L'Età dei Lumi: la fine della conoscenza naturale 1700-1770. Chimica macroscopica e chimica microscopica

Storia della Scienza (2002)

L'Eta dei Lumi: la fine della conoscenza naturale 1700-1770. Chimica macroscopica e chimica microscopica

Ferdinando Abbri
Frederic L. Holmes
Antonio Di Meo
Marco Beretta

Chimica macroscopica e chimica microscopica

Flogisto e metalli

di Ferdinando Abbri

Nel 1697 il medico tedesco Georg Ernst Stahl (1660 ca.-1734) pubblicò un'opera dal titolo Zymotechnia fundamentalis, seu fermentationis theoria generalis, nella quale il termine 'fermentazione' copriva un'ampia gamma di operazioni ed esperienze chimiche, la cui teoria veniva caratterizzata come arte nobilissima e parte della chimica. Il proemio di questa prima edizione ‒ la Zymotechnia fu ristampata, senza di esso, nel 1715 da Stahl insieme ad altri suoi testi ‒ presenta alcune notazioni epistemologiche in merito al "carattere eccellente" della chimica, alla necessità di distinguere le aggregazioni fisiche dalle vere mistioni chimiche ‒ un argomento sempre centrale nel pensiero stahliano ‒ e al dominio limitato di spiegazione della meccanica.

Alla fine del Seicento il meccanicismo come immagine del mondo e della Natura aveva conosciuto grande fortuna anche in campo chimico, dove le forme delle particelle, dedotte sulla base degli effetti macroscopici, erano state considerate il criterio fondamentale di spiegazione dei mutamenti chimici. In tal modo la chimica era divenuta una parte della filosofia naturale d'ispirazione meccanicista e aveva mutuato da tale filosofia le modalità d'interpretazione dei suoi fenomeni, ossia era vista come subordinata alla physics, alla corpuscular philosophy così come le aveva concepite soprattutto Robert Boyle (1627-1691). L'opera stahliana rappresenta una fase di reazione contro il meccanicismo e i suoi modi di spiegazione, in nome della specificità della chimica intesa come arte.

Per Stahl il ricorso esclusivo alle forme immaginose delle particelle e al moto era inutile, astratto e incapace di far progredire la conoscenza chimica. Nel 1703, nel suo Specimen Beccherianum, egli enunciò espressamente una tesi molto importante relativa al tipo di spiegazione da adottare in chimica. Scrisse, infatti, che, dove un acido sia specificato come misto costituito da una o più particelle terrose e da una o più particelle acquose, si è in presenza di un concetto reale perché è noto ciò che è terra e ciò che è acqua. In base a questa definizione è possibile preparare un acido in laboratorio e si apprende che un simile 'misto' può e deve essere risolto in terra e in acqua. Se si afferma, invece, che un acido è composto da particelle acuminate, più lunghe che larghe, si offrono criteri che rendono impossibile l'insegnamento e la pratica della chimica. Stahl non vide nella tradizione meccanicista un effettivo progresso; il meccanico, il moto, la metafora della macchina potevano essere soltanto strumenti di un sapere come quello chimico, che doveva fondarsi su principî portatori di qualità, essenze reificate, i soli che erano in grado di fornire una base razionale alla chimica, un'arte volta allo studio dei processi naturali 'profondi' e capace di fornire conoscenze di valore pratico. La nuova immagine stahliana della chimica, così fortemente antimeccanicista, recuperava l'idea paracelsiana degli elementi in quanto essenze ‒ un elemento o principio è il portatore di specifiche qualità che esistono in un misto finché contiene questo elemento ‒ ma era orientata secondo criteri di razionalità e utilità.

Nella concezione di Stahl la polemica contro il meccanicismo e la tradizione alchemica e il ricorso ai principî qualitativi si sposavano con la rivendicazione dell'autonomia e della razionalità della chimica: il medico tedesco cercò di favorire l'affermarsi di un'immagine della chimica come arte profonda e utile, degna di essere sostenuta dai sovrani. La chimica moderna si era presentata come arte subordinata alla medicina e i suoi compiti erano essenzialmente farmaceutici; per Stahl la preparazione delle medicine era invece solo un aspetto, perché le conoscenze chimiche dovevano essere utilizzate soprattutto per comprendere e perfezionare la mineralogia, la metallurgia, l'arte della distillazione, la fabbricazione delle porcellane, del vetro e per molte altre attività manifatturiere e artigianali.

Nella Zymotechnia Stahl presentava una teoria della riduzione delle calci metalliche destinata ad avere grande fortuna nel corso del Settecento. Sino ad allora la combustione (ossidazione) dei metalli era stata interpretata come combinazione del metallo con le particelle del fuoco o con materie grasse presenti nell'aria, mentre era più difficile spiegare il ritorno, grazie al fuoco, della calce metallica alla forma del metallo, ossia la revivificazione del metallo. Nel 1697, Stahl indicò che era possibile mostrare mediante molteplici esperimenti "in qual modo phlogistón, derivato dalle materie grasse e dal carbone, rientra rapidissimamente nei metalli e rigenera dalle calci combuste la loro consistenza fusibile, malleabile e amalgamabile" (Zymotechnia, p. 121). Siamo in presenza della formulazione della teoria del flogisto in relazione alle reazioni chimiche di calcinazione (ossidazione) e riduzione. è necessario sottolineare che in questa formulazione Stahl guardò prima di tutto alla questione della riduzione: era infatti agevole pensare alla trasformazione, grazie al fuoco, di un metallo in una terra (calce), ma più difficile era comprendere come una terra potesse riacquistare le qualità tipiche del metallo, cioè la restituzione di un qualcosa distrutto o sottratto nel processo precedente. Per Stahl la questione doveva essere interpretata in termini di composizione dei metalli, da lui considerati, con tutta la tradizione precedente e coeva, sostanze miste e non elementi. Nei termini di una chimica delle qualità, egli vide nel flogisto il responsabile dei mutamenti conosciuti dei metalli nei processi di calcinazione-riduzione.

Stahl individuò la fonte delle proprie concezioni in un'opera dell'alchimista tedesco Johann Joachim Becher (1635-1682) dal titolo Actorum laboratorii chymici monacensis, seu Physicae subterraneae libri duo (1669), che aveva conosciuto ristampe e traduzioni in tedesco. Va precisato che Stahl considerò sempre la tradizione alchemica e la ricerca della pietra filosofale come moralmente inaccettabili e socialmente nocive, perché non promuovevano le indagini utili ed erano fondate su una sperimentazione confusa. Becher considerò tre principî delle cose ‒ aria, acqua e terra ‒ ma in verità, sulla base della Bibbia, ammise come veri principî l'acqua e la terra. Tutti i fenomeni chimici del mondo sotterraneo furono spiegati in termini di mescolanze di acqua e terra; queste mistioni erano triplici, pertanto i corpi erano formati da terra+terra, acqua+acqua e terra+acqua. La terra era per Becher l'elemento privilegiato, ipostatico, ed egli ne postulò tre tipi, ossia "terra vitrescibile", "terra pingue" e "terra fluida", ciascuno dei quali conferiva proprietà particolari ai corpi. Questa triplice divisione risultò particolarmente importante sia per la chimica sia per la mineralogia. L'ammissione di tre principî terrosi mise in crisi l'antica credenza nell'elemento aristotelico "terra" e aprì la strada a classificazioni autenticamente chimiche del mondo minerale.

Nel 1703, Stahl ripubblicò l'opera di Becher con il titolo Physica subterranea, corredandola con un amplissimo commentario, lo Specimen Beccherianum di cui si è già detto, che nella traduzione tedesca del 1720 suona significativamente come Einleitung zur Grundmixtion, cioè come introduzione al problema delle mistioni fondamentali. Stahl vide nell'opera di Becher il più alto prodotto della tradizione chimico-pratica tedesca e v'individuò concetti in grado di fondare il ritorno all'antico, a un approccio qualitativo che s'imponeva a fronte del fallimento del programma meccanicista. Nell'immagine e nella tradizione stahliana la Physica divenne un manifesto della specificità della chimica, del suo status di arte autonoma che doveva ricorrere a propri concetti e a modalità chimiche d'interpretazione dei fenomeni.

Stahl identificò la seconda terra di Becher con il flogisto o principio della combustione: si trattava quindi di un portatore materiale, di natura terrosa, della qualità combustiva. Il flogisto esisteva nei tre regni della Natura, emigrava in quantità molto abbondante da animali e da vegetali e si trasferiva con prontezza nei minerali e nei metalli. Non si tratta dello zolfo, principio di Paracelso, perché per Stahl lo zolfo era un misto di acido vitriolico e flogisto e quest'ultimo formava sostanze miste con gli altri principali acidi, né tantomeno della materia ignea perché il fuoco era per lui uno strumento, non un principio chimico, che poteva essere specificato come movimento velocissimo dei corpuscoli, provocato dal flogisto durante la sua attività chimica. Il flogisto riuniva in sé una vasta gamma di proprietà che veniva conferita ai corpi dei quali era parte costituente. Nella riduzione delle calci, come si è accennato in precedenza, il carbone usato in questa reazione cedeva il suo flogisto alle calci o ceneri metalliche, il flogisto riuniva le loro particelle e consentiva il recupero delle proprietà originarie. Di conseguenza, la calcinazione dei metalli diveniva una privazione di questa sostanza. La teoria della calcinazione-riduzione in termini di flogisto può essere così schematizzata: (1) calcinazione: metallo (terra+flogisto) sottoposto al fuoco=calce (terra−flogisto che si disperde nell'aria o si combina con altri corpi); (2) riduzione: calce+carbone=metallo (terra+flogisto del carbone).

Siamo di fronte a una nuova, complessiva, interpretazione di fenomeni e di fatti noti che risulta contraddittoria rispetto ai dati ponderali (la perdita di flogisto è associata a un aumento di peso e viceversa); questa contraddizione ‒ è da sottolineare che storicamente gli stahliani sollevarono dubbi sull'affidabilità delle risultanze ponderali ‒ non impedì tuttavia la diffusione di tale interpretazione che rimase valida, nelle sue linee generali, sino al 1772. Certo è che Stahl conservava l'idea, plurisecolare e accettata da tutti, dei metalli come misti e offriva per la prima volta un'interpretazione unitaria dei processi di riduzione-calcinazione, che furono considerati come fenomeni chimici collegati. Infine, poiché ogni reazione di combustione risultava essere uno scambio di principî, si superavano in tal modo le contraddizioni insite nell'ammissione di particelle ignee o sostanze aeree.

Tra mineralogia, metallurgia e filosofia chimica

Le concezioni di Stahl non sono riducibili alla sola teoria del flogisto perché investono temi di filosofia, religione, fisiologia, chimica e medicina, ma è sufficiente qui segnalare che l'opera stahliana costituì un vero e proprio snodo teorico che influenzò l'intero sviluppo della chimica nell'Età dei Lumi. Grazie alla scuola stahliana, la chimica, in quanto scienza collegata a un'ampia serie di attività artigianali e produttive, fu socialmente percepita negli Stati tedeschi come un'arte utile, degna pertanto di essere moralmente coltivata e istituzionalmente sostenuta dal potere. Lo stahlismo significò la maturazione di una nuova percezione sociale della chimica, segnò la sua emancipazione da un contesto ambiguo: il mito settecentesco della Germania come Vaterland ('patria') della chimica è dunque il risultato dell'opera di Stahl e della sua scuola. Con lo stahlismo siamo in presenza di un progetto scientifico con una decisa valenza ideologica ‒ l'unione di pietismo e utilitarismo ‒ che fu influente per tutto l'Illuminismo. Attraverso l'insegnamento a Jena (1684-1687), quindi a Halle (1694-1715), il suo ruolo centrale nella scienza prussiana, le innumerevoli opere che spaziano dalla fisiologia alla chimica analitica, Stahl creò una vera e propria scuola di chimica e di medicina i cui esponenti finirono per occupare posti accademici e universitari in quasi tutti gli Stati tedeschi.

Giova ricordare che nel contesto germanico le attività produttive collegate alla chimica avevano assunto, sin dal Rinascimento, un'importanza non trascurabile come fonte di reddito per i sovrani. Agli alchimisti itineranti si erano sostituiti sovrintendenti locali, che erano chiamati a dirigere e incrementare le attività di produzione e di utilizzazione di sostanze chimiche primarie. Nei centri di produzione degli Stati tedeschi, dell'Impero austro-ungarico e della Svezia furono fondate accademie di mineralogia e metallurgia con posti ufficiali per i chimici attivi come direttori delle attività produttive e come docenti.

A Berlino l'Accademia delle Scienze fu un centro attivo di ricerca e accolse tra i suoi membri i seguaci di Stahl, da Caspar Neumann (1683-1737) a Johann Heinrich Pott (1692-1777), da Johann Gottlob Lehmann (1719-1767) ad Andreas Sigismund Marggraf (1709-1782). Quest'ultimo fu il chimico dell'età fredericiana e la sua opera rivela che l'impianto metafisico di Stahl era associato a un forte atteggiamento empiristico, per cui la chimica tedesca fu prevalentemente analitica e volta a classificare minerali a partire da analisi di laboratorio. Marggraf limitò con grande attenzione le discussioni a carattere generale, teorico, e privilegiò analisi concrete, di laboratorio, che lo portarono a isolare sostanze ignote e a spiegare in maniera innovativa la fenomenologia chimica di sostanze note. La sua attenzione verso gli schemi teorici d'interpretazione, tipici dei manuali, fu scarsa e non a caso pubblicò soltanto memorie nella collezione annuale dell'accademia berlinese. D'altra parte, la prevalenza in Svezia, per tutto il Settecento, dei chimici pratici e metallurgici rispetto ai teorici è da porre in relazione con la realtà produttiva del regno scandinavo, ossia con le grandi miniere di rame e di ferro di Dannemora e Falun.

I mineralogisti svedesi e tedeschi si occuparono soprattutto di nuove classificazioni dei 'fossili' (in senso settecentesco), vale a dire dei minerali a partire da processi chimici. Nella Mineralogia, eller mineral-riket (1747) dello svedese Johan Gottschalk Wallerius (1709-1785) si ritrova un quadro del regno minerale nel quale le sostanze fossili sono ordinate in classi e queste in ordini e divisioni; la classificazione è fondata su criteri chimici, ossia per distinguere i minerali si usano non i segni estrinseci (aspetto esterno, figura o uso) ma i segni intrinseci (peso, rapporti rispetto al fuoco e agli acidi), e si ha in tal modo un sistema naturale di classificazione che è fondato sulla chimica. A Friburgo, in Sassonia, furono attivi Christlieb Ehregott Gellert (1713-1795) come professore di chimica mineralogica e Johann Friedrich Henckel (1678-1744) come direttore delle miniere e l'importanza del centro sassone fu sancita dalla fondazione, nel 1765, di una Bergakademie. Nei suoi Anfangsgründe zur metallurgischen Chemie (Elementi di chimica metallurgica, 1750) Gellert stabilì che la conoscenza delle sostanze fossili era possibile soltanto ricorrendo all'analisi chimica: l'accettazione della teoria del flogisto favorì l'adozione di un atteggiamento pragmatico, che privilegiava la sperimentazione chimica. Nel 1725 Henckel pubblicò la Pyritologia, vale a dire la prima monografia chimica dedicata a una classe di sostanze (piriti); nelle sue lezioni di mineralogia (Henckelius in mineralogiam redivivus, 1747, postume) viene indicato e teorizzato che l'esame dei minerali appartiene alla chimica, la quale ricorre all'ausilio del fuoco e degli acidi. Henckel era un seguace di Becher e di Stahl, sostenitore di un approccio flogistico, chimico e sperimentale al mondo dei minerali, ma credeva anche alla filosofia chimica di matrice rinascimentale. La sua Flora saturnizans (1722) è volta a dimostrare i legami tra il regno vegetale e quello minerale sulla base della storia naturale, della chimica e dell'accettazione del resoconto biblico della Creazione come scientificamente valido.

Le opere di Henckel dimostrano che nell'Età dei Lumi teorie specifiche come quella del flogisto e approcci pragmatici e analitici al mondo dei minerali e dei metalli non erano disgiunti da metafisiche chimiche che fondavano uno sperimentalismo radicale. è poi da sottolineare che la teoria del flogisto poteva inserirsi in contesti filosofici ben diversi da quello originario di Stahl.

Teoria del flogisto e meccanicismo

Nel 1739-1740 il naturalista russo Michail Vasil´evič Lomonosov (1711-1765) studiò chimica e mineralogia a Friburgo con Henckel e dopo il suo rientro a Pietroburgo preparò gli Elementa chemiae mathematicae (1741), nei quali indicava che la chimica, in quanto scienza dei cambiamenti dei corpi misti operati dal moto, presupponeva una perfetta padronanza della scienza della meccanica. Quest'ultima non era intesa come teoria newtoniana delle forze, ma come approccio cartesiano-leibniziano, quindi meccanicista, fondato sulla visione della materia come complesso di corpuscoli di forma sferica che interagivano se posti in contatto e in questo contesto il calore era riconducibile al movimento rotatorio delle particelle. Negli Elementa, Lomonosov delineò una complessa gerarchia di composizione dei corpi che aveva come riferimento essenziale le concezioni di Boyle, e individuava negli atomi gli elementi ultimi o principî dei corpi. Questo corpuscolarismo era ben diverso da quello della tradizione atomistica occidentale, poiché il naturalista russo non accettò mai le forme immaginose delle particelle, ammise che gli atomi erano sferici e considerò gli urti e i movimenti corpuscolari le sole cause esplicative dei mutamenti naturali.

Nel 1750, Lomonosov pubblicò le Meditationes de caloris et frigoris causa, nelle quali rifiutava l'idea del fuoco come sostanza materiale e si occupava anche della calcinazione dei metalli. Nel 1673, Boyle aveva stabilito la combinazione dei metalli con le particelle del fuoco; per Lomonosov ciò era inaccettabile e occorreva invece ammettere che nella calcinazione i metalli aumentano di peso perché si combinano con l'acido dello zolfo. Per esempio, nella calcinazione del piombo per ottenere il minio, l'aumento di peso e il colore brillante di esso erano dovuti allo spirito acido prodotto dallo zolfo grazie alla fiamma. Lomonosov si riferì a esperienze contraddittorie sull'aumento effettivo del peso delle calci e arrivò a distinguere le calcinazioni a seconda delle condizioni sperimentali, cioè all'aria aperta o in recipienti chiusi. Affermò che nel secondo caso non si verificava un aumento di peso dei metalli; ma la calcinazione in recipienti chiusi costituì un problema, perché la teoria dello zolfo presente nell'aria che si combina con i metalli non poteva fornire una spiegazione soddisfacente, e Lomonosov non riuscì quindi mai a formulare una teoria unitaria della calcinazione. In una lettera a Leonhard Euler (1707-1783) del luglio 1748 egli ammise che anche in recipienti chiusi vi era un aumento di peso, da attribuire però alla dinamica dell'etere meccanico della tradizione antinewtoniana.

Lomonosov conosceva le opere di Stahl, aveva studiato con uno stahliano come Henckel e ammise l'esistenza del flogisto ma non utilizzò mai questa sostanza per spiegare i processi di calcinazione; per lui il flogisto costituiva un componente, insieme all'acido vitriolico, dello zolfo, un principio che conferiva qualità specifiche ai metalli o agli acidi. In una memoria dal titolo De tincturis metallorum (1751) Lomonosov confermò la sua teoria dell'aumento in peso dei metalli sottoposti a calcinazione e considerò il flogisto soltanto in relazione alle qualità dei metalli stessi, quindi alla riduzione delle calci. In quanto principio chimico, il flogisto era considerato una sostanza leggerissima in grado di trasmettere volatilità agli acidi; era una parte costitutiva dei metalli e da esso dipendevano splendore e duttilità. Una volta rimosso, i metalli non mostravano più queste proprietà e l'oro era il più nobile, il più splendente e il più difficile da calcinare perché era quello più ricco di flogisto. Queste affermazioni hanno una matrice stahliana, ma occorre tener presente che per Lomonosov il flogisto spiegava le proprietà dei metalli, non il processo chimico di calcinazione che fu sempre ricondotto all'addizione di particelle solforose e al meccanismo del fluido gravitazionale. Lo zolfo era la causa dei processi di combustione che si verificano nella Terra (i fenomeni vulcanici), mentre al flogisto ‒ che era un componente di questo ‒ erano dovute le qualità dei metalli. Nella sua Oratio de generatione metallorum a terrae motu (1757), Lomonosov indicò che i metalli erano generati in continuazione nelle viscere della Terra ed era possibile, ove il flogisto fosse stato isolato e combinato con un metallo vile, trasformare quest'ultimo in un metallo nobile.

Nell'ambito di una visione meccanicista, antinewtoniana della Natura e della materia, Lomonosov utilizzò le concezioni stahliane per spiegare alcuni fenomeni chimici, geologici e mineralogici a partire dai rapporti tra i principî particellari dello zolfo e del flogisto. Realizzò in tal modo una particolare lettura corpuscolarista delle teorie di Stahl, ma di queste non accolse né i concetti centrali, come quello della calcinazione-riduzione in termini di flogisto, né l'approccio generale ai fenomeni. Il caso Lomonosov è soltanto un macroscopico esempio delle diverse letture conosciute delle originarie concezioni stahliane e delle innumerevoli varianti in esse introdotte.

Le teorie del flogisto

Le concezioni di Stahl in merito al flogisto, alla composizione dei metalli e degli acidi, e la teoria della calcinazione-riduzione in termini di scambi di flogisto conobbero una grande fortuna sin dagli inizi del Settecento, non soltanto nell'area germanica o nelle aree di influenza tedesca, ma anche in Francia e in Gran Bretagna. In Francia esisteva una secolare tradizione di chimica medica e farmaceutica che trovò la sua sanzione ufficiale, pubblica, presso l'Académie Royale des Sciences di Parigi. Il Cours de chymie (1675) di Nicolas Lémery (1645-1715) fu opera di riferimento nella quale era presente la teoria della calcinazione come combinazione del metallo con le particelle ignee che produceva un aumento di peso: era però conservata l'idea dei metalli come misti perché, insieme alla combinazione, si verificava la perdita di parti volatili presenti nella composizione del metallo. La riduzione era vista come espulsione delle particelle ignee nella quale il metallo ritornava nella sua forma primitiva ma in quantità inferiore rispetto a quella di partenza. Questo ruolo attivo della matière du feu fu confermato da molti chimici accademici, ma nel 1709 il medico Étienne-François Geoffroy (1672-1731) presentò all'Académie parigina le Expériences sur les métaux, nelle quali, in contrasto con Lémery, scriveva che ferro, rame, stagno, mercurio e piombo, sottoposti a calcinazione, perdono "zolfo o una sostanza oleosa" (soufre ou une substance huileuse), che è il principale responsabile delle loro proprietà e caratteristiche. Queste proprietà vengono recuperate dalle calci allorché durante la riduzione esse si combinano nuovamente con questo zolfo. Geoffroy proponeva dunque un'interpretazione ben diversa da quelle accettate nel contesto francese, interpretazione che ha un'impressionante analogia con la concezione di Stahl: in tal modo veniva aperta la strada alla diffusione delle teorie stahliane in Francia.

Sin dalla loro comparsa le concezioni stahliane conobbero modifiche più o meno sostanziali e la gran parte della comunità chimica europea accettò l'idea che i metalli fossero composti di terra o calce più flogisto, ma il flogisto assunse con il tempo una gamma di connotati straordinariamente diversi per cui, nella chimica del Settecento, è storicamente opportuno parlare di 'teorie' del flogisto.

Affinità, sali

di Frederic L. Holmes

In linea di massima, i chimici del XVIII sec. condividevano con i loro predecessori l'idea che lo scopo dell''arte' da essi praticata fosse quello di "separare le differenti sostanze che entrano nella composizione di un corpo" fino a che tale separazione fosse stata possibile. Infatti, come sosteneva Pierre-Joseph Macquer (1718-1784) negli Élémens de chymie théorique (1749), dai quali è tratta la citazione precedente, essi speravano di raggiungere per via sperimentale le sostanze considerate analiticamente inalterabili, ossia "i principî o elementi" dei corpi. In pratica, però, prima dei lavori di Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) della seconda metà del Settecento, i chimici non convenivano neanche su quali fossero tali sostanze elementari, né erano in grado di dimostrare, mediante criteri empirici, la loro semplicità e inalterabilità. Nella maggior parte dei casi, infatti, esse venivano variamente scelte sulla base di più antiche argomentazioni filosofiche, messe in campo allo scopo di rappresentare quelli che erano considerati i quattro o cinque costituenti ultimi di tutta la materia. Quest'assenza di solidità nei fondamenti stessi della disciplina ha dato luogo all'idea, condivisa da numerosi storici, che la chimica prelavoisieriana non fosse una scienza pienamente strutturata.

La gerarchia della composizione delle sostanze tra XVII e XVIII secolo

In realtà, la chimica non fu costruita, per così dire, 'verso l'alto' a partire dai suoi principî primi, né, per la verità, 'verso il basso' a partire dai suoi materiali più complessi, in quanto i chimici riuscirono per prima cosa a stabilire una solida struttura intermedia nella gerarchia della composizione che, in linea di principio, essi riconoscevano esistente nel mondo materiale. Infatti, verso la fine del XVII sec. furono messi in evidenza due livelli distinti di composizione di tipo 'mediano' sotto forma di sostanze tangibili, isolabili e identificabili: da una parte, i sali intermedi (rinominati nel corso del secolo sali neutri, come vedremo) e, dall'altra parte, gli acidi e le basi di cui questi sali erano composti e a partire dai quali potevano essere ricomposti. Durante la prima metà del XVIII sec. queste sostanze furono identificate in maniera sempre più precisa e divennero il punto di partenza tanto per la pratica chimica di routine quanto per gli sviluppi ulteriori della ricerca sperimentale.

Per i chimici del XVII sec. il termine 'sale' aveva molteplici significati. Il sale comune ricavato dal mare o sale marino ‒ con il suo sapore tipico, la facile solubilità e i suoi cristalli cubici facilmente riconoscibili ‒ divenne il prototipo di una classe di sostanze saline con sapori simili ma differenziabili ‒ come il nitro, l'allume e il sale ammoniacale ‒ le quali formavano cristalli dotati di diverse forme caratteristiche. Alcuni chimici ritenevano che un sale universale unico sottostesse a questi sali particolari e che anche un'altra classe di sostanze, conosciute come 'terre' in quanto insolubili in acqua, contenesse un sale, poiché si pensava che ‒ una volta mescolate con un tipo particolare di sostanze note come 'spiriti acidi' ‒ esse si comportassero chimicamente come i sali. Fra i reagenti più attivi e comuni presenti nel repertorio del laboratorio chimico vi erano tre acidi minerali, ossia lo spirito del nitro, lo spirito del vetriolo e lo spirito del sale marino, insieme con un acido derivato dall'aceto di vino e conosciuto perciò come 'acido vegetale'. Gli acidi minerali erano in grado di dissolvere sia la maggior parte dei sette metalli allora conosciuti sia le terre.

Un'altra classe di sostanze, note come 'alcali', reagiva con gli acidi dando luogo a un'effervescenza assai vivace e producendo come risultato finale una soluzione o un precipitato che non mostrava né il forte sapore aspro dell'acido né la corrosività dell'alcali. A partire dalla metà del XVII sec., le violente azioni reciproche che avvenivano fra gli acidi e gli alcali furono considerate come le più rilevanti operazioni della chimica e il punto di partenza per gran parte dei tentativi messi in atto per comprendere la composizione dei corpi. I chimici credevano che tutte queste sostanze fossero composte da cinque principî primi ‒ acqua, spirito, olio, sale e terra ‒ considerati i costituenti più semplici di tutta la materia. Tuttavia, poco a poco, un'interpretazione nuova e più pragmatica cominciò a coesistere con questa convinzione, cioè si comprese progressivamente che gli acidi si univano con gli alcali, con i metalli o con le terre, e si separavano da essi senza decomporsi nei loro principî ultimi. Questa nuova interpretazione si diffuse gradualmente a partire da pochi casi ben noti, come la combinazione del mercurio e dello spirito del vetriolo per formare il cinabro, segnalata sin dal 1612 nel Tyrocinium chymicum di Jean Béguin (1550 ca. -1620 ca.), e come la reintegrazione del nitro fisso o salnitro dall'acido del nitro e dall'alcali "sale di tartaro", segnalata nel 1661 da Boyle nello scritto A physico-chymical essay containing an experiment with some considerations touching the different parts and redintegration of salt-petre ‒ questa seconda reazione, comunque, era stata già effettuata alquanto prima da Johann Rudolph Glauber (1604-1670).

Durante la parte restante del secolo, tuttavia, tali interpretazioni rimasero fragili e di incerta generalità. Il popolarissimo Cours de chymie di Nicolas Lémery che ebbe numerose edizioni a partire dal 1675, esemplificò queste perduranti ambiguità. Lémery descrisse ognuno dei vari e distinti precipitati, formati dagli acidi comuni allora noti con il mercurio, in termini di una combinazione differente dell'acido e del metallo; ma per gli altri metalli egli pensava che uno stesso prodotto potesse essere ottenuto con più di un acido. Nel caso delle azioni degli acidi sugli alcali, egli credeva che le due sostanze si distruggessero a vicenda, dal momento che i prodotti finali della reazione non mostravano né le proprietà caratteristiche degli acidi né quelle degli alcali. In altri casi, invece, egli riteneva che, una volta combinate, le due sostanze rimanessero intatte, in quanto successivamente l'acido poteva essere riottenuto nella sua forma originale. In accordo con il punto di vista meccanicista di tipo cartesiano, Lémery cercava di spiegare questi effetti differenti mediante le dimensioni, le forme e le alterazioni delle forme delle particelle elementari che egli immaginava entrassero nella composizione di quelle sostanze.

Sebbene le loro spiegazioni fossero spesso incoerenti, tuttavia i chimici riuscivano a riprodurre e manipolare i composti coinvolti con attendibilità e precisione sempre crescenti. Nicolas Lémery pesava accuratamente tutte le sostanze implicate in queste operazioni, si sforzava continuamente di apportare miglioramenti ai suoi risultati, operava a partire dall'ipotesi che il peso dei composti dovesse essere uguale alla somma dei pesi dei loro costituenti, ottenendo valori che appaiono notevolmente accurati per gli standard moderni.

Molte generazioni di chimici membri dell'Académie Royale des Sciences di Parigi, fra il 1666 ‒ anno di fondazione di questa istituzione ‒ e gli inizi del Settecento, giocarono un ruolo centrale nel consolidamento di questa concezione emergente dei sali come composti di acidi combinati con basi. La prima generazione progettò e portò avanti un programma collettivo di analisi vegetale, che richiedeva la determinazione della quantità di acido o di alcali presente in un dato campione di un liquore ottenuto mediante la distillazione di sostanze ricavate dalle piante. Riconoscendo che questa quantità non potesse essere misurata semplicemente dalla quantità raccolta di un liquore acido o alcalino, poiché gli acidi e gli alcali erano sempre diluiti in acqua e di forza differente, essi provarono a misurare la quantità di acido per mezzo di una quantità data di una sostanza alcalina, come la calce, che l'acido potesse neutralizzare. Questi chimici, inoltre, osservarono che gli acidi e gli alcali non si distruggevano a vicenda quando si combinavano, ma continuavano a esistere in soluzione. Nel 1696, uno di loro, Moïse Charas (1619-1698), presentò con molta convinzione queste idee nel corso di una delle sedute settimanali dell'Académie. Come risulta dal verbale del 16 febbraio 1696, nel Raisonnement sur le sel ammoniac des ancients et sur celuy des modernes Charas sostenne che lo spirito acido ottenuto per distillazione o per sublimazione di un sale ammoniacale rendeva evidente l'errore di coloro i quali avevano creduto che i sali fissi distruggessero gli acidi nell'assorbirli e che l'effervescenza derivante dalla loro combinazione fosse un segno della loro reciproca antipatia. Al contrario, secondo Charas, tutte le sostanze che prendevano parte a questo tipo di unione lo facevano grazie alla loro "mutua simpatia" e alla loro grande disposizione a formare un'"unione intima". Probabilmente Charas non stava esprimendo un'opinione nuova o individuale, quanto piuttosto una direzione di pensiero e di esperienza che aveva lentamente preso piede fra i suoi colleghi dell'Académie durante i tre decenni nei quali essi erano stati impegnati nel progetto comune.

I sali misti

Accanto alla convinzione generale che esistesse un gruppo di sali, ciascuno dei quali era composto da un acido combinato con una terra, un metallo o un alcali, si faceva strada anche la consapevolezza che durante le combinazioni questi costituenti si sostituissero a vicenda secondo alcune leggi fisse e regolari. Già nel suo Cours, Nicolas Lémery aveva descritto l'ordine secondo cui i metalli si sostituivano l'uno all'altro nelle loro combinazioni con un acido. Charas, da parte sua, sosteneva che ogni volta che un alcali fisso "avvicinava" un acido, questi "abbandonava" l'alcali volatile con il quale poteva essere combinato in quel momento, per unirsi con quello fisso. Inoltre, quando la calce "incontrava" un sale composto dall'acido marino e da un alcali volatile, essendo il sale in grado di ricevere la calce nel suo seno era costretto ad abbandonare l'alcali volatile e a "metterlo in libertà".

I punti di vista di Charas e dei suoi colleghi su questi argomenti non avevano avuto una circolazione molto ampia, poiché era costume dei primi accademici lavorare in stretta collaborazione senza rendere pubblici, di regola, i loro contributi individuali allo sforzo collettivo che stavano portando avanti. Nel 1699, tuttavia, pochi anni dopo che il celebre chimico Wilhelm Homberg (1652-1715) era divenuto membro dell'Académie, le regole cambiarono ed egli, con una certa frequenza, pubblicò nei "Mémoires de l'Académie Royale des Sciences" ciò che presentava come il risultato delle proprie ricerche. Homberg portò a compimento alcuni dei principali approcci sperimentali e concettuali che i suoi predecessori avevano seguito sin dalla fondazione dell'Académie, compresi i tentativi di quantificazione delle relazioni fra gli acidi e gli alcali o le terre su cui essi agivano. Nel secondo degli articoli degli Essays de chimie intitolato Du sel principe chimique e pubblicato nel 1702, Homberg sostenne esplicitamente che esisteva una classe di sali "intermedi", ognuno dei quali era definito dall'acido e dalla base particolari in esso contenuti:

Gli acidi uniti ai sali fissi compongono sali misti, o sali intermedi, secondo la natura degli acidi che vi sono stati impiegati; per esempio, lo spirito del nitro unito al sale di tartaro produce autentico salnitro, lo spirito del sale unito al sale di tartaro produce autentico sale comune, lo spirito di vetriolo unito al sale di tartaro produce autentico vetriolo, ma senza metallo, ecc. che sono tutti sali intermedi, vale a dire in parte fissi e in parte volatili, poiché i due sali che li compongono sono e rimangono l'uno fisso e l'altro volatile. (pp. 40-41)

Ciò che in questo caso Homberg denominava "sale fisso" era frequentemente chiamato anche "alcali fisso", di cui il principale esempio era costituito dal sale di tartaro, ricavato dalla lisciviazione delle ceneri del legno. L'alcali fisso veniva distinto poi dall'"alcali volatile", il quale ‒ comunemente ricavato dall'urina ‒ se combinato con una serie di acidi dava luogo a un'altra classe di sali: "Gli acidi uniti ai sali che odorano di urina compongono un'altra sorta di sali che sono chiamati sali ammoniacali, che sono sempre volatili, poiché i due sali che li compongono sono ciascuno volatile" (ibidem, p. 41). Homberg suggeriva, senza dichiararlo così esplicitamente come in questi due casi, che gli acidi combinati rispettivamente alle terre alcaline e ai metalli formassero ulteriori classi di sali. Al pari di Charas, egli poneva grande enfasi sul fatto che le effervescenze che avvenivano nelle combinazioni di un acido con un alcali fisso oppure con un alcali volatile non erano "combattimenti, ma piuttosto un'unione molto conveniente di due materie che erano state naturalmente unite insieme, e che erano state separate dalla violenza del fuoco" (ibidem).

Come si è appena visto, Homberg inseriva questa descrizione dei sali misti o intermedi all'interno di una discussione sul "sale come principio chimico", successiva a un articolo sui "principî della chimica in generale". Per Homberg i principî della chimica erano soltanto "le materie più semplici nelle quali un misto p[oteva] essere ridotto mediante le analisi chimiche", e le "tre specie di sali che si adatta[vano] a questa definizione" (ibidem, pp. 33, 36) erano gli acidi e gli alcali fissi e volatili, la cui combinazione dava luogo ai sali misti e intermedi. A un livello più profondo egli credeva che tutti gli acidi fossero della stessa natura e che dovessero la loro attività a una "materia solforosa", che era sfuggita ai tentativi di isolamento. A questo livello, tuttavia, Homberg, come i suoi predecessori e i suoi contemporanei, entrava nel campo della speculazione nel quale ogni chimico offriva la propria versione dei principî chimici, mentre al livello di realtà nel quale gli acidi si combinavano con gli alcali, i metalli e le terre per formare i sali, il parere dei chimici convergeva sul semplice schema classificatorio espresso per la prima volta in maniera sistematica dallo stesso Homberg.

La Table di Geoffroy

Nel 1699 si unirono a Homberg, in qualità di membri dell'Académie Royale des Sciences, i due giovani chimici Louis Lémery (1677-1743) ed étienne-François Geoffroy. Per i successivi quindici anni i tre lavorarono su problemi simili, all'inizio sotto la guida intellettuale di Homberg. Gradualmente Geoffroy e Louis Lémery presero le distanze da Homberg e talvolta su alcune questioni specifiche dissentirono l'uno dall'altro, anche se continuarono a condividere gli approcci generali alla sperimentazione e al modo di ragionare che si erano venuti affermando fra i chimici dell'Académie. Nel 1718 ‒ tre anni dopo la morte di Homberg ‒ Geoffroy pubblicò nella "Histoire de l'Académie Royale des Sciences avec les Mémoires de mathématique et de physique" una Table des différents rapports observés en chimie entre différentes substances, che iniziava con un'affermazione di grande generalità: "Si osservano in chimica certi rapporti fra corpi differenti, che fanno sì che essi si uniscano facilmente gli uni con gli altri. Questi rapporti hanno i loro gradi e le loro leggi. Si osservano i loro differenti gradi, nel fatto che fra numerose materie mescolate e che hanno qualche disposizione a unirsi insieme, si percepisce che una di queste sostanze si unisce sempre costantemente con una cert'altra preferibilmente a tutte le altre" (p. 202).

Geoffroy stesso aveva osservato che fra le sostanze in grado di combinarsi, alcune si combinavano costantemente con certe altre, liberando quelle eventualmente unite a queste ultime, e facendo sì che altre sostanze non potessero più separare i composti ottenuti. A partire da queste regolarità, egli aveva tratto la conclusione che una sostanza che si univa con una seconda aveva "più rapporto d'unione o disposizione a unirsi a quella rispetto alle altre che lascia[va]no la presa al suo avvicinarsi" (ibidem). Sebbene non avesse ancora esaminato tutte le combinazioni possibili, Geoffroy dedusse da queste osservazioni un'altra proposizione generale: "Tutte le volte che due sostanze che hanno qualche disposizione a unirsi l'una con l'altra si trovano unite insieme, se ne sopraggiunge una terza che abbia più rapporto con l'una delle due, essa vi si unisce facendo lasciare la presa all'altra" (ibidem, p. 203).

La tavola elaborata da Geoffroy conteneva 16 colonne. In cima a ogni colonna era collocato un simbolo che rappresentava una sostanza (o una classe di sostanze) con la quale ogni altra sostanza indicata nella colonna aveva una qualche "disposizione a unirsi". Ogni sostanza era in grado di sostituire, nella combinazione con la sostanza posta in cima, tutte quelle poste al di sotto di essa, ma non quelle al di sopra. Perciò l'ordine in cui erano collocate le sostanze nelle colonne esprimeva i differenti "gradi di rapporto" fra di esse. Nel testo che precedeva la tavola vera e propria, Geoffroy descriveva a parole queste stesse relazioni.

La prima colonna mostrava l'ordine con il quale gli alcali, le terre assorbenti e i metalli si combinavano con gli acidi in generale. Le tre successive mostravano l'ordine secondo il quale ognuno dei metalli si combinava con ciascuno dei tre acidi minerali comuni. La quinta, la sesta e la settima colonna fornivano l'ordine secondo il quale questi tre acidi si combinavano rispettivamente con la terra assorbente e i due alcali, mentre l'ottava dava l'ordine di combinazione degli acidi con i metalli in generale. Le restanti colonne mostravano l'ordine di combinazione dei metalli rispettivamente con lo zolfo e con ogni altro metallo per la formazione delle leghe. Con l'eccezione di queste ultime colonne, dunque, la tavola di Geoffroy era dominata dagli acidi, dagli alcali, dai metalli e dalle terre, i cui composti Homberg aveva classificato come sali intermedi o come sali ammoniacali. La tavola, quindi, era una sorta di sommario di tutto ciò che Geoffroy e i suoi predecessori avevano studiato per numerosi decenni circa questo livello di composizione delle sostanze e circa l'ordine secondo il quale i costituenti dei sali misti o intermedi si sostituivano l'un l'altro.

Il termine rapport con il quale Geoffroy designava queste relazioni non possedeva alcuna implicazione di tipo causale. Nel descrivere le singole colonne egli usava un linguaggio pieno di locuzioni e termini come "disposizione a unirsi", "unirsi" o "liberarsi", simili a quelli usati da Homberg, Charas, Nicolas Lémery e altri chimici precedenti. Alcuni storici hanno suggerito che Geoffroy scelse deliberatamente il termine rapport allo scopo di evitare le accuse da parte dei cartesiani ‒ che allora dominavano la scienza francese ‒ che egli stesse facendo ricorso alle forze attrattive analoghe a quelle ipotizzate da Newton nelle Queries dell'Opticks (1717) per spiegare il mutamento chimico. Ma, in questo caso, non c'è alcun bisogno di cercare intenzioni recondite, poiché non vi era nulla di nuovo nella concezione di Geoffroy riguardo alla composizione delle sostanze implicate nelle reazioni chimiche o alla natura delle loro interazioni. L'originalità di Geoffroy consiste nell'aver enunciato per primo, sotto forma di legge generale, quello che i suoi predecessori avevano utilizzato nel descrivere individualmente i casi particolari che egli raccolse all'interno di un'unica tavola generale.

Geoffroy evitò ogni tipo di spiegazione di tali cambiamenti in termini di forme delle particelle ultime delle quali si supponeva consistessero le sostanze implicate, anche se da alcuni suoi primi lavori si può ricavare come egli stesso avesse inizialmente aderito a queste concezioni della struttura della materia. La scelta di escludere la spiegazione meccanicistica dalla sua tavola e dalla sua descrizione ragionata può essere considerata come un segno del crescente rilievo che nella considerazione degli studiosi stava assumendo il punto di vista pragmatico in merito alla composizione chimica, rispetto alle spiegazioni ricavate dalla filosofia meccanicistica che aveva fatto il suo ingresso nella chimica all'epoca di Boyle e di Nicolas Lémery. Sebbene ancora influenzati da questa filosofia, Geoffroy e i suoi colleghi erano arrivati a comprendere come essa fosse di ben poca utilità per il chimico pratico. Egli non appesantì la sua tavola con speculazioni sulla natura profonda di queste interazioni fra le sostanze chimiche, probabilmente perché il suo scopo era quello di mettere in grado i chimici di trovare "un metodo facile per scoprire ciò che accade nelle loro operazioni numerose, difficili da districare, e ciò che deve risultare dalle mescolanze che essi fanno dei differenti corpi misti" (Table, p. 203).

Geoffroy poneva poca enfasi sulla natura dei composti formati da due delle sostanze elencate nella sua tavola, ma dalla discussione ampia di un esempio da lui preso in esame, possiamo dedurre come egli considerasse quei composti sali intermedi, termine che estendeva fino a comprendere le combinazioni degli acidi con le terre e i metalli, oltre a quelle con gli alcali. Altri chimici, tuttavia, stavano cominciando a preferire l'uso del termine "sale neutro", che originariamente era adoperato per denominare soltanto un numero limitato di sostanze, ossia quelle formate da un acido e da un alcali fisso e difficili da decomporre. Nel 1744 Guillaume-François Rouelle (1703-1770), un insegnante di chimica molto popolare, pubblicò ancora nei "Mémoires de l'Académie Royale des Sciences" un lavoro dal titolo Mémoire sur les sels neutres, nel quale affermava di aver dato "alla famiglia dei sali neutri tutta l'estensione che essa può avere; io chiamo sale neutro intermedio o salato ogni sale formato dall'unione di un qualsiasi acido, o minerale o vegetale, con un alcali fisso, un alcali volatile, una terra assorbente, una sostanza metallica o un olio" (p. 353). La classificazione di Rouelle di questi sali neutri, basata sul tipo di cristalli da essi formati, non fu adottata dagli altri chimici, che preferirono raggrupparli a seconda degli acidi e delle basi in essi contenuti. Nel 1754, tuttavia, in un'altra memoria intitolata Mémoire sur la surabondance d'acide qu'on observe en quelques sels neutres, Rouelle estese ancora il significato del termine "sale neutro", includendovi combinazioni nelle quali era presente un eccesso di acido rispetto a quello necessario per saturare la base. Questi sali contraddicevano il significato comune dell'aggettivo neutro, in quanto facevano virare verso il rosso la tintura di tornasole, proprietà, questa, generalmente associata agli acidi. Rouelle cercò di risolvere la contraddizione chiamando i sali nei quali l'acido e la base erano reciprocamente saturati "sali neutri perfetti", e gli altri "sali con un eccesso di acido"; ma altri chimici, invece, preferirono chiamare questa nuova classe di sali con il termine ancora oggi in uso di 'sali acidi'.

La classificazione chimica dei sali

Nella prima parte del XVIII sec. ci si attendeva che i chimici dell'Académie Royale des Sciences facessero tutto ciò che era in loro potere per far avanzare le scienze con i propri lavori e, in effetti, in sintonia con questa funzione, essi scrivevano principalmente resoconti sulle loro ricerche che in seguito venivano pubblicati negli atti dell'Académie. Gli insegnanti più eminenti dell'epoca, come Herman Boerhaave (1668-1738) e Stahl, che in altre parti d'Europa pubblicavano invece libri di testo o trattati di chimica, non assorbirono rapidamente le idee sulla composizione dei sali e sulle loro interazioni che erano alla base della tavola di Geoffroy, sebbene essi, in altre forme, fossero partecipi delle stesse conoscenze accumulate sulle proprietà e le combinazioni degli acidi, degli alcali, delle terre e dei metalli che componevano i sali medesimi. In Francia, il venerabile libro di testo di Nicolas Lémery fu mantenuto 'in servizio' mediante successive edizioni postume con l'aggiunta di annotazioni sempre più numerose, nel tentativo di incorporarvi i più recenti sviluppi della chimica. Fu solo nel 1749 che Macquer decise di pubblicare un nuovo trattato generale ‒ i già citati Élémens de chymie théorique ‒ con l'intenzione di introdurre gli studenti privi di una preliminare conoscenza della chimica ai principî fondamentali di questa scienza. Gli Élémens, insieme al più tardo Dictionnaire de chymie (1766), sono spesso menzionati perché furono i tramiti principali per la diffusione in Francia della teoria del flogisto di Stahl e perché reintrodussero ‒ sulle orme di Rouelle ‒ gli aristotelici terra, acqua, aria e fuoco come principî elementari dei corpi. Tuttavia, gli Élémens sono un'opera notevole anche per il fatto di essere largamente strutturata intorno alle concezioni sulla composizione dei sali che furono sviluppate nell'ambito dell'Académie parigina, nonché per aver riprodotto, per la prima volta in un libro di testo, la tavola di Geoffroy.

Sebbene avesse adottato queste concezioni, Macquer alterò tuttavia la terminologia con cui esse erano espresse, in modo tale da modificare sottilmente il loro significato. Dall'unione di un acido e di un alcali entrambe queste sostanze "perdono reciprocamente le loro proprietà, cosicché il composto che ne risulta non altera il colore blu delle piante [cioè del tornasole], e ha un sapore che non è né acre né amaro, ma salato. Questo è ciò che ha portato a nominare questo tipo di combinazioni saline sali salati, sali intermedi, o sali neutri, poiché effettivamente essi non sono né acidi né alcali. Alcuni li chiamano anche semplicemente sali" (Élémens, pp. 31-32).

Il titolo del paragrafo I sali neutri, posto a margine della pagina da cui è stata tratta la citazione, indica che, ancora come Rouelle, Macquer dava la preferenza a questo termine che è tuttora adoperato per designare tali composti. Sostituendo l'aggettivo neutro a intermedio, inoltre, Macquer selezionava l'assenza di alcalinità o di acidità come la proprietà fondamentale di questi sali, piuttosto che il loro trovarsi in uno stato intermedio fra volatilità e fissità, che era stato il criterio scelto invece da Homberg per identificarli.

In maniera analoga, proprio mentre organizzava la chimica dei sali intorno all'"idea generale dei rapporti fra differenti sostanze" propria di Geoffroy, Macquer iniziava a sostituire un altro termine a quello di rapport. Tutti gli esperimenti realizzati "fino a quel momento, e quelli che sono portati avanti ogni giorno", egli affermava, "concorrono a provare che vi sono fra i differenti corpi, sia principî che composti, una convenienza, un rapporto, un'affinità, o un'attrazione se si vuole, che fa sì che certi corpi siano disposti a unirsi insieme, mentre sono incapaci di contrarre un'unione con altri. È questo effetto, qualunque ne sia la causa, che ci servirà a rendere ragione di tutti i fenomeni che la chimica offre, e che li tiene uniti insieme" (ibidem, p. 20).

Macquer preferiva il termine 'affinità', una parola che, come rapport, non specificava la causa dei fenomeni, ma che era in grado di evocare associazioni più suggestive rispetto al termine meno impegnativo scelto da Geoffroy. I chimici più antichi avevano già attribuito la propensione di certe sostanze a combinarsi alla loro affinità reciproca. Per alcuni le affinità, come le simpatie, erano metafore derivate dai sentimenti che tengono insieme le persone. Per altri, come Stahl, le affinità si riferivano alle similarità nella composizione delle sostanze che alcuni chimici credevano necessarie affinché queste potessero combinarsi. Anche il termine 'attrazione' poteva contenere in sé analoghe nozioni antropomorfiche, ma durante il XVIII sec. i chimici identificarono in maniera crescente questo vocabolo con le forze attrattive agenti a brevi distanze che Newton aveva evocato per spiegare fenomeni simili a quelli riassunti nella tavola di Geoffroy. Sempre più le locuzioni 'attrazioni elettive' e 'affinità elettive' cominciarono a essere usate come sinonimi, e diedero luogo a un'ampia discussione circa il loro ruolo nel causare il cambiamento chimico. Tuttavia i chimici settecenteschi non furono in grado di specificare la natura di queste forze attrattive in modo tale da renderle in grado di indirizzare la ricerca sperimentale, analogamente a quanto era avvenuto per le forme delle particelle che i chimici avevano invocato un secolo prima.

La struttura della classificazione dei sali neutri e degli acidi, degli alcali, delle terre alcaline, dei metalli che li componevano, insieme alla conoscenza analitica accumulata ‒ sulla quale si basavano il loro isolamento e la loro identificazione ‒, alla metà del XVIII sec. erano diventate abbastanza solide da sostenere un ben organizzato e progressivo programma di ricerca. Questa conoscenza non era esclusivamente empirica, poiché si fondava sulla comprensione concettuale, raggiunta faticosamente, che due sostanze, ciascuna delle quali identificata da proprietà fortemente caratterizzate, erano in grado di combinarsi per formare un composto nel quale esse continuavano a esistere, nonostante il fatto che le loro rispettive proprietà non fossero più individuabili nel composto. Il mutamento che aveva avuto luogo in poco più di mezzo secolo viene messo chiaramente in risalto dal contrasto fra la concezione di Nicolas Lémery del 1675, secondo la quale un acido e un alcali si distruggevano a vicenda in un violento 'combattimento', e quella di Macquer del 1749, il quale invece sosteneva che un sale neutro era il risultato dell'unione di un alcali con un acido, in cui nessuna delle proprietà caratteristiche dei suoi componenti era più visibile.

Questa struttura analitica e concettuale era stata costruita intorno a un insieme di interazioni fra quattro acidi comuni, sette metalli, due alcali e una "terra assorbente", tutti già noti ai chimici del XVII secolo. Tuttavia, a partire dalla metà del XVIII sec., si cominciò a pensare che questa struttura fosse capace di un'espansione indefinita. Metalli, acidi e terre alcaline di nuova scoperta fornirono ai chimici l'opportunità di indagare su ognuna delle combinazioni che queste sostanze erano in grado di formare con gli acidi e le basi noti, e il numero dei sali neutri conosciuti o presunti cominciò a espandersi a ritmo accelerato, continuando per tutta l'Età moderna.

Affinità chimica e attrazione newtoniana

di Antonio Di Meo

Sebbene sia stato sospettato di essere un newtoniano, Étienne-François Geoffroy probabilmente non lo era, anche se aveva molti rapporti con l'ambiente scientifico inglese ed era a conoscenza delle opere di Newton e dei suoi seguaci. Egli, in realtà, in contrasto con la tradizione cartesiana dominante negli ambienti dell'Académie Royale des Sciences, sin dai primissimi anni del Settecento si era fatto sostenitore ‒ il primo in Francia ‒ di una diversa tradizione di ricerca, ossia di quella della iatrochimica tedesca che aveva in Becher e Stahl i suoi maggiori rappresentanti. A ulteriore conferma di ciò, nell'Éclaircissement sur la table insérée dans les Mémoires de 1718 concernant les rapports observés entre différents substances, pubblicato nel 1720, rispetto alla più celebre Table des différents rapports observés en chimie entre différentes substances, del 1718, Geoffroy non solo adopererà esplicitamente il termine 'affinità', proprio del dizionario iatrochimico, come sinonimo del più neutro 'rapporti' (anch'esso tuttavia presente in quel dizionario), ma ridenominerà quello che fino ad allora aveva chiamato "principio oleoso o zolfo principio" con il termine "flogisto", che era la chiave di volta della chimica becheriana e stahliana. Anche se le spiegazioni meccanicistiche non spariranno mai dall'orizzonte della chimica settecentesca, non vi è dubbio, però, che all'origine le teorie dell'affinità saranno fortemente segnate dalle idee di Stahl sulla combinazione chimica. Queste si basavano sulla supposizione che le sostanze si unissero per formare una gerarchia di composti a complessità crescente, grazie alla loro differente disposizione a combinarsi derivata da una similitudine presente nella loro costituzione intima. Secondo Stahl, infatti, i sali acidi erano in grado di combinarsi con i metalli per l'analogia del principio terroso contenuto in entrambe le classi di reagenti, oppure che l'"acido nitrico" era in grado di dissolvere più di ogni altro acido i metalli, per la presenza nel primo e nei secondi di una grande quantità di flogisto. Uno dei principali allievi di Stahl, Johann Juncker (1679-1759), contribuì notevolmente alla diffusione del pensiero del suo maestro con il Conspectus chemiae theoretico-practicae (1730-1738) ‒ tradotto poi in francese con il titolo Élémens de chymie suivant le principes de Becker [sic] et de Stahl (1757) ‒, nel quale sosteneva, per esempio, che il mercurio poteva formare amalgami con gli altri metalli grazie all'identità fra le particelle metalliche e quelle mercuriali e che le dissoluzioni potevano avvenire poiché i soluti e i solventi contenevano quantità differenti dello stesso principio:

Se mi si domanda per quale ragione i mestrui [solventi] hanno ciascuno il loro effetto proprio e perché essi si attaccano a certi corpi piuttosto che ad altri, risponderò che è molto probabile che questa proprietà è fondata sul rapporto o rassomiglianza del mestruo e del corpo da dissolvere: poiché se è vero che due cose simili possiedono una mutua convenienza, sarà anche vero che il rapporto delle parti del mestruo con le parti del corpo che esso attacca spiega in una maniera soddisfacente le ragioni della preferenza che determinano questi mestrui verso un corpo piuttosto che verso un altro. (Élémens de chymie, I, p. 377)

La concezione stahliana dell'affinità ben presto si intrecciò in maniera molto differenziata con una diversa tradizione di ricerca che proprio agli inizi del XVIII sec. stava prendendo avvio soprattutto in Gran Bretagna, e che alla fine del secolo sarà prevalente, seppure in maniera particolare e spesso generica, nella spiegazione dei fenomeni chimici. Si trattava della tradizione derivata dalle teorie newtoniane e resa esplicita da Newton nelle Queries annesse all'Opticks (1704, 1706, 1717), in particolare in quella Query 31 dove spiegava i fenomeni chimici facendo ricorso a differenti forze attrattive e repulsive a corto raggio agenti fra le particelle insensibili delle differenti sostanze reagenti. Newton oltre a utilizzare il termine 'attrazione' per denominare il potere delle diverse sostanze a combinarsi fra loro, faceva continui riferimenti al fatto che il meccanismo intimo delle reazioni chimiche sensibili si trovava al livello insensibile dei corpi, cioè delle particelle ultime diversamente strutturate a 'guscio di noce'. In questo modo, in realtà, egli recuperava una posizione dei filosofi della Natura meccanicisti, in polemica con i quali, però, sosteneva che le spiegazioni dei fenomeni chimici dovevano essere ricercate nell'interazione fra particelle insensibili di una certa complessità e forze agenti a breve distanza o al contatto, considerate come cause seconde di quegli stessi fenomeni, essendo le cause prime inconoscibili scientificamente. Da questa impostazione derivava anche una notevole implicazione, ossia la necessità (o la possibilità) di calcolare queste forze a corto raggio se si voleva dar vita a una dinamica chimica analoga a quella celeste. Infatti, grazie alla potenza del modello newtoniano più generale, si fece strada l'idea che per avere una chimica veramente scientifica non si potesse fare a meno di 'portare la luce del calcolo' nello studio dei fenomeni sia macroscopici sia, soprattutto, microscopici. Fra i primi a tentare un'impresa del genere, prima della pubblicazione della Query 31, che è del 1717, furono l'astronomo e matematico John Keill (1671-1721) e il medico John Freind (1675-1728). Il primo, nella Introductio ad veram physicam (1702, 1708, 1712) espose un insieme di teoremi che riteneva fondamentali per la spiegazione dei fenomeni naturali, basandosi su una teoria corpuscolare della materia analoga a quella newtoniana a 'guscio di noce' e postulando l'ipotesi di più forze attrattive a seconda del livello di realtà considerato. Una di queste forze ‒ che per Keill decresceva secondo una potenza maggiore dell'inverso del quadrato della distanza ‒ era responsabile dei fenomeni chimici (dissoluzioni, fermentazioni, effervescenze, precipitazioni, ecc.) ed era modificata in relazione al maggiore o minore contatto fra le particelle delle sostanze reagenti e alla loro figura. Keill tentava anche di applicare il calcolo a questi fenomeni, la qual cosa sarà ripresa e sviluppata da Freind nelle Praelectiones chymicae (1709) dove risulta marcato anche un approccio riduzionistico nei confronti della chimica, tipico di molti tentativi di 'newtonianizzare' questa scienza. Infatti, sviluppando l'ipotesi dell'esistenza di forze agenti a breve distanza o nei punti di contatto diverse da quella gravitazionale, Freind esponeva in termini aritmetici la spiegazione delle principali reazioni chimiche, da lui distinte in 'diacretiche' e 'sincretiche', facendo ricorso a immaginarie dimensioni delle figure delle particelle dei reagenti e a una valutazione altrettanto immaginaria delle forze agenti fra di esse.

Sebbene questi lavori avessero un rapporto molto debole con la pratica di laboratorio, e sebbene fossero caratterizzati anche da notevoli gradi di arbitrarietà, essi, tuttavia, diedero lo spunto per lo sviluppo di una seria attività sperimentale nel campo dei fenomeni (fisici e chimici) che si riteneva fossero causati da forze a corto raggio. In tale attività si distinsero alcuni abili ricercatori come Francis Hauksbee (1666 ca.-1713), Brook Taylor (1685-1731) e Jean-Théophile Desaguliers (1683-1744). Questo approccio ebbe molta fortuna tra i fisici olandesi come Willem Jacob 'sGravesande (1668-1742) e Pieter van Musschenbroek (1692-1761), entrambi influenzati soprattutto dall'opera di Desaguliers.

Una seconda generazione di filosofi naturali inglesi sviluppò ulteriormente il programma newtoniano in chimica: Peter Shaw (1694-1763), Henry Pemberton (1694-1771) e soprattutto Stephen Hales (1677-1761), che con la Vegetable staticks (1727) diede inizio all'importante capitolo della chimica pneumatica. Hales, come altri filosofi naturali influenzati dal newtonianesimo, postulava l'esistenza non solo di forze attrattive ma anche repulsive dalla cui azione cooperativa faceva dipendere l'intera attività chimica della Natura. Nel caso di Hales, la forza repulsiva era presente nelle particelle di sostanze come l'aria che si respingevano le une con le altre, causando perciò una dilatazione del resto della materia:

L'aria abbonda nelle sostanze animali, vegetali e minerali; in queste essa riveste un ruolo considerevole; se tutte le parti della materia fossero dotate solamente di un forte potere di attrazione, l'intera Natura diventerebbe immediatamente un inattivo blocco compatto; dunque era assolutamente necessario, allo scopo di animare e ravvivare questa grande massa di materia che attrae, che esistesse dovunque, frammista ad essa, una giusta proporzione di particelle elastiche che si respingono fortemente [...] e che dunque questa bella struttura di cose potesse essere mantenuta in un ciclo continuo di produzione e dissoluzione dei corpi animali e vegetali. (Vegetable staticks, pp. 313-314)

Negli ambienti scientifici britannici, inoltre, ebbero un importante seguito le idee di Ruggero Giuseppe Boscovich (1711-1787), soprattutto quelle esposte nella sua Philosophiae naturalis theoria redacta ad unicam legem virium in natura existentium (1758) che rappresentavano uno sviluppo estremo e fortemente eterodosso del pensiero newtoniano. Per Boscovich la materia era costituita in ultima istanza di punti inestesi, dotati di un'unica forza attiva che diventava attrattiva o repulsiva a seconda della distanza. Alle piccole distanze prevaleva la repulsione, la cui intensità aumentava all'infinito via via che la distanza tendeva a zero (quindi era escluso il contatto). Al contrario, allorché la distanza aumentava, la forza repulsiva diminuiva e ‒ dopo essere passata per un punto neutro ‒ diventava attrattiva; questa, dopo aver raggiunto un massimo, diminuiva e, ripassando per un punto neutro, ridiventava repulsiva e così via. Infine, a partire da una certa distanza, dopo essere passata per un massimo, l'attrazione non diventava repulsione e si avvicinava asintoticamente alla neutralità. A partire dai punti privi di dimensione, considerati come semplici centri di forza, si formavano grazie a questa forza corpi più complessi, cioè "particelle" di ordine superiore, dotate di forze e di una struttura spaziale specifica e di determinate qualità, come nel caso delle sostanze chimiche. In questo contesto una reazione chimica non era altro che un cambiamento nella composizione delle particelle di un ordine superiore prodotto da una diversa disposizione spaziale delle particelle costituenti di ordine meno elevato. Lo stesso meccanismo, del resto, era valido per la struttura corpuscolare a 'guscio di noce' della materia maggiormente vicina alle concezioni del newtonianesimo più 'ortodosso', anche se i fondamenti dei due modelli erano diversi.

La ricezione delle teorie di Boscovich fu favorita dalla preesistente presenza nella cultura scientifica della Gran Bretagna di posizioni 'dinamiche' e tendenzialmente immaterialiste, come quelle di Robert Green (1678-1730) o di Gowin Knight (1713-1772), ma non vi è alcun dubbio che esse rappresentarono un punto di svolta per la filosofia della Natura di quel paese fino alla prima metà dell'Ottocento. Ciò è chiaramente dimostrato dai continui riferimenti che a essa sono stati fatti da Thomas Thomson, Humphry Davy e Michael Faraday. A Boscovich si ricollegava anche il filosofo e chimico seguace della teoria del flogisto Joseph Priestley (1733-1804) come testimoniano le sue Disquisitions relating to matter and spirit del 1777, nelle quali si sosteneva che la materia era dotata di forze di attrazione e repulsione e consisteva di un sostrato di poteri attivi che davano vita agli atomi e ai corpi sensibili, senza i quali questi ultimi non sarebbero potuti esistere. Tuttavia ‒ e qui è il limite di queste concezioni generali ‒ le opere di chimica pneumatica di Priestley, i suoi studi fondamentali sulle 'arie', non sembrano interagire in maniera significativa con le sue idee sulla struttura ultima della realtà.

Opposizioni al programma newtoniano

L'esigenza di quantificare, matematizzare, la reattività chimica delle sostanze ‒ a qualunque livello ‒ non era affatto avvertita dagli stahliani più 'ortodossi' e anche l'idea di una dinamica chimica analoga a quella newtoniana non trovava consenso unanime. In campo chimico, in realtà, la polemica antimatematizzante si era sviluppata già in precedenza da parte di Stahl e della sua scuola contro la geometrizzazione a oltranza dei corpuscoli delle sostanze e delle reazioni di queste, tipiche dell'approccio meccanicistico. In tutti e due i casi, infatti, si cercava di realizzare in maniera più o meno radicale una riduzione della chimica alla fisica. Quindi, sebbene sin dai primi del XVIII sec. il newtonianesimo chimico, come si è visto, fosse stato progressivamente accettato in una forma ibrida con lo stahlismo ‒ come testimoniano il trattato di Jean-Baptiste Sénac (1693-1770) significativamente intitolato Nouveau cours de chymie suivant les principes de Newton et de Stahl (1723) e il fatto che i filosofi della Natura inglesi sopra citati utilizzassero anche le teorie di Stahl nella spiegazione dei fenomeni chimici ‒, non fa meraviglia che fu uno stahliano, Gabriel-François Venel (1723-1775), a formulare la critica più radicale alla possibilità di applicazione delle idee di Newton e più in generale della fisica alla chimica e di ridurre la seconda alla prima. Ciò avvenne in una sede di grande rilievo come la voce Chymie che Venel scrisse per il terzo volume dell'Encyclopédie (1753). In questa voce si apriva una fortissima polemica contro le idee di Newton, di Keill e di Freind (oltre che di Robert Boyle), nella quale si ribadiva ripetutamente non solo l'esistenza di una eterogeneità non eliminabile fra la chimica e la fisica negli oggetti, nei fini, nei mezzi, nelle teorie di fondo, ma si arrivava a sostenere che le combinazioni chimiche per loro natura non potevano essere oggetto di calcolo: la chimica era la scienza delle "qualità interne" dei corpi, dalle quali scaturiva tutta la fenomenologia sensibile (l'unica valida) di sua pertinenza. Erano queste qualità interne a essere responsabili della reattività delle sostanze eterogenee che interagivano nel laboratorio dell'arte o in quello della Natura. Pur avendo sostituito all'attrazione newtoniana la "miscibilità" come proprietà relazionale delle sostanze chimiche in grado di farle reagire tra loro, Venel, tuttavia, non negava totalmente la validità della prima, ma ne limitava il campo di applicabilità ai problemi tipicamente fisici.

L'idea che i fenomeni chimici fossero eminentemente qualitativi e difficilmente soggetti al calcolo era condivisa anche da Pierre-Joseph Macquer, uno dei più importanti esponenti della scuola francese della teoria del flogisto, che aveva avuto in Guillaume-François Rouelle il suo principale riformatore. Macquer, però, non aveva un atteggiamento ostile al newtonianesimo, anzi dalle posizioni rigidamente stahliane dei suoi lavori sulla dissolubilità degli oli (1745) e degli importanti Élémens de chymie théorique (1749), si spostò progressivamente verso un'accettazione sempre più convinta della spiegazione newtoniana della reattività chimica. Ciò è testimoniato da molti articoli delle due diverse edizioni del suo Dictionnaire de chymie (1766 e 1778) nelle quali tuttavia saranno ancora presenti spiegazioni di tipo stahliano di combinazioni chimiche particolari, cioè fondate sulla similitudine di composizione. Macquer era convinto che, sebbene fosse auspicabile una dinamica chimica analoga a quella newtoniana, pur tuttavia al momento essa era ritenuta 'praticamente' impossibile, come scriverà nell'articolo Pesanteur della prima edizione del Dictionnaire:

Per completare questo articolo ci rimarrebbe da esaminare quali sono gli effetti che può produrre la gravità dei corpi nelle loro combinazioni e decomposizioni, cioè in tutte le operazioni chimiche. È questo, indubbiamente, l'oggetto più importante e più decisivo per la teoria generale della chimica, ma esso non rientra nelle nostre possibilità. È facile intendere che una tale materia non può essere trattata senza far ricorso alla matematica; è questo il terreno nel quale queste due grandi scienze, che sembrerebbero del resto così lontane, trovano il loro punto d'incontro. Senza dubbio un uomo che avesse abbastanza conoscenze e capacità in entrambe potrebbe, trattando a fondo questa materia, spandervi una grande luce e gettare i fondamenti di una nuova scienza fisico-matematica o, piuttosto, generalizzare infinitamente l'applicazione del calcolo e della geometria alla fisica. (II, p. 194)

Posizione, questa, della necessità di una sorta di 'Newton della chimica', che sarà ricorrente fino alla seconda metà dell'Ottocento, anche dopo l'elaborazione della meccanica statistica. In questo caso Macquer, come è evidente, tratta del livello invisibile della fenomenologia chimica, nel quale effettivamente una meccanica dei movimenti delle particelle insensibili delle sostanze era difficile da concepire, anche perché essendo queste appunto insensibili, erano considerate irraggiungibili da qualsiasi strumento all'epoca in uso. Soltanto la potenza del metodo analogico poteva far supporre che ci si trovasse di fronte, come dirà ancora Macquer, a "piccoli mondi a parte", nei quali tali particelle erano "libere di obbedire alla tendenza che le conduce le une verso le altre [...] senza essere turbate dai grandi contrappesi che tengono in equilibrio tutto l'Universo" (ibidem, p. 196). Ciò che poteva essere valutato, quindi ‒ e in maniera approssimata ‒ erano i fenomeni d'insieme, gli effetti macroscopici sensibili che diventavano così gli unici oggetti possibili della ricerca chimica. Per Macquer, l'attrazione era una proprietà generale ed essenziale della materia ‒ e in ciò era distante dalle posizioni più esplicite di Newton ‒ che si articolava in più forze distinte agenti in base a leggi diverse a seconda delle circostanze. Nei fenomeni chimici la proprietà attrattiva della materia agiva al livello delle "molecole primitive integranti" o delle "molecole primitive costituenti" dei corpi per dare i fenomeni sensibili. Secondo Macquer, la differenza fra i due livelli risiedeva in una differenza fra le forze e fra le leggi agenti fra le molecole. La forza microscopica, in particolare, si modificava a seconda della grandezza, della densità, della figura e dell'estensione delle molecole stesse, dell'intimità del loro contatto, della distanza alla quale esse potevano avvicinarsi. Essa, quindi, era diversa da quella newtoniana dell'inverso del quadrato della distanza, ossia quest'ultima legge non doveva essere considerata universale, valida per tutti i corpi, a qualsiasi livello di realtà essi fossero collocati.

Un dibattito fra "geometri" e ricadute sulla chimica

Questa problematica non riguardava solo i chimici in quanto, aggiungeva Macquer, "allorché i geometri hanno tentato di applicare la teoria della gravitazione universale ai fenomeni dei corpi terrestri, hanno trovato che questa gravitazione non seguiva affatto il rapporto inverso del quadrato della distanza, quando questa distanza era molto piccola" (ibidem, p. 195). Tale posizione, come abbiamo visto, era molto diffusa in ambito newtoniano, sebbene in maniera diversamente articolata; tuttavia è molto probabile che Macquer si riferisse a un acceso dibattito che, alla metà del XVIII sec., si era sviluppato in Francia e che aveva visto protagonisti, fra gli altri, Alexis-Claude Clairaut (1713-1765) e Georges-Louis Leclerc de Buffon (1707-1788). Esso verteva sostanzialmente sulla valutazione della legge secondo la quale agiva la forza gravitazionale nel caso detto dei 'tre corpi', ma anche della capillarità o, più in generale, nel caso dei fenomeni di adesione. Nel 1747, infatti, in una memoria dal titolo Du système du monde dans les principes de la gravitation universelle, Clairaut sostenne che la legge secondo la quale si manifestava la forza gravitazionale era più complessa di quella canonica calcolata da Newton ed era dipendente dalla grandezza della distanza fra i corpi presi in considerazione. Nel caso delle forze microscopiche, per esempio, cioè per distanze piccolissime, essa variava secondo l'inverso di una potenza maggiore di 2. La stessa forza, quindi, poteva essere calcolata in base a leggi diverse a seconda dei fenomeni considerati. Questa posizione ebbe in Buffon un accanito avversario: nel 1749, infatti, egli replicò a Clairaut con una memoria intitolata Réflexions sur la loi de l'attraction, in cui sosteneva l'idea di una unicità della forza gravitazionale, sia nel macromondo sia nel micromondo, alla quale corrispondeva un'analoga unicità della legge in cui essa si manifestava, ossia quella canonica dell'inverso del quadrato della distanza. La Natura, per Buffon, era semplice e quindi altrettanto doveva esserlo il suo modo di manifestarsi legalmente, e perciò ogni scostamento particolare dalle leggi generali stabilite sperimentalmente doveva essere attribuito a una causa ugualmente particolare, senza che si dovesse modificare la legge generale.

La polemica fra Clairaut e Buffon continuò attraverso successive memorie pubblicate anch'esse nei "Mémoires de l'Académie Royale des Sciences". A essa si riferirà ampiamente Jean-Baptiste Le Rond d'Alembert nella voce Attraction del primo volume dell'Encyclopédie (1751) sostenendo a questo riguardo una posizione analoga a quella di Buffon, il quale riprenderà l'argomento nel 1765 nello scritto De la nature. Seconde vue pubblicato nel tomo XIII della sua Histoire naturelle, trattando anche delle leggi delle affinità chimiche che, a suo parere, dovevano essere considerate come casi particolari della legge newtoniana generale. Per Buffon, infatti, "un globulo d'acqua, di sabbia o di metallo agisce su un altro globulo come il globo della Terra agisce su quello della Luna" (p. XII). La variazione 'apparente' della legge per i fenomeni microscopici dipendeva dalla 'figura' delle particelle costituenti delle sostanze che reagivano. Lo stesso Newton, sempre secondo Buffon, non aveva ben compreso il ruolo della figura alle piccolissime distanze, il fatto cioè che "le figure degli atomi che si attraggono hanno più influenza della massa nell'espressione della legge, poiché questa figura entra in maniera determinante nell'elemento della distanza" (ibidem, p. XIV), e per questo motivo il grande filosofo inglese aveva erroneamente pensato all'esistenza di forze differenti da quella gravitazionale per le piccolissime distanze, che agivano secondo leggi diverse da quella agente alle grandi distanze.

Le idee di Buffon ebbero un forte impatto sulla chimica settecentesca; Macquer ne fu sicuramente influenzato, soprattutto per quanto riguarda il ruolo della figura delle particelle nel creare le situazioni particolari della reattività chimica. Egli però, come si è visto, aveva idee diverse, che in parte rettificò in direzione delle posizioni di Buffon con una nota aggiunta alla voce Pesanteur della seconda edizione del 1778 del suo Dictionnaire, anche se di fatto rimase fedele a una chimica dei principî portatori di qualità, fra le quali l'attrazione ("terra") e l'espansibilità ("fuoco"). Louis-Bernard Guyton de Morveau (1737-1816), invece, condividerà completamente tali idee già a partire dalle sue Digressions académiques (1772) e dai suoi Élémens de chymie théorique et pratique (1777-1780). In questi ultimi, mentre proclamava la propria adesione alla spiegazione newtoniana dei fenomeni chimici scrivendo che "Newton ha detto per primo che l'attrazione doveva essere il principio della dissoluzione" (I, p. 50) e che "l'affinità non è altra cosa dell'attrazione" (I, p. 79), si richiamava direttamente alle posizioni di Buffon, da lui definito enfaticamente il "Newton della Francia", sull'identità fra legalità celeste, terrestre e microscopica. Queste posizioni verranno ribadite ed enfatizzate sia nelle voci Affinité (1776) e Dissolution (1776) scritte per i Suppléments dell'Encyclopédie, sia, ancor più estesamente, nell'articolo Affinité (1786) dell'Encyclopédie méthodique, una vasta trattazione monografica su questo argomento. È da notare che mentre nelle prime opere Guyton de Morveau era sostenitore della teoria del flogisto, nell'ultima era già diventato un convinto lavoisieriano: in tutti e due i contesti, però, egli rimaneva un newtoniano (à la Buffon) e ciò dimostra come nella scienza operino più livelli problematici e che i mutamenti possono anche non coinvolgerli tutti simultaneamente.

Un aspetto rilevante delle posizioni di Buffon e di Guyton de Morveau consisteva nell'enunciazione della possibilità di determinare la figura delle particelle ultime della materia applicando le cosiddette 'regole di falsa posizione', cioè mediante la valutazione dello scarto fra le leggi particolari delle affinità chimiche e la legge generale dell'inverso del quadrato. In questo modo si cercava di dare concretezza, in un nuovo contesto, al vecchio sogno meccanicista della determinazione precisa della struttura corpuscolare, intima, dei corpi. Convinto newtoniano era anche lo svedese Torbern Olof Bergman (1735-1784) che nel 1775 pubblicò una Disquisitio de attractionibus electivis (tradotta in francese nel 1788 con il titolo più noto di Traité des affinités chymiques ou attractions électives) in cui ‒ analogamente alle posizioni di Buffon e Guyton de Morveau ‒ si sosteneva la stretta analogia fra la forza responsabile dell'attrazione chimica e quella gravitazionale e, inoltre, che la causa dello scostamento della prima dalla seconda era dovuta soprattutto alle "circostanze" nelle quali agiva tale forza:

L'illustre Newton ha chiaramente dimostrato che i grandi corpi dell'Universo esercitano le loro attrazioni in ragione diretta della loro massa e in ragione inversa del quadrato delle loro distanze. Ma la tendenza all'unione che si osserva tra tutti i corpi vicini, sulla superficie della Terra, sembrerebbe sottomessa a leggi molto differenti. Si può chiamare questa qui 'attrazione prossima', poiché essa agisce solo sulle piccole molecole e si estende appena al di là del contatto; e dare il nome di 'attrazione lontana' alla prima [...]. Dico che le leggi di queste due specie di attrazione 'sembrerebbero' fra loro differenti poiché tutta la differenza forse dipende solo dalle circostanze. In effetti, se si considera la distanza immensa dei corpi celesti, si possono trascurare i loro diametri e considerarli come punti 'gravitanti'. È molto diverso nel caso dei corpi che sono prossimi gli uni agli altri: in questo caso la figura e la situazione, non solamente del tutto, ma anche di ogni parte, producono delle grandi variazioni negli effetti dell'attrazione. (Traité, p. 2)

La tematica delle "circostanze", così continuamente ribadita dai chimici settecenteschi, è molto importante perché rivela che il singolo fenomeno chimico non era considerato spiegabile esclusivamente dalle leggi generali della Natura, ma doveva essere valutato il risultato di una combinazione fra queste leggi e i contesti concreti, sperimentali o naturali, in cui avveniva. Come affermava Bergman, ma l'idea era assai diffusa, "la stessa forza, può, dunque, produrre effetti molto differenti" (ibidem, p. 3); egli, infatti, pur avendo introdotto la temperatura, la massa o il solvente come parametri cha causavano la variazione delle affinità, riteneva che tale variazione fosse un'"anomalia" rispetto al loro carattere originario definito e costante. L'enfasi sul ruolo delle circostanze, inoltre, era spesso indice di una sottostante idea di Natura magnificente e illimitata nelle sue produzioni, come illimitate potevano essere le condizioni di possibilità di ogni singolo evento chimico. Tale enfasi, però, si manterrà quasi sempre al di qua dell'idea ‒ pure presente ‒ che ogni fenomeno chimico fosse determinato 'esclusivamente' dalle circostanze e quindi sfuggisse a qualsiasi forma di legalità naturale.

Il modello 'molecolarista'

Soprattutto i chimici francesi avevano fatto fare alla teoria chimica della materia un notevole passo avanti grazie al collegamento da essi instaurato fra livello macroscopico e quello microscopico dei fenomeni, proprio perché avevano elaborato una forma peculiare di stahlismo in cui era dominante il problema dell'individualità chimica dei corpi e delle qualità; problema che nelle sue linee generali rimarrà operante anche nel successivo contesto lavoisieriano: infatti, mentre nella visione newtoniana riduzionista, come si è visto, le sostanze chimiche erano considerate costituite da un substrato di particelle di materia identiche che davano vita a corpi qualitativamente differenziati ‒ semplici o composti ‒ mediante una loro successiva e progressiva aggregazione, per questi chimici, invece, il livello invisibile era costituito da 'molecole' distinte che possedevano le stesse proprietà dei corpi semplici differenti ricavati mediante le analisi chimiche di laboratorio. In questo secondo schema, quindi, fra livello macroscopico e microscopico dei fenomeni esisteva solo una differenza di scala e l'analogia che poteva essere instaurata fra di essi era molto più forte rispetto al modello riduzionista boscoviciano o a quello a 'guscio di noce'. Il modello 'molecolarista', inoltre, consentiva di concepire il mondo invisibile della chimica attraverso un'analisi mentale fondata sull'analisi sperimentale e a partire dai risultati sensibili di quest'ultima. Basato sulla distinzione ‒ di origine stahliana, ma non solo ‒ fra "parti integranti" e "parti costituenti" dei corpi e fra le "molecole" infinitesime di queste, tale modello consentiva una chimica (genericamente) newtoniana ma non riduzionista. Infatti le integranti erano le parti omogenee di un corpo che attraendosi davano luogo a masse sempre più grosse, ma omogenee tra loro, con le stesse proprietà; le costituenti, invece, erano eterogenee e davano vita a una vera e propria combinazione chimica. Nel primo caso agiva una forza di aggregazione analoga alla coesione, più di tipo fisico ("affinità di aggregazione"); nel secondo una forza di composizione ("affinità di composizione"), più tipicamente chimica, poiché riguardava l'interazione di sostanze eterogenee che nel loro interagire producevano non solo un mutamento quantitativo (di massa) ma anche uno che coinvolgeva le qualità, cioè davano luogo a un corpo anch'esso qualitativamente eterogeneo rispetto alle sostanze di partenza. Queste due forze erano tra loro opposte; infatti per poter realizzare una reazione chimica bisognava innanzitutto contribuire ad affievolire la forza di aggregazione dei singoli reagenti, in modo tale da consentire alla forza di composizione di agire più liberamente e con più efficacia. Si aveva una reazione chimica solo nel caso in cui le forze di composizione prevalessero su quelle di aggregazione. Quindi soltanto l'affinità di composizione era di pertinenza della chimica, come scriverà Antoine-François de Fourcroy (1755-1809) nell'opera Élémens d'histoire naturelle et de chimie (1791), nella quale aveva proposto di sostituire l'espressione "affinità di composizione" con quella più newtonianamente rigorosa di "attrazione fra le molecole di natura differente" o "attrazione di composizione": "Questo tipo di attrazione, più importante da conoscere rispetto alla prima [di aggregazione] ha luogo in tutte le operazioni della chimica, ed è essa sola che può illuminare il chimico sui fenomeni che la sua arte gli presenta senza sosta [...] è essa [...] che deve guidare l'artista nelle ricerche atte a far avanzare la chimica" (Élémens, I, p. 54). Proprio basandosi su queste idee Guyton de Morveau e Fourcroy avevano elaborato rispettivamente sette e dieci leggi generali delle affinità, di tipo qualitativo. Un altro aspetto interessante di tale modello consiste nel non prendere in considerazione forze di tipo repulsivo, ma solo attrattivo: la repulsione era dovuta al carattere espansivo della "materia del calore", combinata differenziatamente con le diverse sostanze. Materia che Antoine-Laurent Lavoisier (1743-1794) chiamerà "calorico" e il cui carattere espansivo sarà descritto nel Traité élémentaire de chimie (1789) come dovuto a una risultante di forze esclusivamente attrattive che agiscono fra le molecole del calorico, fra le molecole della materia ordinaria e fra quelle del calorico e della materia ordinaria.

Il livello fenomenologico

Una dinamica newtoniana dei movimenti insensibili delle particelle elementari dei corpi responsabili dei fenomeni chimici si rivelerà ben presto una pura aspirazione ideale. Del resto, come si è visto, anche i chimici più favorevoli al paradigma attrazionista avevano mostrato un notevole scetticismo a questo riguardo, ed erano arrivati di fatto, se non in linea di principio, alla conclusione che, benché la chimica dovesse essere considerata la scienza dei movimenti intestini, invisibili, delle particelle ultime dei corpi, questo livello di realtà era al di fuori della possibilità di essere conosciuto con precisione: per l'indagine scientifica non restava dunque che il livello fenomenologico. Quasi in forma di esortazione questo approccio era stato chiaramente sostenuto da Joseph Black (1728-1799) come risulta dalle sue lezioni pubblicate postume nel 1803 con il titolo Lectures on the elements of chemistry:

I chimici non dovrebbero fare speculazioni sulle azioni più intime e dirigere la loro intera attenzione sui fenomeni esteriori. Se il chimico tenta di spiegare il movimento interno degli atomi sul quale ha poche indicazioni autentiche, egli troverà che ciò è impossibile. Egli può immaginare una certa forza attrattiva e dedurre allora certi movimenti per questa azione. Ma, in Europa, tutti i matematici messi insieme non sono in grado di esprimere con questo mezzo una semplice singola combinazione. Quando un chimico parla di attrazione e di affinità non si deve attribuire a questi termini più significato di una certa facoltà di combinazione. (p. 283)

Per Black, quindi, i tentativi di spiegare i fenomeni chimici solo ricorrendo alle forze attrattive o repulsive erano sostanzialmente destinati a non produrre risultati significativi. Tuttavia dal punto di vista teorico generale una cosa era ritenere praticamente impossibile raggiungere scientificamente un livello di realtà stimato comunque esistente e operante, altra cosa era considerarlo irrilevante (come nelle primitive concezioni stahliane) o addirittura non esistente. Per Black era valido il primo punto di vista, anzi egli sosteneva una teoria che poi verrà ripresa dai chimici appena menzionati, e cioè che la forza di coesione dei corpi era opposta a quella responsabile delle combinazioni e che per i chimici era necessario indebolire la prima per favorire la seconda facendo ricorso a tecniche meccaniche cosiddette ancillari e utilizzando soprattutto il calore.

Tuttavia, nel Settecento, anche il livello fenomenologico della reattività chimica si dimostrerà difficilmente trattabile dal punto di vista quantitativo secondo il modello della meccanica newtoniana, anche perché l'affinità chimica, diversamente dall'attrazione gravitazionale, supponeva, come si è visto, un irriducibile momento qualitativo in quanto le reazioni chimiche sembravano dipendere non tanto dalla massa generica dei corpi coinvolti ma da proprietà inerenti ai corpi stessi, oltre che dalle condizioni sperimentali, poiché, come aveva sottolineato Bergman, le attrazioni chimiche erano "elettive", ossia erano legate in maniera non eliminabile alla eterogeneità delle sostanze reagenti, ovvero alle qualità di queste. E quando Claude-Louis Berthollet (1748-1822) nelle Recherches sur les lois de l'affinité (1800-1801) e nell'Essai de statique chimique (1803) prese in considerazione la massa sensibile dei corpi reagenti come una variabile significativa per lo studio dell'andamento delle reazioni chimiche, e non come un'anomalia à la Bergman, anche in questo caso si trattava di una massa particolare, dal significato ancora vago, ossia una "massa chimica" che preludeva alla grandezza successiva, più precisa, di "concentrazione".

In effetti, comunque, i tentativi più interessanti di valutazione quantitativa delle affinità chimiche saranno a livello fenomenologico come quello provato da Lavoisier e, soprattutto, da Pierre-Simon de Laplace (1749-1827) nel Mémoire sur la chaleur (1780); entrambi svilupparono un interessante approccio di tipo termochimico che però, al momento, non ebbe seguito. Sarà soprattutto però nella valutazione della reattività fra acidi e basi per dare sali neutri che questi tentativi produrranno i risultati più interessanti a partire dalla determinazione precisa delle diverse quantità di una base in grado di saturare una medesima quantità di acido o, viceversa, da quella delle diverse quantità di acido che erano in grado di saturare la medesima quantità di una base. In questa direzione è molto discusso il ruolo di William Cullen (1710-1790) e di Black nella reale quantificazione delle affinità chimiche; essi, tuttavia, elaborarono per primi diagrammi nei quali erano schematizzate le reazioni chimiche con l'indicazione mediante numeri delle affinità delle sostanze reagenti. Fuor di dubbio, invece, è il ruolo di Richard Kirwan (1733 ca.-1812) o di John Elliot (1747-1787) le ricerche dei quali furono prese a modello dallo stesso Guyton de Morveau. Kirwan, in particolare, insieme a Karl Friedrich Wenzel (1740-1793) e Jeremias Benjamin Richter (1762-1807), proprio a partire dal problema della determinazione quantitativa delle affinità, dettero avvio a quel particolare settore della chimica che sarà chiamato 'stechiometria', vale a dire alla determinazione dei rapporti ponderali fra le specie reagenti e quelle prodotte. Rapporti che rappresentavano la traduzione quantitativa, di tipo relazionale, delle differenze qualitative delle sostanze, cioè delle loro reciproche affinità, come ben comprenderà il filosofo Georg Wilhelm Friedrich Hegel nella sua Wissenschaft der Logik (1812-1816).

Malgrado la mancata realizzazione di una dinamica chimica analoga a quella celeste, sia a livello macroscopico sia a quello microscopico, tuttavia l'affermazione della concezione newtoniana dell'affinità chimica aprirà un inedito campo di azione per la ricerca sperimentale, poiché facendo concepire le reazioni chimiche come un'interazione multipla tra forze antagoniste nella quale alcune tendevano a mantenere invariato lo stato iniziale (chiamate da Kirwan "forze quiescenti") mentre altre tendevano a mutarlo per dar luogo a una nuova situazione ("forze divellenti"), si poneva il problema di valutare il risultato finale di queste reazioni considerato come uno stato di equilibrio, prima di tipo statico poi di tipo dinamico. Nasceva, cioè, lo studio sistematico degli equilibri di reazione.

Il meccanicismo chimico

di Marco Beretta

Il successo incontrastato esercitato dalla filosofia meccanicista fino ai primi decenni del XVIII sec. divenne un importante punto di riferimento per tutti quei chimici e quei naturalisti che cercarono di demarcare, in modo netto, l'ambito disciplinare e metodologico della chimica da quello dell'alchimia. Il successo della filosofia corpuscolare di Boyle e le sue fortunate applicazioni alla spiegazione di importanti fenomeni chimici diedero nuovo impulso alla ricerca e alla speculazione teorica sulla composizione ultima della materia. L'idea boyleiana che la materia fosse composta da corpuscoli dotati di forme e qualità differenti offriva un modello estremamente fecondo per spiegare la varietà dei modi di aggregazione e repulsione di differenti sostanze. Gli atomi, infatti, non erano entità dotate di semplice estensione e movimento, ma avevano anche caratteristiche morfologiche diverse, variabili con il cambiare dell'elemento o della sostanza che entrava in una combinazione chimica. Seguendo i precetti che Lucrezio aveva dato nel suo De rerum natura, si era fatta strada tra i chimici la concezione che la materia fosse composta di corpuscoli qualitativamente diversi, dotati di forme geometriche differenti che condizionavano la loro reciproca combinazione e repulsione. Lucrezio aveva stabilito che gli atomi della luce dovevano essere di forma tale da favorire un movimento rapidissimo, mentre quelli dell'acqua avevano una forma sferica e viscosa.

Specificando ulteriormente queste distinzioni generali, i chimici meccanicisti si erano impegnati a immaginare quali fossero le forme degli atomi che componevano le principali sostanze chimiche e a spiegare in questo modo le leggi che presiedevano alla combinazione chimica. Esemplare, a questo riguardo, era la spiegazione della causa della reazione tra alcali e acidi. Fin dai tempi antichi i chimici avevano cercato, ricorrendo spesso a qualità occulte o a teorie metafisiche, di dare una spiegazione plausibile della causa che portava un alcali a reagire quando combinato con un acido qualsiasi. Influenzato dai principî della filosofia meccanicista, Nicolas Lémery aveva osservato nel suo Cours de chymie (1675) che le sostanze elementari, designate con il nome di principî, fossero talmente imbrigliate le une con le altre che non sarebbe stato possibile separarle se non distruggendo le loro figure. A partire da queste premesse, Lémery stabilì che l'acidità consisteva nelle particelle saline puntute in continuo movimento. La forma puntuta delle particelle acide era dedotta dall'esperienza macroscopica: "è sufficiente gustare quest'acido per essere di questo avviso, esso produce infatti delle punture sulla lingua, simili o molto simili, a quelle che si riceverebbero da un qualche oggetto dotato di punte finissime" (Cours de chymie, p. 13).

Nel 1706 un naturalista olandese, Nicolaas Hartsoeker (1656-1725), andò ancora più lontanto di Nicolas Lémery. In un'opera, significativamente intitolata Conjectures physiques, Hartsoeker sosteneva l'importanza delle figure delle particelle atomiche, rilevando che dalla loro esatta conoscenza dipendeva la comprensione delle principali reazioni chimiche. Più conseguente dei suoi predecessori nel difendere l'applicazione dei principî del meccanicismo alla chimica, il naturalista olandese si spingeva a rappresentare iconograficamente gli atomi dei metalli, partendo dagli effetti derivati dalla loro reazione con gli acidi, e di altre sostanze e operazioni chimiche. Il tentativo di Hartsoeker di rendere visibile ciò che lui stesso considerava una congettura verosimile metteva in evidenza i limiti della filosofia della materia cartesiana. Infatti divenne via via più chiaro che una spiegazione rigidamente meccanicista delle reazioni chimiche non poteva essere soddisfacente per chi doveva manipolare concretamente le sostanze e i loro composti. Se, da un lato, per spiegare le leggi della combinazione erano state eliminate le qualità occulte, dall'altro lato si ricorreva a ipotesi, quali la differenza qualitativa degli atomi e le loro diversità morfologiche, prive di qualsiasi evidenza empirica. Dire che un alcali reagiva con un acido perché gli atomi di quest'ultimo, dotati di ganci, potevano penetrare facilmente nei pori lasciati aperti dalle particelle alcaline, significava spiegare la causa con l'effetto. Del resto anche Nicolas Lémery, che pure aveva adottato il meccanicismo come cornice teorica del suo corso di chimica, nell'analizzare le proprietà delle sostanze e dei composti abbandonava le speculazioni per fare ritorno alla chimica qualitativa del passato. L'analisi e la preparazione dei rimedi farmaceutici che occupavano la maggior parte dell'opera del chimico francese riposavano sui principî della iatrochimica paracelsiana e su una visione qualitativa delle reazioni.

Agli inizi del XVIII sec., dunque, il meccanicismo chimico era giunto a uno scacco, almeno sul piano sperimentale, che lo rendeva inviso a tutti i chimici e a tutti i naturalisti che praticavano la scienza nei laboratori e che osservavano quotidianamente quanto fosse distante il sogno di applicare il rigore e la precisione della filosofia meccanica alla spiegazione del complesso e aggrovigliato tessuto che legava le reazioni chimiche. D'altro canto, i successi ottenuti dalla fisica sperimentale e dalle applicazioni dei modelli meccanici nell'interpretazione dei fenomeni fisici avevano fatto della fisica una scienza paradigmatica.

Il meccanicismo chimico di Boerhaave

Un originale tentativo di rivalutazione del meccanicismo chimico fu quello di Herman Boerhaave (1668-1738), uno dei medici più celebri del Settecento e fautore di una nuova filosofia della materia. Boerhaave era perfettamente consapevole che il meccanicismo, per essere una filosofia efficace, doveva aderire allo svolgersi della fase sperimentale piuttosto che pretendere di spiegarne la natura o le possibili cause e, poiché la chimica era essenzialmente una scienza empirica, la teoria che si incaricava di guidarne il progresso doveva necessariamente essere ancorata alla realtà osservabile.

Il 21 settembre 1718, dopo aver accettato l'insegnamento di chimica rimasto vacante in seguito alla morte di Jacob Le Mort (1650-1718), Boerhaave presentò un'orazione inaugurale intitolata Dissertatio de chemia suos errores expurgante, nella quale passava in rassegna tutti gli errori che avevano impedito alla chimica di progredire con la stessa rapidità di altre scienze. In particolare, Boerhaave si scagliava contro le assurde pretese dell'alchimia e l'oscurità che esse avevano lasciato nel linguaggio, denunciando gli eccessi e le conseguenze nefaste delle speculazioni metafisiche sulla natura e sul numero dei principî ipostatici della materia. Anche se in modo meno severo, Boerhaave non risparmiava critiche alla concezione meccanicista a cui imputava di aver costruito una rappresentazione degli elementi della materia basata più sull'immaginazione che sugli esperimenti di laboratorio. In primo luogo, non era possibile avanzare ipotesi plausibili sulle differenti forme degli atomi senza poterne in alcun modo verificare empiricamente la validità. La fecondità esplicativa della meccanica, infatti, andava a scapito della complessità della materia e delle sue reazioni interne. Secondo Boerhaave, l'alternativa a questa dicotomia tra alchimia e meccanicismo era stata indicata da Boyle, l'unico chimico ad aver coniugato un'ipotesi corpuscolare basata su un rigido protocollo sperimentale. L'orazione si chiudeva con un'appassionata perorazione delle qualità, teoriche e pratiche, della chimica, di cui Boerhaave prevedeva un futuro ricco di nuove scoperte.

Anche nella sua opera chimica più importante, gli Elementa chemiae (1732), il medico olandese accettava l'idea che la materia fosse composta da atomi e da particelle indivisibili e qualitativamente differenti, ma, senza volere insistere troppo su quest'assunzione aprioristica, concentrava la propria attenzione sul valutare gli effetti del principale strumento chimico, ossia il fuoco. Individuando nel fuoco il principio dell'analisi chimica e il fondamento della propria teoria, Boerhaave aveva correttamente compreso che la maggior parte delle operazioni chimiche si svolgeva in presenza di fuoco e di calore e che comprendere, in modo generale, la funzione di questo elemento significava penetrare nei misteri della materia e della combinazione. Partendo dalla constatazione empirica che il fuoco era un elemento imponderabile capace di penetrare in tutti i corpi e di dilatarli, Boerhaave stabiliva che il fluido igneo era presente, sia pure in proporzioni differenti, in tutti i corpi e che l'assenza di calore osservabile nella maggior parte di essi era dovuta all'assenza di movimento delle particelle di fuoco. Nel momento in cui le particelle ignee, sollecitate da agenti esterni, si mettevano in movimento emettendo calore, si innescava una reazione che tendeva alla separazione delle particelle elementari della materia, dando così vita al formarsi di nuovi composti.

La determinazione del grado di dilatazione delle sostanze come della loro variazione ponderale, quando sottoposte all'azione del calore e del fuoco, fecero comprendere a Boerhaave l'importanza d'introdurre strumenti capaci di individuare con precisione le modalità di questi cambiamenti. In effetti, grazie alla sua teoria del fuoco, Boerhaave introdusse sistematicamente la bilancia e alcuni importanti strumenti di fisica, come il pirometro, nel laboratorio del chimico. La posizione di Boerhaave di fronte al meccanicismo era, contrariamente a quelle sostenute dai suoi predecessori, più cauta e allo stesso tempo più efficace. Senza entrare nel merito della questione su quali fossero le forme elementari degli atomi, il medico olandese ne presupponeva l'esistenza soltanto quando, nel descrivere le proprietà empiriche e verificabili del fuoco, poneva di fronte al lettore la plausibilità della struttura corpuscolare della materia. Sul piano della pratica chimica, l'assunzione del punto di vista meccanico non aveva alcun altro effetto che quello di privilegiare un approccio quantitativo agli esperimenti, favorendo così un metodo analitico basato sul modello della fisica sperimentale.

L'opera di Boerhaave costituì senza dubbio un punto di riferimento importantissimo per tutti quei naturalisti che non vollero accettare la filosofia della materia professata da Stahl e che vedevano nel meccanicismo il solo mezzo per elevare la chimica a disciplina scientifica. Gli Elementa chemiae furono pubblicati numerose volte e nel 1735 usciva a Londra la traduzione inglese (Elements of chemistry), nel 1756 a Parigi quella francese in sei volumi (Élémens de chymie) e nel 1762 a Berlino quella tedesca (Elementa chemiae, oder Anfangsgründe der Chemie). Malgrado questo successo, l'opera di Boerhaave non riuscì mai ad arginare l'ascesa della teoria del flogisto e il progressivo imporsi di una visione antimeccanicista della chimica. I detrattori del meccanicismo, infatti, imputavano a Boerhaave di non aver realizzato alcuna scoperta significativa e di aver compilato, almeno nella parte empirica della sua opera, scoperte e osservazioni dei suoi predecessori. Inoltre, Boerhaave, al contrario di Stahl, era rimasto prevalentemente un medico, privilegiando la ricerca medica e fisiologica su quella propriamente chimica. Più schematicamente, forse si potrebbe dire che la visione meccanicista della chimica di Boerhaave altro non era che un'estensione della sua filosofia medica.

Intorno al 1750, dunque, i seguaci del meccanicismo chimico erano pochissimi, tanto che Venel, nell'articolo Chymie contenuto nel terzo volume dell'Encyclopédie (1753), poteva celebrare la filosofia qualitativa di Stahl come il solo e unico paradigma accettato e accettabile.

L'opera di Lomonosov

Contemporaneamente ai proclami di Venel, lontano dai clamori della capitale francese, la più importante rivalutazione del meccanicismo chimico era appena stata pubblicata negli atti dell'Academia Scientiarum Imperialis Petropolitana. L'autore, Lomonosov, aveva terminato nel 1736 i suoi studi scientifici presso l'Accademia di Pietroburgo. In quegli anni questa istituzione era impegnata in un ambizioso progetto di ricognizione e sfruttamento delle risorse minerarie della Siberia; constatando però l'insufficienza dei rilievi chimici e mineralogici in Russia, fu presa la decisione di contattare chimici stranieri che potessero formare personale scientifico, adatto a fornire dati e consulenze utili alle spedizioni e ai rilevamenti.

Le autorità accademiche, dunque, domandarono a Henckel, che, come si è visto, era allievo di Stahl e professore di mineralogia a Friburgo, di raccomandare all'Accademia alcuni studiosi che rispondessero a queste esigenze. A seguito della risposta negativa di Henckel, l'Accademia russa decise di inviare in Germania tre studenti, tra cui il giovane Michail Vasil´evič Lomonosov, a frequentare i corsi di filosofia di Christian Wolff (1679-1754) a Marburgo e quelli di mineralogia di Henckel. I corsi di Wolff prevedevano una propedeutica delle scienze guidata da un sistema di logica basato sull'esposizione geometrica. Un sistema di proposizioni atomiche, o verità elementari, veniva dimostrato seguendo i metodi della matematica e della fisica. Non a caso uno dei manuali più fortunati di Wolff era Elementa physicae, una monumentale enciclopedia che raggruppava tutti i fenomeni della fisica sperimentale che doveva servire al filosofo per comprendere pienamente l'importanza della manipolazione attiva dei fenomeni. L'ammirazione di Lomonosov per l'insegnamento e l'opera di Wolff è testimoniata in molti passi delle sue opere e della sua corrispondenza; altrettanto significativo è il fatto che nel 1745 Lomonosov tradusse in russo una silloge della fisica sperimentale di Wolff. Diversa, e di più difficile decifrazione, fu l'influenza di Henckel. Il chimico tedesco era stato uno dei primi allievi di Stahl, distinguendosi come esperto mineralogista e abile sperimentatore. Tra i suoi allievi, Henckel poteva annoverare chimici della statura di Andreas Sigismund Marggraf (1709-1782) e Jacob Reinhold Spielmann (1722-1783) e fu grazie al successo del suo insegnamento che divenne possibile, nel 1765, fondare a Friburgo l'accademia mineraria più celebre d'Europa, la Bergakademie. Sappiamo che Lomonosov non rimase soddisfatto dei corsi di mineralogia seguiti a Friburgo e che, oltre ad alcuni alterchi con Henckel, si lamentava della mancanza di ordine e metodo con cui erano impartite le lezioni. Tuttavia, il sapere metallurgico acquisito direttamente sul campo, l'elaborata cultura delle sperimentazioni dell'assaggio conseguita dai mineralisti tedeschi della prima metà del Settecento, nonché l'enfasi posta da Henckel sulla priorità da assegnare all'analisi chimica delle sostanze minerali e inorganiche, influirono sicuramente in maniera determinante sulla filosofia della materia di Lomonosov.

Durante il XVIII sec. la combinazione di un'educazione filosofica con un tirocinio sperimentale non era certamente comune per un chimico e il solo itinerario paragonabile a quello di Lomonosov è l'educazione scientifica di Lavoisier, allievo del fisico sperimentale Jean-Antoine Nollet (1700-1770) e del chimico Rouelle. Le analogie tra i due chimici, come avremo modo di vedere, furono numerose anche nell'approccio generale alla scienza. Nel giugno del 1741, dopo quasi cinque anni di peregrinazioni in Germania e in Olanda, Lomonosov fece ritorno a Pietroburgo ove incominciò subito a scrivere diverse memorie di chimica e a realizzare numerosi esperimenti. Nel 1745 fu nominato professore di chimica presso l'Accademia di Pietroburgo e nel 1748, non prima di aver incontrato ogni sorta di difficoltà e resistenze, riuscì a costruire un ricco laboratorio. Nel 1741 scrisse una memoria dal titolo Elementa chemiae mathematicae in cui esponeva la propria filosofia della materia, seguendo lo stile geometrico impartitogli da Wolff. In questa breve ma fondamentale memoria Lomonosov delineava il progetto filosofico che ispirava il suo ideale di scienza chimica, definita come "la scienza dei cambiamenti che si realizzano nei corpi misti". Dal momento che tutti i cambiamenti della materia avvenivano a causa del movimento, come dimostrato tra gli altri da Wolff, anche i mutamenti dei composti, oggetto principale della chimica, potevano essere ridotti a un movimento particolare delle particelle o atomi che li componevano. Un corollario di questa constatazione consisteva nel considerare la meccanica la scienza del movimento e, di conseguenza, che i cambiamenti dei corpi misti avvenivano per cause meccaniche e dovevano essere spiegati ricorrendo alle leggi della meccanica. Un'altra scienza necessaria per penetrare i misteri della materia era la matematica. Con il suo ausilio, infatti, il chimico poteva ordinare secondo una logica coerente tutti gli esperimenti accumulati nel laboratorio, senza incorrere nel caos inestricabile che poteva essere causato da una raccolta di dati acquisiti senza guida né finalità.

Per Lomonosov le leggi della meccanica servivano a spiegare i cambiamenti dei corpi e dei composti, cioè le reazioni chimiche, mentre la matematica offriva una cornice metodologica per disporre ordinatamente i dati e le osservazioni sperimentali. Questa filosofia era ovviamente connessa a una concezione corpuscolarista della materia. In effetti, Lomonosov aveva ripreso, elaborandola e approfondendola, la concezione corpuscolarista seicentesca secondo cui gli atomi erano dotati di differenti qualità e morfologie. Secondo il chimico russo, esistevano diversi tipi di corpuscoli; i più elementari erano quelli derivati dai quattro elementi (terra, acqua, aria e fuoco); i più comuni erano però quelli composti da atomi elementari combinati con altri corpuscoli. Questi ultimi, aggregandosi tra loro, davano vita ai "misti", cioè ai corpi più comuni.

Nei primi anni Cinquanta del Settecento il percorso scientifico di Lomonosov si venne ulteriormente precisando nel Prodromus ad veram chymiam physicam, una breve silloge del 1752 nella quale egli stabiliva l'ambito disciplinare della chimica fisica. In essa Lomonosov chiariva quanto aveva lasciato indeterminato nella memoria del 1741, dichiarando che la chimica fisica era la scienza che spiegava i cambiamenti avvenuti nei corpi misti basando le operazioni chimiche sui principî e gli esperimenti della fisica. Questa definizione, sufficientemente restrittiva, escludeva dal campo della chimica fisica tutte quelle arti, come la metallurgia, la farmacia, l'arte vetraria e così via, che esulavano dall'indagine sui principî ultimi della materia e dalle leggi che ne regolavano le combinazioni.

Lomonosov, inoltre, specificava come la differente coesione dei corpi potesse influire sulle loro qualità secondarie e dunque offrire al chimico un utile strumento concettuale per spiegarne le reazioni. In primo luogo, secondo il chimico russo, dai differenti gradi di coesione delle particelle dipendevano i differenti stati della materia, solido e liquido (Lomonosov non individuò quello aeriforme come uno stato indipendente). A loro volta le particelle dei corpi solidi potevano trovarsi in diversi gradi di coesione e dare vita ad aggregati di materia assai differenti. Queste differenze potevano essere causate sia dalla diversa forma degli atomi sia dalla diversa configurazione generale delle molecole. Per misurare la differenza chimica, cioè qualitativa, di due sostanze o composti, Lomonosov proponeva l'introduzione della misurazione, attraverso l'areometro, dei differenti pesi specifici, una pratica comunemente usata dai fisici, ma pressoché ignorata dai chimici, i quali preferivano stabilire le differenze specifiche delle sostanze partendo dalle loro qualità secondarie. Pur non trascurando i metodi di analisi tradizionali, Lomonosov cercò di introdurre gli strumenti di fisica nel laboratorio, anticipando di quasi trent'anni una tendenza che sarebbe culminata, alla fine del secolo, nella rivoluzione chimica di Lavoisier.

Nel Prodromus Lomonosov presentava anche interpretazioni originali di chimica organica, giungendo a credere che le sostanze animali e quelle vegetali fossero composte da particelle di natura inorganica, le quali, attraverso le sintesi di laboratorio, potessero essere riprodotte artificialmente. Purtroppo, a questa felice intuizione non fece seguito la descrizione degli esperimenti che l'avevano ispirata. Infine, il chimico russo riconosceva che l'aria, contrariamente a quanto sostenuto dalla maggior parte dei chimici, aveva la capacità di combinarsi con i corpi alterandone così la natura chimica. Le osservazioni di Lomonosov sulla liberazione o fissazione dell'aria, infatti, si innestavano nella tradizione boyleiana, concentrandosi cioè sui fenomeni dell'elasticità dell'aria piuttosto che su quelli relativi alla combinazione chimica e ai suoi effetti.

Le due memorie di chimica fisica del 1741 e dei primi anni Cinquanta costituivano degli schizzi che non permettono di seguire il pensiero di Lomonosov se non in forma rapsodica e frammentaria. La prima memoria compiuta a essere pubblicata nel primo volume dei "Novi Commentarii Academiae Scientiarum Imperialis Petropolitanae" apparve nel 1750 sotto il titolo Meditationes de caloris et frigoris causa. Non si trattava propriamente di un argomento chimico e anche la trattazione di Lomonosov privilegiava l'approccio fisico. Tuttavia, la concezione del calore ivi delineata traeva spunto dalla filosofia della materia che Lomonosov aveva esposto nelle precedenti memorie di chimica. Secondo il chimico russo, infatti, l'origine del calore doveva essere ricondotta a cause meccaniche, in particolare al movimento. Dal momento che il movimento, per esistere, doveva inerire a una data materia, Lomonosov stabiliva che il calore era causato dal movimento circolare interno di un aggregato di particelle o atomi. Gli atomi del calore dovevano essere dotati di forma sferica, in modo da agevolare il movimento circolare e la sua rapida rotazione. La teoria cinetica del calore stabiliva che le particelle dovessero raggiungere un limite massimo nel loro movimento e che questo, a sua volta, comportasse un limite della temperatura massima. Per analogia Lomonosov pensò che la temperatura dovesse avere un limite anche per il freddo, quando cioè le particelle di calore erano perfettamente immobili. Un altro fenomeno osservato da Lomonosov durante gli esperimenti sul calore fu che i metalli sottoposti a calcinazione aumentavano di peso. Insoddisfatto della spiegazione datane da Boyle, che aveva attribuito il cambiamento ponderale all'azione del calore, una sostanza materiale che egli considerava capace di passare per i pori del recipiente, Lomonosov pensava che l'aumento del peso delle calci metalliche fosse dovuto alle "particelle presenti nell'aria" che, approfittando della dilatazione e della conseguente porosità dei metalli, si combinavano con le calci facendone aumentare il peso. Nel realizzare gli esperimenti sulla calcinazione dei metalli, Lomonosov si era servito di un recipiente di vetro ermeticamente chiuso e privo d'aria nel quale aveva cercato di calcinare un metallo. L'impossibilità dell'operazione a recipiente chiuso lo persuase del fatto che l'aria dovesse essere un agente necessario per la calcinazione e la combustione. Questo esperimento, realizzato nel 1756, fu ripetuto da Lavoisier una ventina di anni dopo seguendo modalità del tutto identiche. La descrizione dell'esperimento, tuttavia, rimase inedita e pare sia servita a Lomonosov per confermare sperimentalmente l'idea, pubblicata nella memoria sul calore, che gli atomi liberi nell'aria potessero combinarsi con le calci metalliche e fossero la causa dell'aumento ponderale di queste.

La memoria sul calore fu l'unica ad avere un numero sufficiente di lettori tale da suscitare un dibattito. è probabile che anche Lavoisier l'avesse letta, senza tuttavia rimanerne troppo impressionato. Altri naturalisti avevano intuito l'originalità dell'approccio di Lomonosov alla materia, ma il suo stile speculativo e la mancanza di riferimenti a esperimenti e osservazioni empiriche hanno certamente nuociuto a una più estesa discussione sui contenuti della sua opera.

Lomonosov scrisse altre memorie di chimica, la maggior parte delle quali rimase inedita, in cui applicò la filosofia meccanica a particolari fenomeni chimici; tuttavia, in nessuno di questi scritti furono presentate modifiche sostanziali all'idea originaria che la materia fosse composta da atomi in movimento e che tutte le reazioni chimiche si riducessero in fondo a cambiamenti microscopici di configurazione e di velocità. Una delle principali deduzioni che Lomonosov seppe trarre dalla propria filosofia della materia era l'assunto che, durante le reazioni o, come lui stesso li definiva, i cambiamenti, non ci fosse alcuna perdita di materia, ma solo trasformazioni qualitative. Grazie a questo assunto di fondo, del tutto identico a quello esposto da Lavoisier nel suo Traité élémentaire de chimie (1789), Lomonosov era stato in grado di apprezzare appieno l'importanza della quantificazione delle reazioni; inoltre la sua precoce insistenza sul peso specifico dei corpi come strumento per identificarne la qualità chimica fu un'intuizione che Lavoisier fece propria alcuni decenni più tardi. L'intuizione si basava sulla constatazione che sostanze con pesi specifici differenti manifestavano proprietà chimiche diverse, sicché, una volta noto il peso specifico, era possibile identificare la sostanza con una precisione molto maggiore rispetto al tradizionale studio qualitativo dei suoi caratteri esteriori.

Abbiamo più volte accennato che l'opera di Lomonosov non ebbe, se non marginalmente, un'influenza così rilevante sulla comunità chimica europea del Settecento. A riguardo è significativo il fatto che molte storie della chimica pubblicate tra l'Ottocento e il Novecento si siano addirittura dimenticate il suo nome. Eppure, i "Commentarii" di Pietroburgo, nei quali Lomonosov aveva pubblicato tre memorie di chimica, erano un periodico assai noto nei circoli accademici europei e non c'era scienziato che non conoscesse almeno gli indici. Lavoisier stesso, che pure non era un erudito, possedeva nella sua biblioteca, e aveva in più di un'occasione citato, le memorie dei "Commentarii". Perché dunque le opere di Lomonosov non ebbero alcuna influenza? Non è possibile dare una risposta adeguata a questo interrogativo senza esaminare criticamente la scelta metodologica operata da Lomonosov nell'esposizione delle proprie idee. Innanzitutto il chimico russo volle combinare due discipline, la logica wolffiana e la chimica sperimentale, che nulla avevano in comune tra loro. L'esposizione matematica degli scritti di Lomonosov per definizioni, corollari, scholia e dimostrazioni non poteva che respingere i chimici della metà del secolo, per i quali, come abbiamo visto, la qualità distintiva della chimica era proprio costituita dalla sua differenza sostanziale dalla fisica. Tuttavia c'era qualcosa di più profondo a rendere le memorie di Lomonosov così poco attraenti. L'idea che la materia fosse composta di particelle in movimento non era nuova e il tentativo di Lomonosov di stabilire la forma degli atomi, la velocità del loro movimento nonché la loro traiettoria, faceva apparire la sua filosofia della materia come una speculazione essenzialmente fisica. La mancanza, poi, di riferimenti a pratiche sperimentali precise e a osservazioni circostanziate sui fenomeni che avevano dato vita a queste ipotesi rendeva ancora più astratta, e quindi inaccettabile dal punto di vista chimico, la teoria lomonosoviana. Il chimico russo contribuì in modo attivo alla scarsa fortuna delle sue idee: l'importanza e la superiorità che attribuiva alla coerenza e sinteticità della teoria lo indussero infatti a trascurare il valore degli esperimenti che pure aveva realizzato e a rinunciare quindi alla loro pubblicazione. Significative, a questo riguardo, sono le straordinarie osservazioni sperimentali sulla calcinazione dei metalli, rimaste inedite perché di natura evidentemente troppo empirica e prolissa per essere incluse nell'esposizione matematica della memoria sul calore o in qualunque altro scritto. Per non perdere i vantaggi di un'esposizione succinta, rigidamente suddivisa in paragrafi di uguale lunghezza, non era possibile soffermarsi sulla descrizione di esperimenti o di altri dettagli empirici. In questo l'approccio di Lomonosov fu estremamente differente da quello adottato da Lavoisier. L'assunto sulla conservazione della massa, per esempio, era esposto da Lavoisier dopo aver descritto le operazioni chimiche e gli esperimenti relativi alla fermentazione alcolica, una classe di fenomeni dove l'assunto sulla trasformazione della materia e la conservazione dei principî era particolarmente pertinente. Allo stesso modo, Lavoisier, pur ammettendo con Lomonosov la struttura corpuscolare della materia e la presenza di particelle e molecole in continuo movimento, non espresse mai questa concezione se non combinandola con descrizioni molto dettagliate di esperimenti dai quali si poteva ricavare, per induzione, l'analogia tra fenomenologia macroscopica e struttura microscopica.

Lo scacco del meccanicismo di Lomonosov fu dovuto alla sua incapacità d'inglobare le esigenze e la prassi sperimentale della chimica. Tuttavia, a questa incapacità si deve aggiungere il carattere di ipoteticità del concetto di atomo chimico, che solamente a partire dalle ricerche di Amedeo Avogadro (1776-1856) e Jöns Jacob Berzelius (1779-1848) si spogliò di quei connotati speculativi e fisicalisti per assumere un aspetto e una funzione sperimentale estremamente precisa.

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