioni che si eseguono nel corpo come se esso avesse la coscienza di quanto sta per accadere. In mancanza di un altro termine, Hunter propone quindi di usare la parola 'coscienza' per rendere conto dei fenomeni quasi-finalizzati: qualche anno più tardi, saranno necessarie a Kant tutte le risorse della filosofia per risolvere questo problema. Un esempio curioso di questo tipo di conoscenza del vivente è fornito da Hunter quando scrive: "Se si potesse concepire che qualcuno metta la sua mano nello stomaco di un leone e la tenga là senza impedire l'azione digestiva, [si vedrebbe che] la mano non sarebbe digerita; ma se fosse la mano di un uomo morto a essere messa nella stessa maniera, che questa mano sia o meno staccata dal corpo, essa sarebbe digerita" (Essays and observations on natural history, anatomy, physiology, psychology, and geology, I, p. 147). Ancora una volta, la vita è considerata capacità di resistere alla decomposizione della morte.

L'importanza di Haller nella genealogia del vitalismo non emerge in maniera meno evidente dal confronto con la Scuola di Montpellier, di cui Bordeu e Barthez sono le figure meglio identificate ma non le sole significative. Théophile de Bordeu (1722-1776) esordisce, dopo la sua tesi del 1742, con le Recherches anatomiques sur la fonction des glandes et sur leur action (1751), che mettono in difficoltà il modello meccanicista sull'esempio della secrezione e dell'escrezione: considerare le ghiandole come una sorta di setacci, in cui le dimensioni dei pori e quelle delle particelle spiegherebbero una certa operazione in rapporto agli umori che provengono dal sangue e non un'altra, vuol dire accontentarsi di chiacchiere. Bordeu propone allora di sostituire l'impossibile spiegazione meccanicista con la considerazione di "una specie di sensazione" che presieda alla scelta, da parte della ghiandola, delle particelle da filtrare o meno. Il suo ricorso a una metafora psichica, accompagnata d'altra parte, anche in questo caso, dal riconoscimento della povertà dei concetti che dovrebbero corrispondere ai fenomeni del vivente, è chiaramente indicativo di una posizione vitalista. Questa forza organica che vigila incessantemente (Stahl non è molto lontano) deve essere considerata una proprietà della materia? Bordeu non si pronuncia, desideroso com'è di restare nel dominio delle espressioni metaforiche, prima fra tutte quella che assimila l'organismo a uno sciame d'api, e considera ciascun organo non già un animale, ma una sorta di macchina a sé che concorre alla vita generale del corpo. In questo caso, non c'è dubbio, il termine 'macchina' deve essere preso come una metafora, poiché l'idea alla quale Bordeu tiene è, al contrario, quella di 'vita generale' come composizione, e non semplice somma, delle vite particolari.

Tutto predispone Bordeu, come Whytt, a entrare in polemica con Haller, dal momento in cui l'opera di quest'ultimo acquista fama. Le Recherches sur le pouls (1754), poi le Recherches sur l'histoire de la médecine (1768) e le Recherches sur les maladies chroniques (1775) polemizzano esplicitamente con la distinzione fra sensibilità e irritabilità, alla quale Bordeu sostituisce una concezione scalare, o progressiva, di "specie" diverse di sensibilità, fra una "sensibilità puramente vitale", che non è altro che la contrattilità o irritabilità halleriana, e il "sentimento", al quale partecipa pienamente l'anima. A questa, però, non attribuisce alcun ruolo propriamente vitale, nel senso di Stahl; l'animismo dell'autore della Theoria medica vera non è mai, secondo Bordeu, accettabile. La sua concezione, come quella della Scuola di Montpellier, è caratterizzata piuttosto da una collocazione intermedia fra gli "eccessi" dell'animismo e le pretese dei meccanicisti; è chiaro tuttavia che egli ritiene di doversi distinguere più dai secondi che dal primo. "Che ci si liberi, una volta per tutte, di queste molle, di questi plotoni di vasi, di queste fibrille, di queste pressioni, così come di questi globuli, di questi ispessimenti, di questi punti, di queste linfe, di questi martelli e di tanti altri piccoli attrezzi da officina meccanica di cui il corpo vivente è stato riempito, e che furono, per così dire, i giocattoli dei nostri padri" (Bordeu, Oeuvres, p. 514).

Bordeu si schiera con l'opinione prevalente nella Scuola di Montpellier, secondo la quale il corpo animale contiene un "principio di vita e d'azione dipendente dalla sua essenza". E l'essenza della vita consiste in una sorta di movimento e di sensazione, o meglio in una disposizione a queste due modificazioni. Da qui l'importanza dei nervi in questa fisiologia della sensibilità generalizzata: tutti gli organi sono prolungamenti dei nervi, e ciò è confermato agli occhi di Bordeu dall'embriogenesi, il feto non essendo altro che un "filamento nervoso" unico, a partire dal quale si costituiscono i diversi organi. In virtù delle corrispondenze che li uniscono e li fanno partecipare alla vita generale, essi sono ciascuno al tempo stesso causa efficiente e causa finale. È questo che rende assolutamente chimerica la pretesa dei meccanicisti: nelle leggi dell'economia animale c'è un'arte così meravigliosa che non la si potrà mai imitare. Né i chimici né i meccanici riusciranno mai a produrre il sangue o una macchina che assomigli, per esempio, al cuore; le leggi della chimica e della meccanica sono troppo lontane da quelle della Natura, dunque occorre osservare i fenomeni che si producono nel corpo vivente e ammirare il genio che è all'opera nel più piccolo degli organi.

Bordeu, contrariamente a Barthez, non ha teorizzato la propria posizione epistemologica; tuttavia, a causa del suo rifiuto tanto dell'animismo quanto del meccanicismo, dell'attribuzione alle parti elementari del corpo vivente di una forma di sensibilità sorda, della sua concezione dell'organismo come un tutto diverso dalla semplice somma delle sue parti, egli ha elaborato una dottrina autenticamente vitalista, divenuta il simbolo di quella famosa Scuola di Montpellier la cui importanza per la diffusione del vitalismo nel XVIII sec. è ben nota. Il lascito decisivo delle idee di Bordeu, in questa circostanza, sarà ripreso da due collaboratori dell'Encyclopédie di Diderot e d'Alembert: Henri Fouquet (1727-1806), autore in particolare dell'articolo Sensibilité, Sentiment, e soprattutto Jean-Jacques Ménuret de Chambaud (1733-1815), autore di numerosi articoli tra i quali Inflammation, Oeconomie animale, Observation, Pouls, Mort. Entrambi diffonderanno fra il pubblico non specialistico dell'Encyclopédie una sorta di vulgata del vitalismo, sviluppata soprattutto a partire dalle idee di Bordeu. Infine, non va taciuta l'utilizzazione, certamente molto libera, delle idee di Bordeu da parte di Diderot in Le rêve de d'Alembert.

Resta il fatto che Bordeu non ha mai ritenuto di dover produrre un concetto per designare ciò che il suo collega Barthez chiamava "principio vitale": "Io chiamo Principio vitale dell'uomo", è scritto all'inizio dei suoi Nouveaux éléments de la science de l'homme (1778), "la causa che produce tutti i fenomeni della vita nel corpo umano" (p. 1). E Barthez non ha certo atteso questa data per lanciare il suo appello; fin dalla sua tesi del 1772, Oratio academica de principio vitali hominis, le caratteristiche essenziali della dottrina vitalista sono infatti già definite: rifiuto 'simmetrico' tanto dell'animismo di Stahl quanto del meccanicismo, decisa subordinazione dellasensibilità all'irritabilità, irriducibilità delle funzioni vitali a proprietà di strutture determinate, sussunzione delle facoltà vitali sotto le due nozioni di sensibilità e movimento. Conformemente a quella che sarà la sua posizione epistemologica durante tutta la carriera, Barthez si propone soltanto di escludere le invenzioni arbitrarie dei suoi predecessori e di "arrivare ai fenomeni". L'essenza del principio vitale è "sepolta in una profonda oscurità"; è dunque vano pretendere di giungere a un'idea chiara della sua natura; tutt'al più si può sapere, a priori, che non si tratta di un essere intermedio fra l'anima e il corpo, poiché una nozione intermedia fra due nozioni contraddittorie non può essere che un "essere di ragione".

L'opera che conferisce alla dottrina del principio vitale tutta la sua fama sono i Nouveaux éléments de la science de l'homme, pubblicati nel 1806 in una seconda edizione ampliata, informati in linea di principio a un pensiero rigorosamente sperimentale. Barthez vuole attenersi strettamente alla considerazione dei fenomeni e il principio vitale non interviene che nell'intento di risparmiare ipotesi inutili: "Il nome di questa causa è indifferente, e può essere scelto a piacere. Se io preferisco quello di principio vitale, è perché esso presenta un'idea meno limitata rispetto alle espressioni impetum faciens, sensibilità, irritabilità o altre, tramite le quali è stata designata la causa delle funzioni della vita" (Nouveaux éléments, 1778, pp. 1-2). Una nota rinvia ad Aristotele, esattamente al De generatione animalium, con questo riconoscimento: "è il primo ad aver adottato l'espressione di principio vitale degli animali". Se il nome che Barthez sceglie è in effetti indifferente, tuttavia gli equivalenti approssimativi che propone sono illuminanti: impetum faciens, sensibilità, irritabilità e così via. Per quanto il principio vitale sia "trascendente" rispetto all'ordine meccanico e fisico, esso tuttavia non è una forza di natura diversa da quella che è già stata identificata con i nomi di irritabilità o di sensibilità; semplicemente, l'idea connessa all'espressione 'principio vitale' è "meno limitata" di quelle associate a questi nomi, che rinviano a certe funzioni e non ad altre.

Un primo errore, volendo interpretare il pensiero di Barthez così come si presenta, sarebbe dunque quello di fare del principio vitale una causa prima. In proposito l'autore è assolutamente chiaro: le cause prime in filosofia naturale sono fuori della nostra portata e ci si deve attenere a uno scetticismo invincibile sulla natura del principio della vita. O meglio, la vaghezza che inevitabilmente si lega a tale nozione o, se si preferisce, il carattere astratto di questa concezione è una garanzia della sua pertinenza: è per aver creduto che si potesse conoscere la causa prima della vita, che i fisiologi l'hanno rinchiusa entro una definizione ristretta (impetum faciens, sensibilità, ecc.). Barthez intende dunque in modo volutamente molto ampio il suo concetto perché sia soltanto operativo. D'altronde, per pensare questa causa, che non è prima e non lo sarà mai, egli dispone di una categoria filosofica: quella di causa sperimentale, che non è una categoria di causa diversa dalla causa prima, ma è quella stessa, nella misura in cui è conosciuta non nella sua essenza, ma nella sua esistenza, nei suoi effetti.

Per negazione, si può dire che il principio vitale non deve essere conosciuto né tramite nozioni di ordine materiale né mediante nozioni mutuate dall'anima. Stahl e gli animisti hanno stabilito il primo punto: ciascun movimento vitale degli organi è decisamente 'al di sopra' dell'azione di qualsiasi causa meccanica che gli si possa ragionevolmente attribuire. Per stabilire il secondo punto, Barthez parte dal fatto che l'anima è un essere semplice, di conseguenza non in grado di rendere conto dell'enorme numero di movimenti e di sentimenti che hanno luogo in ogni istante in un organismo. Le volontà libere e ragionate di un'anima pensante non potrebbero dunque sostituirsi al principio vitale. Né più adatte sono l'irritabilità o la sensibilità, e a questo proposito Barthez critica nuovamente tanto le argomentazioni halleriane quanto quelle dei vitalisti. Haller aveva torto nel credere che gli organi escissi non mantengano più la sensibilità, poiché a essa occorre in effetti ricondurre la produzione dei principali fenomeni dell'irritabilità. Tuttavia, simmetricamente, alcuni "fisiologi recenti" a torto hanno fatto della sensibilità il principio vitale degli animali; niente prova che i movimenti del cuore, per esempio, siano il prodotto delle impressioni ricevute dalla sensibilità.

A queste concezioni Barthez oppone il principio vitale, i cui effetti si distribuiscono in due grandi classi: dei fenomeni motori e dei fenomeni sensoriali. Esso presiede ai movimenti di tonicità e di irritabilità scoperti da Stahl e da Haller; risiede anche nelle minime parti dell'animale, comprese quelle escisse, e assicura la sensibilità locale e generale. Che il principio vitale si divida (come pure che esso sbagli completamente e devii in alcuni casi) sarebbe un'obiezione soltanto nell'ambito di una concezione animista; ma poiché il principio vitale non è né un'anima né un'intelligenza, non c'è alcun inconveniente nel riconoscerlo fallibile e divisibile.

Tale è il vitalismo di Barthez, un autore sempre preoccupato di evitare le ipotesi ma incapace di riuscirci e di conservare al suo principio vitale un'autentica indifferenza ontologica; alla domanda se il principio vitale sia una semplice modalità dell'essere vivente o piuttosto esista per sé stesso, egli risponde infatti, a più riprese, che è più verosimile la seconda alternativa e che tutto induce a pensare che esso abbia "un'esistenza distinta da quella del corpo che anima". Dunque non è solamente per comodità che Barthez ‒ come dice egli stesso ‒ "personifica" il suo principio, ma soprattutto perché esso è una forza che sussiste al di fuori dell'animale, dotata di un'esistenza della quale, certamente, noi non abbiamo alcuna idea, ma di cui sappiamo che è sufficiente.

Niente di tutto ciò si ritrova nell'opera folgorante di Marie-François-Xavier Bichat (1771-1802), separato da Bordeu e da Barthez da due generazioni. Fra loro e Bichat c'è tuttavia un'incontestabile continuità, storicamente rappresentata da Jean-Charles Grimaud (1750-1789), allievo di Barthez all'Università di Montpellier e suo successore sulla cattedra di anatomia nel 1785. In un Mémoire sur la nutrition (1787) interamente dedicato a temi vitalisti, egli divide le funzioni animali in interne ed esterne, parlando di un "senso vitale interiore" e di una "forza motrice vitale"; e nel Cours complet de physiologie ‒ pubblicato nel 1818, ma di cui da tempo circolavano innumerevoli copie manoscritte ‒ egli distingue già due 'vite'. Gli sviluppi più ricchi della posizione epistemologica di Bichat si ritrovano, più che nel Traité des membranes (1800), nelle Recherches physiologiques sur la vie et la mort (1800) e nelle Considérations générales dell'Anatomie générale, appliquée à la physiologie et à la médecine (1801).

Nelle Recherches Bichat afferma: "si cerca la definizione della vita in considerazioni astratte; ma la si troverà, credo, in questa considerazione generale: la vita è l'insieme delle funzioni che resistono alla morte" (ed. Magendie, p. 1); parole nelle quali si può forse ritrovare un'eco diretta, e critica, di Barthez che decantava "l'utilità delle concezioni astratte" sulla natura del principio vitale. Di fatto, è la riserva di Bichat, in opposizione al carattere speculativo di Barthez, che colpisce leggendo le prime pagine delle Recherches. Il fatto che la vita sia definita come il potere di resistere alla morte, attesta immediatamente l'appartenenza di Bichat a una corrente rappresentata prima dagli animisti e poi dai vitalisti: i viventi sono in una situazione di costante aggressione da parte dell'ambiente, che 'agisce' su di essi, e soccomberebbero ben presto se non possedessero un principio di 'reazione'. Prima che in qualsiasi altro sviluppo, il vitalismo è là, nella caratterizzazione della vita come capacità di reazione: vivere è reagire; proposizione che s'inverte a livello terapeutico: reagire è vivere. Questo principio di reazione, continua Bichat, è "quello della vita". Fra il principio 'di' vita di Barthez e il principio 'della' vita di Bichat sta tutta la differenza fra una concezione che personifica la forza vitale e una che resta aderente ai fenomeni. Dichiarato di natura sconosciuta all'inizio dell'opera, il principio della vita in effetti non sarà mai passibile, da parte di Bichat, di un approccio diverso da quello fenomenico. D'altronde, ciò è indicativo della volontà di accomunare in uno stesso rifiuto l'animismo di Stahl e il vitalismo speculativo di Barthez: tanto l'uno quanto l'altro sbagliano nel partire da una definizione del principio vitale senza poi scendere ai fenomeni; tutta l'impresa di Bichat consiste, al contrario, nello studiare i fenomeni per poi risalire, soltanto in seguito, alle considerazioni che suggerisce la teoria.

Sulla specificità dei fenomeni del vivente e delle leggi che li governano, in rapporto alle leggi del mondo fisico-chimico, Bichat ha idee ben chiare: fra le une e le altre c'è un abisso che niente è in grado di colmare. All'invariabilità, alla precisione, alla quantificazione possibile delle leggi fisico-chimiche, corrispondono la variabilità, l'imprecisione e la multifattorialità delle leggi della vita. Si calcola il ritorno di una cometa, ma calcolare la forza di un muscolo vuol dire accontentarsi di 'chiacchiere'. La fisiologia non è la fisica degli animali perché il regime dei suoi fatti non obbedisce né alla previsione né alla necessità. Parlare in fisiologia di affinità, di leve o di gravità, è tanto fuori luogo quanto parlare in fisica di sensibilità, di azione tonica o di forza nervosa. D'altro canto, l'esistenza, a fianco della fisiologia propriamente detta, di una patologia, testimonia la disparità esistente fra le leggi del vivente e quelle dell'inorganico. Non si danno fenomeni fisici aberranti, né, di conseguenza, terapeutici, mentre ci sono malattie e medici. Si potrà pure criticare Bichat per la sua idea del vitale come di uno Stato dentro lo Stato, ma si deve riconoscergli la giusta consapevolezza che c'è e ci sarà sempre un abisso fra una concezione filosofica del vivente in cui esso può essere considerato come un orologio, e una concezione medica dove prevale il fatto che un organismo è prima di tutto un sistema capace di disfunzioni.

Su un piano più generale, va subito detto che le proprietà vitali si riducono a due: capacità di sentire e di muoversi. Considerati ora da un punto di vista fisiologico, i fenomeni del vivente devono essere suddivisi in due classi: quelli che appartengono alla "vita organica" (ovvero la vita vegetativa) e quelli che appartengono alla "vita animale" (ovvero la vita di relazione), laddove ciascuna delle due ha il proprio sistema nervoso. La prima concerne i vegetali e gli animali, la seconda soltanto gli animali. Alla vita organica appartengono una sensibilità e una contrattilità organiche; quest'ultima, a sua volta, si divide in contrattilità insensibile (che corrisponde alla 'tonicità') e contrattilità sensibile (o 'irritabile'); quanto alla sensibilità organica, essa è strettamente locale. La sensibilità animale, al contrario, implica il trasferimento dell'impressione al cervello, sede della coscienza; è simmetrica alla contrazione animale o volontaria, che ha anch'essa origine nel centro cerebrale. Così Bichat risolve le dispute sorte da Haller in poi, dividendo in modo netto, alla sua maniera, i fenomeni riconducibili a un'irritazione locale e quelli che implicano il trasferimento al centro cerebrale, ma, come Bordeu, attribuendo a questi stessi fenomeni locali una forma di sensibilità smorzata.

Considerati da un punto di vista anatomico, i fenomeni della vitalità sono classificati secondo la divisione in ventuno 'tessuti'. Bichat ha trovato nell'opera di Philippe Pinel (1745-1826), il quale a sua volta l'aveva ripreso (senza riconoscerlo) da James Carmichael Smyth, il principio della divisione tessutale, sul quale fonda la concezione anatomo-patologica che a giusto titolo gli darà la gloria. Alla divisione in organi dotati di una vita propria, prevalente in Bordeu, Bichat sostituisce la divisione in tessuti, che nella sua opera svolge lo stesso ruolo della classificazione degli elementi in chimica. Così come la natura del carbonio non cambia, quale che sia il composto in cui si trova, anche la natura e le proprietà di un dato tessuto restano identiche a prescindere dall'organo che esso concorre a costituire. Ciascun tessuto ha il suo tipo particolare di forza, di sensibilità, ecc. Da questa classificazione per tessuti risulta un aspetto completamente diverso del corpo animale, così come un modo rivoluzionario di concepire la patologia in funzione non degli organi lesi ma dei tessuti interessati. Con la conoscenza delle proprietà dei tessuti, Bichat ritiene che si possa fare della medicina una scienza esatta, ovvero rigorosa, poiché fondata sull'osservazione non di fatti inessenziali ma costitutivi della realtà biologica. Questo è il senso della celebre frase: "Aprite qualche cadavere, e vedrete subito sparire quell'oscurità che mai la sola osservazione avrebbe potuto dissipare" (Anatomie générale, p. XCIII). Da Haller procede anche, almeno in modo mediato, il vitalismo di Johann Friedrich Blumenbach (1752-1840). Fra Haller e Blumenbach il tramite è Caspar Friedrich Wolff (1733-1794), giustamente considerato il fondatore dell'embriologia moderna. La Theoria generationis (1759) suscita le critiche di Haller e di Bonnet a causa della dottrina epigenetica della generazione che essa propone. Wolff risponde nella traduzione tedesca della sua opera (1764) e in una seconda edizione della versione latina (1774). Avendo osservato meticolosamente al microscopio l'uovo di pollo, egli è in grado di mostrare in che modo, e soprattutto a partire da che cosa, si formano i vasi sanguigni dell'embrione e come l'intestino del pollo nasce da una parte inferiore dell'embrione che inizialmente s'incurva e a poco a poco si chiude in un tubo (De formatione intestinorum, 1768). Queste osservazioni sullo sviluppo dell'embrione lo conducono, fin dalle prime opere, a una confutazione in piena regola dell'ipotesi preformista, e per spiegare il dinamismo dell'epigenesi Wolff elabora il concetto di vis essentialis, che in questo caso dovrebbe avere il ruolo architettonico reso necessario dall'impossibilità della teoria preformista. La vis essentialis è "il principio sufficiente di tutta la vita vegetativa tanto nelle piante quanto negli animali" (Duchesneau 1982, p. 329).

Fra la vis essentialis di Wolff e il Bildungstrieb (o nisus formativus) di Blumenbach, c'è grosso modo la stessa distanza che separa le forze di Bordeu dal principio vitale di Barthez. Wolff è colui che sbarra definitivamente a Blumenbach la via della teoria preformista di Haller e di Bonnet; dopo le sue esperienze, diventa di fatto impossibile concordare con Haller. Non che sia possibile essere maggiormente in accordo con l'idea che Wolff si è fatto della vis essentialis che, rispetto al Bildungstrieb dell'epigenesi, è ciò che nella cosmogenesi il dio architetto dei Greci è rispetto al dio giudeo-cristiano, vero creatore; la prima concezione implica appena la capacità di distribuire gli elementi nutritivi alle parti dell'embrione, la seconda mostra, al contrario, l'autoformazione dell'animale, in ciò che ha di veramente costitutivo, ed è sviluppata nelle opere Über den Bildungstrieb und das Zeugungsgeschäfte (Sull'impulso formativo e la funzione riproduttiva, 1781), Institutiones physiologicae (1786), Commentatio de vitali sanguinis (1788) e Handbuch der Naturgeschichte (Manuale di storia naturale, 1779-1780).

Per Blumenbach, la sostanza seminale bruta, ma già suscettibile di organizzazione, riceve l'apporto di una forza vitale o forza generatrice (nisus formativus), radicalmente distinta dalle forze formative puramente meccaniche all'opera, per esempio, nel regno minerale nel caso della cristallizzazione: poiché i corpi organizzati e le loro parti sono destinati a svolgere funzioni molto diverse, solo una forza vitale può dare alla sostanza seminale le forme così diverse che richiede la varietà di queste funzioni. Il nisus formativus non si realizza nella sostanza seminale senza rapporto con le strutture e i principî meccanici, ma organizza l'insieme conformemente a un fine e costituisce nei viventi la forza in virtù della quale essi assumono, attraverso la generazione, la forma che loro conviene, la conservano con la nutrizione e la ristabiliscono, se si altera, finché è possibile. Come Barthez, Blumenbach non intende accontentarsi di parole: Bildungstrieb, come tutte le parole che indicano forze vitali, non spiega nulla; non fa che 'designare' questa forza particolare che riunisce in sé i principî meccanici e l'orientazione teleologica. Una forza di cui l'esperienza ci mostra l'effetto costante, ma la cui causa, come quella di tutte le forze naturali, resta una qualità occulta. In questo caso, il modello è, come sempre, la gravitazione newtoniana.

Il Bildungstrieb spiega, nella varietà delle specie animali, la conservazione della forma e dell'habitus propri di ciascuna specie; produce anche la differenziazione sessuale, come pure tutte le deviazioni a cui gli animali sono soggetti: i mostri, gli ermafroditi, i bastardi, e infine tutte le razze, le quali non sono che il risultato di una degenerazione impercettibile della configurazione originaria di ciascuna specie. Se è la forza fondamentale, il Bildungstrieb però, secondo Blumenbach, è lungi dall'essere la sola forza vitale; occorre infatti distinguere cinque tipi di forza vitale: (a) la contrattilità (il semplice sforzo che una parte fa per riaccorciarsi), che risiede nel tessuto cellulare e si dispiega pressoché in tutto l'organismo; è giustamente chiamata 'forza cellulare', e il grande e ingegnoso Stahl l'aveva definita 'tono'; (b) l'irritabilità, in senso halleriano, che differisce dalla semplice contrazione poiché si accompagna a un particolare movimento di oscillazione e di tremito; la si può chiamare anche 'forza muscolare', essendo propria delle fibre muscolari; (c) la sensibilità, ovvero la 'forza nervosa' (appartiene infatti soltanto ai nervi), il cui ruolo è quello di condurre al sensorium le impressioni degli organi. Queste tre forze sono comuni a quasi tutte le parti del vivente; al contrario, la vita delle singole parti stabilisce (d) le forze in virtù delle quali soltanto quelle parti svolgono le funzioni speciali che la Natura ha loro assegnato; è il caso, per esempio, delle viscere, le cui funzioni non assomigliano in alcun modo a quelle di parti comuni, o il caso delle secrezioni, o quello dell'erezione dei capezzoli nella donna. Per finire, (e) la 'forza di formazione', che è la causa efficiente di ogni atto riproduttivo o di conservazione: per il suo tramite le sostanze generative e nutritive sono introdotte nei serbatoi appropriati, sono elaborate nel modo giusto e subiscono i necessari cambiamenti di forma, sono conservate in parti suscettibili di contrattilità, d'irritabilità o di sensibilità.

Si vede chiaramente ciò che Blumenbach tenta di fare e ciò che tenta di evitare. Egli cerca di non fare del nisus formativus una forza personificata, come l'anima degli animisti ma anche come il principio vitale di Barthez. Al contrario, la sua intenzione è quella di mostrare come questa forza di formazione si articoli sul funzionamento delle altre forze vitali, distinte a loro volta da quelle della Natura inorganica. Si capisce come Kant abbia potuto scrivergli in una lettera del 1790: "I vostri scritti mi hanno insegnato molto; […] ciò che vi è di nuovo nella riunione dei principî fisico-meccanico e teleologico, che si credeva impossibile riunire nella spiegazione della Natura organizzata, si trova in stretta relazione con le idee che più mi assorbono in questo momento e che hanno effettivamente bisogno di essere confermate dai fatti" (Correspondance, p. 426). Proprio nel 1790 il filosofo pubblica la sua Kritik der Urteilskraft (Critica del giudizio), nella quale, come è noto, la considerazione della finalità immanente ai fenomeni della Natura vivente occupa un posto fondamentale. A Blumenbach Kant rende un omaggio insistente, non soltanto nel par. 81, ma più estesamente nella concezione generale del vivente: "Così un essere organizzato non è soltanto una macchina, poiché la macchina possiede solo una 'forza motrice', mentre l'essere organizzato possiede in sé una 'forza formatrice' [bildende Kraft], che comunica ai materiali che non la possiedono" (ed. Philonenko, p. 193). Che l'autore della Kritik der reinen Vernunft (Critica della ragion pura), poco incline a cedere a concezioni precritiche, abbia ritenuto di dover trarre dal vitalismo l'idea che il vivente non è un analogon dell'arte, che l'organizzazione naturale non ha nulla a che vedere con una causalità qualsiasi, e che richiede una 'forza formatrice', testimonia come il vitalismo, nel XVIII sec., non sia necessariamente il segno di un residuo metafisico, ma l'espressione di un autentico procedimento scientifico.

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