L'ARTE DELLE MOSTRE

XXI Secolo (2010)

L’arte delle mostre

Paola Nicolin

Dalla fine degli anni Novanta del 20° sec., il numero delle grandi esposizioni internazionali d’arte contemporanea ha conosciuto un aumento significativo. Anche se ci limitiamo a un’analisi di quelle periodiche – siano esse a scadenza biennale, triennale o quinquennale –, appare evidente come il fenomeno, che comprende una parallela crescita degli addetti ai lavori e del marketing professionale, abbia a tal punto allargato lo spettro di riferimento degli spettatori e influenzato i processi di produzione e divulgazione dell’opera d’arte da indurre la critica a guardare a questa realtà come a uno dei maggiori protagonisti del sistema dell’arte contemporanea, se non addirittura come al più rilevante.

Le mostre sono certamente il teatro dove l’intreccio tra opera d’arte, artista, curatore (o direttore scientifico), pubblico, contesto espositivo e mercato produce i suoi effetti più significativi in materia di promozione dell’artista, di politica culturale e naturalmente di valore (economico ed estetico) dell’arte stessa. Non a caso, rispettando le relative variabili di valutazione, il successo di una rassegna temporanea è sempre più spesso misurato, da un lato, sulla base dei commenti degli opinion leaders (critici, curatori, galleristi, artisti, storici ecc.), che esprimono pareri e punti di vista afferenti al sistema di relazioni e conoscenze interne all’arte contemporanea, dall’altro, invece, sulla base del consenso pubblico e del numero di visitatori che ne varcano la soglia (Frey 2005). Inoltre, altrettanto intensa è l’azione delle mostre come catalizzatori di una serie di cambiamenti (Haskell 2000; Basualdo 2006) che riguardano: l’editoria specializzata, con l’incremento della produzione di cataloghi che provano a dare durevolezza a eventi effimeri; gli studi di settore, con la pubblicazione di voluminose monografie sulle mostre personali che tendono a costituire un indice degli artisti contemporanei destinati a passare alla storia; la gestione razionale dei musei e delle istituzioni, con campagne espositive in grado di dare agli artisti immediata visibilità e rientro economico; il nostro modo di guardare l’arte visiva, che appare non più frammentaria, ma antologica, nel caso delle mostre personali, e non più isolata, ma contaminata da influenze globali e da riflessioni sull’idea di centro e periferia, nel caso delle rassegne collettive.

L’esposizione è d’altronde il medium storicamente più dinamico ed efficace tra quelli attraverso cui l’arte contemporanea arriva a noi e, per coloro che ne coordinano il processo di realizzazione e per gli artisti stessi, non è una sovrastruttura parallela ed estranea, ma una parte integrante del progetto estetico e della ricerca artistica. La mostra è dunque, al pari dell’opera d’arte tradizionalmente intesa, una delle manifestazioni della produzione artistica cui gli artisti guardano come il momento o l’‘evento’ più sintetico del loro pensiero e della loro capacità di produzione di un immaginario. In questa prospettiva, la mostra non è più e solo un’esposizione di opere, ma un tentativo di scrivere la storia, sistematizzare idee o movimenti artistici, affermare progetti o valori estetici, rappresentare simboli e utopie (J.-M. Poinsot, Large exhibitions. A sketch of a typology, in Thinking about exhibitions, ed. R. Greenberg, B.W. Ferguson, S. Nairne, 1996, pp. 37-66). Se le esposizioni sono da sempre un fertile terreno di osservazione della storia e della critica d’arte, proprio per il loro carattere sperimentale, temporaneo ed effimero, negli ultimi decenni esse si sono imposte come il terreno più fecondo per la produzione di opere d’arte e, a partire da questa, per la conoscenza del nostro tempo. Sono le mostre a essere state in grado di affrontare di volta in volta tematiche, geografie e interrogativi diversi, capaci di spostare progressivamente il cuore della questione dalle ragioni dell’esporre ‘il meglio di’ – pratica, questa, di tradizione seicentesca, consolidatasi nel secondo decennio dell’Ottocento con i salons e poi le Esposizioni universali (Maiocchi 2000) – alla necessità e alle ragioni del mostrare. Queste ragioni hanno a che fare con l’idea di mostra come progetto e con la pratica dell’installazione, dell’allestimento e della selezione come premesse per un ragionamento sulla critica, sulla visione e sulla costruzione di un dispositivo capace di produrre conoscenza, come una scatola degli attrezzi. Le esposizioni su grande scala sono concepite come strumento di comunicazione ed espressione di un pensiero sul nostro tempo che attraverso la selezione di linguaggi diversi sia in grado di attivare, in chi ne fa esperienza, relazioni tra artisti, istituzioni, generi, discipline, generazioni, processi e forme. La mostra si presenta allora come sequenza ‘cinematografica’ di oggetti che a loro volta lavorano come vettori di una visione del mondo. L’esposizione è in questa prospettiva una piattaforma – un Kraftwerk, per usare la definizione che lo storico dell’arte tedesco Alexander Dorner diede del museo ai primi del Novecento – che deve assomigliare il meno possibile a un ricettacolo di oggetti di consumo e sempre più a un contenitore di una pluralità di voci (Enwezor 2002).

La moltiplicazione delle esposizioni internazionali, infine, si è mossa parallelamente alla crescita del valore del mostrare e dell’esibire, del mettere in mostra e dell’esporre, vissuti come comportamento e modalità quasi esclusivi di una società che ha interiorizzato il linguaggio dello spettacolo come chiave di accesso alla conoscenza e alla partecipazione alla vita sociale e politica. A ben guardare, dunque, un aggiornamento sulle esposizioni d’arte contemporanea si lega necessariamente a una serie di riflessioni sulla trasformazione della nozione stessa di esposizione e del ruolo, presunto o effettivo, che questi eventi temporanei assumono nell’odierno scenario culturale. I ruoli differenziati dello scenario internazionale risultano, inoltre, più evidenti se si considerano le diverse tipologie espositive di maggiore diffusione.

Dal salon alla fiera

L’esposizione d’arte contemporanea ha più volte cambiato nome: salon, expo, mostra, installazione, percorso, dispositivo e così via. In questo modo, ha stabilito una precisa relazione di senso tra il tipo di discorso espositivo che veniva messo in scena e il nome dell’operazione, proponendosi così come lo specchio di una realtà fluttuante.

Si è passati dal salon ottocentesco – modello della società borghese, del suo nascente gusto per l’arredamento e della necessità dell’opera d’arte come decorazione addomesticata degli spazi dell’abitare – all’Esposizione universale, luogo per la messa in scena del meglio della produzione nazionale, che si apre al mercato e alle sue necessità e insieme contribuisce al prestigio culturale e politico di un Paese. Il salto di scala avvenne quando, nell’era della nascita e dello sviluppo dell’identità moderna delle nazioni, le grandi esposizioni internazionali compresero anche un’esposizione d’arte come parte del discorso rivolto al pubblico dai governi nazionali. Questi hanno visto nella grande mostra d’arte o un tassello di una più ampia costruzione propagandistica dell’immagine del Paese o una expo, vale a dire un’occasione di commercio e sviluppo economico a partire dall’introduzione delle regole del mercato nel sistema dell’arte. Così facendo, la mostra d’arte è passata dall’esperienza elitaria del salone/salotto alle dimensioni della fabbrica/teatro del mondo, che ruota a sua volta attorno all’idea di produzione e divulgazione della modernità. Di lì a poco, sarà l’estetica della macchina come icona del moderno a subentrare prepotentemente nell’immaginario della mostra d’arte contemporanea, che della macchina imita temi e tipologie spaziali, come nel caso esemplare dell’espo-sizione Machine art del 1934, allestita al MoMA (Museum of Modern Art) di New York da Philip C. Johnson (1906-2005), che selezionava quattrocento oggetti quotidiani e li offriva al pubblico come esemplari della cultura contemporanea di alto livello.

Con la diffusione delle attività del museo, le stesse pratiche espositive museali tendono a mutuare esempi di messa in scena delle opere già sperimentate nel circuito delle gallerie d’arte. Queste ultime rimangono infatti luoghi privilegiati della sperimentazione di nuove tipologie espositive, per poi proporsi negli ultimi anni come istituzioni in grado di assegnare, prima del museo stesso, rilievo e prestigio agli artisti contemporanei, la cui mostra personale in una grande galleria è sempre più spesso biglietto di accesso per la collezione permanente di un grande museo internazionale.

La crescente importanza – anche in termini di ampiezza – degli spazi espositivi privati e la cruciale relazione che s’instaura tra gallerista, artista, collezionista e in seguito museo, sono alla base della rilevanza acquisita in questi ultimi anni dalle mostre in galleria. In tale prospettiva, il ruolo delle fiere d’arte merita di essere incluso in un discorso sulle mostre. Proprio in virtù dell’espansione del mercato dell’arte contemporanea, diventato un attore non irrilevante dell’economia globale, la fiera come mostra d’arte commerciale, arricchita da eventi collaterali quali dibattiti e conferenze, mostre temporanee e premi speciali, opere pubbliche e presentazioni di collezioni private, segna un’ulteriore trasformazione del concetto stesso di esposizione. Nata per veicolare la distribuzione di opere in un sistema internazionale di libero commercio, la fiera d’arte trova oggi in Art Basel il suo formato di maggiore successo. La manifestazione fieristica creata nel 1970 sul modello della tedesca Art Cologne, nata nel 1967, si svolge ogni anno in giugno a Basilea e, dal 2002, in dicembre a Miami; nel corso degli anni diverse nazioni hanno progressivamente lavorato alla creazione di differenti sistemi fieristici come la FIAC (Foire Internationale d’Art Contemporain, la cui prima edizione si è svolta a Parigi nel 1974), Arte fiera a Bologna (dal 1974) e successivamente, ugualmente rilevanti, Artissima a Torino, Art Dubai negli Emirati Arabi Uniti (nata nel 2007), ARCOMadrid in Spagna, ShContemporary a Shanghai (dal 2007) o Art Beijng a Pechino (dal 2006). La fiera d’arte è, senza dubbio, non solo un densissimo circuito di informazioni, eventi e fiere satellitari (come Liste, Zoo art fair, Pulse, Scope, Nada e così via), ma anche il luogo dove il capitale relazionale su cui si basa lo stesso sistema dell’arte contemporanea (ovvero le relazioni che intercorrono tra operatori del settore e appassionati) si materializza in modo più evidente, dando vita a un immenso affresco di quell’idea di esposizione che, in misura più ridotta, va in scena in biennali, musei e gallerie private.

È d’altra parte innegabile quanto sempre più sfumato sia il confine tra mostra e fiera. Un confine che difficilmente balza all’occhio quando si confrontano gli eventi che pullulano a latere tanto di fiere rilevanti, come Art Basel, quanto di biennali internazionali. In questi casi è la città (o il suo immediato circondario) che reagisce alla manifestazione come protagonista, diventando non oggetto, bensì soggetto di quella trasformazione della visione della realtà cui l’arte contemporanea da sempre aspira (si veda il caso della 9a Biennale di Istanbul nel 2005).

Sulla scia di tutto ciò, la critica contemporanea ha cercato di separare la fiera dalla mostra, o quantomeno di mettere tra loro delle barriere che vengono tuttavia puntualmente abbattute dal fatto che i criteri di selezione delle opere e degli artisti sembrano il più delle volte coincidere. Interessante appare poi osservare il fenomeno nella sua ‘deriva creativa’, ovvero quando la copia dell’opera d’arte diventa un gadget in serie limitata, da collezionare anch’esso, parafrasando abilmente l’operazione di design art, seppure in senso inverso (si veda, per es., il caso delle copie di opere d’arte in serie limitata prodotte dall’americana Cerealart).

Di qui appare necessaria una riflessione sulla figura stessa dell’artista produttore di mostre e sull’opera come testimonianza della morte dell’autore e del senso dell’originale dell’opera. Se in tema di perdita dell’aura del capolavoro il pensiero critico parte dalla riscoperta di Walter Benjamin, nel caso dell’artista produttore di mostre sono figure come quelle di Marcel Duchamp il punto di riferimento per un ragionamento sulla figura e sul ruolo dell’artista curatore e sul problema della mostra nel contesto istituzionale del museo. Quando infatti nella seconda metà del Novecento l’espansione delle pratiche espositive è diventata lo strumento privilegiato per la diffusione critica dell’arte, gli artisti si sono ribellati e hanno iniziato a studiare le modalità di produzione ed esposizione dell’opera d’arte, tali da mettere in dicussione questo sistema di divulgazione e racconto della storia dell’arte. Con il termine critica istituzionale (Institutional critique. An anthology of artists’ writings, ed. A. Alberro, B. Stimson, 2009) si è assistito alla messa in scena di installazioni che, dentro all’istituzione, hanno cercato di mostrare la finzione delle narrazioni e degli investimenti ideologici dei loro mecenati (per es., Daniel Buren, Hans Haacke, Marcel Broodthaers, Michael Asher), di esaminare il linguaggio della rappresentazione e il valore dato all’originalità (Barbara Kruger, Louise Lawler, Sherrie Levine, Barbara Bloom) o, nel caso di artisti come Andrea Fraser o Antoni Muntadas, di lavorare nelle stesse istituzioni forzandone i limiti di resistenza dall’interno. La ricerca in questo inizio di secolo sta proseguendo con i lavori di artisti quali, per es., Thomas Hirschhorn.

Tuttavia è pur vero che l’esposizione internazionale si è spesso dimostrata capace di sviluppare una forza parallela, e spesso contraria, alla mercificazione, che l’ha spinta a elaborare una strategia di comunicazione alternativa, finalizzata a recuperare la capacità di farsi veicolo di idee e strumento interpretativo della contemporaneità.

Esposizione come dispositivo

Negli ultimi decenni, a fronte dell’ingerenza del mercato e della sovrapposizione di modelli mercantili a modelli cognitivi, vi sono state delle esposizioni che hanno tentato di elaborare schemi alternativi, radicali, capaci di ragionare sul fenomeno dell’esporre, sulle relazioni tra mostra e produzione dell’opera d’arte, sugli effetti di questo tipo di allestimento sulla storia dell’arte e sul tipo di conoscenza prodotta. Se da un lato il legame tra società dello spettacolo e società dell’esporre diventa più stretto, dall’altro va riconosciuto che sono state proprio le esposizioni internazionali più riuscite a ristabilire il senso dell’esporre e a capire che il loro ruolo e il loro potenziale nel dibattito sul contemporaneo non era esclusivamente il monitoraggio del presente, bensì il discorso critico e la sua interpretazione, da costruire attraverso gli strumenti della selezione, della critica, della produzione di senso, dell’installazione. Per essere testimone del proprio tempo, e dunque degna di attirare su di sé l’interesse e l’attenzione del pubblico, l’esposizione d’arte internazionale deve infatti costruire, attraverso la selezione delle opere d’arte e la loro installazione nello spazio, una visione del mondo, un discorso sulla storia, un’interpretazione critica di aspetti della contemporaneità. In questo modo la complessità dell’esposizione cresce parallelamente alla complessità dei temi e delle domande che vuole porre. L’esposizione d’arte contemporanea – sempre più internazionale, con una lista di artisti sempre più lunga, una tematica sempre più ampia, un parterre di eventi collaterali sempre più denso e sofisticato, una presenza crescente di sponsor privati e una partecipazione sempre più attiva delle gallerie come produttori delle opere in mostra – diventa uno degli strumenti attraverso i quali il visitatore non si limita soltanto a sapere qualcosa di qualcuno, a conoscere la vita e la morte di un artista, la parabola più o meno fortunata di un movimento, la perizia e il talento individuale di una personalità geniale, bensì si spinge a capire sé stesso attraverso la messa in mostra dell’opera dei suoi contemporanei. L’incontro con la modernità e con le sue sempre maggiori sfaccettature ha costretto l’esposizione d’arte e i suoi direttori ad allargare lo spettro di azione e interessi, inglobando nella mostra linguaggi eterogenei. Sempre più risulta centrale la figura del direttore che emerge proprio in ragione della necessità di una guida, di un regista in grado di individuare ancora oggi, sulla scia del modello introdotto dal curatore svizzero Harald Szeemann (1933-2005), un percorso possibile nell’archivio magmatico creato dalle testimonianze di un caotico presente. Siamo oggi abituati a vedere un video accanto a una mappa, a girare attorno a una scultura ascoltando al tempo stesso un’installazione sonora, a seguire l’azione di una performance accanto alle linee di una maquette architettonica. Tutto ciò è reso possibile dalla rapida trasformazione delle relazioni contesto/contenuto, che spinge chi produce mostre d’arte a sperimentare nuove combinazioni e nuove possibili relazioni tra le manifestazioni della creatività contemporanea. Esporre il presente significa allora accumulare complessità, per poi procedere a una selezione capace di costruire nello spazio un discorso altrettanto complesso, fatto di opere d’arte. Tale trasformazione è infatti quella che sposta il piano dell’attenzione dall’oggetto al pensiero, dalla rassegna di opere al pensiero critico che ne stabilisce i criteri di selezione ed esibizione. Per questo motivo, l’esposizione contemporanea si lega a questa sua nuova aspirazione e vocazione che, di fronte alla moltiplicazione delle tipologie di oggetti in mostra, la porta a essere uno dei tanti dispositivi che si accumulano e proliferano nella fase estrema dello sviluppo capitalistico.

In Che cos’è un dispositivo? (2006), il filosofo Giorgio Agamben chiarisce la definizione di dispositivo introdotta da Michel Foucault, scrivendo: «a) È un insieme eterogeneo, che include virtualmente qualsiasi cosa, linguistico e non linguistico allo stesso titolo: discorsi, istituzioni, edifici, leggi, misure di polizia, proposizioni filosofiche ecc. Il dispositivo in sé stesso è la rete che si stabilisce tra questi elementi. b) Il dispositivo ha sempre una funzione strategica concreta e si inscrive sempre in una relazione di potere. c) Come tale, risulta dall’incrocio di relazioni di potere e di relazioni di sapere» (p. 6). L’idea di accostare i due termini esposizione e dispositivo nasce dal tentativo di mettere in rapporto sapere e potere veicolato. L’esplosione del numero delle esposizioni d’arte internazionali si lega così a doppio filo alla crescente attenzione data all’esporre e alla tendenza all’esibire la vita che pervade ogni aspetto della stessa quotidianità.

L’esporre è in ultima analisi la modalità privilegiata, e per certi versi quasi insostituibile, per la divulgazione e la comunicazione dell’opera d’arte, utilizzata sia dai protagonisti istituzionali, come musei e gallerie, sia da strutture temporanee, come le biennali, sia dagli artisti stessi. Lo spettro d’azione delle mostre internazionali mira senza dubbio al coinvolgimento di una sempre maggiore audience, da conquistare attraverso le strategie dell’intrattenimento. Tuttavia, il carattere critico soggettivo della mostra è accentuato dal fatto che la tradizionale funzione di rappresentare il nuovo, che le mostre avevano sin dai salons dell’Ottocento, viene oggi vanificata dall’istantanea circolazione delle idee attraverso i canali dell’informazione.

La mostra può dunque essere paragonata a una rappresentazione, tra le più mutevoli e flessibili, del tempo presente. A partire dalla fine degli anni Ottanta, questa nuova generazione di esposizioni internazionali ha intessuto con la storia un rapporto molto intenso, per non dire imprescindibile, stabilendo un legame fortissimo con i meccanismi di sviluppo e distribuzione economici, oltre che con le trasformazioni sociali, politiche e culturali, grandi o piccole che fossero (per es., la fine della guerra fredda, la caduta del muro di Berlino, la dissoluzione dei regimi totalitari nell’Europa dell’Est, l’abolizione dell’apartheid sudafricana, l’apertura della Cina al mercato e il suo conseguente sviluppo economico, l’apertura degli Emirati Arabi Uniti al turismo internazionale, la crescita esponenziale dell’India). Queste trasformazioni hanno contribuito non solo ad allargare enormemente i confini dell’arte contemporanea (tradizionalmente limitati al mondo occidentale), ma anche a porre, nell’ambito della ricerca sui modelli espositivi, l’interrogativo sulle modalità e sugli obiettivi delle grandi mostre internazionali, sul loro ruolo come piattaforme di discussione, così come sull’ingerenza di un mercato pervasivo, che costruisce la sua fortuna sull’assenza di sistemi alternativi al capitalismo occidentale e sull’emergenza dei mercati finanziari globali.

Large scale exhibitions

La critica, in modo particolare dalla fine degli anni Novanta, ha iniziato a riflettere sulle esposizioni d’arte e sulle loro più recenti trasformazioni. Questi studi critici hanno tagli diversi, quasi a sottolineare quanto la materia sia ancora viva e aspetti di trovare il registro più adeguato alla sua divulgazione (Global tendencies, 2003; Altshuler 2008; Obrist 2008b). Per tutto il Novecento, la grande mostra è stata d’altra parte non solo lo scenario degli eventi che hanno segnato la sperimentazione artistica, ma si è offerta anche come materia prima di questa storia. Le esposizioni hanno più volte dimostrato di essere progetti architettonici in sé stessi, da studiare e comprendere alla stregua di ogni altra opera. Come presentazione di una serie di opere e azioni che sono vettori di un messaggio, la grande esposizione internazionale è un collaudato mezzo di comunicazione che si offre alla reazione del pubblico cui si rivolge. Essa costruisce il suo spazio attraverso la composizione e sistemazione di documenti e oggetti, che nella logica delle esposizioni acquistano senso e significato diverso fino a costruire essi stessi un’architettura di tale complessità da rappresentare una pluralità di visioni sul mondo. Alla mostra e alla sua struttura si è più volte guardato come paradigma delle trasformazioni e dei cambiamenti che si possono riconoscere nella città e nella società.

Le mostre possono dunque essere studiate come un peculiare teatro della rappresentazione dei fenomeni della modernità, già descritti nei manufatti architettonici, negli scritti teorici, nelle opere d’arte dei protagonisti della ricerca artistica e del dibattito culturale. Alcuni degli esempi che si potrebbero citare risalgono ormai alla stagione delle avanguardie storiche, la cui importanza risiedeva anche nel loro carattere ermeneutico, nel loro interrogarsi instancabilmente sul significato delle cose. In questo senso, la mostra era uno strumento per vedere l’invisibile, costruito dall’artista e dal pubblico che ne visionava le sperimentazioni. Gli esempi spaziano dalla prima mostra della Secessione viennese nel 1898 a quella parigina dei fu-turisti nel 1912, dalle esposizioni (1914-1929) del Deutscher Werkbund alle prime esposizioni internazionali (dalla Biennale di Venezia nel 1895 all’Armory show a New York nel 1913), fino al Kabinett di El Lissitzky nel Provinzialmuseum di Hannover nel 1927. Sono del secondo dopoguerra, invece, gli esperimenti inaugurati con la mostra This is tomorrow dell’Independent group, nocciolo duro del Pop inglese, allestita presso la Whitechapel di Londra nel 1956, che seguiva di un solo anno la prima edizione di Documenta a Kassel; poi le mostre sull’architettura radicale negli anni Sessanta e Settanta, fino alla prima edizione di Skulp-tur Projekte di Münster nel 1977, o ancora, sulla scia della mostra When attitudes become form curata da Szeemann a Berna nel 1969, i più recenti progetti espositivi di e su artisti e architetti contemporanei. Chi ha curato questi ultimi episodi ha spesso scelto da una parte di scrivere (o riscrivere) il profilo critico di un unico personaggio, o di un gruppo o movimento, attraverso l’esposizione di una serie di documenti, dall’altra di utilizzare la rassegna stessa come momento di ricerca su un tema, alla luce del quale devono avvenire la selezione delle opere e l’allestimento degli spazi (si vedano, per es., alcuni testi storici della letteratura espositiva, quali: L. Alloway, The Venice Biennale 1895-1968. From salon to goldfish bowl, 1968; L.R. Lippard, Six years. The dematerialization of the art object from 1966 to 1972, 1973; G. Celant, Precronistoria 1966-69, 1976; Die Kunst der Ausstellung. Eine Dokumentation dreissig exemplarischer Kunstausstellungen dieses Jahrhunderts, hrsg. B. Klüser, K. Hegewisch, 1991; B. Altshuler, The avant-garde in exhibition. New art in the 20th century, 1994).

Nel quadro di un sempre maggiore allargamento degli interessi e delle aspettative, le grandi mostre (large scale exhibitions) si distinguono dalle altre manifestazioni espositive anche e soprattutto in ragione dell’importanza del discorso critico che si propongono di sviluppare, dell’eterogeneità delle opere e delle geografie che mettono in relazione, e dell’entità di interessi e competenze che chiamano in campo (Basualdo 2006). Tali mostre presentano da un lato alcuni caratteri tipici delle esposizioni di belle arti: sono anch’esse periodiche e pubbliche; hanno un tema di riferimento e uno o più direttori; presentano in un luogo e per un tempo definiti opere e ricerche frutto del lavoro originale degli artisti; assegnano premi e riconoscimenti ai migliori di questi. D’altro canto, sono sempre queste grandi mostre collettive a fare la differenza, a stabilire una propria identità e un proprio ruolo nel dibattito. In particolare, le grandi mostre periodiche sono state spesso teatro di nuove sperimentazioni artistiche e, nei casi migliori, hanno contribuito in modo rilevante al rinnovamento o quantomeno al ripensamento delle condizioni di produzione dell’arte contemporanea e del suo contesto (Esche, Kortun 2005).

Nutrito è l’elenco di tali sistemi a grande scala. Meritano di essere ricordati almeno alcuni esempi, che vanno ad allungare la già consistente lista delle manifestazioni periodiche nate sulla scorta di modelli storici quali le biennali di Venezia, del Whitney Museum of American Art (New York; dal 1932) e di San Paolo del Brasile (dal 1951), la triennale Carnegie international (New York; dal 1896), o Documenta e lo Skulp-tur Projekte. In Europa e nelle Americhe, citiamo le biennali: L’Avana (dal 1984), Lione (dal 1992), Montréal (dal 1995), Berlino (dal 1996), Manifesta (in varie città europee; dal 1996), Santa Fe (New Mexico; dal 1996), Valencia (Spagna; dal 2001), Bruxelles (dal 2007), Atene (dal 2007); le triennali: Tate (Londra; dal 2000), Torino (dal 2005), New Museum of Contemporary Art (New York; dal 2009). In Medio Oriente e in Africa, le biennali di Istanbul (dal 1987), Sharjah (Emirati Arabi Uniti; dal 1993), Johannesburg (dal 1995). Nell’Asia orientale, le biennali di Gwangju (Corea del Sud; dal 1995), Shanghai (dal 1996) e Seoul (dal 2000); la triennale di Yokohama (dal 2001).

Esempi, tutti questi, dei più fertili terreni di elaborazione dei nuovi linguaggi che costituiscono, con il loro portato di cataloghi, saggi, illustrazioni e rassegne stampa, l’atlante più attendibile della storia dell’arte del 21° secolo. Anche solo per il loro carattere temporaneo, spesso flessibile in termini di luoghi e tempi dell’esposizione, per l’alternanza dei suoi direttori e per la vitalità della critica che ne ha seguito da sempre nascita, vita e morte, le grandi mostre internazionali hanno rispecchiato le trasformazioni in corso del fare arte, a partire proprio dalla trasformazione della mostra da piedistallo che sorregge l’oggetto a esperienza collettiva e laboratorio di creatività.

Per queste ragioni, le esposizioni di grande scala hanno progressivamente abbandonato il precedente modello enciclopedico, spostando sempre più l’attenzione verso l’idea di offrire al pubblico e alla critica specializzata un’ampia indagine su un vasto panorama di ricerca artistica che proprio attraverso il sistema espositivo – spesso itinerante, con larga diffusione di stampa e ampia documentazione cartacea tramite cataloghi o pubblicazioni realizzate ad hoc – ha ottenuto una visibilità altrimenti impossibile. Ac-canto a questa vocazione alla divulgazione capillare, la grande esposizione è anche e soprattutto un’occasione per mettere a punto un percorso, un esercizio d’investigazione di nuovi spazi di relazione tra arte e pubblico, tra arte e vita, utilizzando l’intera città e, in particolare, i suoi spazi non istituzionali, come ‘esche’ espositive. A questi eventi si guarda sempre più spesso come a veri e propri protagonisti del cambiamento sociale (effettivo o presunto). Non una scenografia astratta dunque, ma una grande esposizione per e sulla città e sul suo territorio, una lezione di storia «che trasforma l’ecologia dell’arte contemporanea nel campo spettacolare del display, della produzione, della moltiplicazione dei concetti curatoriali, del gossip e della noia» (Enwezor 2007, p. 382 ). E su questo siamo chiamati a discutere. Va da sé che queste caratteristiche risultano possibili a partire proprio dalla diffusione planetaria del sistema dell’arte contemporanea, direttamente proporzionale alle straordinarie trasformazioni di cui s’è detto sopra, che hanno allargato e modificato i confini dell’arte e del suo pubblico, conquistandosi nuovi spazi e porzioni di città. In altre parole, le biennali d’arte, e in generale le mostre a cadenza periodica, le grandi esposizioni monografiche e gli eventi che le circondano hanno fatto spesso parte della serie d’iniziative promosse dalle città più impegnate nel processo del loro rinnovamento e della loro modernizzazione. Scegliendo di allestire il percorso espositivo in luoghi non istituzionali, o in ogni caso creando le condizioni perché vi fosse una relazione dialettica tra opera d’arte e spazio della sua esposizione, tali mostre hanno guardato e continuano a guardare alla città come ambiente da interrogare e all’opera d’arte come strumento d’investigazione delle dinamiche relazionali dell’uomo con il mondo.

Non a caso, dunque, gli episodi meglio riusciti di tali mostre sono proprio quelli che sono stati in grado di radicalizzare i modelli espositivi, creare nuove, significative relazioni tra le opere esposte e tra queste e il pubblico, attivare meccanismi che insinuassero in chi guardava domande sul perché delle cose, considerare la mostra come macchina visiva, capace quindi di costruire una relazione dialettica con il suo pubblico e un’interfaccia tra contenuto e contenitore. La mostra non è infatti solo un contenitore. È anche un progetto in sé stesso, e dunque un ambiente dove lo spettatore è invitato a considerare proprio il contenitore – dunque lo spazio stesso – come contenuto e opera in sé.

Queste sono dunque scelte attraverso le quali la mostra tenta di opporsi alle strategie di comunicazione di un mercato che influenza i meccanismi di produzione e distribuzione dell’arte contemporanea e che, a partire dalle radicali trasformazioni che hanno interessato gli anni Novanta del Novecento, si è imposto come forza propulsiva e fagocitante dell’arte contemporanea. Proprio per questo le migliori e più interessanti tra le grandi mostre internazionali inauguratesi nell’ultimo decennio sono state proprio quelle che hanno lavorato come catalizzatori della metamorfosi dell’esposizione di merci e oggetti in struttura cognitiva e dispositivo, in interfaccia tra un sempre più vasto pubblico e l’arte e la società contemporanee, in strumento capace di fornire i mezzi per interrogare e interpretare il nostro tempo.

Analizzare alcune edizioni di queste esposizioni internazionali significa tentare di scrivere una possibile genealogia di queste riflessioni critiche tuttora in corso e, nell’orizzonte di crisi del sistema espositivo che s’intravede proprio nelle esposizioni più storicizzate (per es., la Biennale di Venezia), confrontare diverse strategie e diversi processi espositivi.

Questa genealogia è per altro così recente da essere considerata come una cronaca del contemporaneo piuttosto che come una storia del presente. Se la grande mostra internazionale, come s’è detto, si è di recente trasformata da rassegna di opere in luogo di discussione e infine in sistema di pensiero in grado di formulare un’interpretazione e una visione della realtà contemporanea, il 21° sec. ha iniziato a riflettere su tale cambiamento e sul ruolo delle mostre nella storia dell’arte e della società intera. Così facendo, la critica non solo ha iniziato a sistematizzare e archiviare criticamente un processo tuttora in corso, ma, strada facendo, è diventata consapevole del fatto che nei processi di distribuzione e divulgazione culturale dell’arte contemporanea la mostra era diventata un medium assai influente e pervasivo. Azioni come esibire, mostrare, allestire si sono moltiplicate a dismisura, come se fossero atti privilegiati attraverso i quali le opere d’arte e l’artista stesso sono veicolati come immagine pubblica. Le esposizioni che verranno illustrate nei paragrafi successivi hanno mirato a trasformare quello che restava di un’operazione tassonomico-quantitativa del tardo Ottocento in una selezione critico-interpretativa di pieno Novecento, in grado di recuperare dalle arti visive e dall’architettura gli strumenti e le idee per un’analisi della realtà e del nostro tempo.

La Biennale di Venezia

Nel 1995 la Biennale di Venezia ha celebrato i suoi cento anni di vita. La più antica delle grandi esposizioni internazionali ha una storia ancora tutta da scrivere, ricca di evoluzioni istituzionali, movimenti artistici, fasi storiche, artisti, le cui tracce e testimonianze preziose giacciono, ancora intonse, all’ASAC (Archivio Storico delle Arti Contemporanee). Un patrimonio, questo, che l’attuale presidente dell’istituzione, Paolo Baratta (n. 1939), ha deciso d’iniziare a valorizzare nell’ambito della 53a edizione. Anche se ci si limiterà a un’analisi delle edizioni dal 2003 al 2007, la Biennale permette di cogliere tutta la ricchezza di un’iniziativa culturale ed economica nata per riscattare la città dalla situazione di ristagno in cui versava alla fine dell’Ottocento e che ha finito per conoscere essa stessa momenti di crisi, pur rimanendo il fiore all’occhiello del panorama espositivo nazionale, poiché non sempre ha trovato il registro adeguato per rinnovare, ogni due anni, il suo ormai rigido e stantio modello ‘mostra internazionale+padiglioni nazionali’.

Un ragionamento critico – e in certo qual modo di rottura – del modello espositivo della Biennale di Venezia spetta per la prima volta al lavoro svolto da Achille Bonito Oliva (n. 1939), curatore generale della 45a edizione (1993) della manifestazione. Uno degli aspetti più interessanti di tale edizione fu quello di affidare la gestione dei singoli eventi della Biennale a un gruppo di circa cinquanta giovani curatori, che oggi ricoprono ruoli importanti nel panorama italiano e internazionale. Dopo le due edizioni curate da Szeemann (la prima nel 1999, dal titolo dAPERTutto, allestita per la prima volta nei nuovi ambienti recuperati dell’Arsenale, ovvero le Artiglierie, le Gaggiandre e le Tese, e la seconda nel 2001, dal titolo Platea dell’umanità), la Biennale ha visto avvicendarsi alla sua direzione artistica: Francesco Bonami (n. 1955; 50a edizione, 2003, Sogni e conflitti. La dittatura dello spettatore), all’epoca curator del Museum of Contemporary Art di Chicago ed ex US editor della rivista italiana «Flash Art»; le spagnole Rosa Martínez (n. 1955) e María de Corral (51a edizione, 2005, Sempre un po’ più lontano e L’esperienza dell’arte); l’americano Robert Storr (52a edizione, 2007, Pensa con i sensi, senti con la mente. L’arte al presente), critico e oggi dean della Yale university school of art. Nella diversità degli approcci e dei risultati dei diversi direttori artistici, queste biennali hanno ripreso e rielaborato autonomamente l’idea di superamento dei confini (sia come estensione dei margini territoriali della mostra stessa, che si sono aperti al contesto locale, sia come allargamento delle geografie dell’arte contemporanea e come vocazione alla multiculturalità del dispositivo-mostra). Accanto a questo, il discorso espositivo ha investito non poche energie nell’omaggio ai padri e alle madri dell’arte contemporanea, come Louise Bourgeois, Anthony Caro (Leone d’oro alla carriera nel 1999), Richard Serra e Cy Twombly nel 2001, Carol Rama e Michelangelo Pistoletto nel 2003.

Sempre sulla scia dell’esperienza di Szeemann, le biennali veneziane organizzate a cavallo fra i due secoli, come le altre manifestazioni espositive internazionali, sono state il palcoscenico privilegiato di un nuovo e sempre più importante attore del sistema dell’arte: il curatore. Saldamente radicato in qualche istituzione museale, o più spesso figura indipendente che si muove come un consulente, progettando di volta in volta la sua mostra per l’una o per l’altra location, nella Biennale di Venezia il curatore è alle prese con una delle prove più difficili e spinose della sua carriera (Obrist 2008a). Tappa fondamentale e necessaria per un curriculum vitae di prestigio, la direzione artistica in laguna porta con sé il peso di una macchina complessa, che chiede al curatore di turno una mostra internazionale di grande respiro, accanto alla messa in opera di una serie di contributi nazionali indipendenti e gestiti dai relativi Paesi nei loro padiglioni. Questo binomio mostra+padiglioni è antico, e spesso sentito come inadeguato o quanto meno discutibile in un contesto sempre più globale dove l’artista è cittadino del mondo, migrante e contaminato da mille identità diverse.

In questa prospettiva, le tre biennali sopra citate hanno, se non altro, innegabilmente avuto il merito di misurare le potenzialità sperimentali dei diversi curatori che vi si sono avvicendati, alle prove con una vecchia signora, e il loro coraggio e la loro audacia nello spingerla fino ai massimi livelli di resistenza. Per Bonami, per es., la Biennale, come mostra internazionale e come architettura complessa, non poteva che essere una visione polifonica, diretta da più teste, chiamate a partecipare a un’esperienza necessariamente articolata. In questa prospettiva, Sogni e conflitti ha parcellizzato la mostra internazionale, dividendola in dieci sottosezioni e coinvolgendo un gruppo di undici curatori, appartenenti a culture diverse e con interessi scientifici variegati, cui assegnare la direzione di una parte della mostra (Carlos Basualdo, Daniel Birnbaum, Catherine David, Massimiliano Gioni, Hou Hanru, Molly Nesbit, Hans Ulrich Obrist, Gabriel Orozco, Gilane Tawadros, Rirkrit Tiravanija, Igor Zabel). Non discorso unico e compatto, ma insieme di satelliti e polifonia di scelte e voci, la Biennale di Bonami ha evidenziato la possibilità di costruire un percorso di conoscenza attiva dell’arte contemporanea solo attraverso il riconoscimento delle tante storie e sottostorie di cui essa si nutre. In un’altalena tra maestri e nuovi talenti, l’esposizione ha giocato sull’idea di caos creativo e di produzione collettiva, abbandonando l’idea di una sequenza di forme per privilegiare la rappresentazione di attitudini, idee, visioni del mondo. Accanto a questo dato, è risultato sempre più evidente il relativismo della scelta degli artisti selezionati e la contraddittorietà congenita di una mostra cui è chiesto, nei limiti del possibile, di dare un’interpretazione della selezione attraverso l’allestimento. A distanza di qualche mese dall’apertura della mostra, sulle pagine della rivista statunitense «ArtForum» si è acceso il dibattito sulle large scale exhibitions (Global tendencies, 2003). Ed è qui che Bonami ha recuperato il concetto di bigness (nel senso di ‘grandezza’), coniato dall’architetto Rem Koolhaas per indicare come le grandi dimensioni provochino di per sé un salto di qualità (di Koolhaas si veda, per es., Junkspace, 2006, che raccoglie i tre saggi Bigness, 1994, Generic city, 1995, e Junkspace, 2000). Bonami associa l’idea di grandezza architettonica di Koolhaas alla possibilità di una mostra che, giunta a una certa scala di grandezza, non può più porsi come rassegna unica, ma solo come una pluralità di visioni sul mondo, restituite da una compagine molto eterogenea e contraddittoria di opere. La questione si complica se si riflette poi su temi come il ruolo del curatore come regista, la comunicazione del tema stesso, l’attenzione alla costruzione di un percorso per il pubblico, la partecipazione internazionale, la molteplicità dei suoi stessi linguaggi, l’espansione dei confini dello spazio espositivo oltre il perimetro museale, la narrazione di più punti di vista sulla contemporaneità, e dunque le mille e una storie dell’arte.

Di tutte queste problematiche si è occupata anche la 51a edizione, che ha recuperato a metà l’idea di una mostra unica. M. de Corral e R. Martínez si sono trovate a curare due mostre in due luoghi diversi. La prima si occupava del padiglione Italia, con L’esperienza dell’arte, la seconda invece si muoveva negli spazi dell’Arsenale con la rassegna intitolata Sempre un po’ più lontano, dedicata al defunto Szeemann. Il modello espositivo appare in bilico tra le audacie dell’edizione precedente e i formalismi istituzionali di quella successiva. Di fatto, la 51a edizione è stata e rimane una mostra di passaggio: ben allestita e ordinata nella sequenza delle opere nello spazio ha presentato una serie di lavori non nuovi, ma spesso già visti nei circuiti internazionali, che insistono, in modo più o meno efficace, su temi caldi della contemporaneità quali, per es., l’esperienza dell’arte e le trasformazioni della visione globale, la critica sociopolitica al presente, il ruolo rivestito dalla donna nell’arte, il corpo e la sua definizione.

Preceduta da un simposio internazionale dedicato alla riflessione sulla funzione e sul significato delle esposizioni d’arte internazionali nel sistema artistico globalizzato (Where art worlds meet, 2005), l’edizione seguente, diretta da Storr, è stata accolta con favori alterni. Alla 52a edizione è stato soprattutto contestato il fatto di costruire, attraverso la selezione delle opere più che con un discorso sull’arte odierna, uno spazio della negoziazione tra museo e mercato, tra mostra e museo, prospettiva per altro centrale proprio in ragione dell’assottigliamento dei confini prima analizzato. La mostra di Storr è stata infatti una rassegna ordinata, museale, organizzata per stanze con alcuni intermezzi, quali l’installazione di Jason Rhoades o le cinque scatole nere entro le quali andavano in scena i cinque atti del video di Yan Fudong, entrambi all’Arsenale. Tra questa sede e il padiglione Italia, ormai appendice della mostra internazionale, sono sfilati maestri come Bruce Nauman, Ilya & Emilia Kabakov, Sol LeWitt, C. Twombly, Oscar Muñoz, Gerhard Richter, Robert Ryman, cui si sono alternati nomi meno noti ma in ogni caso ben rappresentati dal sistema galleristico.

Riflettendo sulla struttura e sul suo significato, le ultime tre edizioni della Biennale rendono chiara testimonianza di una crisi del dispositivo veneziano, la cui temperatura è stata alternativamente portata a ebollizione da Bonami, che ne ha liberato il caos magmatico, o condotta sotto zero da Storr, che ha costretto un discorso aperto in un percorso a stanze e gallerie. È infine Birnbaum (n. 1963) il direttore dell’edizione 2009 della kermesse veneziana, intitolata Fare mondi/Making worlds. Il suo progetto, legato all’idea di una mostra che insista sulla relazione tra studio e produzione dell’opera d’arte, ha visto la partecipazione di giovani artisti, come Tomas Saraceno, Rosa Barba, Roberto Cuoghi, Ulla von Brandenburg, Karen Cytter, accanto a maestri come M. Pistoletto, Öyvind Fahlström (1928-1976), Gino De Dominicis (1947-1998), Chen Zhen (1955-2000). La giuria di questa edizione ha assegnato il Leone d’oro per la migliore partecipazione nazionale agli Stati Uniti d’America per il progetto Bruce Nauman. Topological gardens, a cura dei due commissari del padiglione Basualdo e Michael R. Taylor, il Leone d’oro per il miglior artista a Tobias Rehberger e il Leone d’argento per il più promettente giovane artista a Nathalie Djurberg. Le loro opere sono state esposte al Palazzo delle esposizioni ai Giardini, nuova denominazione dello storico padiglione Italia ai Giardini, che in questa occsione si è trasformato in un laboratorio versatile e polifunzionale, destinato ad accogliere, non solo una parte della mostra centrale Fare mondi/Making worlds, ma anche a proseguire la sua attività per tutto il corso dell’anno, come punto di riferimento per le attività didattiche, di ricerca e studio dell’Archivio storico della Biennale. Riqualificazione cruciale è dunque quella che ha interessato questo spazio espositivo che, in ultima analisi, ha reso testimonianza del’importanza e della necessità di un discorso storico critico sulla Biennale come laboratorio di produzione artistica.

Documenta: la mostra come sistema di conoscenza

La vocazione di Documenta, l’esposizione internazionale d’arte che dal 1955 si svolge nella cittadina tedesca di Kassel ogni quattro o cinque anni, è sempre stata quella di diventare un dizionario di idee e concetti sulla modernità. Ancora oggi è come se Documenta fosse una macchina chiamata a fare ordine in soffitta: prima lavora in silenzio, poi si prende le sue responsabilità e sceglie che cosa ricordare e che cosa no. Nei circa 100 giorni di apertura al pubblico, Documenta mostra la stanza delle meraviglie, per poi ricominciare tutto da capo. Nonostante sia il prodotto più classico della famiglia delle large scale exhibitions, rimane forse l’unico tra questi eventi in grado di alterare significativamente la nostra visione del mondo. L’articolato processo temporale attraverso il quale la mostra costruisce sé stessa, i suoi artisti e il suo messaggio è ancora oggi la principale motivazione che spinge ad assegnarle il primo posto rispetto al discorso espositivo, sempre in bilico tra soggettività e oggettività, tra vita ed educazione, tra modernità e tradizione, tra retorica della globalizzazione ed emergenza del locale, in tutta la sua esplosiva volontà di stabilire connessioni tra storia e futuro, in una Babele di lingue e segni nei quali non è facile orientarsi.

Come strumento attraverso il quale comunicare il processo espositivo e insieme approfondire questioni legate alla produzione di senso e di conoscenza, le pubblicazioni che si accompagnano e precedono il catalogo generale sono state una scelta precisa, operata con decisione a partire dalla 10a edizione (nel 1997), a cura di C. David (n. 1954). Tra la 10a e la 12a, tale supporto ha cambiato nome, formato, contenuti e di conseguenza obiettivi da raggiungere attraverso la sua pubblica diffusione. Nel 1997 queste pubblicazioni rispecchiavano la natura saggistica della mostra della David, e riflettevano la volontà di costruire un discorso sulla sopravvivenza dell’arte in una dimensione poststorica, che individuava in determinati momenti, quali l’Atlas di Richter (un’opera aperta iniziata nel 1962), la ricerca di M. Broodthaers, l’eterotopia di Foucault e la sperimentazione degli architetti inglesi Alison e Peter Smith-son, se non l’origine del moderno, almeno l’importanza delle retrospettive storiche nel discorso sul contemporaneo (cfr. C. David, Kassel: Documenta X, 1997, «Lotus international», 1997, 95, pp. 60-75).

Nel 2002 (11a edizione, diretta dal nigeriano Okwui Enwezor, n. 1963) i media cartacei erano le platforms, organizzate con il team di curatori coinvolti, che raccoglievano i documenti dei dibattiti e delle conferenze organizzate in città di ogni angolo della Terra. Figure provenienti da un vastissimo milieu disciplinare erano state chiamate a intervenire su temi legati alla globalizzazione, al neocolonialismo culturale, all’espansione delle dinamiche del mercato dell’arte, all’impatto sociologico di tali trasformazioni, che nella mostra di Enwezor avrebbero trovato una rappresentazione formale in opere che mettevano l’accento sul regionalismo, sulle differenze e sull’importanza del locale. Le riviste o i quaderni dicevano dunque moltissimo sul tipo di processualità e sul tipo di produzioni di formati e forme, che in mostra sarebbero esplosi sotto gli occhi del pubblico.

Su questo terreno assai denso s’innestano i magazine della 12a edizione, diretta dal tedesco Roger M. Buergel (n. 1962), ma il cui programma è stato ideato e curato in prima persona dallo storico dell’arte Georg Schöllhammer. Anche l’équipe di questa edizione non si è dunque sottratta alla fascinazione del medium-rivista, ma al contrario ha stretto il magazine in un abbraccio appassionato, caricandolo di aspettative e desideri, quasi a dire che è questo lo strumento, il manifesto, l’archetipo della comunicazione del dispositivo-mostra che raccoglie in sé tutte le varie traduzioni formali destinate ad animare la manifestazione. Le riviste sono state concepite anche come l’organo di comunicazione principale dei criteri espositivi della mostra, articolati attorno a tre leitmotive: Modernity?, Life! ed Education, che intitolavano i tre magazine, pubblicati prima dell’inaugurazione della mostra (Documenta, 2007).

Questi temi sono stati proposti, discussi, raccolti e situati dalla rivista in una dimensione storica non priva di un certo idealismo puro-visibilista. I magazine hanno parlato della volontà di rintracciare le origini della modernità (si vedano i contributi di Buergel e di Mark Lewis) e le molteplici forme che negli anni e nel mondo questa ha assunto (per es., nella Svezia degli anni Trenta il manifesto Acceptera!, o nel Marocco degli anni Sessanta la rivista letteraria «Souffles»); si sono poi interrogati sul significato della bare life, la vita pura – eco del tema dell’Homo sacer trattato nel citato testo di Agamben – e della sua spiegazione in qualità di sistema dinamico, fatto di interferenze tra soggettivo e oggettivo (Leo Bersani), di sistemi sociali (Jo Spence), di strutture politiche (Ovidiu Tichindeleanu) e mistificazioni visive dello spazio urbano (Esther Hamburg-er). Infine il terzo numero ha affrontato il tema dell’educazione, proponendo anche qui casi-simbolo. Tutti questi aspetti insieme hanno creato un universo di forme, volumi, colori e gesti costruendo quasi una genealogia archetipica del moderno che ribadisce la vocazione di Documenta alla sistematizzazione e alla costruzione della mostra in qualità di un dictionary of received ideas, come già nel 1982 Benjamin H.D. Buchloh osservava in Documenta 7. A dictionary of received ideas («October», 22, pp. 104-26).

In Documenta 12 ci si è interrogati su come formalizzare il processo produttivo che soprassiede alla costruzione di una grande esposizione internazionale e in cui si riflette il desiderio di produrre conoscenza, da un lato attraverso il linguaggio delle arti visive, dall’altro attraverso la comunicazione scritta del pensiero che il dispositivo elabora. E sarà stata quella necessità di rinnovamento istituzionale a spingere la pratica curatoriale a rinnovare dal suo interno le istituzioni artistiche con cui viene a contatto (Doherty 2006), ma di fatto il processo era iniziato. Al progetto dei tre magazine è stata riconosciuta la possibilità di costituire uno degli approcci possibili a questo desiderio. Il progetto voleva insistere sull’idea di opera collettiva, e per questo si è deciso di coinvolgere circa 90 riviste internazionali, con differenti formati, orientamenti e interessi legati all’arte, alla cultura, alla teoria dei media, invitandole a riflettere sui tre temi della mostra di Kassel. Ognuna di queste testate, libera di interpretare e tradurre il tema proposto, ha a sua volta assegnato il compito a un suo autore che, nella maggior parte dei casi, ha proposto un articolo precedentemente pubblicato in numeri recenti della rivista di appartenenza. Tali articoli sono stati parzialmente ripubblicati nei magazine di Documenta – sono circa 300 in tutto – in una forma di dislocamento linguistico tipico delle pratiche artistiche contemporanee. Una sezione della mostra stessa ha poi esposto tutti i contributi e gli approfondimenti che non hanno trovato spazio nei tre numeri pubblicati e in un forum di discussione aperta. Di nuovo, in linea con le tendenze curatoriali contemporanee, i caratteri del progetto dei magazine sembrano riflettere quelli delle processualità delle pratiche contemporanee, presentandosi come spazio di scambio e dibattito, come luogo della rappresentazione del conflitto e dell’opposizione-dialogo tra moderno e antico, tra città e natura, tra traduzione-riciclo e circolazione delle informazioni e, più in generale, come spazio attivo piuttosto che come manuale passivo. Tra un saggio e l’altro, i magazine intervallano la non scorrevole lettura dei saggi (molto densi) con immagini di opere d’arte e di artisti, la cui scelta è chiarificatrice del tipo di conoscenza che la rivista vuole costruire. Se nel numero 1, come un’introduzione, s’insiste sugli esempi storici, tratti prevalentemente dalla ricerca non figurativa degli anni Sessanta e Settanta, in Life! si gioca con presenze quali quelle di Zoe Leonard e Mircea Cantor, e in Education con quella, tra le altre, di Yvonne Rainer.

Chi deve svolgere il tema e come? Quali modalità scegliere per scrivere un nuovo dizionario d’idee? In un momento storico in cui il miglior registro linguistico possibile è quello che trova la corretta via di mezzo tra il saggio, il reportage e il diario, il team di Documenta 12 non a caso ha scelto di chiamare la rivista magazine, un nome di certo legato al suo essere uno strumento di analisi, senza tuttavia escludere la possibilità di intrattenimento e di divulgazione del tema, ma neanche il suo approfondimento. L’ultima edizione della mostra non ha affatto evidenziato le contraddizioni del presente, ma ha, al contrario, cercato di costruire qualcosa che assomigliasse di più a un genealogia del contemporaneo. Non a caso, nell’unico contributo scritto dal direttore il modello al quale Buergel si riferisce è quello prototipico della prima Documenta, curata da Arnold Bode (1900-1977) insieme al suo collaboratore Werner Haftmann (1912-1999) nel 1955. Qui Buergel dice di voler presentare non ‘il meglio di’ ma ‘un’origine di’, e di metterlo in mostra come medium da sviluppare in una mise en scène finalizzata a costruire una esposizione che oscilla tra indecisioni individuali e tensioni collettive. Sembra proprio che la globalizzazione del sistema dell’arte, anche e soprattutto sotto l’effetto di questa esposizione, non sia più un tema o un problema, ma piuttosto una modalità d’azione e un processo puro, quasi a dire che, fatta la ricognizione, metabolizzato l’effetto, adesso costruiamo il pensiero. Così facendo, dopo la valenza didattica e saggistica dell’edizione della David e la panoramica sulle nuove territorialità e geografie dell’edizione di Enwezor, i magazine sembrano gli ultimi atti di un processo di costruzione della conoscenza intrapreso dalla manifestazione tedesca e tuttora in corso d’opera.

Manifesta: la mostra come paradigma urbano

Una delle esposizioni d’arte internazionale che più riflette sui concetti di mutevolezza, transitorietà e mobilità del tempo presente è senza dubbio Manifesta, la biennale itinerante d’arte contemporanea, i cui obiettivi sono focalizzati sulla promozione della produzione artistica. Non una rassegna, dunque, ma piuttosto un’occasione di creazione dell’opera d’arte stessa, un’istituzione internazionale che si adopera affinché lo status della mostra come esposizione o vita esibita si trasformi nel concetto di mostra come produttore ed enzima di una trasformazione sul territorio: una mostra come paradigma urbano che, in altre parole, guardi alla città che espone i suoi prodotti come a un agente attivo, del quale le pratiche artistiche attivano significati e peculiarità sociali e geopolitiche. Manifesta è, in primis, una fondazione internazionale con sede ad Amsterdam che, sulla scia degli importanti mutamenti politici successivi alla caduta del muro di Berlino, ha avviato, dall’inizio degli anni Novanta, una serie d’iniziative culturali, la più rilevante delle quali è l’esposizione biennale. Tale manifestazione nasce e si sviluppa come evento itinerante. Manifesta ha optato sin dall’inizio per un’esistenza nomade. E per questo motivo si è scelto di allestirla ogni due anni in un contesto territoriale sempre diverso e non convenzionale, spesso caratterizzato da situazioni geografiche di confine, inteso come concetto territoriale, ma anche e soprattutto culturale. Non a caso, dal 1996, le sedi di Manifesta sono state: Rotterdam, il Lussemburgo, Lubiana, Francoforte, San Sebastián, Cipro, il Trentino Alto-Adige e la regione di Murcia, in Spagna, per l’edizione del 2010.

L’obiettivo esplicito di questo tipo di struttura espositiva va in direzione opposta a quell’avvicinamento tra mostra e fiera che minacciosamente si affaccia su ogni biennale. Manifesta vuole infatti evitare l’ulteriore legittimazione degli ambiti istituzionali e dello spazio pubblico già saturo di vita esibita, tentando al contrario di mettere in luce altri hubs artistici. Questa identità nomade mette alla prova le organizzazioni delle cosiddette città ospiti e i curatori internazionali scelti per ogni edizione, i quali devono reagire creativamente con modelli espositivi innovativi. Manifesta, dunque, insiste radicalmente sull’idea di mostra delle avanguardie, ovvero terreno di ricerca, di esercizio di autorappresentazione del pensiero presente, spingendosi sino a coltivare paradossalmente relazioni temporanee, che risaldino tale sistema. Di qui la pubblicazione di una serie di giornali e riviste, l’organizzazione di convegni e soprattutto la costruzione di un archivio che, come progetto di documentazione, raccoglie informazioni in tempo reale e le sistematizza, creando una piattaforma permanente per la ricerca, la valutazione e la discussione critica di quello che s’intende quando si parla di esposizione internazionale d’arte contemporanea.

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