L'asse Egitto-Arabia Saudita, tra vecchie certezze e nuove incognite

Atlante Geopolitico 2016 (2016)

Giuseppe Dentice

L’accordo sul nucleare iraniano siglato il 14 luglio 2015 a Vienna ha scatenato un effetto domino nel panorama strategico del Medio Oriente allargato. A tale intesa, tutti (o quasi) gli attori del quadrante regionale hanno risposto con una ridefinizione, più o meno parziale, della propria postura di politica estera. In questo contesto, il 30 luglio 2015, Egitto e Arabia Saudita hanno aggiunto un nuovo tassello nella loro partnership, firmando nella capitale egiziana quella che è stata definita dai media la cosiddetta ‘Dichiarazione del Cairo’. Stipulata tra il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi e il principe ereditario, nonché ministro della difesa saudita, Mohammed bin Salman al-Saud, tale intesa è mirata a rafforzare la collaborazione tra i due paesi su sei livelli differenti di cooperazione (militare, commerciale, politica, energetico-infrastrutturale, culturale e media), che nello specifico riguardano:

1. Lo sviluppo di una cooperazione militare bi- e/o multi-laterale, nella fattispecie garantita dalla realizzazione di un dispositivo comune di sicurezza regionale denominato Joint Arab Military Force (Jamf).

2. Il rafforzamento della strategia di investimenti comuni nei settori dell’energia, dell’elettricità, delle infrastrutture e dei trasporti.

3. Una maggiore integrazione economica bilaterale.

4. L’implementazione degli investimenti reciproci tra Egitto e Arabia Saudita.

5. Il consolidamento della cooperazione bilaterale nei campi della politica (estera e di sicurezza), della cultura e dei media.

6. La definizione delle frontiere marittime nel Mar Rosso tra i due paesi.

Per favorire una piena integrazione e un reciproco sviluppo, Egitto e Arabia Saudita hanno individuato nei progetti relativi ai settori dell’energia, dei trasporti e delle infrastrutture (considerati strategici dal Cairo) e quelli riguardanti la cooperazione marittima e militare (anche attraverso l’introduzione di esercitazioni navali congiunte a carattere periodico e il rafforzamento della flotta civile e mercantile saudita) le basi di partenza necessarie a trasformare una solida partnership in una special relationship.

Al di là della retorica dell’accordo e della relativa valenza politico-simbolica, la ‘Dichiarazione del Cairo’ risponde a canoni già consolidati e tra loro paralleli: da un lato contenere i rispettivi problemi interni e di sicurezza (opposizioni, economia, spinte riformiste e terrorismo), dall’altro frenare la crescita dell’influenza iraniana nella regione. Se la solidità dell’alleanza con gli al-Saud è stata giustificata dal Cairo come necessaria alla sopravvivenza economica del suo sistema e al consolidamento della legittimità politica del nuovo corso presidenziale, tale intesa ha tuttavia mostrato tutti i suoi limiti nel momento in cui l’Egitto ha dovuto accettare e perseguire scelte politiche non propriamente pertinenti alla propria sfera di influenza, come ad esempio la campagna militare in Yemen, accantonando di fatto la questione libica, quest’ultima, invece, una reale urgenza nell’agenda di politica estera egiziana.

A ciò si è aggiunta, inoltre, la volontà di Riyadh di riallineare Hamas e tutte le altre compagini afferenti alla galassia della Fratellanza musulmana nell’alveo delle forze sunnite in funzione anti-iraniana e anti-sciita. Il presunto cambio di orientamento saudita è stato percepito dall’Egitto come un pericoloso segnale politico, che evidenzia in maniera netta la discrepanza esistente tra gli interessi di politica estera di Egitto e Arabia Saudita. Mentre per il Cairo le priorità si sostanziano nella ricerca di un moderato protagonismo che possa rinvigorire la sua tradizionale influenza nei teatri di crisi mediorientali (Libia, Striscia di Gaza, conflitto israelo-palestinese e questione idrica del Nilo), per l’Arabia Saudita l’obiettivo finale passa attraverso un ritorno allo status quo ante l’accordo sul nucleare iraniano e, dunque, un ridimensionamento dell’Iran nello scenario regionale, nonché un contenimento di qualsiasi minaccia alle ambizioni saudite di leadership nel mondo arabo-musulmano.

Pertanto, se l’atteggiamento troppo conciliante dei sauditi verso la Fratellanza musulmana potrebbe dar adito nel breve periodo a ripensamenti strategici nell’alleanza con il Cairo, una persistenza di tali posizioni nel medio-lungo periodo potrebbe condurre ad una frattura nelle relazioni bilaterali, non paritarie. Appiattendosi sulle posizioni saudite, l’Egitto ha giocato infatti un ruolo da junior partner e il suo interesse è stato spesso ridimensionato all’interno della strategia saudita di contenimento dell’Iran. In questo senso, la decisione di al-Sisi di appoggiare l’intervento russo in favore di Assad in Siria – andando contro le aspettative politiche saudite – ha denotato non solo la frustrazione egiziana verso questa condizione di sudditanza nei confronti di Riyadh, ma al contempo ha evidenziato tutti i limiti di una strategia egiziana troppo sbilanciata e poco autonoma dalle scelte dell’ingombrante gigante del Golfo.

Così in un contesto mediorientale sempre più complesso e fluido, la persistenza di una politica estera egiziana troppo legata ai desiderata di Riyadh potrebbe costringere Il Cairo a rielaborare una visione strategica che meglio definisca obiettivi, priorità e interessi del paese nordafricano nel Levante arabo e in Medio Oriente.

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