L'Età dei Lumi: le scienze della vita. L'anatomia patologica e la clinica

Storia della Scienza (2002)

L'Eta dei Lumi: le scienze della vita. L'anatomia patologica e la clinica

Giuseppe Ongaro

L'anatomia patologica e la clinica

La riforma cinquecentesca dell'anatomia costituì la condizione indispensabile per l'affermarsi di una concezione anatomica della malattia; oltre a fornire e a migliorare l'indispensabile conoscenza dell'anatomia normale, infatti, il diffondersi delle sezioni cadaveriche portò con frequenza crescente al casuale riscontro di insospettabili alterazioni organiche. Questi reperti, inizialmente considerati come stranezze e curiosità, vere e proprie anomalie o mostruosità (lusus naturae), o rarità, in seguito furono riferiti, in maniera graduale ma sempre più risoluta, a una sintomatologia clinica, dando così sviluppo all''anatomia medica' o 'anatomia practica'; nel 1761, infine, il De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis di Giambattista Morgagni diede all'anatomia patologica un corpo dottrinario e sanzionò l'uso sistematico del metodo anatomoclinico. Il cammino dell'anatomia patologica fu quindi lento, incerto, laborioso e spesso brancolante nel buio; per muovere i primi passi verso l'anatomia patologica propriamente detta era anzitutto necessario che la sezione del cadavere avesse come esclusivo proposito la ricerca di eventuali lesioni organiche.

L'empirismo anatomoclinico

La ricerca di un parallelismo anatomoclinico aveva avuto alcuni precursori, il più noto dei quali fu il medico e chirurgo fiorentino Antonio Benivieni (1433-1502), che nella raccolta di osservazioni cliniche De abditis nonnullis ac mirandis morborum ac sanationum causis, pubblicata postuma nel 1507 in forma incompleta, spesso corredò il reperto clinico con quello necroscopico, sia pur conciso, dimostrando così come egli ricercasse nei cadaveri le cause di morte e si sforzasse di stabilire un parallelo tra sintomatologia clinica e lesione anatomica. Alessandro Benedetti (1450 ca.-1522) nell'opera Singulis corporis morbis a capite ad pedes […] remedia, causae eorumque signa (1533), vera enciclopedia pratica dello scibile medico del suo tempo, presentò numerosissime osservazioni personali mediche e chirurgiche frequentemente corredate di accurati riscontri autoptici, giudicando opportuno "quando certi pazienti muoiono per malattie ignote, […] sottoporre i cadaveri a esame anatomico per scoprire i principî specifici del male e poter così essere in grado di giovare ai vivi nei quali essi riapparissero" (Historia corporis humani, sive Anatomice, 1502, I, p. I). Questi primi esempi furono seguiti da numerosi altri medici del Rinascimento. In genere, il riscontro della lesione organica integrava un'osservazione clinica isolata e pertanto era svincolato da un'interpretazione dottrinale, anche se a volte la lesione anatomica era utilizzata per illustrare una trattazione sistematica della patologia, come fa, per esempio, Jean Fernel (1497-1558), che nelle sue opere dimostra vaste conoscenze anatomopatologiche.

Nel XVII sec. si moltiplicarono le relazioni di casi clinici corredati di relazione autoptica. All'esperienza così ottenuta si diede la nuova denominazione di anatomia practica, usata tra i primi da Thomas Bartholin (1616-1680) nell'opuscolo De anatome practica, ex cadaveribus morbosis adornanda (1674). Questo termine, pur esprimendo la subordinazione del reperto necroscopico a quello clinico, dimostrava un rinnovato interesse per le lesioni anatomiche e configurava già una nuova disciplina, la futura 'anatomia patologica', la cui denominazione sembra essere stata introdotta nel 1713 da Friedrich Hoffmann (1660-1742). Un esempio significativo, anche se isolato, dell'evoluzione da esperienza casistica a patologia anatomoclinica e ad anatomia patologica propriamente detta, cioè descrizione scientifica delle lesioni osservate nel cadavere, è dato dal concetto di 'tubercolo', creato nel XVII sec. dal più importante esponente della iatrochimica, Franz de le Boë (Sylvius, 1614-1672) che, fondandosi sulle autopsie da lui eseguite su cadaveri di tisici, scrisse nell'opera Praxeos medicae liber quartus (1674): "Osservai più di una volta nei polmoni tubercoli simili a ghiandole [tubercula glandulosa] più o meno grandi, la cui sezione dimostrò che contenevano pus screziato. Ritengo pertanto che questi tubercoli, trasformati in pus e consumatasi la loro tenue membrana, si eliminino con le vomiche, e in essi vidi con frequenza l'origine della tisi" (Opera medica, p. 448).

Prevale nel XVII sec. l'interesse per il reperto raro e vistoso, e si compiono grossolani errori, come quello di scambiare alterazioni anatomiche riscontrate nel cadavere per lesioni patologiche: il caso più tipico è costituito dai cosiddetti 'polipi del cuore', in realtà coaguli sanguigni, lardacei o cruorosi, reperibili nelle cavità cardiache e nei grossi vasi del cadavere, ai quali si attribuiva l'insorgenza di gravi sindromi di tipo asmatico-anginoso; prolungandosi con i loro insidiosi tentacoli dal cuore nei grossi vasi, essi soggiogavano l'osservatore tanto da adombrare altre lesioni evidenti e ricche di significato patologico, come gli aneurismi arteriosi che potevano contenerli. Tali 'polipi' erano interpretati, in accordo con la dottrina umorale, quali depositi di materia peccans in seguito alla discrasia degli umori, in cui si riteneva che la malattia consistesse. Gli anatomisti, quindi, rimasero dapprima colpiti dai reperti grossolani ed evidenti, anche se più rari, e soltanto in un secondo tempo rivolsero la loro attenzione a reperti relativamente più fini, nonostante fossero più frequenti. Un esempio di questo progressivo, anche se lento, affinamento nel rilievo dei reperti è dato dalla descrizione delle principali lesioni arteriosclerotiche, osservate nel 1695 alla sezione del cadavere dell'anatomista svizzero Johann Jakob Wepfer (1620-1695), nella cui aorta furono minuziosamente distinti i focolai calcifici da quelli ulcerosi.

Il più grande tentativo di raccolta sistematica di storie anatomico-mediche della letteratura precedente e contemporanea è costituito dal Sepulchretum, sive anatomia practica, ex cadaveribus morbo denatis pubblicato nel 1679 dal ginevrino Théophile Bonet, che nel 1675 aveva presentato un primo saggio intitolato Prodromus anatomiae practicae, sive de abditis morborum causis, ex cadaverum dissectione revelatis. [] De doloribus capitis ex illius apertione manifestis. Nel 1700 il Sepulchretum ebbe una seconda edizione postuma e aumentata "almeno di una terza parte" per opera di Jean-Jacques Manget (1652-1742). Nelle due edizioni del Sepulchretum sono raccolte e commentate le storie cliniche corredate dell'esame necroscopico pubblicate fino a quell'epoca. Il vero merito dell'opera consiste nell'aver recuperato e tramandato osservazioni altrimenti destinate all'oblio. La raccolta casistica, però, è compiuta senza alcuna selezione e quindi accanto a casi ben studiati si trovano narrazioni fantastiche e prive di ogni valore; per di più, l'opera è carente negli indici, soprattutto nella seconda edizione, nella quale Manget omise l'indice degli argomenti e lasciò soltanto quello con i titoli delle sezioni e dei capitoli. In definitiva, si tratta di una "compilation indigeste et incohérente", a giudizio di René-Théophile-Hyacinthe Laënnec, la cui utilità dal punto di vista pratico è perciò molto scarsa.

Le oltre tremila osservazioni raccolte nel Sepulchretum furono ordinate da Bonet a capite ad calcem, secondo il tradizionale schema di una practica medicinae, in quattro libri, ciascuno dei quali a sua volta è suddiviso in sezioni, complessivamente ottantacinque, corrispondenti ad altrettante grossolane entità morbose, sindromi o addirittura sintomi isolati (de dolore capitis, de apoplexia, de vertigine, de tussi, de inappetentia, de siti morbosa, de vomitu et nausea, ecc.). Le osservazioni del Sepulchretum sono quindi ordinate secondo la sintomatologia clinica predominante, senza tener conto delle lesioni anatomiche riscontrate nel cadavere: così, per esempio, una dispnea da voluminosa ascite è inserita nella sezione de respiratione laesa, anziché in quella de ventris tumore seu de hydrope. In stretta aderenza al concetto di 'anatomia practica', espresso anche nel titolo dell'opera, nel Sepulchretum il reperto anatomico è strettamente subordinato al dato clinico, di cui è considerato una spiegazione a posteriori. In conclusione, la denominazione delle 'specie morbose' è esclusivamente sintomatica, come d'altronde avviene per tutte le osservazioni cliniche e necroscopiche pubblicate nel XVII sec. e all'inizio del XVIII. D'altra parte, l'incertezza e l'approssimazione delle categorie nosologiche del Sepulchretum sono espressione delle difficoltà incontrate nella definizione delle entità morbose, che quindi rappresentava una condizione essenziale perché il pensiero anatomico potesse integrarsi con la patologia e la clinica.

La nosologia empirista

Nella seconda metà del XVII sec. l'esigenza di meglio identificare e quindi distinguere le varie malattie fu fortemente sentita, e si cominciò a delimitare più nettamente i quadri morbosi, considerando le malattie come entità a sé stanti. Iniziarono a vacillare i fondamenti della patologia umoralista ippocratico-galenica, e ciò suscitò un diverso interesse per le alterazioni anatomiche. L'esame microscopico delle minute strutture del corpo, oltre a contribuire a completare nei dettagli lo schema della macchina animale, dimostrò una insospettata, estrema complessità della materia vivente, e la scoperta nell'organismo di macchine in precedenza sconosciute risultò fondamentale per la costruzione di un nuovo sistema di medicina razionale, in luogo di quello ippocratico-galenico. Sorse così e si affermò la iatromeccanica, o iatrofisica, che cercava di spiegare le funzioni del corpo animale su basi esclusivamente meccaniche. La 'fibra' era in genere considerata ‒ come sarà poi la cellula ‒ l'elemento costitutivo fondamentale del corpo. Secondo l'interpretazione iatromeccanica, i fattori ambientali agivano prevalentemente sulle fibre provocandone una deviazione dal loro stato normale e dando origine in tal modo alla malattia. D'altra parte, come gli iatromeccanici cercavano di spiegare tutte le attività organiche servendosi dei principî della meccanica, gli iatrochimici ricorrevano, al contrario, a interpretazioni esclusivamente chimiche.

Se con gli indirizzi iatrofisico e iatrochimico maturarono le premesse per una nuova patologia, fondata sulla comprensione dei fenomeni patologici su base fisiologica, i nuovi orientamenti non riuscirono però a esercitare un'influenza definita sulla medicina pratica, proprio per la loro pretesa di giungere prematuramente a sintesi e a generalizzazioni, spiegando ogni fenomeno vitale sulla base di risultati parziali. Secondo il programma iatromeccanico si trattava ormai di approfondire lo studio strutturale e funzionale delle macchine organiche, di valutarne poi le alterazioni, anatomiche e funzionali, ai fini dell'interpretazione patogenetica, lasciando alla clinica il compito di riconoscere queste alterazioni nel paziente e di trovare i mezzi idonei a ripararle. A questo proposito Marcello Malpighi (1628-1694), il fondatore dell'anatomia microscopica, scriveva: "L'anatomia porta vantaggio alla più soda medicina, mostrando l'origine e la sede dei mali, le loro cause e il modo di generarsi, dalle quali si cavano le indicazioni per scegliere li rimedii: [pertanto] si può fondare la medicina procedendo a priori, cioè dalla cognizione delle cause e del modo meccanico con che opera la natura quando non è impedita (cioè nella sanità) e quando è turbata (che è lo stesso che dire nei mali), e avanzandosi con la cognizione della natura dei medicamenti, acquistata con l'esperimento e le meccaniche, instituire la cura" (Sugli studi dei medici moderni, in Opere scelte, p. 516).

Era però un programma allora troppo avanzato rispetto alle acquisizioni relativamente scarse ottenute sul piano sperimentale. Contro questa medicina razionale, che alla dottrina umorale della tradizione galenica aveva sostituito teorie chimiche o meccaniche nell'ambito di una nuova strutturazione dell'organismo, si levò ben presto la voce dell'empirismo, che propugnava l'osservazione libera della Natura, senza costrizioni sperimentali, sostenendo che il vero modo di operare della Natura sarebbe rimasto sempre ignoto all'uomo e che fatalmente gli sarebbero sfuggite le cause occulte delle malattie. Non mediante l'anatomia, superflua oltre che fallace, come affermavano Thomas Sydenham (1624-1689), l''Ippocrate inglese', e John Locke (1632-1704), il celebre autore dell'Essay concerning human understanding (1690), ma attraverso le osservazioni il medico doveva approfondire la storia naturale delle entità morbose, migliorare il metodo di cura e identificare nuovi farmaci.

Per lunghissimo tempo si era considerato il sintomo, e soprattutto il sintomo dominante del quadro morboso, per esempio la febbre, come la malattia stessa. Se nella terminologia medica attuale i concetti di 'sintomo' e di 'segno' praticamente coincidono con l'identico significato di 'fenomeno, manifestazione morbosa', per Galeno invece, il cui insegnamento costituì fino al XVII sec. il fondamento del dottrinale medico, 'sintomo' indicava tutto ciò che di preternaturale può avvenire nell'organismo, e quindi, oltre alle manifestazioni morbose propriamente dette, anche le cause morbose e la conseguenza di queste, cioè la malattia. Così come sono gli effetti delle malattie, i sintomi potevano esserne anche gli indizi, o 'segni', i più importanti dei quali erano distinti in 'diagnostici', indicatori di uno stato di salute o di malattia, e 'prognostici', che preannunciano la salute o la malattia futura. La distinzione tra sintomo e segno era stata ribadita nel XVI sec. da Jean Fernel: "tutto ciò che si presenta ai nostri sensi accompagnandosi ad alcunché di nascosto, è un segno di ciò. Così il sintomo è il segno visibile della malattia interna e nascosta" (omne symptoma signum est, non tamen omne signum symptoma; Pathologiae libri VII, 1565, p. 248).

L'empirismo sistematico di Sydenham pose le basi per lo sviluppo della moderna medicina clinica. Egli introdusse un concetto ontologico della malattia, superando la concezione ippocratica di malattia individuale e proponendosi di stabilire la storia naturale di tutte le malattie. "Per quanto dannosa possa essere per il corpo, [la malattia] non è altro che uno sforzo vigoroso della Natura [naturae conamen] per liberarsi dalla materia morbifica" (Observationes medicae circa morborum acutorum historiam et curationem, ed. 1754, p. 37). Questa interpretazione della malattia come fenomeno reattivo si contrapponeva alla concezione galenica di affezione passiva (passio). Tornava in campo il potere risanatore della Natura (vis medicatrix naturae) ippocratico, e il compito del medico era quello di sostenere la Natura in questa lotta. Per poterlo fare, egli doveva saper distinguere le malattie, ognuna delle quali ha i suoi caratteri specifici. Il primo obiettivo della medicina, pertanto, era quello di conoscere le singole malattie mediante la sintesi del maggior numero possibile di sintomi e l'accurata osservazione del loro decorso clinico, definendo i limiti di ciascuna.

Sydenham si proponeva di esporre "la storia o descrizione di tutte le malattie per quanto è possibile esatta e naturale". La descrizione dei fenomeni delle malattie aveva come presupposto che il medico riducesse i casi fornitigli dalla sua esperienza clinica "a certe e definite specie", nello stesso modo in cui i botanici ordinano le piante. Questo concetto di 'specie morbosa' è fondamentale nella patologia sydenhamiana, e consiste in un modo di infermare che si ripete quasi invariabilmente in un gran numero di individui ammalati. Nel classificare le malattie, il patologo deve "rinunciare completamente a qualunque ipotesi filosofica" (ibidem, pp. 12-15): in altri termini, Sydenham rinunciava a una caratterizzazione essenziale delle specie morbose, proponendone invece una descrittiva. A questo scopo, si doveva ricorrere a un'accurata discriminazione dei sintomi, distinguendo tra i fenomeni costanti e peculiari, cioè propri della specie morbosa, e quelli accidentali, dipendenti dal temperamento, dall'età dell'infermo, oppure dalla terapia seguita. In definitiva, Sydenham proponeva una nosografia e una tassonomia morbosa puramente empiriche, che dovevano attenersi solamente a quel che i sensi del clinico potevano percepire nel corpo dell'ammalato. Su questa strada, verso la fine del XVII sec. si definirono i quadri clinici di numerose malattie, quali la gotta, la scarlattina e la corea minor (Sydenham), il rachitismo (Glisson), il diabete mellito (nell'urina dei diabetici Willis riconobbe il caratteristico sapore zuccherino); si iniziò a studiare le malattie del cuore e si rivolse una maggiore attenzione alle malattie professionali.

La comparazione sydenhamiana tra l'attività del nosografo e quella del fitografo condusse, all'epoca di Linneo (Carl von Linné, 1707-1778), al tentativo di edificare more botanico un sistema classificatorio delle malattie. Se la malattia era un fenomeno naturale dotato di intrinseca regolarità e se la conoscenza scientifica della Natura raggiungeva il suo culmine con l'ordinamento sistematico degli esseri individuali, il patologo doveva tendere a ordinare tutte le malattie in un quadro di classi, ordini, famiglie, generi e specie, stabiliti ‒ secondo gli insegnamenti di Sydenham ‒ sulla base della fenomenologia morbosa, cioè del complesso dei sintomi con cui la malattia si manifesta. Il più noto tentativo di classificazione realizzato in questa prospettiva è rappresentato dalla Nosologia methodica sistens morborum classes, genera et species, juxta Sydenhami mentem et botanicorum ordinem (1763) realizzata da François Boissier de Sauvages (1706-1767).

La patologia anatomica

Alle soglie del XVIII sec. era stato raccolto un imponente numero di osservazioni anatomico-mediche, peraltro senza che ancora si fosse tentato di dare una sistemazione organica delle nuove conoscenze in una nuova disciplina scientifica. Si affinarono i metodi di lavoro soprattutto nei riscontri autoptici e si formularono proposte per unificarli, come quelle di Johann Konrad Peyer (1653-1712; Methodus historiarum anatomico-medicarum, 1678) e di Giuseppe Ferdinando Guglielmini (1698-1773; Conamen ad methodum de recto morbosorum cadaverum judicio ferendo, 1724). Il passaggio dall'empirismo anatomoclinico a una patologia anatomica propriamente detta ebbe inizio nei primi decenni del secolo, e l'importanza di ricercare la lesione anatomica per spiegare una malattia emerse soprattutto in evenienze cliniche di drammatica evidenza, come la morte improvvisa e la malattia grave e inspiegabile.

Al problema delle morti improvvise e alla ricerca delle loro cause Giovanni Maria Lancisi (1654-1720) dedicò il De subitaneis mortibus (1707), dove sono riferite alcune "osservazioni fisico-anatomiche" riguardanti casi di morte improvvisa nei quali, fondandosi sull'accurata indagine anamnestica e sul riscontro autoptico, egli riuscì a ottenere conclusioni diagnostiche post mortem relativamente soddisfacenti. L'opera contiene notevoli contributi originali alla patologia cardiaca, quali una prima classificazione delle malattie del cuore, l'osservazione che l'ipertrofia e la dilatazione cardiache spesso causano la morte improvvisa, la prima descrizione dell'endocardite verrucosa. L'aspetto più importante delle osservazioni di Lancisi consiste, tuttavia, nel fatto che la lesione anatomica scoperta nel cadavere costituisce il punto di partenza e la spiegazione centrale del ragionamento.

Anche nel caso di una malattia grave e oscura, se il malato muore non resta che ricorrere all'esame necroscopico per scoprire le lesioni organiche e per stabilire su di esse una diagnosi retrospettiva. Grande risonanza ebbero due storie anatomico-mediche pubblicate da Herman Boerhaave (1668-1738) nel 1724 e nel 1728, nelle quali una gravissima e inspiegabile sintomatologia clinica era stata chiarita soltanto con l'autopsia: in un caso (Atrocis, nec descripti prius, morbi historia, 1724) si trattava della rottura dell'esofago provocata da un emetico, mentre nell'altro (Atrocis, rarissimique morbi historia altera, 1728) la causa era un tumore del mediastino. In entrambi i casi, dunque, la diagnosi fu possibile soltanto in seguito al riscontro della lesione anatomica.

Nei primi decenni del secolo si iniziò a considerare la lesione anatomica come fondamento del quadro clinico soprattutto nel campo della patologia cardiaca, fino ad allora esclusivamente sintomatica (palpitazione, ecc.). Il frequente riscontro autoptico di lesioni molto evidenti e ben caratterizzate a carico del cuore e delle grosse arterie spinse a cercare di metterle in relazione con la sintomatologia clinica e di diagnosticarle in vita. Assunsero dapprima particolare rilievo ‒ come si è detto ‒ reperti quali i cosiddetti 'polipi del cuore', calcificazioni (o, come allora erano chiamate, 'ossificazioni') delle valvole, dilatazioni o 'aneurismi' delle cavità cardiache, l'idrope del pericardio, gli aneurismi arteriosi, i focolai di calcificazione ('ossificazione') della parete arteriosa. Raymond Vieussens (1641-1715) pubblicò nel 1715 il Traité nouveau de la structure et des causes du mouvement naturel du coeur, nel quale, fra l'altro, è chiaramente descritta la stenosi mitralica con calcificazione delle cuspidi valvolari e dilatazione del cuore destro; è data anche un'eccellente descrizione dell'insufficienza aortica (comprese le peculiari caratteristiche del polso), che resta legata al nome di Dominic John Corrigan (1802-1880), in un paziente che all'esame autoptico poi presentò una calcificazione delle valvole semilunari aortiche. Un'altra opera contenente importanti osservazioni cardiologiche è il Traité de la structure du coeur, de son action, et de ses maladies (1749) di Jean-Baptiste Sénac (1693-1770).

Il trattato De motu cordis et aneurysmatibus di Lancisi, pubblicato postumo nel 1728, rappresenta una pietra miliare nella storia della patologia cardiocircolatoria, cui l'autore, come si è detto, aveva già portato importanti contributi. Sulla base di una vasta casistica clinica e anatomopatologica, egli prese in esame dapprima gli aneurismi arteriosi, distinti in 'legittimi', cioè con rottura della parete arteriosa, e 'spuri', da sola ectasia della parete. Alla luce delle concezioni iatromeccaniche Lancisi indagò la patogenesi dell'aneurisma, ricorrendo a esperimenti di legatura dell'arteria iliaca nel cane e attribuendo l'insorgenza della dilatazione alle alterazioni emodinamiche conseguenti all'ostacolo meccanico; rifacendosi alle leggi dell'idrodinamica, discusse anche l'intervento dei tre fattori costituiti dalla massa sanguigna, dalla forza del cuore e dalla forma, dal diametro e dalla resistenza dei vasi, studiando anche il meccanismo di formazione del trombo a monte della legatura arteriosa.

Per quanto riguarda gli 'aneurismi del cuore', cioè l'ingrandimento del cuore in senso odierno, egli distinse l'ipertrofia dalla dilatazione, a seconda che si riscontrasse ispessimento o assottigliamento della parete cardiaca. Di ciascuno di questi due tipi fondamentali Lancisi studiò l'etiologia e la patogenesi e discusse le conseguenze emodinamiche. Ammise che anche l'aneurisma cardiaco avesse come causa un ostacolo meccanico, situato all'interno del cuore (come valvole calcificate, stenotiche o insufficienti) oppure fuori di esso (quali affezioni polmonari, palpitazioni, violente emozioni, intemperanze, sifilide). Soprattutto, egli cercò di mettere in relazione la sintomatologia clinica (asma, palpitazioni, ecc.) con la lesione anatomica, ricorrendo alla semeiotica fisica di allora (ispezione del torace e del collo, palpazione del polso, percussione dello sterno, ecc.) per cercare di individuare segni idonei alla diagnosi clinica della lesione.

Più orientate in senso clinico furono le ricerche sulle malattie cardiache del bolognese Ippolito Francesco Albertini (1662-1738), allievo di Malpighi e a sua volta insegnante di Morgagni. Le sue numerose autopsie lo portarono a classificare le alterazioni cardiache in due generi principali, quello aneurismatico o arterioso (dilatazione delle cavità di sinistra) e quello varicoso o venoso (dilatazione delle cavità di destra), ognuno dei quali poteva essere accompagnato da 'polipi', che a loro volta potevano essere veri o falsi. Più che questa semplicistica classificazione anatomopatologica, conta il fatto che Albertini abbia cercato di stabilire i sintomi e i segni caratteristici di ognuna delle alterazioni anatomiche da lui identificate. A questo scopo, anch'egli ricorse a tutti i mezzi d'indagine della semeiotica fisica del tempo, quali la palpazione precordiale, l'esame del polso radiale e carotideo, l'ispezione delle vene giugulari, l'esame della respirazione e della posizione assunta dall'ammalato durante il sonno, e così via. Il suo fine era quello di riuscire a "riconoscere durante la vita dei malati ciò che aveva visto nei cadaveri molte volte, disponendo di segni diagnostici sicuri e conosciuti, mediante i quali poter discernere l'alterazione anatomica [structurae vitium]" (Animadversiones super quibusdam difficilis respirationis vitiis a laesa cordis, et praecordiorum structura pendentibus, 1731, p. 382).

In definitiva, Lancisi e Albertini consideravano la lesione anatomica come il fondamento della 'specie morbosa', cercando di identificare il complesso di sintomi e di segni che sembravano corrispondere alla lesione in modo specifico. La 'specie morbosa' non aveva più una denominazione sintomatica, come avveniva nel Sepulchretum, bensì un nome anatomopatologico: la lesione anatomica, da semplice reperto autoptico iniziava, sia pur timidamente e parzialmente, a diventare il fondamento della clinica e della patologia. Per poter mettere un'alterazione anatomica in rapporto causale con un sintomo morboso, tuttavia, era necessario conoscere prima di tutto la funzione dell'organo, perché fosse possibile giudicare fino a che punto un sintomo è effettivamente l'espressione di un'alterata funzione.

Poiché una patologia anatomica presuppone non soltanto l'anatomia, ma anche una fisiologia anatomica, anteriormente al XVIII sec., prima cioè che la nuova fisiologia conoscesse un certo sviluppo, l'anatomia patologica non poté acquistare importanza. Soltanto allora, infatti, la fisiologia sperimentale trovava la sua grande sintesi negli Elementa physiologiae corporis humani di Albrecht von Haller, apparsi tra il 1757 e il 1766, contemporaneamente al De sedibus di Morgagni (1761).

La patologia d'organo

Il pensiero anatomico penetrò decisamente in patologia e in clinica grazie all'opera del forlivese Giambattista Morgagni (1682-1771), autore del De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis, un titolo che già esprime il suo programma, di diretta ispirazione malpighiana e quindi di derivazione galileiana. A Bologna, dove rimase dalla fine del 1698 all'inizio del 1707, egli ebbe per maestri alcuni allievi di Malpighi, tra i quali Albertini e Antonio Maria Valsalva (1666-1723), del quale divenne aiutante e collaboratore, e al quale restò indissolubilmente legato nella sua attività di studio e di ricerca. Fu appunto a Bologna che egli, mettendo a frutto l'insegnamento sia di Malpighi sia di Valsalva, concepì il grandioso progetto di un'opera "delle diagnosi fondate nelle anatomie de' cadaveri morbosi", come scrisse da Padova nel 1707, delineando così il programma che seguirà per tutta la vita e che troverà attuazione con la pubblicazione del De sedibus.

La vita e l'attività d'insegnamento e di ricerca di Morgagni si svolsero poi quasi esclusivamente a Padova, dove nel 1711 fu nominato professore di medicina teorica e dove, inaugurando il suo insegnamento con la prolusione Nova institutionum medicarum idea (1712), ribadì che "non è possibile prospettare la natura e le cause di alcuna malattia senza la conferma delle sezioni cadaveriche" (p. XVII). Verso la fine del 1715 fu trasferito alla prima cattedra di anatomia, che occupò fino alla morte. Alcuni aspetti del suo metodo di studio chiariscono la mole eccezionale di lavoro paziente e metodico da lui svolto. Fin dall'inizio dei suoi studi anatomici e medici, infatti, egli incominciò a registrare giornalmente in un apposito diario medico-scientifico quanto d'interessante gli capitava di leggere, di udire o di osservare di persona: un metodo al quale si mantenne fedele per tutta la vita e che gli consentì di raccogliere e classificare nel diario, dal 1699 fino al 1767, osservazioni cliniche e anatomiche, riscontri autoptici, relazioni di colloqui e di discussioni, riassunti critici di letture, con aggiornamenti, confronti e integrazioni anche a distanza di alcuni anni.

Il De sedibus rappresenta, quindi, il frutto di sessant'anni di lavoro quotidiano. È costituito da due tomi in-folio, di complessive settecentocinquanta pagine stampate fittamente su doppia colonna, e comprende settanta "lettere anatomico-mediche" ordinate topograficamente in cinque libri, ognuno dei quali è dedicato a una delle cinque principali accademie europee delle quali Morgagni faceva parte ed è preceduto da una lettera ad altrettanti illustri medici sui problemi fondamentali della ricerca anatomopatologica. Ogni lettera prende in considerazione un'entità morbosa o sindromica (de capitis dolore, de apoplexia in universum, e così via), con la presentazione di un certo numero di casi clinici completi di protocollo autoptico e di commento epicritico; in totale, sono presentati circa settecento casi, la maggior parte dei quali appartiene alla pratica personale dell'autore, altri invece provengono dall'esperienza di Valsalva e anche di Giandomenico Santorini (1681-1737), alle cui autopsie Morgagni aveva partecipato sia durante il periodo bolognese sia a Venezia dal 1707 al 1709; infine, alcuni casi sono desunti dalla letteratura. In ogni lettera Morgagni compie una revisione pressoché completa della letteratura precedente che, in maniera sistematica, mette a confronto con le proprie osservazioni. La sua sintesi è quindi il frutto di continui esami comparativi, condotti dapprima separatamente fra reperti anatomici e fra sintomi clinici, successivamente stabilendo i legami fra i due ordini di fenomeni. Di questo lavoro di coordinazione e di sintesi sono espressione i quattro indici, che occupano ben settantotto pagine ‒ con esaurienti riferimenti incrociati soprattutto tra malattie, sintomi e lesioni osservate nei cadaveri ‒ e rendono l'opera molto più utile.

Nel titolo De sedibus et causis morborum per anatomen indagatis è condensato il metodo anatomoclinico legato al nome di Morgagni: morbus, 'malattia', è la fenomenologia clinica presentata dal paziente; causa, anzi causa per anatomen indagata, è l'alterazione organica evidenziata dall'esame post mortem nell'interno del corpo del paziente. In altre parole, il reperto post mortem di un'alterazione nella complessa macchina dell'organismo significa riconoscimento della sede e della causa della fenomenologia clinica presentata in vita, ossia della malattia clinica del paziente. L'obiettivo dell'indagine di Morgagni consisteva quindi nell'identificare con precisione in ogni caso le lesioni corrispondenti alla fenomenologia clinica, nelle quali egli vedeva la causa immediata della malattia; pertanto, egli considerava molto più utili le osservazioni nei casi in cui la morte era stata determinata da un processo morboso comune e frequente, che non nelle malattie più rare.

Il parallelismo fra la lesione anatomica e il sintomo clinico caratterizza dunque le storie anatomico-mediche del De sedibus, che è improntato secondo il punto di vista clinico e non anatomico. Come nel Sepulchretum, l'ordinamento ricalca sostanzialmente quello di una practica medicinae, il tradizionale trattato di patologia speciale, con la tipica disposizione della materia a capite ad calcem. Fra le due opere c'è però una profonda differenza legata al fatto che Morgagni utilizzò largamente le nuove acquisizioni sulla struttura e sulla funzione di un organismo meccanicamente concepito per stabilire un parallelo tra la lesione anatomica e i fenomeni clinici. Il suo scopo era quello di mettere in relazione i fenomeni presentati dal malato con le alterazioni dei visceri rinvenute dopo la morte, stabilendone il significato causale soltanto quando la coesistenza fra fenomeni morbosi e alterazione anatomica si fosse dimostrata costante e caratteristica di quel dato gruppo di casi. Un guasto in un punto del complesso meccanico dell'organismo, indagato mediante l'anatomia, era la sede e la causa della malattia, o meglio, dei fenomeni clinici di questa, concepibili quali alterazioni funzionali derivate dal guasto medesimo. Oltre all'istanza iatromeccanica, con le sue implicazioni strutturistiche, Morgagni recepì anche quella iatrochimica, insegnando a dedurre dall'alterato chimismo la lesione locale e a risalire meccanicamente da questa all'alterazione funzionale, ossia alla fenomenologia clinica. La lesione d'organo era quindi la causa che determinava la fisionomia clinica delle malattie. L'etiologia, secondo il significato attuale, per Morgagni comprendeva invece le cause da lui dette 'esterne', ossia i tradizionali fattori ambientali, e anche le abitudini di vita e il genere di lavoro, facendo tesoro dell'opera di Bernardino Ramazzini (1633-1714).

Nel complesso, l'opera di Morgagni è una vera miniera di osservazioni originali, cliniche e anatomo-patologiche: vi sono descritte per la prima volta la sindrome contrassegnata da polso raro permanente con crisi epilettiformi, ridescritta nel 1827 da Robert Adams e nel 1846 da William Stokes e oggi chiamata 'sindrome di Morgagni-Adams-Stokes'; la cirrosi epatica, più ampiamente illustrata nel 1819 da Laënnec; la condromatosi articolare; l'iperostosi frontale interna e la sua associazione con l'obesità e il virilismo nella donna vecchia, chiamata 'sindrome di Morgagni' da Folke Henschen, ecc. Altre magistrali descrizioni rivelano il terreno anatomico di diverse importanti malattie e riguardano varie specie di aneurismi, l'ulcera gastrica, la polmonite lobare con la descrizione dell'epatizzazione, l'atrofia giallo-acuta del fegato, la tubercolosi renale, la localizzazione controlaterale delle lesioni cerebrali nell'emiplegia ('regola di Valsalva'), la frequente origine otitica delle suppurazioni intracraniche. Ma più che nella descrizione di singoli contributi, il significato dell'opera di Morgagni consiste nell'aver realizzato una 'rottura epistemologica' per cui, dopo di lui, non si pensò e non si scrisse più come si pensava e si scriveva precedentemente (Grmek 1986). La sua grandiosa opera di sintesi portò al riconoscimento dell'anatomia patologica quale parte integrante della medicina e premessa per il suo ulteriore sviluppo.

Morgagni è oggi concordemente definito il 'fondatore della patologia d'organo', l'aspetto della sua opera che ha influenzato maggiormente il successivo sviluppo della medicina. Rudolf Virchow (1821-1902), il fondatore della patologia cellulare, nel 1894 gli tributò il riconoscimento definitivo giudicando il De sedibus una grande opera metodologica che rappresentò il momento della fortunata introduzione del concetto localistico. L'influsso del libro di Morgagni fu immediato: a pochi anni di distanza ne furono pubblicate le traduzioni inglese (1769) e tedesca (1771-1776), mentre quella francese (1820-1824) e quella italiana (1823-1829) furono stampate addirittura sessant'anni dopo la comparsa del De sedibus, dimostrando che l'opera manteneva valore di attualità per tutta l'Europa. Sulla strada aperta da Morgagni si collocarono l'anatomista di Leida Eduard Sandifort (1742-1814), allievo e successore di Bernhard Siegfried Albinus (1697-1770), autore di un'importante raccolta riccamente illustrata di osservazioni anatomopatologiche intitolata Observationes anatomico-pathologicae (1777-1781), che ne fa il padre dell'iconografia patologica, e un altro olandese, il chirurgo e anatomista Andreas Bonn (1738-1818), che pubblicò un pregevole trattato illustrato sulle lesioni anatomiche dello scheletro. Antonio Scarpa (1747-1832), il più famoso allievo di Morgagni, professore a Pavia, trattò diffusamente degli aneurismi (1804).

Il metodo anatomo-clinico fu adottato nei principali centri europei, particolarmente a Leida e a Vienna. Johann Peter Frank (1745-1821) nel suo autorevole System einer vollständigen medizinischen Polizey (Sistema compiuto di polizia medica, 1779-1819) ritenne necessario che in vicinanza degli ospedali si allestissero sale anatomiche per la sezione dei cadaveri, in cui chi esercitava la medicina potesse scoprire le alterazioni nascoste, correggere gli errori commessi e curare le malattie sconosciute con maggiore cognizione, così da sconfiggerle. L'influsso si esercitò anche sui nuovi ordinamenti didattici degli studi medici; nel 'piano didattico' di Pavia del 1773, per esempio, si stabilì, oltre all'accurato esame clinico, la regola di procedere "alla dissezione dei cadaveri in caso che tali malati soccombano alla morte; e l'osservare minutamente l'affezione di tutte le parti interessate, o sospette, per riscontrare le vere cagioni delle malattie" (Belloni 1969a, p. IV). In Francia, se si eccettua la Historia anatomico-medica pubblicata nel 1767 da Joseph Lieutaud (1703-1780), un'imponente raccolta di storie anatomocliniche esemplata più sul Sepulchretum che sul De sedibus, negli ultimi decenni del XVIII sec. la patologia morgagnana incontrò qualche resistenza, cosa sorprendente se si considera che proprio la Francia nel primo Ottocento sarà teatro di una rivoluzione della medicina che, più o meno consapevolmente, prese le mosse dal pensiero morgagnano. Nel 1763 il nosologo Boissier de Sauvages, nella sua opera Nosologia methodica sistens morborum classes, genera et species, non esitò a prendere decisamente posizione contro la nuova patologia, affermando che "con il metodo della sede della malattia non si otterrà mai l'evidenza che stabilisce il carattere della malattia" (ed. 1764, p. 12).

Un posto a parte nella storia della medicina occupano i fratelli Hunter, scozzesi trasferitisi a Londra. William Hunter (1718-1783), il maggiore, si dedicò specialmente all'ostetricia e lasciò un museo ricco di reperti anatomopatologici. Il minore, John Hunter (1728-1793), fu soprattutto chirurgo e anatomista ed è considerato il primo grande patologo sperimentale per il suo costante ricorso all'esperimento. Autore di importanti studi sugli abbozzi dentari, sulla discesa dei testicoli (sua è la denominazione di gubernaculum testis) e sulle malattie veneree, in patologia spicca soprattutto una sua opera, pubblicata postuma nel 1794, A treatise on the blood, inflammation and gun-shot wounds. Hunter considerava l'infiammazione il più importante meccanismo difensivo, cui attribuiva anche funzioni di processo riparatore e ne distingueva tre tipi: adesivo, suppurativo e ulcerativo. L'infiammazione adesiva aveva lo scopo di delimitare localmente un processo irritativo (come avviene nella pleura a opera delle aderenze fibrinose); se la forma adesiva non riusciva a controllare il danno, sopraggiungeva la forma suppurativa, da sola o associata a quella ulcerativa. La suppurazione avveniva in seguito a un'alterazione della struttura vascolare che, mediante un processo analogo alla secrezione, consentiva la separazione dal sangue dei materiali che costituiscono il pus. Mediante l'ulcerazione, infine, si compiva l'eliminazione delle sostanze morte.

Oltre ad aver studiato sperimentalmente il processo infiammatorio, Hunter può essere considerato un vero precursore della patologia di tessuto (Keel 1980). Pur non avendo elaborato una classificazione formale dei tessuti, egli distinse, dal punto di vista fisiologico e patologico, i principali tessuti del corpo tra quelli che poi saranno identificati da Marie-François-Xavier Bichat (1771-1802), ognuno dei quali dotato di peculiari proprietà vitali. I differenti tessuti del corpo, infatti, possono ammalare isolatamente: in altre parole, le malattie locali non attaccano sempre gli organi nella loro totalità, ma possono colpire solamente alcuni dei tessuti che li costituiscono. La meningite, per esempio, dovuta all'infiammazione della pia madre, non è un'infiammazione di tutto il cervello, così come la pleurite non lo è di tutto il polmone. Questo è un principio fondamentale della patologia di tessuto: in uno stesso sistema di organi, quando alcuni dei tessuti costituenti sono colpiti dalla malattia, gli altri possono restare sani. Hunter sperimentò sistematicamente e ripetutamente sui tessuti per determinare la dinamica del processo infiammatorio, particolarmente sulle sierose e sulle mucose, giungendo alla conclusione che in tessuti dello stesso tipo l'infiammazione produce effetti analoghi.

Il nome di John Hunter è legato anche, sia pure suo malgrado, alla trasformazione della sindrome stenocardica ‒ denominata angina pectoris da William Heberden (1710-1801) ‒ da entità clinica in entità anatomoclinica, cioè correlata con alterazioni morfologiche delle coronarie. Egli, infatti, soffrì di angina pectoris per vent'anni, e nel 1778 Edward Jenner (1749-1823), il futuro inventore della vaccinazione antivaiolosa, ricondusse i suoi disturbi all'indurimento delle arterie coronarie, interpretato quale 'ossificazione' della parete vascolare, sulla scorta del reperto anatomico osservato in due casi della malattia. Quindici anni dopo, Hunter morì durante una crisi anginosa e l'autopsia mise in evidenza proprio una grave 'ossificazione' coronarica con cicatrici da pregresso infarto miocardico.

La tappa successiva al De sedibus è rappresentata dalla enucleazione, dalla ormai abbondante e coordinata casistica anatomoclinica, di entità anatomopatologiche, analoghe alle specie morbose individuate dalla nosologia empiristica. Si tratta della tipizzazione delle lesioni d'organo, quale si trova nella Morbid anatomy of some of the most important parts of the human body (1793) di Matthew Baillie (1761-1823), ossia l'anatomia patologica in senso stretto. Esempi di entità anatomopatologiche sono la cirrosi epatica e l'enfisema polmonare, che ricevettero questa denominazione da Laënnec, nel cui trattato De l'auscultation médiate, ou traité du diagnostic des maladies des poumons et du coeur (1819) l'opera morgagnana rivive nel senso più pieno del termine. Baillie, nipote degli Hunter, collaborò soprattutto con William Hunter, del cui museo poté avvalersi nella preparazione della Morbid anatomy e nell'iconografia dello splendido atlante che corredò l'edizione del 1799: questa fu il primo trattato di anatomia patologica propriamente detta, considerata come disciplina indipendente; vi sono descritte le alterazioni di ogni organo in sistematica successione, e la maggior parte delle descrizioni è basata su osservazioni dirette (molte delle quali su preparati conservati nel museo dello zio). L'opera ‒ che ebbe grande successo, numerose edizioni e traduzioni ‒ riguarda principalmente gli organi toracici e addominali e l'encefalo; in molti casi le nuove entità anatomo-patologiche sono descritte per la prima volta, e mantengono la loro validità ancor oggi.

Verso una nuova semeiotica fisica

Una tappa ulteriore era quella di riconoscere anche nel vivente le lesioni d'organo che s'imparavano a distinguere al tavolo anatomico. A questo fine non bastava più la vecchia semeiotica fisica, che sfruttava soprattutto la palpazione, oltre all'ispezione. Nel 1761, lo stesso anno in cui fu pubblicato il De sedibus, il medico viennese Leopold Auenbrugger (1722-1809) pubblicò una piccola memoria, intitolata Inventum novum ex percussione thoracis humani ut signo abstrusos interni pectoris morbos detegendi, con cui introdusse la percussione del torace per riconoscere alterazioni degli organi in esso contenuti, come versamenti pleurici e addensamenti polmonari. Il nuovo metodo non si generalizzò subito, anche perché il pensiero anatomico non si era ancora affermato in patologia. La grande importanza della percussione in relazione alla raccolta di sintomi obiettivi fu compresa soltanto all'inizio del secolo successivo, per opera della clinica francese, alla quale si deve la maggior parte degli odierni quadri morbosi, specialmente nel campo delle malattie del cuore e dei polmoni.

Jean-Nicolas Corvisart (1755-1821) nel 1808 pubblicò la traduzione annotata dell'Inventum novum di Auenbrugger, che fece conoscere universalmente la percussione del torace come metodo d'indagine clinica. Il coronamento del metodo anatomoclinico avverrà in seguito, all'inizio del XIX sec., con il trattato De l'auscultation médiate di René-Théophile-Hyacinthe Laënnec (1781-1826), in cui è presentato il cilindro ascoltatorio da lui inventato e denominato 'stetoscopio', un termine più conveniente a uno strumento ottico. I rumori e i suoni con esso percepiti suscitavano, infatti, nella mente di Laënnec un'immagine visiva, quella appunto di una lesione intratoracica che egli aveva imparato a conoscere al tavolo anatomico e che si aspettava di ritrovare nell'eventuale autopsia del suo paziente. La stetoscopia, la 'scopia del torace', era tendenzialmente un'autopsia del torace praticata nel vivente, che anticipava quella ai nostri tempi diventata abituale grazie ai raggi Röntgen. L'opera di Laënnec fu il frutto per eccellenza di quella che è stata definita 'medicina d'osservazione', che approfondiva lo studio del malato mediante la nuova semeiotica. Grazie a questa, il medico mirava a riconoscere in vivo le alterazioni locali che stanno alla base della malattia, riservandosi, nei casi opportuni, di controllarle al tavolo anatomico. Una medicina così intesa era tipicamente una "medicina d'ospedale" (Ackerknecht 1967); l'ospedale divenne allora, da istituzione caritatevole qual era principalmente stato fino a quel momento, la vera palestra del medico.

Anche metodi tradizionali d'indagine clinica, come l'esame delle urine, furono valorizzati nel senso anatomoclinico. La prima descrizione dell'albuminuria risale al medico olandese Frederik Dekkers (1648-1720), che osservò la presenza di una materia capace di coagulare con l'ebollizione e quindi di precipitare in seguito all'acidificazione mediante l'aggiunta di qualche goccia di aceto forte. La prova però non ebbe diffusione, tanto che fu riscoperta da Domenico Cotugno (1736-1822) nelle urine di idropici sottoposte a ebollizione (De ischiade nervosa commentarius, 1764). Ma la ricerca dell'albumina urinaria non poté entrare nella pratica clinica prima che si giungesse a stabilire l'associazione tra idrope, albuminuria e alterazioni anatomiche dei reni; il riconoscimento di questa triade nel 1827, per opera di Richard Bright (1789-1858), significò la scoperta della nefrite ('morbo di Bright') e, con essa, l'inizio della moderna nefrologia.

La patologia di tessuto

La patologia sistematica dei nosografi raggiunse la sua espressione più completa ed efficace quando Philippe Pinel (1745-1826) associò al metodo classificatorio linneano quello del filosofo Étienne Bonnot de Condillac (1714-1780) per la conoscenza scientifica. Pinel subì direttamente l'influsso degli 'ideologi', proponendosi una riforma della teoria medica con l'applicazione del metodo analitico. L'espressione più evidente di questo tentativo fu la sua opera maggiore, Nosographie philosophique, ou la méthode de l'analyse appliquée à la médecine (1797-1798), nella quale Pinel si proponeva di studiare la malattia umana come il naturalista studia gli esseri e i fenomeni della Natura. La filosofia botanica di Linneo offriva al nosografo lo schema e il metodo generale per la classificazione delle malattie, mentre da Condillac egli desumeva il metodo analitico per la conoscenza della realtà naturale.

Il metodo analitico condillachiano era già stato applicato alle scienze naturali, per esempio dal ginevrino Jean Senebier (1742-1809), tuttavia Pinel fu il primo ad applicare l'analisi allo studio delle malattie. Egli riteneva che il metodo analitico consentisse di riconoscere le malattie 'primitive', che con le loro diverse combinazioni ne formavano molte altre, e di distribuirle secondo 'affinità' tratte dal carattere particolare dei loro sintomi o dalla struttura organica delle parti colpite. Queste 'malattie primitive' (o 'malattie semplici') isolabili tramite l'analisi costituivano gli elementi dell'esperienza clinica e anatomopatologica corrispondenti alle 'idee semplici' di Condillac; Pinel ne isolò cinque e ne fece le 'classi' cardinali del suo sistema nosotassico: la febbre, l'infiammazione, l'emorragia, la neurosi e la malattia linfatica. Ogni classe era divisa in 'ordini', ognuno dei quali si divideva in 'generi' e in 'specie morbose'. Oltre la specie, primo gradino dell'astrazione nosografica, non esistevano altro che casi individuali.

Pinel, in accordo con la filosofia degli ideologi, insegnava che i concetti fondati su dati fenomenologici sono inadeguati per una corretta comprensione della malattia. La validità di tali concetti deve essere stabilita sottoponendo ad analisi i fenomeni osservati clinicamente: seguendo la traccia di questi si dovrà giungere alla loro origine negli organi. In ogni organo è poi necessario determinare i cambiamenti insorti negli elementi di cui esso è composto. Ovviamente, questo programma richiedeva di essere concretato empiricamente, ma nel caso di Pinel è rimasto una formulazione piuttosto vaga. L'impulso esercitato dall'uso fatto da Pinel del concetto di analisi, tuttavia, risultò molto fecondo e produttivo. "Le flemmasie [le infiammazioni] sono state divise in differenti ordini, a seconda che abbiano la loro sede nei tegumenti, nelle membrane mucose, sierose o fibrose, nelle ghiandole o nei muscoli. Che importa che le aracnoidi, la pleura e il peritoneo risiedano in differenti regioni del corpo umano, se queste membrane presentano una conformità generale nella loro struttura?" (Nosographie philosophique, II, p. 9).

Stimolato da queste parole, Marie-François-Xavier Bichat concepì l'importante nozione che gli organi sono composti di tessuti semplici e che l'alterazione morbosa subita da uno specifico tessuto è la stessa in qualsiasi organo si manifesti. Egli riconobbe il suo debito verso Pinel nel Traité des membranes en général et de diverses membranes en particulier (1800). Per Bichat, la patologia doveva essere fondata non sulle situazioni topografiche degli organi, ma sulla struttura delle membrane (ossia i tessuti che costituiscono gli organi), indipendentemente dalla ubicazione di esse nell'organismo; egli affermò nell'Anatomie générale, appliquée à la physiologie et à la médecine (1801) che "più si osserveranno le malattie e più si apriranno cadaveri, più ci si convincerà della necessità di considerare le malattie locali non dal punto di vista degli organi composti, che raramente sono colpiti nella loro totalità, ma dal punto di vista dei loro differenti tessuti, che sono quasi sempre colpiti isolatamente" (I, p. LXXXVIII).

Ormai i tempi erano maturi per una concezione anatomofisiologica e patologica dei tessuti, com'è dimostrato dall'opera precorritrice di John Hunter e di altri, i quali avevano osservato che l'infiammazione differisce a seconda delle membrane colpite e avevano già concepito l'idea che la sede della malattia si situasse a livello dei differenti tessuti che compongono l'organo, anziché a livello dell'organo intero. Non c'è dubbio, però, che la dottrina dei tessuti abbia trovato precisa formulazione soltanto per opera di Bichat. Nato a Thoirette-en-Bresse nell'anno in cui moriva Morgagni, egli studiò dapprima a Lione presso il chirurgo Marc-Antoine Petit, poi a Parigi, dove si legò al famoso chirurgo Pierre-Joseph Desault, completandone e pubblicandone l'opera chirurgica dopo la morte. La formazione chirurgica di Bichat si riflette costantemente nei suoi lavori anatomici, nelle tecniche sperimentali istituite nell'animale e in numerose deduzioni pratiche. Egli si dedicò poi allo studio e all'insegnamento della medicina, dell'anatomia, della fisiologia e della patologia, concentrando tutte le sue energie nello studio del meccanismo della vita umana.

La dottrina dei tessuti è sviluppata compiutamente nella sua Anatomie générale, in cui tratta separatamente ognuno dei 'sistemi semplici' (ossia i tessuti) che con le loro diverse combinazioni formano gli organi. L'organismo animale, egli scrive nelle Considérations générales con cui si apre l'opera, è costituito da diversi organi che, eseguendo ciascuno una funzione specifica, concorrono alla conservazione dell'intero individuo. A loro volta, gli organi sono formati da molti tessuti differenti, che in realtà sono gli elementi degli organi. Proprio come la chimica ha i suoi corpi semplici, che si combinano formando i corpi composti, anche l'anatomia ha i suoi tessuti semplici che combinandosi costituiscono gli organi. Bichat distingue quindi ventuno tessuti semplici, o elementari, sette 'generali' o diffusi (cellulare o connettivo, nervoso della vita animale, nervoso della vita organica, arterioso, venoso, esalante, assorbente o linfatico) e quattordici 'particolari' o localizzati (osseo, midollare, cartilagineo, fibroso, fibrocartilagineo, muscolare della vita animale, muscolare della vita organica, mucoso, sieroso, sinoviale, ghiandolare, dermoide, epidermoide e pilifero).

L'istologia ‒ termine poi coniato nel 1844 da Richard Owen (1804-1892) ‒ fondata da Bichat è squisitamente macroscopica, dacché egli non utilizzò il microscopio composto, negandone l'attendibilità scientifica a causa delle immagini illusorie che rendevano tanto ambiguo tale strumento. In effetti, soltanto verso la metà del XIX sec. questo strumento subì perfezionamenti tali da renderlo utile nella ricerca, con l'introduzione degli obiettivi acromatici e del sistema a immersione prima, e poi del condensatore. Egli procedeva mediante una minuta dissezione degli organi, o sistemi composti, fino a ottenere frammenti di aspetto omogeneo, che quindi sottoponeva a vari trattamenti (essiccazione, putrefazione, macerazione, bollitura, cottura), all'azione di acidi e di alcali, ecc., allo scopo di definire con precisione le caratteristiche di ogni tessuto organizzato. Se il comportamento di questi frammenti era analogo nelle varie prove, Bichat concludeva che essi erano costituiti dallo stesso tessuto, nonostante provenissero da parti anatomicamente distinte. Un tessuto quindi era definito dalla omogeneità e dalla costanza del suo aspetto esteriore, in qualsiasi condizione di osservazione, indipendentemente dagli organi da cui proveniva e dai trattamenti cui era stato sottoposto.

Secondo Bichat, i tessuti sono caratterizzati dalla forma in cui si presentano, dall'organizzazione o costituzione interna (colore, spessore, durezza, densità, resistenza, ecc.), dallo sviluppo embriologico (peraltro da lui non approfondito) e dalle loro proprietà, le quali possono essere 'proprietà del tessuto' e 'proprietà vitali'. Le 'proprietà del tessuto' ‒ estensibilità alla trazione e contrattilità spontanea ‒ dipendono dall'organizzazione materiale e sono conservate dopo la morte; le 'proprietà vitali' ‒ contrattilità e sensibilità organica, contrattilità e sensibilità animale ‒ non sono sottoposte alle leggi fisiche e sono espressione della differenza che la 'forza vitale' dell'individuo adotta in ogni tessuto. In conclusione, il tessuto è considerato l'unità morfologica e funzionale dell'organismo vivente. Dal punto di vista morfologico, gli organi sono combinazioni di un certo numero di tessuti elementari diversi, mentre sotto il profilo fisiologico la funzione propria di ogni organo è il risultato della combinazione delle proprietà vitali dei tessuti che lo compongono. Il vitalismo di Bichat si compendia nella famosa sentenza "La vita è l'insieme delle funzioni che resistono alla morte", con cui iniziano le sue Recherches physiologiques sur la vie et la mort (1800). Dato che i tessuti differiscono fra loro per le proprietà vitali, ogni tessuto è diverso anche dal punto di vista patologico, perché le malattie non sono altro che alterazioni delle sue proprietà vitali. La diversità dei tessuti è alla base della diversità dei sintomi e della durata delle malattie. Pertanto, l''anatomia generale' dovrebbe portare a una nuova anatomia patologica, che sostituisca l'ordine descrittivo generale, adottato dopo Morgagni, con la descrizione delle alterazioni comuni a ogni sistema elementare, cioè a ogni tessuto. La medicina

avrà diritto a far parte delle scienze esatte, almeno per ciò che riguarda la diagnosi delle malattie, quando dovunque alla rigorosa osservazione del malato si sarà unito l'esame delle alterazioni a carico degli organi. […] Che cosa è l'osservazione clinica se si ignora dove ha sede il male? […] Aprite qualche cadavere, vedrete subito scomparire l'oscurità che non sarebbe mai stata dissipata dalla sola osservazione. (Bichat, Anatomie générale, I, p. XCIX)

Soltanto in questo modo, secondo Bichat, sarebbe stato possibile stabilire una relazione certa e sicura tra l'osservazione clinica e le lesioni scoperte con l'autopsia. I sintomi clinici e il loro ordinamento in entità morbose dovevano dunque essere subordinati alla conoscenza della lesione anatomica che li determinava. La nuova scuola anatomoclinica francese mosse dall'opera di Bichat. Dall''anatomia generale' e dalla patologia di tessuto nel XIX sec. si svilupperanno l'istologia, la citologia e la patologia cellulare. Il suo pensiero esercitò inoltre una profonda influenza non soltanto sulla medicina, ma anche sulla filosofia.

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